mercoledì 9 aprile 2014

FIGLI, CONTRATTI, 'GENITORI TECNOLOGICI' LA RESA AL MERCATO


La condotta è illegale, dunque assol­viamo. All’osso, è il ragionamento che stanno proponendo nelle loro paradossali sentenze i primi tribu­nali italiani a occuparsi di episodi di «maternità surrogata», con figli ottenuti in pro­vetta da gameti di entrambi i genitori, di uno so­lo o anche di nessuno dei due, e la cui gravi­danza viene condotta da una donna 'compra­ta' per farlo. Tutto ciò all’estero, perché in Ita­lia c’è una legge (la tanto vituperata eppure pre­ziosa legge 40 sulla procreazione assistita, atte­sa oggi al verdetto della Corte Costituzionale sulla fecondazione eterologa) che saggiamen­te vieta la «surrogazione di maternità» preve­dendo all’articolo 12, comma 6, la pena «da tre mesi a due anni» e una multa «da 600mila a un milione di euro».
  Dunque in Italia esiste una norma che dovreb­be scoraggiare «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza, o pubblicizza» la gravidan­za a pagamento. E non applicarla, mandando sostanzialmente assolte le coppie che si com­portano come se una regola non ci fosse, equi­vale a una legalizzazione de facto di una prati­ca disumana come il 'noleggio' del ventre di u­na donna, senza l’incomodo di dover discute­re una legge 'permissiva' in Parlamento.
  Il giudice milanese che ieri ha allargato le brac­cia di fronte a una coppia tornata dall’India con un figlio nato da madre surrogata (si scrive co­sì, ma si legge «donna ridotta a vendere la sua maternità») dice di aver fatto il possibile, ma che il diritto si troverebbe «con le spalle al mu­ro » in casi, come questo, nei quali «la stessa de­finizione di maternità è ormai controversa» e dove si assiste a una «dissociazione tra il dato naturale della procreazione e la contrattualiz­zazione delle forme di procreazione». Una 're­sa del diritto' e una resa al 'mercato', come se chi fa le leggi e chi le applica oggi dovessero li­mitarsi a prendere atto che «le possibilità of­ferte dalla scienza in questa materia – argo­menta il giudice, che comunque ha avuto il co­raggio di non archiviare il fatto portando la vi­cenda a sentenza – sono talmente vaste» da non permettere alternative nella «penosa scelta di tutelare il minore e di non privarlo dei suoi ge­nitori 'tecnologici'», categoria questa ragge­lante che nell’ormai vasto campionario delle definizioni su famiglia e generazione umana ancora ci mancava.
  Se a dettar legge è la tecnoscienza e ciò che es­sa rende possibile, che ci stanno a fare parla­menti e tribunali, giuristi e filosofi? Nessuno crediamo auspichi che la loro attività finisca per ridursi a legittimare 'pratiche' e 'contratti' vie­tati in Italia per il solo motivo che c’è chi è 'co­stretto' a espatriare per poterli realizzare (altri­menti, per esempio, andrebbe legalizzata anche l’evasione fiscale), o a creare categorie come il
«diritto alla genitorialità». 
 iritto teorizzato di recente da un altro giudice che ha assolto una coppia di ritorno dall’Ucraina con un figlio da utero in affitto.
  Ma c’è allora da chiedersi se ci sia an­cora il coraggio di opporre un principio morale e d’umanità – fermo, indiscuti­bile, antecedente qualunque legge – al succedersi di fatti che sfidano norme e coscienze. L’accettazione di quel che accade come misura del diritto, e la sua progressiva normalizzazione a colpi di sentenze, è una scorciatoia ormai pur­troppo ricorrente che il dilagare delle tecnoscienze non ci permette di pren­dere, a meno che non si desideri vede­re presto o tardi realizzati gli scenari della più cupa e anti-umana fanta­scienza.
 
 Un argine ancora c’è, e va fatto rispet­tare: anzitutto non alterando la strut­tura di una legge come quella che met­te regole chiare al selvaggio 'mercato' delle provette con la quale 10 anni fa si è cercato di salvaguardare almeno i car­dini della genitorialità: la certezza del­le figure paterna e materna, embrioni creati in numero «strettamente neces­sario » allo scopo, una mano alle coppie che soffrono di sterilità e solo a queste per evitare i figli 'su ordinazione', il ve­to alla selezione e all’uso sperimenta­le della vita umana, perché conside­rarla un mezzo e non un fine intangi­bile sarebbe l’anticamera di abusi sen­za fine su ciò che ci genera come per­sone.
 
 Decidere dove fissare la frontiera oltre la quale la vita diventa oggetto e la stes­sa genitorialità una finzione 'tecnolo­gica', senza dar spazio ad autoprocla­mati e capricciosi 'diritti', è una fac­cenda che attiene alla nostra coscien­za. E parla la lingua di una civiltà che non ci è lecito smantellare. 
Francesco Ognibene 

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