venerdì 20 settembre 2013

SIAMO CHIAMATI A GENERARE FEDE . IL TOCCO DI DIO

« Ecco, questo sono io: un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi oc­chi ». Nella sua lunga intervista, raccolta dal confratello gesuita padre Antonio Spadaro, direttore de 'La Civiltà Cattolica' e pubbli­cata dalle riviste dei gesuiti nel mondo, il Pa­pa risponde così alla domanda: «Chi è Jorge Mario Bergoglio?». Domanda diretta, e per­sino impertinente, da fare a un Papa. In que­sto caso, però, è una domanda singolarmen­te pertinente, e quasi inevitabile. Tutti sen­tiamo, infatti, che c’è un legame particolar­mente diretto tra il fondo dell’anima di que­st’uomo che è diventato Papa e il suo modo di confermarci nella tradizione della fede che abbiamo ricevuto, ancorata sin dall’inizio al­la roccia di Pietro. Tutti i commentatori, nel­la diversità del loro orientamento religioso o laico, ci comunicano questa intuizione di fon­do: il papa Francesco, mentre ci istruisce e ci ammonisce sul modo con cui la fede della Chiesa deve toccare il cuore dell’uomo (di o­gni uomo, dell’uomo che c’è ora, secolariz­zato e vaccinato, e anche dato per perso) fa sempre intravedere il modo in cui questa fe­de lo tocca nella sua stessa sensibilità. Nel ge­sto, nella parola, nel tratto, nel lampo im­provviso e sorpreso dello sguardo.
  Portiamo il tesoro di una fede rocciosa in va­si fragili. Se ne siamo coscienti, e lo confes­siamo senza reticenze, l’emozione della sua grazia coinvolgerà anche noi che la portiamo. Noi stessi ne saremo toccati, noi che siamo talora così assuefatti alla convinzione che nel cristianesimo non ci siano più sorprese (e ad­dirittura, che non ce ne debbano essere). Noi stessi, che rischiamo ogni momento di appa­rire come dei forzati della consacrazione, in­vece che come lietamente consegnati alla ge­nerazione di figli di Dio, fecondi cento e cen­to volte già in questa vita. Il papa Francesco insiste ancora su questo punto: non dobbia­mo diventare «scapoloni» e «zitellone», che riducono «il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità».
  In effetti, non appena il velo del tempio si squarcia, (e noi non ci costruiamo un bel mu­ro al suo posto), molti pubblicani e samarita­ni, ai quali avevamo già assegnate le inevita­bili distanze, scoprono che nel tocco di Dio che noi portiamo c’è qualcosa di assoluta­mente emozionante. Impensato. Insperato. Il tocco di Dio era stato archiviato dalla città se­colare: tabernacoli e burocrazia non irradia­no nulla, del resto, senza miracoli e profezia. Quando risplende il tesoro che porta, invece, la Chiesa diventa capace di «curare le ferite» e «riscaldare il cuore». «Io ho una certezza dog­matica », scandisce papa Francesco: «Dio è nella vita di ogni persona». Tutto il discerni­mento, tutta la misericordia, tutta l’audacia e tutto il coraggio della Chiesa, si armonizzano intorno a questo diapason, che dà il 'La' a tutti gli strumenti. La sinfonia che deve esse­re composta ed eseguita ha questo motivo conduttore: «Cercare e trovare Dio in tutte le cose», in tutte le forme di vita, in tutte le per­sone. L’audace lavoro del discernimento è: «Dov’è Dio, qui?». Perché Dio c’è, di sicuro.
  Questo lavoro della fede della Chiesa è in fa­vore degli umani, dovunque siano. Li rico­nosce nella folla, anche quella più lontana e marginale, perché non si sottrae mai ad es­sa. Il lavoro della fede è fatto di passione e di intelligenza, di sapienza e di azzardi. È umi­le e cocciuto: accetta persino di attraversare il dubbio, senza perdere la fede, e di scende­re nella notte, senza perdere la strada. La no­stra testimonianza rimane in presa diretta con la nostra vulnerabilità: ma anche con il tocco di Dio, che la riscatta ogni volta. Dio non lo trovi e non lo fai trovare se sotterri il talento per paura dell’incertezza e del buio. La Chiesa è un azzardo, certo. Ma Dio è la sor­presa che ne esce fuori. Sempre. Non sta un
 po’ succedendo? 

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