giovedì 24 aprile 2014

GIOVANNI XXIII Per sempre parroco

Non il «Papa buono», ma della bontà. Della tradizione e non del tradizionalismo. Monsignor Gianni Carzaniga, già direttore della fondazione dedicata a Roncalli, ripercorre vita e Pontificato di un pastore «accanto alla gente» (da Tracce)
«Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede. Miei cari amici e fratelli, stiamo in guardia dai vani simulacri che oggi ingombrano il mondo e lo terrorizzano. Tutti i tempi si rassomigliano». Così concluse la sua omelia, il 26 agosto dell’Anno Santo 1950, monsignor Angelo Roncalli, nunzio apostolico a Parigi, nella chiesa di Sant’Alessandro in Colonna, a Bergamo. Il futuro Giovanni XXIII, che il 27 aprile sarà canonizzato insieme a Giovanni Paolo II, ha avuto un legame particolare con questa parrocchia. Qui nel 1898, giovane seminarista, ascoltò l’omelia del patriarca di Venezia, Giuseppe Sarto, poi Pio X, e, nel 1906, fece la sua prima predica importante come prete, su san Francesco di Sales. Altre saranno le occasioni che lo riporteranno in questa chiesa. «Giovanni XXIII è l’espressione più bella di un clero, quello bergamasco, vicino alla gente, dedito alla cura pastorale. Lui si sentirà sempre parroco», spiega monsignor Gianni Carzaniga, rettore del seminario di Bergamo e per otto anni direttore della Fondazione Giovanni XXIII, dove sono raccolti e studiati gli scritti del Pontefice. Ha lasciato l’incarico quando è diventato parroco di Sant’Alessandro. «L’impegno era inconciliabile con la cura d’anime».

Cosa significa che Giovanni XXIII si sentiva parroco, lui che non lo è mai stato?
Il primo dono che il Signore gli ha fatto è stato di incontrarlo. Angelo Roncalli è diventato prete perché voleva fare il prete, cioè annunciare Gesù Cristo in qualunque situazione. Non è una cosa che si impara sui libri, ne aveva fatto esperienza guardando il suo parroco: vicino alla gente con una cura pastorale, capillare. In questo sarà sempre parroco. Penso agli anni trascorsi nelle periferie d’Europa.

In che senso?
Prima in Bulgaria, accanto agli oltre 160mila immigrati cattolici macedoni scappati durante la guerra, e poi nei dieci anni in Turchia, lui sarà il delegato apostolico, cioè il rappresentante del Papa presso i cattolici: un Vescovo missionario, accanto alla gente. Il suo ruolo diplomatico presso quei Governi è di poco valore, quasi nullo. In Turchia si trova persino costretto a vestire gli abiti borghesi. Ma questo non gli impedisce di creare relazioni, rapporti, di bussare alle porte di servizio. È l’uomo del dialogo attento. Un episodio forse può chiarire questa sua posizione intelligente e furba, nel senso della furbizia evangelica.

Quale?
Nel 1961 Nikita Kruscev invia a Giovanni XXIII gli auguri per i suoi ottant’anni; pochi mesi dopo sua figlia, insieme al marito, si recherà in visita dal Pontefice. In tanti gridarono al disgelo tra l’Urss e la Santa Sede. Papa Roncalli non si illude e dice: «Il mondo è stato fatto in sei giorni. Questo è il primo della Russia». Sa che ovunque si può annunciare il Vangelo, ma occorre attenzione. Quando, verso la fine della Seconda Guerra mondiale, viene inviato a Parigi come nunzio apostolico, quindi con un ruolo importante, si rende conto dell’opera di scristianizzazione iniziata con la Rivoluzione Francese. Sono tutte esperienze che si porterà a Roma. Il mondo sta mutando. Sente l’ansia, il desiderio di parlare all’uomo moderno. Per questo indice il Concilio Vaticano II.

Possiamo dire che il Concilio abbia avuto origine da una preoccupazione pastorale?
Sì. Giovanni XXIII lo dice chiaramente. Il Concilio non nasce da una questione dottrinale, ma dal desiderio di prendersi cura delle famiglie, di chi ha bisogno, dell’uomo in una società che sta mutando. Non sono i dogmi da rivedere, non ce n’è bisogno, ma il modo di presentarli. Ecco la sua sensibilità pastorale, il suo essere parroco. La dottrina deve diventare carne. Pur rimanendo ancorato alla tradizione. Lui è l’uomo della tradizione, non del tradizionalismo.

Cosa vuol dire?
Tradere significa custodire e trasmettere il mistero cristiano. Papa Roncalli parla a tutti pur sapendo che ci sono differenze. Come papa Francesco, ha rispetto per ogni essere umano, ma non ha nessuna intenzione di cambiare il dogma e la dottrina. Giovanni XXIII guarda ciò che unisce, non ciò che divide. In questo senso il suo tradere è vivace, vivo.

Un esempio?
Nella visita ai detenuti di Regina Coeli non ha vergogna di raccontare di un suo cugino che era stato in carcere. Ecco il pastore che “si mette accanto”. Comunica con freschezza ciò che ha nel cuore: il rapporto con il Signore che su tutti si china e offre il suo desiderio di incontrare. Si rende trasparente di questa relazione che permette di perdonare e di perdonarsi il male fatto. Il Vangelo per lui rianima le fibre dell’esistenza al punto da far comprendere che il rapporto con il Padre che il Figlio offre è qualcosa che squaderna, scioglie l’arrabbiatura perché l’uomo si sente amato e può amare.

Sono molte le affinità con papa Francesco...
Una fondamentale: entrambi partono dall’incontro con Cristo, che mette in movimento l’esistenza investita da un amore più grande. Solo come conseguenza ci sono le regole. Papa Francesco, come Giovanni XXIII, sta annunciando l’esperienza di aver incontrato Cristo. Ma c’è un altro aspetto che li accomuna: la preghiera. Giovanni XXIII si prepara al Concilio con una settimana di Esercizi spirituali. Pensa che la sua persona è dentro il mistero di Cristo. Scrive: «La preghiera è il mio respiro». La sua preghiera è per il mondo. Quando recita il Rosario, al terzo mistero gaudioso, dove si annuncia la nascita di Gesù, dice: «Questo è per tutti i bambini che nascono». La sera dell’elezione, quando si trova da solo con il suo segretario monsignor Loris Capovilla e questi gli chiede: «Cosa facciamo?», lui risponde: «Recitiamo i Vespri».

Don Giussani in un’intervista disse che il tratto caratteristico di Giovanni XXIII fu «la longanimità misericordiosa di Dio per la salvezza dell’uomo». 
In questo si riverbera la bontà di Giovanni XXIII. Come sottolinea sempre il cardinale Capovilla, lui non è il “Papa buono”, ma il Papa della bontà. Cioè il suo sguardo, così come lo ha ricevuto da Cristo, è carico di fiducia, pronto alla correzione, ma senza condanna. È l’annuncio della verità. 

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