NELLA CORSA PER AFFERRARLO»
Esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione
Rimini, 4 aprile 2014
Appunti dall’Introduzione di Julián Carrón
«Nella corsa per afferrarlo».1
A chi di noi non piacerebbe essere qui questa sera con la
stessa faccia tutta spalancata, tutta tesa, tutta desiderosa, piena
di stupore, di Pietro e Giovanni in cammino verso il sepolcro la
mattina di Pasqua?2 Chi di noi non desidererebbe essere qui
con quella tensione a cercare Cristo, che vediamo nei loro volti,
con il cuore pieno di quell’attesa di trovarLo ancora, di rivederLo
di nuovo, di essere attratti, affascinati come il primo giorno? Ma
chi di noi aspetta veramente che possa succedere una cosa
come questa? Come loro, anche noi facciamo fatica a dare
credito all’annuncio delle donne, cioè a riconoscere il fatto più
sconvolgente della storia, a darvi spazio dentro di noi, a ospitarlo
nel cuore perché ci trasformi. Anche noi, come loro, sentiamo il
bisogno di essere di nuovo afferrati, perché si ridesti in noi tutta
la nostalgia di Cristo. Domandiamo insieme allo Spirito Santo di
ridestare in ciascuno di noi l’attesa, il desiderio di Lui.
Discendi Santo Spirito
Ben arrivati!
Saluto ciascuno di voi qui presenti, tutti gli amici che sono collegati
con noi da diversi Paesi e tutti coloro che faranno in differita gli
Esercizi nelle prossime settimane. Due fatti hanno segnato il nostro
cammino negli ultimi mesi: la Giornata d’inizio anno e la mia udienza
con papa Francesco. Nella Giornata d’inizio anno abbiamo messo a
tema due domande: «Come si fa a vivere? Cosa stiamo a fare al
mondo?». Facendoci quelle domande, in quella occasione, abbiamo
visto che ciò di cui abbiamo più bisogno è diventare sempre di più
una presenza originale, non reattiva. Ci ricordava don Giussani:
«Una presenza è originale quando scaturisce dalla coscienza
della propria identità e dall’affezione a essa, e in ciò trova la sua
consistenza».3
Da allora sono passati tanti mesi e siamo stati sfidati da tanti eventi.
Cosa è successo davanti alle provocazioni che il reale non ci ha
risparmiato? Questi giorni sono un’occasione preziosa per vedere
quale verifica abbiamo compiuto della proposta che ci siamo fatti
all’inizio d’anno. L’urto delle sfide ha fatto emergere la nostra
originalità?
Abbiamo verificato la nostra consistenza oppure ci siamo lasciati
travolgere dalla mentalità di tutti, non riuscendo ad andare oltre
una posizione reattiva? L’udienza con papa Francesco, il cui
contenuto è stato ripreso nella mia successiva lettera alla
Fraternità, ha messo in evidenza dal primo istante quello che il
Santo Padre ha a cuore come pastore di tutta la Chiesa.
Non mi sembra superfluo ritornarci all’inizio dei nostri Esercizi.
1 Fil 3,12.
2 Si veda il quadro di Eugène Burnand (1850-1921): I discepoli Pietro e Giovanni corrono al Sepolcro il
mattino della Resurrezione, Olio su tela, 1898, Musée d’Orsay, Parigi.
3 © L. Giussani, Dall’utopia alla presenza (1975-1978), Bur, Milano 2006, p. 52.
Cosa ha a cuore il Papa? Ce lo ha detto col suo stile sintetico:
la nuova evangelizzazione, l’urgenza di «risvegliare nel cuore
e nella mente dei nostri contemporanei la vita della fede. La fede
è un dono di Dio, ma è importante che noi cristiani mostriamo di
vivere in modo concreto la fede, attraverso l’amore, la concordia,
la gioia, la sofferenza, perché questo suscita delle domande,
come all’inizio del cammino della Chiesa: perché vivono così?
Che cosa li spinge? […] [Il] cuore dell’evangelizzazione […] è la
testimonianza della fede e della carità. Ciò di cui abbiamo
bisogno, specialmente in questi tempi, sono testimoni credibili
che con la vita e anche con la parola rendano visibile il Vangelo,
risveglino l’attrazione per Gesù Cristo, per la bellezza di Dio.
[…] C’è bisogno di cristiani che rendano visibile agli uomini di
oggi la misericordia di Dio, la sua tenerezza per ogni creatura».4
Ciò che il Papa ha a cuore, dunque, è la missione. «La nuova
evangelizzazione è un movimento rinnovato verso chi ha
smarrito la fede e il senso profondo della vita. Questo
dinamismo fa parte della grande missione di Cristo di portare
la vita nel mondo, l’amore del Padre all’umanità. Il Figlio di Dio
è “uscito” dalla sua condizione divina ed è venuto incontro
a noi. La Chiesa è all’interno di questo movimento, ogni
cristiano è chiamato ad andare incontro agli altri, a dialogare
con quelli che non la pensano come noi, con quelli che hanno
un’altra fede, o che non hanno fede. Incontrare tutti, perché
tutti abbiamo in comune l’essere creati a immagine e
somiglianza di Dio. Possiamo andare incontro a tutti,
senza paura e senza rinunciare alla nostra appartenenza.»5
Il Papa ha identificato con chiarezza anche il metodo: il richiamo
all’essenziale. L’andare «fino alle periferie dell’esistenza»,
scrive, «esige l’impegno […] che richiami l’essenziale e che sia
ben centrato sull’essenziale, cioè su Gesù Cristo. Non serve
disperdersi in tante cose secondarie e superflue, ma
concentrarsi sulla realtà fondamentale, che è l’incontro con Cristo,
con la sua misericordia, con il suo amore e l’amare i fratelli come
Lui ci ha amato»; questo «ci spinge anche a percorrere vie nuove,
con coraggio, senza fossilizzarci! Ci potremmo chiedere: com’è
la pastorale delle nostre diocesi e parrocchie? Rende visibile
l’essenziale, cioè Gesù Cristo?».6
Nella lettera dopo l’udienza scrivevo: «Vi prego di accogliere
come rivolta a noi − specialmente a noi che siamo nati solo per
questo, come testimonia tutta la vita di don Giussani −
la domanda di papa Francesco: ciascuno di noi, ogni comunità
del nostro Movimento, “rende visibile l’essenziale, cioè Gesù
Cristo”?».7 Davanti alle circostanze storiche attraverso cui il
Mistero ha sfidato ciascuno di noi, abbiamo reso visibile
l’essenziale oppure ci siamo dispersi in tante cose secondarie
e superflue? Con il suo richiamo all’essenziale, il Santo Padre
ci indica dove lui guarda per rispondere alla sfida di vivere
oggi la fede nel nostro mondo. Il richiamo all’essenziale è
una cruciale indicazione di metodo. Perciò la questione
fondamentale è: che cos’è per noi l’essenziale? L’essenziale è
ciò che risponde alla domanda su come si fa a vivere. Cos’è per
ciascuno di noi l’essenziale? Nessuna domanda è più pertinente
di questa per l’inizio dei nostri Esercizi, proprio per la sua
radicalità. «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà
l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà
l’altro.»8 Questa frase di Gesù ci dice che ciascuno di noi può
affermare solo una cosa come ultima, tanto l’unità dell’io umano è
4 Francesco, Discorso ai partecipanti alla Plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova
Evangelizzazione, 14 ottobre 2013, 1.
5 Ibidem, 2.
6 Ibidem, 3.
7 J. Carrón, Lettera alla Fraternità di Comunione e Liberazione, 16 ottobre 2013.
8 Mt 6,24.
2
ciascuno è costretto a decidere qual è la cosa ultima a cui tiene
più che a ogni altra. L’urto delle circostanze non ci lascia
scampo, ci costringe a svelare la cosa più cara che abbiamo.
Come possiamo sorprendere, senza inganni, che cos’è per noi
l’essenziale? Il metodo ce lo ha insegnato sempre don Giussani:
sorprendendoci in azione, nell’esperienza. Perché «i fattori
costituitivi dell’umano si percepiscono [e noi diventiamo coscienti
di essi] là dove sono impegnati nell’azione, altrimenti non sono
rilevabili […]. Quanto più uno è impegnato con la vita, tanto più
coglie anche nella singola esperienza i fattori stessi della
vita. La vita è una trama di avvenimenti e di incontri che
provocano la coscienza producendovi in varia misura problemi.
Il problema non è nient’altro che l’espressione dinamica di una
reazione di fronte agli incontri. La vita è dunque una trama di
problemi, un tessuto di eventi reattivi agli incontri provocanti,
poco o tanto che lo siano. Il significato della vita – o delle cose
più pertinenti e importanti della vita – è un traguardo possibile
solo per chi prende sul serio la vita e quindi avvenimenti e
incontri, per chi è impegnato con la problematica della vita.
Essere impegnati con la vita non significa l’impegno esasperato
con l’uno o l’altro dei suoi aspetti: l’impegno con la vita non è
mai parziale. L’impegno con l’uno o l’altro aspetto della vita,
se non è vissuto come derivazione da un globale impegno con
la vita stessa, rischia di diventare una parzialità squilibrante,
una fissazione o una isteria. Ricordo un detto di Chesterton:
“L’errore è una verità diventata pazza”». Per questo «la
condizione per poter sorprendere in noi l’esistenza e la natura
di un fattore portante, decisivo come il senso religioso, è
l’impegno con la vita intera, nella quale tutto va compreso:
amore, [lavoro,] studio, politica, denaro, fino al cibo e al riposo,
senza nulla dimenticare, né l’amicizia, né la speranza, né il
perdono, né la rabbia, né la pazienza. Dentro infatti ogni gesto
sta il passo verso il proprio destino».9
Allora, cosa succede quando uno si impegna con tutti i fattori
della vita, con la vita intera? Che più uno vive, più appare
davanti ai suoi occhi qual è la natura del suo bisogno.
E più scopriamo le nostre esigenze, più ci accorgiamo che
non le possiamo risolvere da noi né lo possono gli altri,
uomini come noi, poveracci come noi. «Il senso di impotenza
accompagna ogni seria esperienza di umanità. È questo
senso dell’impotenza che genera la solitudine. La solitudine
vera non è data dal fatto di essere soli fisicamente, quanto
dalla scoperta che un nostro fondamentale problema non può
trovare risposta in noi o negli altri. Si può benissimo dire che il
senso della solitudine nasce nel cuore stesso di ogni serio
impegno con la propria umanità.»10
Proprio questo senso di impotenza, in cui consiste ultimamente
la solitudine e del quale ognuno di noi fa esperienza nella vita,
è ciò che deve trovare risposta. Senza questa risposta tutto il
resto è distrazione. Siamo soli con il nostro bisogno, il quale
si documenta poi in tante domande che sono emerse in questi
mesi. Ora, se questa è la nostra situazione, che cosa ci
permette di stare in piedi? In altre parole: che cos’è
l’essenziale di cui abbiamo bisogno per vivere da uomini,
secondo tutta la profondità della nostra esigenza? Che cos’è
per noi l’essenziale? Non c’è un altro modo di cogliere che
cos’è l’essenziale per noi se non sorprendere nell’esperienza
da dove noi ci aspettiamo la risposta al bisogno del vivere.
Può essere facile e perfino ovvio, scontato, per la
educazione che abbiamo ricevuto, rispondere subito: per noi
l’essenziale è Cristo, la presenza di Cristo. Ma non possiamo
cavarcela così facilmente. Una risposta meccanica non basta.
Tante volte, infatti, osservandoci in azione, ci dobbiamo
arrendere all’evidenza che l’essenziale per noi è altrove.
9 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, pp. 48-49.
10 L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, p. 85.
3
tesoro, là sarà anche il tuo cuore».11 Si apre qui la distanza
tra l’intenzione che Cristo sia l’essenziale della vita e la
sorpresa che tante volte nell’esperienza non è così. Qui
emerge la differenza tra l’intenzione e l’esperienza.
Possiamo scoprire allora che, anche in buona fede,
l’essenziale è diventato altro, e non è più Cristo; e ci siamo
sbilanciati su altro magari proprio in nome di quell’essenziale
che continua comunque a essere citato nei nostri discorsi.
È decisivo cogliere quanto stiamo dicendo per non ridurre
subito tutto al problema dei nostri errori o delle nostre fragilità
quotidiane, delle nostre incoerenze morali. Quando si
sottolinea la distanza tra intenzione ed esperienza, a tema
non è prima di tutto la coerenza, quante volte sbagliamo,
ma che cosa ci definisce anche quando sbagliamo; cioè a
tema è il contenuto dell’autocoscienza, quale sia il reale punto
di consistenza, che cosa effettivamente perseguiamo e amiamo
nell’azione, che cos’è per noi l’essenziale. Si può, infatti, essere
incoerenti ed essere centratissimi sull’essenziale, come il
bambino – di cui tante volte ci ha parlato don Giussani –,
che ne fa di tutti i colori, fa impazzire sua mamma mille volte
al giorno, ma al centro del suo sguardo non c’è altro che la
mamma. Guai se lo portassero via da lei! Urlerebbe, si
dispererebbe. Per questo il divario tra intenzione ed
esperienza non ha niente a che vedere con il gap tra teoria
e applicazione, ma indica che il contenuto di consapevolezza
e di affezione è “di fatto” (diventato) un altro, al di là della
coerenza-incoerenza etica. Come a dire che, senza
accorgercene, tante volte ci siamo spostati, abbiamo
orientato il nostro sguardo da un’altra parte, ci siamo centrati
su altro (l’essenziale non è stato negato, ma si è trasformato
in un a priori, in un postulato alle nostre spalle che non
definisce chi siamo, la nostra identità personale e il nostro
volto nel mondo oggi). La nostra storia ce lo ha dimostrato
in modo particolarmente evidente in alcuni momenti, come
vedremo domani. Basta per ora ricordarci quanto don
Giussani ci ha detto, come l’abbiamo ripreso nella Giornata
d’inizio anno: «Il progetto aveva sostituito la presenza»,12
senza che ce ne fossimo accorti. Che cosa ci consente di
guardare tutto, perfino gli sbagli, perfino questa mancanza di
autocoscienza, senza paura, liberi dalla tentazione di
giustificarci (come i pubblicani, che andavano da Gesù
perché solo con Lui potevano essere loro stessi senza dover
negare niente di loro stessi; per questo Lo cercavano, per
questo avevano bisogno di tornare da Lui: per poter
finalmente essere se stessi)? La certezza della Sua alleanza,
la certezza che Lui prenderà anche i nostri sbagli come
occasione per farci scoprire la Sua diversità, chi è Lui.
La certezza di questo amore definisce l’alleanza che Dio ha
fatto con noi, come ricorda il profeta Isaia: «Così dice il Signore:
“Al tempo della benevolenza ti ho risposto, nel giorno della
salvezza ti ho aiutato. Ti ho formato e ti ho stabilito come
alleanza del popolo, per far risorgere la terra, per farti
rioccupare l’eredità devastata, per dire ai prigionieri:
‘Uscite’, e a quelli che sono nelle tenebre: ‘Venite fuori’.
Essi pascoleranno lungo tutte le strade, e su ogni altura
troveranno pascoli. Non avranno né fame né sete e
non li colpirà né l’arsura né il sole, perché colui che ha
misericordia di loro li guiderà, li condurrà alle sorgenti
d’acqua. Io trasformerò i miei monti in strade e le mie
vie saranno elevate. Ecco, questi vengono da lontano,
ed ecco, quelli vengono da settentrione e da
occidente e altri dalla regione di Sinìm”.
Giubilate, o cieli, rallégrati, o terra, gridate di
gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo
e ha misericordia dei suoi poveri».
13 11 Mt 6,21.
12 L. Giussani, Dall’utopia alla presenza (1975-1978), op. cit., p. 64.
13 Is 49,8-13.
4
chiacchiere. «Sion ha detto: “Il Signore mi ha abbandonato, il
Signore mi ha dimenticato”.»14 Quante volte lo pensiamo! A
questa provocazione potrebbe reagire come noi, con la nostra
solita reattività, arrabbiandosi; ma Lui ci sorprende con una
presenza tutta originale, irriducibile. Invece di lasciarsi
determinare dalle nostre chiacchiere, da quello che diciamo o
pensiamo di Lui, approfitta dell’occasione per mostrare una
volta di più la Sua diversità, sfidando la nostra ragione in un
modo sconvolgente: «Si dimentica forse una donna del suo
bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue
viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti
dimenticherò mai».15 Cosa sarebbe la nostra vita se non
potessimo ascoltare ogni volta di nuovo queste parole?
Questa è la Sua fedeltà, che ci consente di guardare tutto,
che ci consente di lasciare entrare la Sua stessa presenza
nella vita, l’unica che può ridurre sempre di più la distanza
tra l’intenzione e l’esperienza, perché rende possibile
un’esperienza di unità del vivere come quella che facevano
i pubblicani incontrando Gesù. Per questo tornavano da
Lui, come anche noi torniamo, sperando di sentire
«quella parola che […] mi liberò», «per la speranza che
lui […] aveva suscitato in me».16
È questa l’unità della vita che tutti desideriamo:
«L’adulto è chi ha raggiunto l’unità della vita, una coscienza
del suo destino, del suo significato, una energia di adesione».17
È quello che desideriamo tutti: questa unità della vita. Solo
così potremo essere veramente noi stessi e la nostra potrà
essere una presenza utile per noi e per gli altri. Come ricordava
don Giussani a un certo punto della nostra storia – era il 1977 –,
«in questi ultimi anni passati noi siamo stati veramente vittima
della presunzione del movimento come il toccasana della
Chiesa e dell’Italia. Ma […] se il movimento non è l’esperienza
della fede come risolutrice, come illuminante le mie
problematiche, non può essere neanche proposta
agli altri»,18 diceva don Giussani. Per questo desiderava che
la fede diventasse un’esperienza, e ci ha insegnato sempre
che la strada per raggiungerla non è altro che la
personalizzazione della fede. «“È arrivato il momento della
personalizzazione […] dell’avvenimento nuovo nato nel
mondo, del fattore di protagonismo nuovo della storia,
che è Cristo, nella comunione con coloro che il Padre gli ha
dato”. […] Giussani sottolinea che è un problema di
esperienza: “La prima cosa nella quale dobbiamo aiutarci è
confermare che il principio di tutto è l’esperienza […]. Il concetto
di esperienza è provare giudicando”.»19
Senza che la fede diventi esperienza personale non esiste la
missione, e finiamo col diventare presuntuosamente giudici
di tutto. Perché la proposta passa attraverso la mia umanità
cambiata, e «l’impeto della missione è una gratitudine,
altrimenti è una presunzione».20 Questo fa capire che l’unica
posizione adeguata oggi è la testimonianza, come ci richiama
il Papa. La ragione ce la ricorda ancora don Giussani: «In una
società come questa non si può creare qualcosa di nuovo se
non con la vita: non c’è struttura né organizzazione o iniziative
che tengano. È solo una vita diversa e nuova che può
rivoluzionare strutture, iniziative, rapporti, insomma tutto.
E la vita è mia, irriducibilmente mia».21 Questa frase è bellissima!
14 Is 49,14.
15 Is 49,15.
16 Cfr. C. Chieffo, «Ballata dell’uomo vecchio» e «Il monologo di Giuda», Canti, Società Coop. Ed. Nuovo Mondo, Milano 2014, p. 218 e p. 230.
17 FCL, AMCL, fasc. CL/81, «Consiglio 18/19 giugno 1977».
18 FCL, AMCL, fasc. CL/85, «Centro 17.11.77. Sintesi».
19 A. Savorana, Vita di don Giussani, Rizzoli, Milano 2013, p. 762.
20 FCL, AMCL, fasc. CL/85, «Centro 17.11.77. Sintesi».
21 «Movimento, “regola” di libertà», a cura di O. Grassi, Litterae Communionis CL, novembre 1978, p. 44.
5
che la testimonianza, cioè la vita, l’esperienza del vivere, sia
una scelta da “rinunciatari”, intimistica, una giustificazione
del disimpegno. Niente di più sbagliato. La testimonianza è
in realtà la scelta più esigente, perché chiede un impegno più
totalizzante di qualsiasi altra opzione.
Chiede tutto di noi, non solo qualche ritaglio di tempo che
decidiamo di dedicare a qualche progetto. La testimonianza
è per gente che vuole vivere all’altezza della propria umanità,
richiede di essere presenti con tutto noi stessi nell’andare
incontro all’altro, portandogli una novità vissuta in modo così
radicale che lui possa ridestarsi in tutta la sua umanità, da
uomo a uomo. «Dio salva l’uomo attraverso l’uomo»,22
abbiamo letto nella Scuola di comunità. Ci vuole tutta la mia
umanità. Ci vuole tutto il dolore della nostra amica Natascia
di fronte al suo bambino per far nascere un nuovo reparto di
patologia neonatale, non basta una conferenza pro life.
La testimonianza non è mettersi ai margini o ritirarsi dalla battaglia:
esige l’impegno di tutta la mia umanità: energia, affezione,
intelligenza, tempo, unità del vivere. Altro che spiritualismo!
Altro che delegare a qualche esperto: armiamoci e partite!
Perciò insistere sulla personalizzazione della fede è insistere
sul punto sorgivo da cui può emergere quella diversità che
ci rende presenza, capaci di una testimonianza originale
nella società. Chi non ne sente il bisogno? Noi possiamo
vivere la responsabilità a cui ci ha chiamato il Papa solo se
non diamo per scontato il soggetto (cioè che siamo già testimoni
per il solo fatto di dirlo), ma accettiamo di fare quella strada che
ci renderà testimoni secondo il disegno che Dio vorrà.
Il movimento è ciò che aiuta a questo e basta – dice
Giussani −: ti aiuta cioè a essere te stesso.
«Il cammino al vero è una esperienza.»
È stato sempre così. «Nel concetto di sviluppo è in gioco la
stessa vita personale di Newman. Ciò mi sembra che diventi
evidente nella sua nota affermazione, contenuta nel famoso
saggio su Lo sviluppo della dottrina cristiana:
“Qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato
di molte trasformazioni”», scrive Newman ne Lo sviluppo
della dottrina cristiana. È Ratzinger che lo cita e prosegue:
«Newman è stato lungo tutta la sua vita uno che si è
convertito, uno che si è trasformato, e in tal modo è sempre
rimasto lo stesso, ed è sempre di più diventato se stesso.
Mi viene in mente qui la figura di sant’Agostino, così affine
alla figura di Newman. Quando si convertì nel giardino
presso Cassiciaco, Agostino aveva compreso la conversione
ancora secondo lo schema del venerato maestro Plotino e
dei filosofi neoplatonici. Pensava che la vita passata di
peccato era adesso definitivamente superata; il convertito
sarebbe stato d’ora in poi una persona completamente
nuova e diversa, e il suo cammino successivo sarebbe
consistito in una continua salita verso le altezze sempre
più pure della vicinanza di Dio, qualcosa come ciò che ha
descritto Gregorio di Nissa in De vita Moysis: “Proprio
come i corpi, non appena hanno ricevuto il primo impulso
verso il basso, anche senza ulteriori spinte, da se stessi
sprofondano..., così ma in senso contrario, l’anima che
si è liberata dalle passioni terrene, si eleva costantemente
al di sopra di sé con un veloce movimento ascensionale... in
un volo che punta sempre verso l’alto”. Ma la reale esperienza
di Agostino era un’altra: egli dovette imparare che essere
cristiani significa piuttosto percorrere un cammino sempre
più faticoso con tutti i suoi alti e bassi. L’immagine
dell’ascensione venne sostituita con quella di un iter, un
cammino, dalle cui faticose asperità ci consolano e
sostengono i momenti di luce, che noi di tanto in tanto
possiamo ricevere. La conversione è un cammino, una
strada che dura tutta una vita.
Per questo la fede è sempre sviluppo, e
22 L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2011, p. 132.
6
proprio così maturazione dell’anima verso la Verità, che “ci è
più intima di quanto noi lo siamo a noi stessi”».23
Questa maturazione avviene attraverso tutte le circostanze
della vita: «Il mondo, in tutti i suoi terremoti, è strumento di
richiamo di Dio all’autenticità e alla verità della vita per
tutti, ma in particolare per il cristiano, che è come la sentinella
nel campo del mondo». A volte questi terremoti ci sconcertano.
È normale, come ci ricorda don Giussani: «In fondo,
come legge, non possiamo evitare questo smarrimento.
“Il mondo riderà, e voi piangerete”».24
Tutto quanto abbiamo detto ci rende consapevoli del nostro
bisogno. Questa consapevolezza è decisiva per un gesto come
quello che stiamo per cominciare. Perché gli Esercizi della
Fraternità sono proprio un gesto. Perciò, oltre alla lezione e
all’assemblea, sono anche silenzio, canto, preghiera, domanda
soprattutto. Partecipando a un gesto come questo possiamo
ridurlo, così che ciascuno sceglie, a discrezione del proprio
criterio, a che cosa partecipare o che cosa seguire di tutto
il pacchetto! Come se fossimo dal medico, ma decidessimo
noi quali medicine prendere. Invece, più siamo coscienti del
nostro bisogno, più tutto quanto vivremo in questi giorni,
tutto il sacrificio che faremo, diventerà un grido,
un grido perché il Signore abbia pietà di noi. Domandiamolo!
7
23 J. Ratzinger, Discorso in occasione del centenario della morte del cardinale John Henry Newman, Roma
28 aprile 1990.
24 © L. Giussani, «La lunga marcia della maturità», Tracce-Litterae communionis, marzo 2008, p. 7
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