Da ragazzi si fanno forse le scelte più spontanee e più giuste. Ci s’incontra per istinto. Alcuni degli amici che avevo alla fine degli anni Sessanta, quand’ero quindicenne, nel decennio successivo entrarono in Comunione e Liberazione. Era gente dal mio punto di vista controcorrente, religiosa, dialogante, provocatrice e coraggiosamente incosciente. Sembravano addirittura felici. Senza accorgermene sono rimasto loro amico per tutta la vita, pur non avendo mai condiviso nessuna delle loro idee politiche.
Ho incontrato don Luigi Giussani personalmente soltanto una volta, al Palazzetto dello Sport di Varese, nel 1979, dopo un raduno di Cl a cui ero andato per curiosità. Pensavo di incontrare un sacerdote carismatico, e così è stato, ma non mi sarei aspettato di trovarmi di fronte a un poeta, a un attore, a un drammaturgo. Churchill, snobisticamente, diceva: «Una sola cosa non si può sopportare: una cattiva prosa». Don Giussani parlava benissimo, come Fellini d’altronde e come il suo amico Testori.
Un italiano raffinato, nascosto negli abiti rustici di una cadenza brianzola, una lingua che colpiva per la sua semplicità, frutto di molte elaborazioni personali. Parole che arrivavano a segno, risposte a domande che aveva prima posto a se stesso. Era difficile rimanere indifferenti, il suo era un canto delle sirene adatto a entrare nell’anima, sembrava un formichiere che inghiotte.
Non l’ho più rivisto dopo quella volta, ma posso dire di averlo conosciuto attraverso alcuni dei suoi discepoli: Piero, che ho coinvolto nell’A.M.A.T.A (Amici del Museo d’Arte di Tel Aviv) e che molto ha fatto per i rapporti tra artisti israeliani e italiani; Nicoletta, sua moglie, che ha accompagnato Piero anche in questo progetto venendo con noi fino a Gerusalemme; Cicci, diventata negli anni una cara amica ; Jimmy, che fa il mio stesso lavoro e col quale mi confronto spesso fraternamente; Camillo, conosciuto da poco, ma già propositivo e in sintonia. Se Luigi non mi avesse chiesto di scrivere questa testimonianza non mi sarei mai reso conto di quante persone legate a don Giussani io abbia conosciuto. Mi vengono in mente anche Nicola, Roby, Antonio, Raffaella, Carla, Letizia, Giancarlo e Marina.
La missione del “fare”Mi sembrava che avessero una sorta di missione del “fare”, invece che Ora et labora, (Torah ve Avodà), Labora et ora: si costruivano le proprie scuole, entravano capillarmente nella politica italiana, creavano delle comunità nel terzo mondo. Si muovevano con un misto di spiritualità spericolata e concretezza brianzola. Ricordiamoci però che quarant’anni fa, nel mondo degli studenti, erano visti come dei paria e parlare con loro era politicamente molto scorretto.
Io che, da sinistra, ero insofferente verso i dettami della rivoluzione culturale in atto, provavo un particolare piacere a rompere questo tabù. Come mai le parole di pace di papa Francesco, le stesse già dette da tanti altri, arrivano a destinazione? Perché c’è un modo magico di dire le cose. E questa magia don Giussani l’aveva, una magia artistica che proveniva dal suo amore per la musica e per la letteratura, dallo spirito religioso di sua madre e da suo padre, socialista. Nessuno come Pier Paolo Pasolini ha saputo portare lo spettatore in un’antichità autentica, elegante, vera (vedi Vangelo secondo Matteo, per esempio). Allo stesso modo don Giussani ha saputo descrivere la nascita del cristianesimo portando l’ascoltatore a essere uno dei pescatori del lago di Tiberiade, addirittura a sentirsi uno dei discepoli. Quel giorno a Varese sono riuscito a scappare per un pelo. Jean Blanchaert -
Jean Blanchaert è artista e antiquario
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