venerdì 11 aprile 2014

ESERCIZI DELLA FRATERNITÀ «Nella corsa per afferrarlo» di Julián Carrón

Eugène Burnand, ''I discepoli Pietro e Giovanni corrono al Sepolcro il mattino della Resurrezione'', olio su tela, 1898.
NELLA CORSA PER AFFERRARLO» 
Esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione 
Rimini, 4 aprile 2014 

Appunti dall’Introduzione di Julián Carrón 


«Nella corsa per afferrarlo».1
 A chi di noi non piacerebbe essere qui questa sera con la 
stessa faccia tutta spalancata, tutta tesa, tutta desiderosa, piena 
di stupore, di Pietro e Giovanni in cammino verso il sepolcro la 
mattina di Pasqua?2 Chi di noi non desidererebbe  essere qui 
con quella tensione a cercare Cristo, che vediamo nei loro volti, 
con il cuore pieno di quell’attesa di trovarLo ancora, di rivederLo 
di nuovo, di essere attratti, affascinati come il primo giorno? Ma 
chi di noi aspetta veramente che possa succedere una cosa 
come questa? Come loro, anche noi facciamo fatica a dare 
credito all’annuncio delle donne, cioè a riconoscere il fatto più 
sconvolgente della storia, a darvi spazio dentro di noi, a ospitarlo 
nel cuore perché ci trasformi. Anche noi, come loro, sentiamo il 
bisogno di essere di nuovo afferrati, perché si ridesti in noi tutta 
la nostalgia di Cristo. Domandiamo insieme allo Spirito Santo di 
ridestare in ciascuno di noi l’attesa, il desiderio di Lui. 

Discendi Santo Spirito 

Ben arrivati! 
Saluto ciascuno di voi qui presenti, tutti gli amici che sono collegati 
con noi da diversi Paesi e tutti coloro che faranno in differita gli 
Esercizi nelle prossime settimane.  Due fatti hanno segnato il nostro 
cammino negli ultimi mesi: la Giornata d’inizio anno e la mia udienza 
con papa Francesco.  Nella Giornata d’inizio anno abbiamo messo a 
tema due domande: «Come si fa a vivere? Cosa stiamo a fare al 
mondo?». Facendoci quelle domande, in quella occasione, abbiamo 
visto che ciò di cui abbiamo più bisogno è diventare sempre di più 
una presenza originale, non reattiva. Ci ricordava don Giussani: 
«Una presenza è originale quando scaturisce dalla coscienza 
della propria identità e dall’affezione a essa, e in ciò trova la sua 
consistenza».3

Da allora sono passati tanti mesi e siamo stati sfidati da tanti eventi. 
Cosa è successo davanti alle provocazioni che il reale non ci ha 
risparmiato? Questi giorni sono un’occasione preziosa per vedere 
quale verifica abbiamo compiuto della proposta che ci siamo fatti 
all’inizio d’anno. L’urto delle sfide ha fatto emergere la nostra 
originalità? 
Abbiamo verificato la nostra consistenza oppure ci siamo lasciati 
travolgere dalla mentalità di tutti, non riuscendo ad andare oltre 
una posizione reattiva? L’udienza con papa Francesco, il cui 
contenuto è stato ripreso nella mia successiva lettera alla 
Fraternità, ha messo in evidenza dal primo istante quello che il 
Santo Padre ha a cuore come pastore di tutta la Chiesa. 
Non mi sembra superfluo ritornarci all’inizio dei nostri Esercizi. 
 Fil 3,12.
 2 Si veda il quadro di Eugène Burnand (1850-1921): I discepoli Pietro e Giovanni corrono al Sepolcro il 
mattino della Resurrezione, Olio su tela, 1898, Musée d’Orsay, Parigi. 
3 © L. Giussani, Dall’utopia alla presenza (1975-1978), Bur, Milano 2006, p. 52. 
Cosa ha a cuore il Papa? Ce lo ha detto col suo stile sintetico: 
la nuova evangelizzazione, l’urgenza di «risvegliare nel cuore 
e nella mente dei nostri contemporanei la vita della fede. La fede 
è un dono di Dio, ma è importante che noi cristiani mostriamo di 
vivere in modo concreto la fede, attraverso l’amore, la concordia, 
la gioia, la sofferenza, perché questo suscita delle domande, 
come all’inizio del cammino della Chiesa: perché vivono così? 
Che cosa li spinge? […] [Il] cuore dell’evangelizzazione […] è la 
testimonianza della fede e della carità. Ciò di cui abbiamo 
bisogno, specialmente in questi tempi, sono testimoni credibili 
che con la vita e anche con la parola rendano visibile il Vangelo, 
risveglino l’attrazione per Gesù Cristo, per la bellezza di Dio. 
[…] C’è bisogno di cristiani che rendano visibile agli uomini di 
oggi la misericordia di Dio, la sua tenerezza per ogni creatura».4
Ciò che il Papa ha a cuore, dunque, è la missione. «La nuova 
evangelizzazione è un movimento rinnovato verso chi ha 
smarrito la fede e il senso profondo della vita. Questo 
dinamismo fa parte della grande missione di Cristo di portare 
la vita nel mondo, l’amore del Padre all’umanità. Il Figlio di Dio 
è “uscito” dalla sua condizione divina ed è venuto incontro 
a noi. La Chiesa è all’interno di questo movimento, ogni 
cristiano è chiamato ad andare incontro agli altri, a dialogare 
con quelli che non la pensano come noi, con quelli che hanno 
un’altra fede, o che non hanno fede. Incontrare tutti, perché 
tutti abbiamo in comune l’essere creati a immagine e 
somiglianza di Dio. Possiamo andare incontro a tutti, 
senza paura e senza rinunciare alla nostra appartenenza.»5
Il Papa ha identificato con chiarezza anche il metodo: il richiamo 
all’essenziale. L’andare «fino alle periferie dell’esistenza», 
scrive, «esige l’impegno […] che richiami l’essenziale e che sia 
ben centrato sull’essenziale, cioè su Gesù Cristo. Non serve 
disperdersi in tante cose secondarie e superflue, ma 
concentrarsi sulla realtà fondamentale, che è l’incontro con Cristo, 
con la sua misericordia, con il suo amore e l’amare i fratelli come 
Lui ci ha amato»; questo «ci spinge anche a percorrere vie nuove, 
con coraggio, senza fossilizzarci! Ci potremmo chiedere: com’è 
la pastorale delle nostre diocesi e parrocchie? Rende visibile 
l’essenziale, cioè Gesù Cristo?».6
Nella lettera dopo l’udienza scrivevo: «Vi prego di accogliere 
come rivolta a noi − specialmente a noi che siamo nati solo per 
questo, come testimonia tutta la vita di don Giussani − 
la domanda di papa Francesco: ciascuno di noi, ogni comunità 
del nostro Movimento, “rende visibile l’essenziale, cioè Gesù 
Cristo”?».7 Davanti alle circostanze storiche attraverso cui il 
Mistero ha sfidato ciascuno di noi, abbiamo reso visibile 
l’essenziale oppure ci siamo dispersi in tante cose secondarie 
e superflue? Con il suo richiamo all’essenziale, il Santo Padre 
ci indica dove lui guarda per rispondere alla sfida di vivere 
oggi la fede nel nostro mondo. Il richiamo all’essenziale è 
una cruciale indicazione di metodo. Perciò la questione 
fondamentale è: che cos’è per noi l’essenziale? L’essenziale è 
ciò che risponde alla domanda su come si fa a vivere. Cos’è per 
ciascuno di noi l’essenziale? Nessuna domanda è più pertinente 
di questa per l’inizio dei nostri Esercizi, proprio per la sua 
radicalità. «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà 
l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà 
l’altro.»8 Questa frase di Gesù ci dice che  ciascuno di noi può 
affermare solo una cosa come ultima, tanto l’unità dell’io umano è 
 Francesco, Discorso ai partecipanti alla Plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova 
Evangelizzazione, 14 ottobre 2013, 1. 
Ibidem, 2.
 6 Ibidem, 3.
 7 J. Carrón, Lettera alla Fraternità di Comunione e Liberazione, 16 ottobre 2013. 
Mt 6,24. 
2

 ineludibile. Per questo, davanti alle provocazioni del vivere 
ciascuno è costretto a decidere qual è la cosa ultima a cui tiene 
più che a ogni altra. L’urto delle circostanze non ci lascia 
scampo, ci costringe a svelare la cosa più cara che abbiamo. 
Come possiamo sorprendere, senza inganni, che cos’è per noi 
l’essenziale? Il metodo ce lo ha insegnato sempre don Giussani: 
sorprendendoci in azione, nell’esperienza. Perché «i fattori 
costituitivi dell’umano si percepiscono [e noi diventiamo coscienti 
di essi] là dove sono impegnati nell’azione, altrimenti non sono 
rilevabili […]. Quanto più uno è impegnato con la vita, tanto più 
coglie anche nella singola esperienza i fattori stessi della 
vita. La vita è una trama di avvenimenti e di incontri che 
provocano la coscienza producendovi in varia misura problemi. 
Il problema non è nient’altro che l’espressione dinamica di una 
reazione di fronte agli incontri. La vita è dunque una trama di 
problemi, un tessuto di eventi reattivi agli incontri provocanti, 
poco o tanto che lo siano. Il significato della vita – o delle cose 
più pertinenti e importanti della vita – è un traguardo possibile 
solo per chi prende sul serio la vita e quindi avvenimenti e 
incontri, per chi è impegnato con la problematica della vita. 
Essere impegnati con la vita non significa l’impegno esasperato 
con l’uno o l’altro dei suoi aspetti: l’impegno con la vita non è 
mai parziale. L’impegno con l’uno o l’altro aspetto della vita, 
se non è vissuto come derivazione da un globale impegno con 
la vita stessa, rischia di diventare una parzialità squilibrante, 
una fissazione o una isteria. Ricordo un detto di Chesterton: 
“L’errore è una verità diventata pazza”». Per questo «la 
condizione per poter sorprendere in noi l’esistenza e la natura 
di un fattore portante, decisivo come il senso religioso, è 
l’impegno con la vita intera, nella quale tutto va compreso: 
amore, [lavoro,] studio, politica, denaro, fino al cibo e al riposo, 
senza nulla dimenticare, né l’amicizia, né la speranza, né il 
perdono, né la rabbia, né la pazienza. Dentro infatti ogni gesto 
sta il passo verso il proprio destino».9
Allora, cosa succede quando uno si impegna con tutti i fattori 
della vita, con la vita intera? Che più uno vive, più appare 
davanti ai suoi occhi qual è la natura del suo bisogno. 
E più scopriamo le nostre esigenze, più ci accorgiamo che 
non le possiamo risolvere da noi né lo possono gli altri, 
uomini come noi, poveracci come noi. «Il senso di impotenza 
accompagna ogni seria esperienza di umanità. È questo 
senso dell’impotenza che genera la solitudine. La solitudine 
vera non è data dal fatto di essere soli fisicamente, quanto 
dalla scoperta che un nostro fondamentale problema non può 
trovare risposta in noi o negli altri. Si può benissimo dire che il 
senso della solitudine nasce nel cuore stesso di ogni serio 
impegno con la propria umanità.»10 
Proprio questo senso di impotenza, in cui consiste ultimamente 
la solitudine e del quale ognuno di noi fa esperienza nella vita, 
è ciò che deve trovare risposta. Senza questa risposta tutto il 
resto è distrazione. Siamo soli con il nostro bisogno, il quale 
si documenta poi in tante domande che sono emerse in questi 
mesi. Ora, se questa è la nostra situazione, che cosa ci 
permette di stare in piedi? In altre parole: che cos’è 
l’essenziale di cui abbiamo bisogno per vivere da uomini, 
secondo tutta la profondità della nostra esigenza? Che cos’è 
per noi l’essenziale? Non c’è un altro modo di cogliere che 
cos’è l’essenziale per noi se non sorprendere nell’esperienza 
da dove noi ci aspettiamo la risposta al bisogno del vivere. 
Può essere facile e perfino ovvio, scontato, per la 
educazione che abbiamo ricevuto, rispondere subito: per noi 
l’essenziale è Cristo, la presenza di Cristo. Ma non possiamo 
cavarcela così facilmente. Una risposta meccanica non basta. 
Tante volte, infatti, osservandoci in azione, ci dobbiamo 
arrendere all’evidenza che l’essenziale per noi è altrove. 
 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, pp. 48-49. 
10 L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, p. 85. 
 3

Il criterio per scoprirlo ce lo dà il santo Vangelo: «Dov’è il tuo
tesoro, là sarà anche il tuo cuore».11 Si apre qui la distanza 
tra l’intenzione che Cristo sia l’essenziale della vita e la 
sorpresa che tante volte nell’esperienza non è così. Qui 
emerge la differenza tra l’intenzione e l’esperienza. 
Possiamo scoprire allora che, anche in buona fede, 
l’essenziale è diventato altro, e non è più Cristo; e ci siamo 
sbilanciati su altro magari proprio in nome di quell’essenziale 
che continua comunque a essere citato nei nostri discorsi. 
È decisivo cogliere quanto stiamo dicendo per non ridurre 
subito tutto al problema dei nostri errori o delle nostre fragilità 
quotidiane, delle nostre incoerenze morali. Quando si 
sottolinea la distanza tra intenzione ed esperienza, a tema 
non è prima di tutto la coerenza, quante volte sbagliamo, 
ma che cosa ci definisce anche quando sbagliamo; cioè a 
tema è il contenuto dell’autocoscienza, quale sia il reale punto 
di consistenza, che cosa effettivamente perseguiamo e amiamo 
nell’azione, che cos’è per noi l’essenziale. Si può, infatti, essere 
incoerenti ed essere centratissimi sull’essenziale, come il 
bambino – di cui tante volte ci ha parlato don Giussani –, 
che ne fa di tutti i colori, fa impazzire sua mamma mille volte 
al giorno, ma al centro del suo sguardo non c’è altro che la 
mamma. Guai se lo portassero via da lei! Urlerebbe, si
dispererebbe. Per questo il divario tra intenzione ed
esperienza non ha niente a che vedere con il gap tra teoria 
e applicazione, ma indica che il contenuto di consapevolezza 
e di affezione è “di fatto” (diventato) un altro, al di là della 
coerenza-incoerenza etica. Come a dire che, senza 
accorgercene, tante volte ci siamo spostati, abbiamo 
orientato il nostro sguardo da un’altra parte, ci siamo centrati 
su altro (l’essenziale non è stato negato, ma si è trasformato 
in un a priori, in un postulato alle nostre spalle che non 
definisce chi siamo, la nostra identità personale e il nostro 
volto nel mondo oggi). La nostra storia ce lo ha dimostrato 
in modo particolarmente evidente in alcuni momenti, come 
vedremo domani. Basta per ora ricordarci quanto don 
Giussani ci ha detto, come l’abbiamo ripreso nella Giornata 
d’inizio anno: «Il progetto aveva sostituito la presenza»,12 
senza che ce ne fossimo accorti. Che cosa ci consente di 
guardare tutto, perfino gli sbagli, perfino questa mancanza di 
autocoscienza, senza paura, liberi dalla tentazione di 
giustificarci (come i pubblicani, che andavano da Gesù 
perché solo con Lui potevano essere loro stessi senza dover 
negare niente di loro stessi; per questo Lo cercavano, per 
questo avevano bisogno di tornare da Lui: per poter 
finalmente essere se stessi)? La certezza della Sua alleanza, 
la certezza che Lui prenderà anche i nostri sbagli come 
occasione per farci scoprire la Sua diversità, chi è Lui. 
La certezza di questo amore definisce l’alleanza che Dio ha 
fatto con noi, come ricorda il profeta Isaia: «Così dice il Signore: 
“Al tempo della benevolenza ti ho risposto, nel giorno della 
salvezza ti ho aiutato. Ti ho formato e ti ho stabilito come 
alleanza del popolo, per far risorgere la terra, per farti 
rioccupare l’eredità devastata, per dire ai prigionieri: 
‘Uscite’, e a quelli che sono nelle tenebre: ‘Venite fuori’. 
Essi pascoleranno lungo tutte le strade, e su ogni altura 
troveranno pascoli. Non avranno né fame né sete e 
non li colpirà né l’arsura né il sole, perché colui che ha 
misericordia di loro li guiderà, li condurrà alle sorgenti 
d’acqua. Io trasformerò i miei monti in strade e le mie 
vie saranno elevate. Ecco, questi vengono da lontano, 
ed ecco, quelli vengono da settentrione e da 
occidente e altri dalla regione di Sinìm”. 
Giubilate, o cieli, rallégrati, o terra, gridate di 
gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo 
e ha misericordia dei suoi poveri».
13 11 Mt 6,21. 
12 L. Giussani, Dall’utopia alla presenza (1975-1978), op. cit., p. 64. 
13 Is 49,8-13
 4


Malgrado questa preferenza, noi sfidiamo il Signore con le nostre 
chiacchiere. «Sion ha detto: “Il Signore mi ha abbandonato, il 
Signore mi ha dimenticato”.»14 Quante volte lo pensiamo! A 
questa provocazione potrebbe reagire come noi, con la nostra 
solita reattività, arrabbiandosi; ma Lui ci sorprende con una 
presenza tutta originale, irriducibile. Invece di lasciarsi 
determinare dalle nostre chiacchiere, da quello che diciamo o 
pensiamo di Lui, approfitta dell’occasione per mostrare una 
volta di più la Sua diversità, sfidando la nostra ragione in un 
modo sconvolgente: «Si dimentica forse una donna del suo 
bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue 
viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti 
dimenticherò mai».15  Cosa sarebbe la nostra vita se non 
potessimo ascoltare ogni volta di nuovo queste parole? 
Questa è la Sua fedeltà, che ci consente di guardare tutto, 
che ci consente di lasciare entrare la Sua stessa presenza 
nella vita, l’unica che può ridurre sempre di più la distanza 
tra l’intenzione e l’esperienza, perché rende possibile 
un’esperienza di unità del vivere come quella che facevano 
i pubblicani incontrando Gesù. Per questo tornavano da 
Lui, come anche noi torniamo, sperando di sentire 
«quella parola che […] mi liberò», «per la speranza che 
lui […] aveva suscitato in me».16 
È questa l’unità della vita che tutti desideriamo: 
«L’adulto è chi ha raggiunto l’unità della vita, una coscienza 
del suo destino, del suo significato, una energia di adesione».17 
È quello che desideriamo tutti: questa unità della vita. Solo 
così potremo essere veramente noi stessi e la nostra potrà 
essere una presenza utile per noi e per gli altri. Come ricordava 
don Giussani a un certo punto della nostra storia – era il 1977 –, 
«in questi ultimi anni passati noi siamo stati veramente vittima 
della presunzione del movimento come il toccasana della 
Chiesa e dell’Italia. Ma […] se il movimento non è l’esperienza 
della fede come risolutrice, come illuminante le mie 
problematiche, non può essere neanche proposta 
agli altri»,18 diceva don Giussani. Per questo desiderava che 
la fede diventasse un’esperienza, e ci ha insegnato sempre 
che la strada per raggiungerla non è altro che la 
personalizzazione della fede. «“È arrivato il momento della 
personalizzazione […] dell’avvenimento nuovo nato nel 
mondo, del fattore di protagonismo nuovo della storia, 
che è Cristo, nella comunione con coloro che il Padre gli ha 
dato”. […] Giussani sottolinea che è un problema di 
esperienza: “La prima cosa nella quale dobbiamo aiutarci è 
confermare che il principio di tutto è l’esperienza […]. Il concetto 
di esperienza è provare giudicando”.»19 
Senza che la fede diventi esperienza personale non esiste la 
missione, e finiamo col diventare presuntuosamente giudici 
di tutto. Perché la proposta passa attraverso la mia umanità 
cambiata, e «l’impeto della missione è una gratitudine, 
altrimenti è una presunzione».20 Questo fa capire che l’unica 
posizione adeguata oggi è la testimonianza, come ci richiama 
il Papa. La ragione ce la ricorda ancora don Giussani: «In una 
società come questa non si può creare qualcosa di nuovo se 
non con la vita: non c’è struttura né organizzazione o iniziative 
che tengano. È solo una vita diversa e nuova che può 
rivoluzionare strutture, iniziative, rapporti, insomma tutto. 
E la vita è mia, irriducibilmente mia».21 Questa frase è bellissima! 
 14 Is 49,14. 
15 Is 49,15. 
16 Cfr. C. Chieffo, «Ballata dell’uomo vecchio» e «Il monologo di Giuda», Canti, Società Coop. Ed. Nuovo Mondo, Milano 2014, p. 218 e p. 230. 
17 FCL, AMCL, fasc. CL/81, «Consiglio 18/19 giugno 1977». 
18 FCL, AMCL, fasc. CL/85, «Centro 17.11.77. Sintesi». 
19 A. Savorana, Vita di don Giussani, Rizzoli, Milano 2013, p. 762. 
20 FCL, AMCL, fasc. CL/85, «Centro 17.11.77. Sintesi». 
21 «Movimento, “regola” di libertà», a cura di O. Grassi, Litterae Communionis CL, novembre 1978, p. 44. 
 5

Ci vuole la vita! Non basta la dialettica. Eppure c’è chi pensa 
che la testimonianza, cioè la vita, l’esperienza del vivere, sia 
una scelta da “rinunciatari”, intimistica, una giustificazione 
del disimpegno. Niente di più sbagliato. La testimonianza è 
in realtà la scelta più esigente, perché chiede un impegno più 
totalizzante di qualsiasi altra opzione. 
Chiede tutto di noi, non solo qualche ritaglio di tempo che 
decidiamo di dedicare a qualche progetto. La testimonianza 
è per gente che vuole vivere all’altezza della propria umanità, 
richiede di essere presenti con tutto noi stessi nell’andare 
incontro all’altro, portandogli una novità vissuta in modo così 
radicale che lui possa ridestarsi in tutta la sua umanità, da 
uomo a uomo. «Dio salva l’uomo attraverso l’uomo»,22 
abbiamo letto nella Scuola di comunità. Ci vuole tutta la mia 
umanità. Ci vuole tutto il dolore della nostra amica Natascia 
di fronte al suo bambino per far nascere un nuovo reparto di 
patologia neonatale, non basta una conferenza pro life. 
La testimonianza non è mettersi ai margini o ritirarsi dalla battaglia: 
esige l’impegno di tutta la mia umanità: energia, affezione, 
intelligenza, tempo, unità del vivere. Altro che spiritualismo! 
Altro che delegare a qualche esperto: armiamoci e partite! 
Perciò insistere sulla personalizzazione della fede è insistere 
sul punto sorgivo da cui può emergere quella diversità che 
ci rende presenza, capaci di una testimonianza originale 
nella società. Chi non ne sente il bisogno? Noi possiamo 
vivere la responsabilità a cui ci ha chiamato il Papa solo se 
non diamo per scontato il soggetto (cioè che siamo già testimoni 
per il solo fatto di dirlo), ma accettiamo di fare quella strada che 
ci renderà testimoni secondo il disegno che Dio vorrà. 
Il movimento è ciò che aiuta a questo e basta – dice 
Giussani −: ti aiuta cioè a essere te stesso. 
«Il cammino al vero è una esperienza.» 
È stato sempre così. «Nel concetto di sviluppo è in gioco la 
stessa vita personale di Newman. Ciò mi sembra che diventi 
evidente nella sua nota affermazione, contenuta nel famoso 
saggio su Lo sviluppo della dottrina cristiana: 
“Qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato 
di molte trasformazioni”», scrive Newman ne Lo sviluppo 
della dottrina cristiana. È Ratzinger che lo cita e prosegue: 
«Newman è stato lungo tutta la sua vita uno che si è 
convertito, uno che si è trasformato, e in tal modo è sempre 
rimasto lo stesso, ed è sempre di più diventato se stesso. 
Mi viene in mente qui la figura di sant’Agostino, così affine 
alla figura di Newman. Quando si convertì nel giardino 
presso Cassiciaco, Agostino aveva compreso la conversione 
ancora secondo lo schema del venerato maestro Plotino e 
dei filosofi neoplatonici. Pensava che la vita passata di 
peccato era adesso definitivamente superata; il convertito 
sarebbe stato d’ora in poi una persona completamente 
nuova e diversa, e il suo cammino successivo sarebbe 
consistito in una continua salita verso le altezze sempre 
più pure della vicinanza di Dio, qualcosa come ciò che ha 
descritto Gregorio di Nissa in De vita Moysis: “Proprio 
come i corpi, non appena hanno ricevuto il primo impulso 
verso il basso, anche senza ulteriori spinte, da se stessi 
sprofondano..., così ma in senso contrario, l’anima che 
si è liberata dalle passioni terrene, si eleva costantemente 
al di sopra di sé con un veloce movimento ascensionale... in 
un volo che punta sempre verso l’alto”. Ma la reale esperienza 
di Agostino era un’altra: egli dovette imparare che essere 
cristiani significa piuttosto percorrere un cammino sempre 
più faticoso con tutti i suoi alti e bassi. L’immagine 
dell’ascensione venne sostituita con quella di un iter, un 
cammino, dalle cui faticose asperità ci consolano e 
sostengono i momenti di luce, che noi di tanto in tanto 
possiamo ricevere. La conversione è un cammino, una 
strada che dura tutta una vita. 
Per questo la fede è sempre sviluppo, e 
 22 L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2011, p. 132. 
 6



proprio così maturazione dell’anima verso la Verità, che “ci è 
più intima di quanto noi lo siamo a noi stessi”».23 
Questa maturazione avviene attraverso tutte le circostanze 
della vita: «Il mondo, in tutti i suoi terremoti, è strumento di 
richiamo di Dio all’autenticità e alla verità della vita per 
tutti, ma in particolare per il cristiano, che è come la sentinella 
nel campo del mondo». A volte questi terremoti ci sconcertano. 
È normale, come ci ricorda don Giussani: «In fondo, 
come legge, non possiamo evitare questo smarrimento. 
“Il mondo riderà, e voi piangerete”».24 
Tutto quanto abbiamo detto ci rende consapevoli del nostro 
bisogno. Questa consapevolezza è decisiva per un gesto come 
quello che stiamo per cominciare. Perché gli Esercizi della 
Fraternità sono proprio un gesto. Perciò, oltre alla lezione e 
all’assemblea, sono anche silenzio, canto, preghiera, domanda 
soprattutto. Partecipando a un gesto come questo possiamo 
ridurlo, così che ciascuno sceglie, a discrezione del proprio 
criterio, a che cosa partecipare o che cosa seguire di tutto 
il pacchetto! Come se fossimo dal medico, ma decidessimo 
noi quali medicine prendere. Invece, più siamo coscienti del 
nostro bisogno, più tutto quanto vivremo in questi giorni, 
tutto il sacrificio che faremo, diventerà un grido, 
un grido perché il Signore abbia pietà di noi. Domandiamolo! 

 7



 23 J. Ratzinger, Discorso in occasione del centenario della morte del cardinale John Henry Newman, Roma 
28 aprile 1990. 
24 © L. Giussani, «La lunga marcia della maturità», Tracce-Litterae communionis, marzo 2008, p. 7

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