«Lavanda dei piedi sorgente di servizio ecclesiale e civile»
Messa «in Coena Domini»: Scola compie il gesto di Gesù a dodici catecumeni
LORENZO ROSOLI « Il gesto della lavanda dei piedi sia per noi sorgente di appassionato servizio ecclesiale e civile », scandisce il cardinale Angelo Scola nell’omelia della Messa in Coena Domini celebrata ieri sera in Duomo. Quel gesto, l’arcivescovo l’aveva compiuto all’inizio della liturgia lavando i piedi a dodici catecumeni (otto adulti: due albanesi, un cileno, un serbo, un ucraino e tre milanesi; e quattro ragazzi: un colombiano, un cileno, due milanesi) che fanno parte dei 146 che la notte di Pasqua verranno battezzati. In quei dodici – come nell’intera 'compagnia' dei catecumeni, «che vengono da molte nazionalità», torna a sottolineare Scola – la metropoli del futuro si fa presente. E chiama i cristiani alla testimonianza e all’impegno, al cuore di uno scenario che pone sfide nuove ed esigenti. «La mancanza di gratuità, soprattutto nelle odierne società del Nord del pianeta, è l’esito di una cultura in cui molti uomini crescono orfani, senza legami di autentica generazione – afferma Scola in omelia –. Ricreare il tessuto sociale a partire dai legami costitutivi con Dio, con gli altri e con se stessi è la strada necessaria per l’edificazione del nuovo umanesimo di cui l’uomo del terzo millennio ha bisogno. La complessità e la frammentazione della nostra società non possono spegnere, anzi domandano a tutti noi questo impeto di costruzione comune, espressione connaturale della elementare esperienza umana. Il gesto della lavanda dei piedi oggi compiuto in pallida memoria di quello di Gesù sia per noi sorgente di appassionato servizio ecclesiale e civile».
Messa in
Coena Domini
Gio 1,1-3, 5.10;1Cor 11,20-34; Mt
26,17-75
Duomo di Milano, 17 aprile
2014
Omelia di S.E.R. Card. Angelo Scola,
Arcivescovo di Milano
1.
La consegna
pasquale di Gesù
«Donaci
ora, quale fonte di salvezza, il suo corpo che ha sofferto per la redenzione
degli uomini»: la preghiera del Canone sottolinea il nesso inscindibile,
nella liturgia ambrosiana, tra il mistero del Giovedì e quello del Venerdì
Santo. È il motivo per cui questa sera abbiamo letto la prima parte del Passio di Matteo che narra, in
successione cronologica, tutto quanto è avvenuto nella notte di quel primo
Giovedì Santo, dalla Cena all’orto degli Ulivi, all’arresto e al processo, fino
al rinnegamento di Pietro. La Messa in Coena
Domini inserisce l’istituzione del sacramento dell’Eucaristia e di quello dell’Ordine
nel quadro compiuto del Mistero Pasquale.
Questo duplice dono di Gesù ha luogo
dopo la designazione del traditore – «In
verità vi dico: “Uno di voi mi tradirà”. … Giuda disse: “Rabbì, sono forse
io?”. Gli rispose: “Tu l’hai detto”» – (Vangelo,
Mt 26,21.25). Gesù si offre a noi
sacramentalmente con lo sguardo già rivolto alla Passione. Egli, infatti,
nell’Ultima Cena anticipa il sacrificio della Croce. In questo modo rende
possibile, nella celebrazione del banchetto eucaristico, a tutti gli uomini di
tutti i tempi, e quindi anche a noi, la partecipazione al Suo unico e singolare
sacrificio.
Entriamo dunque, fratelli e sorelle, nel
cuore del mistero pasquale contemplando due aspetti del grande evento: Cristo
che si consegna alla Croce, liberamente e in obbedienza al Padre, per la nostra
salvezza e Cristo che si consegna a noi come nutrimento, vero cibo e vera
bevanda, sostegno della nostra vita cristiana.
2.
L’obbedienza
dell’amore salva il mondo
«Allora
tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono» (Vangelo, Mt 26,56b). Gesù
sa che deve attraversare tutta la sua passione in solitudine. Abbandonato da
tutti, tradito da uno della cerchia più stretta di amici e rinnegato da Pietro
a cui aveva affidato ciò che aveva di più caro, la sua Chiesa (cfr Mt 16,18).
Eppure, anche nel supremo combattimento
(agonìa), nell’angoscia di questa
prova terribile, Gesù non viene meno alla relazione con il Padre. «Padre mio, se è possibile, passi da me
questo calice! Però non come voglio
io, ma come vuoi tu!» (Vangelo, Mt 26, 39). E in particolare sta legato
al Padre anche quando non ne sente la consolazione: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? (Vangelo, Mt 27,46). Sono
le formule dell’obbedienza dell’amore, che aprono la strada alla salvezza del
mondo.
3.
Lasciamoci
coinvolgere nel Suo essere per
«Questo
è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me» (Epistola, 1Cor 11,24). L’espressione “Fate
questo” domanda un’immedesimazione progressiva e continua con Gesù, con il
suo modo di pensare, di agire e di amare, di vivere e di morire. Come scrisse
Benedetto XVI nella Spe salvi: «Cristo è morto per tutti. Vivere per Lui
significa lasciarci coinvolgere nel suo “essere per”» (Benedetto XVI, Spe salvi 28).
Riflettiamo su questo “essere per”. In Gesù, come abbiamo
visto, l’essere per esprime
innanzitutto il suo rapporto col Padre: Gesù si offre in obbedienza amorevole e
grata in forza del suo essere figlio. Anche a noi, per poter consegnare la vita
a Sua imitazione – come in ogni caso la morte prima o poi ci chiederà – è
domandato di essere pieni di gratitudine, consapevoli che fin dal concepimento
siamo stati donati a noi stessi.
La mancanza di gratuità, soprattutto
nelle odierne società del Nord del pianeta, è l’esito di una cultura in cui
molti uomini crescono orfani, senza legami di autentica generazione. Ricreare
il tessuto sociale a partire dai legami costitutivi con Dio, con gli altri e
con se stessi è la strada necessaria per l’edificazione del nuovo umanesimo di
cui l’uomo del terzo millennio ha bisogno. La complessità e la frammentazione
della nostra società non possono spegnere, anzi domandano a tutti noi questo
impeto di costruzione comune, espressione connaturale della elementare
esperienza umana. Il gesto della lavanda dei piedi oggi compiuto in pallida
memoria di quello di Gesù sia per noi sorgente di appassionato servizio
ecclesiale e civile.
4.
Mistero di morte
e resurrezione
«Dal
profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce. … Sono sceso alle radici dei monti, la terra
ha chiuso le sue spranghe dietro a me per sempre. Ma tu hai fatto risalire
dalla fossa la mia vita, Signore, mio Dio» (Lettura, Gio 2, 3.7). La
preghiera di Giona nell’abisso prefigura l’indicibile – perché umanamente
incomprensibile – certezza di Cristo di essere liberato dalla morte. Ed il suo
mistero di morte e risurrezione getta viva luce anche sul nostro mistero di
morte e risurrezione.
5. Abbiamo dove
vivere e di chi vivere
La solenne Liturgia cui stiamo partecipando
ci ha fatto entrare nel Triduo Santo, cioè nei tre giorni centrali dell’intera
storia umana. Essa attua «una misteriosa
contemporaneità tra quel Triduum [originario] e lo scorrere dei secoli» (Giovanni
Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, 5).
Per questo anche noi oggi,
ascoltando Sant’Agostino, possiamo affermare con animo grato: «O sacramento dell'amore di Dio! … Chi vuole
vivere ha dove vivere, ha di chi vivere. Si accosti, creda, sia unito al
corpo di Cristo per divenire vivo» (“O sacramentum pietatis!… Qui vult
vivere, habet ubi vivat, habet unde vivat. Accedat, credat, incorporetur ut
vivificetur”, In Io. Ev. tr. 26, 13).
Gesù ci chiama in questa
Eucaristia in Coena Domini. Ci chiama
per accoglierci, come ci ricorderà fra poco il Canto dopo il Vangelo: «Oggi,
o Figlio di Dio, come amico al banchetto tuo stupendo ci accogli». Amen
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