mercoledì 11 settembre 2013

Introduzione : VITA DI DON GIUSSANI


La copertina del libro
Introduzione
«Nella semplicità del mio cuore
lietamente Ti ho dato tutto.»1
«La gioia più grande della vita dell’uomo è quella di sentire
Gesù Cristo vivo e palpitante nelle carni del proprio pensiero
e del proprio cuore. Il resto è veloce illusione o sterco»
(p. 51). Tutta l’esistenza di don Giussani potrebbe essere
riassunta in queste parole, scritte all’età di ventiquattro
anni, proprio all’inizio della sua vita sacerdotale, che rie-
cheggiano quello che deve avere sperimentato san Paolo
quando affermava: «Tuttoormai io reputo una perdita di
fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio
Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste
cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare
Cristo e di essere trovato in lui» (Fil 3,8-9).
Il tempo successivo, gli anni della maturità e quelli della
vecchiaia, sarà per don Giussani un rinnovarsi continuo
di questa esperienza iniziale e totalizzante. «Man mano che
l’età avanza,» dirà nel 1989 «mi avvedo sempre più chiara-
mente di quello che mi entusiasmava a quindici anni,
vale a dire che l’unico scopo per cui vale la pena esistere,
perciò l’unico mastice che tiene assieme le cose, è quello
che il Vangelo chiama la “gloria di Cristo”.» (p. 691) E
proprio il maturare di questa convinzione gli farà dire,
verso la fine dei suoi anni: «Cristo, questo è il nome che
indica e definisce una realtà che ho incontrato nella mia
vita. [...] mentre Cristo si è imbattuto nella mia vita, la
mia vita si è imbattuta in Cristo proprio perché io impa-
rassi a capire come Egli sia il punto nevralgico di tutto,
di tutta la mia vita. È la vita della mia vita, Cristo. In Lui
si assomma tutto quello che io vorrei, tutto quello che io
cerco, tutto quello che io sacrifico, tutto quello che in
me si evolve per amore delle persone con cui mi ha
 messo».2 E in una delle sue ultime lettere scriverà: «Ci
si alza al mattino per andare a messa, per farsi curare,
per andare a lavorare,per i figli... ci si alza per una
esplosione in se  stessi del fatto di Cristo!» (p. 1121).
Lo dice un uomo avanti negli anni e provato dalla malattia,
che si entusiasma per un verso di Giosuè Carducci nel
quale  rintraccia l’inconsapevole evocazione di Cristo:
«Tu sol − pensando −o ideal, sei vero». Ideale reale,
concreto, presente, «perché Cristo ha cominciato a
 “balzare”nell’utero di una donna!»(p. 1160). E
offrendo la sua testimonianza davanti al papa Giovanni
Paolo II,in piazza San Pietro, il 30 maggio 1998,
dirà: «“Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo
intero e poi perderà se stesso? O che cosa l’uomo potrà
dare in cambio di sé?”. Nessuna domanda mi sono
sentito rivolgere così, che mi abbia lasciato il fiato mozzato,
come questa di Cristo! [...] Solo Cristo si prende tutto a
cuore della mia umanità. È lo stupore di Dionigi l’Areopa-
gita (V secolo): “Chi ci potrà mai parlare dell’amore all’uo-
mo proprio di Cristo, traboccante di pace?”. Mi ripeto
queste parole da più di cinquant’anni!» (p. 1026). Don
Giussani era ben consapevole che tutta la sua vita poggiava
su questa unica certezza. Non avevo alcuna idea di che
cosa volesse dire scrivere una biografia. Da dove cominciare?
Fin dall’inizio mi ha guidato uno sguardo amichevole
e costante su un uomo conquistato da Cristo, che ho avuto
 la fortuna di conoscere alla fine degli anni Settanta e di
frequentare assiduamente a partire dal 1985. A lui i fatti
della mia vita − interessi, professione, famiglia − sono
strettamente legati. Nel rapporto di lavoro e di amicizia
con don Giussani mi sono trovato dentro un flusso
esistenziale e storico − «una febbre di vita», come amava
dire −, che non si è mai interrotto. E che mi ha continuato
ad accompagnare anche dopo la sua scomparsa con l’invito,
al di là di ogni mia immaginazione, a scrivere queste pagine.
Tuttavia in questo libro il lettore non troverà i miei “ricordi”.
Ho preferito affidarmi alle fonti ad oggi accessibili, ai testi-
moni che ho incontrato lungo la strada, e soprattutto a don
Giussani stesso, a quanto ha detto escritto nel corso della
sua lunga esistenza, come spiegherò tra breve.
Così, mi sono immerso nella vicenda di un uomo che ha
attraversato quasi tutto il Novecento e l’inizio del nuovo
millennio. Nel lavoro di questi anni mi è stato di costante
compagnia l’ascoltare don Julián Carrón, scelto da don
Giussani per succedergli nella guida di cl: ogni volta che
interveniva in pubblico, vedendo come faceva «parlare»
 i testi, come le parole di don Giussani − molte delle quali
conoscevo già −acquistavano uno spessore di profondità
a me prima sconosciuto, mi si chiariva quale
fosse l’unica prospettiva feconda: per dirla con don
Giussani, un «desiderio di rivivere l’esperienza della
persona che ti ha provocato e ti provoca con la sua
presenza [...] nella quale ti è portato qualcosa d’Altro»
(p. 554). Sono stati per me cinque anni di paragone
costante, un imparare quotidiano e una correzione
altrettanto frequente. Ho cercato di lasciarmi prendere
per mano da don Giussani, ripercorrendo la strada che
ha battuto, diventando spettatore di ciò che acca-
deva tra le mura di casa a Desio, nei grandi spazi del
Seminari Venegono o nelle aule del liceo Berchet e
dell’Università Cattolica. In questo mio tentativo, che
 vuole essere un inizio di lavoro per far conoscere
don Giussani, sono ben consapevole di avere
tralasciato un’infinità di episodi, che tanti di coloro
che lo hanno conosciuto conserveranno vividi nella
memoria. E sono certo che altri potranno aggiungere,
integrare e dove necessario correggere, colmando
le inevitabili lacune di questo libro.
Ho letto migliaia di pagine di inediti, quaderni di
appunti e carteggicon amici, vescovi e pontefici,
ho potuto vedere decine di lettere scritte di suo
pugno − la prima è una cartolina postale del
1935, quando Gigetto (come lo chiamavano
in famiglia) aveva appena dodici anni − e
conservate gelosamente dai familiari; ho riletto i suoi
libri, ricchi degli eventi della sua vita; ho parlato con
testimoni oculari che mi hanno aiutato a ricostruire
momenti importanti di don Giussani, taluni finora
sconosciuti o dai contorni sfuocati.
Quante volte mi è capitato di sorprendere i tratti
inconfondibili dellapersonalità di don Giussani: innanzitutto
l’entusiasmo per Cristo che gli faceva ripetere: «Quando
ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo»
(Gaio Mario Vittorino, p. 207); e ancora: «Io penso
che non potrei più vivere se non Lo sentissi più
parlare» (A.J. Möhler, p. 1169). In secondo
luogo, la vita offerta come «atto d’amore, per le
tante anime dei miei fratelli uomini, per la cui felicità
il Signore Gesù morì, per la cui eterna felicità il Signore
Gesù mi chiamò con sé a donare la mia vita... [...] È
da parecchi anni che io non piango più che per due
motivi: il pensiero dell’infelicità eterna dei miei fratelli
uomini – il pensiero dell’infelicità terrena degli uomini,
simbolo di quella eterna. Noi Gesù ha scelto per
gridare nel mondo il suo Amore e la felicità degli
uomini: la grande e inenarrabile felicità che ci attende»
(p. 104). Infine, la passione educativa, animato dalla
consapevolezza del contesto storico in cui si è trovato a
vivere: «In un mondo dove tutto, tutto, diceva e dice
 l’opposto [...] mostrare la pertinenza della fede alle
esigenze della vita e, quindi − questo “quindi” è
importante per me −, dimostrare la razionalità della
fede, [...]che la fede corrisponde alle esigenze
fondamentali e originali del cuore di ogni uomo» (p. 163).
Per descrivere tale «pertinenza», don Giussani mette in
campo lasua personale esperienza educatasi con un
grande bagaglio teologico e intellettuale, comunicando
che cosa si muove in lui quando Cristo lo raggiunge
attraverso un incontro, dentro le circostanze ordinarie
della vita. Mi è capitato di sorprendere don Giussani
mentre vive le cose che gli accadono, da quelle più
intime come le relazioni familiari e amicali a quelle più
eclatanti come gli incontri con i pontefici o gli eventi storici.
Si potrebbe scrivere la sua vita quasi solo attingendo ai
suoi racconti, ricchi di particolari che si sono fissati nella
sua memoria, in un continuo imparare da ciò che gli
accadeva. «C’eran bambini di quarta ginnasio che ti
facevano delle osservazioni nel Raggio che ti lasciavano
a bocca aperta. In quel momento in cui sentivo quel
bambino, quel ragazzo, io ero discepolo e lo annotavo.
Quello era mia autorità, perché lo Spirito in quel momento
suggeriva a lui una testimonianza alla verità» (p. 221).
Don Giussani rilegge di continuo i fatti che gli sono capitati,
li giudica e li offre come suggerimenti per la strada che
ciascuno deve percorrere. Come disse appena
diciassettenne alla sorella di tre anni più giovane di
lui, invitandola a scrivergli, «allorché ti senti strana
ed accasciata» perché «anch’io ho provato a vivere
tempi come tu ora vivi» (p. 53). Diceva, infatti:
«Per me la storia è tutto; io ho imparato dalla storia»
(5 giugno1988); e di nuovo: «Il tempo è prezioso come
strumento di Dio».3
 Per questo, «la storia di don Giussani è così significativa,
perché ha vissuto le nostre stesse circostanze, e ha dovuto
affrontare le stesse sfide e gli stessi rischi, ha dovuto fare
lui stesso il cammino che descrive in tanti brani delle sue
opere».4 Le situazioni che ha attraversato e le persone
incontrate sono state decisive per il delinearsi della
vocazione di don Giussani: i suoi genitori, i professori e
i compagni del Seminario, le sue letture, il sacerdozio,
i primi giovani conosciuti in confessionale o in treno,
l’insegnamento,le incomprensioni e i riconoscimenti,
la malattia.Senza questo complesso di circostanze,
Cristo sarebbe rimasto ultimamente estraneo alla vita,
 un Gesù disincarnato.In don Giussani domina il senso
dell’incarnazione, il riconoscimento della presenza di
Cristo qui e ora, della Sua contemporaneità: «Egli è
qui, come il primo giorno», ripeteva riecheggiando
le parole di Charles Péguy. Ma «come siamo
contemporanei a Cristo che risorge, a Cristo che
ascende al cielo, allo Spirito che ne discende per investire
i chiamati?», si domandava don Giussani. «Il mistero del
Padre ha scelto, per comunicarsi all’uomo e al mondo,
di rendersi presente attraverso una realtà integralmente
umana: appunto, Cristo. Cristo sceglie lo stesso metodo:
si rende presente, contemporaneo, attraverso una realtà
umana, integralmente umana [...]: si chiama Chiesa. Una
piccola compagnia di uomini duemila anni fa, una
grande compagnia di uomini ora, ma precisa nei suoi
confini. Precisa nei suoi confini: “Tutti voi che siete stati
battezzati vi siete immedesimati con Cristo. Non esiste più
né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né
donna, ma tutti voi siete una persona sola in Cristo [...]”
(Gal 3,27-28)».5 Cristo non è un «devoto ricordo», un
nome o un oggetto di pietà: è un avvenimento,
identicamente a duemila anni fa, è una presenza oggi,
incontrabile attraverso l’umanità di coloro che Egli
sceglie e che Lo riconoscono. Ebbe modo di
ricordarlo egli stesso, anzitutto per sé: «Se io non
avessi incontrato monsignor Gaetano Corti nella mia
prima liceo, se non avessi sentito le [...] lezioni di
italiano di monsignor Giovanni Colombo, [...] se io non
avessi trovato dei ragazzi che di fronte a quello che io
sentivo sbarravano gli occhi come di fronte a una sorpresa
tanto inconcepita quanto gradita, se io non avessi
incominciato a ritrovarmi con loro, se io non avessi trovato
sempre più gente che si coinvolgeva con me, se io non
avessi avuto questa compagnia, [...] Cristo[...] sarebbe
stata una parola oggetto di frasi teologiche, oppure,
nei casi migliori, richiamo a una affettività “pietosa”,
generica e confusa».6 Qui mi sembra collocarsi la radice
del contributo di don Giussani alla vita della Chiesa: di
fronte a una fede popolare che in molti casi sopravviveva
come pura tradizione, sempre meno radicata in profondità
nell’esistenza reale della gente ed esposta ai venti di una
mentalità secolare ostile o almeno distante dalla vita
cristiana, egli si rese conto che la debolezza dell’esperienza
cristiana dipende dal fatto che la fede diventa
incomprensibile, se i bisogni dell’uomo non sono presi
sul serio. Dando per scontato che cosa si agita nel cuore
umano, ovvero guardando alle sue attese in modo
superficiale, non si comprende più quale sia l’utilità della
fede per la vita di un uomo d’oggi. Di fronte alla progressiva
scomparsa della fede dall’orizzonte delle cose terrene,
propria dell’epoca moderna, don Giussani ha impegnato
la sua umanità, trovando corrispondenza − giovane
seminarista − nell’incontro con Giacomo Leopardi, non
perché fosse un esponente della cultura cattolica, ma per
la sua profonda comprensione del cuore umano,nelle cui
infinite attese Giussani rintracciava l’espressione di una reli-
giosità profonda. «A tredici anni studiai a memoria l’intera
produzione poetica di Leopardi, perché la problematica
sollevata mi sembrava oscurare tutte le altre. Per un
mese intero studiai soltanto Leopardi, [...] il compagno
più suggestivo del mio itinerario religioso» (p. 44). Non lo
fu, dunque, solo nella fase giovanile della sua esistenza.
Egli, infatti, farà dell’appello a mantenere desta la propria
umanità un fattore decisivo della vita dell’uomo, a
qualunque età («Credo di aver mantenuto sempre
fede al proposito giovanile di ripetermi qualche sua
poesia tutti i giorni, avendole imparate tutte a memoria
in terza ginnasio» [p. 43]), condizione essenziale di una
fede coscientemente vissuta. Per don Giussani, infatti,
è trascurando la propria umanità che l’uomo si allontana
da Cristo: non avverte il proprio bisogno, non lo riconosce,
dunque non Lo cerca e per questo non Lo incontra.
Perciò ripeteva spesso la frase di Reinhold Niebuhr,
il grande teologo protestante a lungo studiato: «Niente
è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che
non si pone» (p. 145). Don Giussani riconosceva, infatti:
«Noi cristiani nel clima moderno siamo stati staccati non
dalle formule cristiane, direttamente, non dai riti cristiani,
direttamente, non dalle leggi del decalogo cristiano,
direttamente. Siamo stati staccati dal fondamento umano,
dal senso religioso. Abbiamo una fede che non è più
religiosità. Abbiamo una fede che non risponde più come
dovrebbe al sentimento religioso; abbiamo una fede cioè
non consapevole, una fede non più intelligente di sé. [...]
Cristo è la risposta al problema, alla sete e alla fame
che l’uomo ha della verità, della felicità, della bellezza e
dell’amore, della giustizia, del significato ultimo. Se questo
non è vivido in noi, se questa esigenza non è educata in noi,
che ci sta a fare Cristo? Cioè, che ci sta a fare la Messa,
la confessione, le preghiere, il catechismo, la Chiesa, preti
e Papa? Sono trattati ancora con un certo rispetto a
seconda delle aree di vita del mondo, sono conservati per
un certo periodo di tempo per forza d’inerzia ma non sono
più risposte ad una domanda, perciò non hanno più lunga
sopravvivenza».7 In questa percezione acuta del dramma,
don Giussani ha trovato un fondamentale compagno di
strada nell’allora cardinale Joseph Ratzinger, che affermava:
«La crisi della predicazione cristiana, che da un secolo
sperimentiamo in misura crescente, dipende in non piccola
parte dal fatto che le risposte cristiane trascurano gli
interrogativi dell’uomo; esse erano giuste e continuavano
a rimanere tali; però non ebbero influenza in quanto non
partirono dal problema e non furono sviluppate
all’interno di esso».8 Per questo don Giussani poteva
dire: «Cristo si pone come risposta a ciò che sono “io”
 [...] e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera
e appassionata di me stesso mi può spalancare e
disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a
vivere Cristo. Senza questa coscienza anche quello di Gesù
Cristo diviene un puro nome» (p. 771). Tutta la storia
raccontata in questo libro ha la sua sorgente nel «bel
giorno», vissuto da don Giussani quando il suo professore
di prima liceo, don Gaetano Corti, lesse e commentò
il Prologo del Vangelo di Giovanni: «E il Verbo si fece
carne...». «L’istante, da allora – diceva don Giussani −,
non fu più banalità per me» (p. 47). E l’istante comprende
ogni flessione del vivere. Per questo scriveva nel 1965,
nel bel mezzo di una circostanza impegnativa: «Misuro i
pensieri e le azioni, gli stati d’animo e le reazioni,
i giorni e le notti. Ma è un’Altra Presenza la compagnia
profonda e il Testimone completo. Questo è il viaggio
 lungo che dobbiamo compiere insieme, questa è
l’avventura reale: la scoperta di quella Presenza nelle
nostre carni e nelle nostre ossa, l’immergersi del nostro
essere in quella Presenza, – cioè la Santità» (p. 366).
L’esperienza continua di tale scoperta gli ha permesso
di entrare in rapporto con tutto e con tutti, in una tensione
piena di curiosità e di apertura valorizzatrice verso la
vasta gamma dell’espressività umana, religiosa, artistica
e culturale. È una partenza positiva, senza ombra di
reattività: «Noi siamo nati non per rispondere alle
emergenze: siamo nati per dire che è venuto Cristo.
Pensavo a questo andando al Berchet la prima
mattina» (30novembre 1994),nel lontano 1954.
Per tale scopo fin dal primo giorno di scuola non si è
sottratto alla sfida, ma ha dato ragione della sua fede
a quei giovani liceali, introducendoli a una esperienza
che li liberava dalle secche del razionalismo e del
dualismo fede-vita. E lo ha fatto con la sua stessa
vita, divenendo il primo testimone di ciò che annunciava.
Proprio questo gli ha consentito di dare vita alla
realtà di Comunione e Liberazione, non come progetto
concepito nella mente, ma come progressiva dilatazione
della sua vita e comunicazione della sua esperienza a
chiunque incontrasse: «Il movimento ho incominciato
a sentirlo, quando iniziavo a parlare: non era una
cosa difficile, era una cosa imponente» (p. 981).
E ancora: «Ho visto così succedere il formarsi di un
popolo, in nome di Cristo. Tutto in me è diventato
veramente più religioso, fino alla coscienza tesa a
scoprire che “Dio è tutto in tutto”. [...] Quello che
poteva sembrare, al massimo, un’esperienza singolare
diventava un protagonista nella storia, perciò strumento
della missione dell’unico Popolo di Dio» (p. 1027).
E infine, in una lettera del 2004 a Giovanni Paolo II
scriveva, quasi a bilanciodi un’intera esistenza: «Non
solo non ho mai inteso “fondare” niente, ma ritengo
che il genio del movimento che ho visto nascere sia
di avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità
di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo,
vale a dire la passione del fatto cristiano come tale
nei suoi elementi originali, e basta» (p. 1138).
«Io non voglio vivere inutilmente: è la mia ossessione»,
confidava a un amico nel 1945, appena ordinato
sacerdote. È stato esaudito. Quella didon Giussani,
infatti, è un’esistenza ricca e piena, vissuta senza sosta a
partire dalla scoperta dell’Amico che gli ha rivoluzionato l
a vita intera: «Egli [Cristo; N.d.A.] mi ha impregnato
di questa convinzione dolcissima: che per amare bisogna
rendersi simili, identici: Lui è in croce: l’Ideale supremo
della nostra vita è l’ansia, la mania di salirvi, per poterci
“impastare con Lui”. È la gioia più serena della vita,
l’atto più grande di cavalleria verso di Lui, che è l’Infinito
unico Amore personale: “O Jesu speranza mia abissame
en amore” gridava Jacopone. Amico personale con la
nostra carne, che si può baciare ed abbracciare»
(pp. 101-102). Ed ecco l’intenzione con cui celebrò
la sua prima messa: «Ho chiesto a Lui per me un’unica
cosa: che mi tenga in Croce con Lui. Perché l’amicizia
è una tal cosa che lascia irrequieti al pensiero di essere
diversi dall’amico: bisogna essere il più possibile uguali,
identici: uniti ed impastati insieme, aderenti l’uno all’altro
così come la luce aderisce ai contorni delle cose: e se Lui
è in Croce, tutto l’orgoglio mio deve consistere nel
sentirmi come Lui» (p. 102). Questo scriveva all’inizio
del 1946; e alla fine della vita confiderà alle persone
che si prendono cura di lui, dopo una giornata segnata
dalla sofferenza a causa della malattia: «Che
giornataccia! Ma se questa giornata la vivo con la
tensione ad attraversare queste circostanze, vivendo le
occasioni che il Mistero permette, sono certo che
camminerò meglio e più in fretta verso il Destino che un
giorno vedrò, molto meglio che secondo tutti i miei
progetti per vivere questo giorno. Perciò questa
giornata è bella perché è vera» (p. 1146). E quando,
pochi giorni prima di morire, ripeterà per tre volte alla
sorella Livia: «Ricordati che io ho obbedito, ho sempre
obbedito» (p. 1168),dirà la cosa più ovvia per lui,
secondo un’evidenza che documentano tanti dati che
ho potuto raccogliere. Era certo che le fila della sua
esistenza erano tenute da Dio: «Io non ho fatto niente,
sono uno zero. L’Infinito fa tutto, e da noi non si farebbe
niente se non si fosse donato» (p. 1107). A chi avrà la
pazienza di scorrere le pagine di questo libro non potrà
suonare strano leggere, in una delle ultime interviste −
quella per i suoi ottant’anni − questa affermazione di don
Giussani: «Tutto per me si è svolto nella più assoluta
normalità e solo le cose che accadevano, mentre
accadevano, suscitavano stupore, tanto era Dio a
operarle facendo di esse la trama di una storia che mi
accadeva – e mi accade – davanti agli occhi»(p. 1106).
Non era una battuta, la sua. Egli era talmente convinto che
la sua vita era nelle mani di un Altro che poteva affermare
in tutta tranquillità: «L’ultimo pensiero era che la settimana
dopo si potesse vivere ancora, ci fossimo ancora. Siamo
nati con questa, non dico umiltà, ma senso realistico della
nostra pochezza» (p. 992). E ammetteva: «Quando ho
incominciato con quattro ragazzetti» del liceo Berchet
«l’ultimo pensiero era che quel nostro rapporto si sarebbe
diffuso in tutto il mondo.Questo dipende da Dio» (p. 700).
Don Giussani si è speso senza riserve per testimoniare che
Cristo è il Signore della vita e della storia, che è la Sua
iniziativa a generare quella realtà nuova nel mondo che
si chiama Chiesa. «Quando si dimentica che Cristo è la
chiave di tutto,» dirà alla vigilia della rivoluzione del
Sessantotto «il cristianesimo diventa zero» (p. 384).
Per questo ha sempre lottato contro la riduzione
intellettualistica, associazionistica e moralistica
dell’esperienza cristiana – innanzitutto della realtà del
movimento, gs prima e cl poi – a una forma cristallizzata
e statica, a un insieme di definizioni astratte o a un prodotto
dello sforzo umano. Perciò affermava: «Di tutta la mia
esperienza io credo di poter testimoniare di fronte al Si-
gnore: l’unica cosa pura è stato l’inizio, e l’inizio continuo,
ogni giorno,di quello che il Signore mi ha suggerito di fare.
Che cosa il Signore mi suggeriva di fare è una tentativa e
umile interpretazione, lieta soltanto di poter dar gloria al
Signore, di tutto quel che si è fatto e che è avvenuto»
(cfr. p. 973). E ancora: «Nel guidare un popolo la gioia
maggiore e insieme la fatica maggiore stanno nel chiedere
sinceramente e continuamente a Dio, e quindi allo Spirito e
alla Madonna, luce per la propria intelligenza e fuoco
ardente per la propria carità di fronte a tutti i problemi
che scaturiscono nel cuore di ogni uomo davanti agli
avvenimenti che il Mistero di Dio permette, problemi
che si impongono al cuore e al lavoro di ognuno nel
luogo in cui ci si incontra» (p. 1107).
Non è mio intendimento «racchiudere» la vita di don
Giussani nelle pagine di questo volume; mi auguro
piuttosto di poter suscitare in chi lo leggerà o lo
sfoglierà il desiderio di conoscerlo di più, attraverso ciò
che lui stesso ha consegnato a tutti come sua eredità:
«I testi lasciati e il seguito ininterrotto – se Dio vorrà –
delle persone indicate come punto di riferimento, come
interpretazione vera di quello che in me è successo»(p. 1196).
Devo a don Julián Carrón l’opportunità di scrivere questa
biografia di don Giussani. Da quella sera del febbraio
2008, quando me ne parlò la prima volta, ho provato
umiliazione per la consapevolezza dei miei limiti e nello
stesso tempo entusiasmo per la prospettiva che si apriva
davanti a me. Ora, a lavoro concluso, gli dico tutta la
gratitudine del mio cuore per la strada che mi ha
consentito di fare, sulle tracce di don Giussani. Con lui
ringrazio tutti coloro − e sono tantissimi − che a vario
titolo mi hanno offerto il loro aiuto, fatto di contributi,
suggerimenti e correzioni preziose, con una carità che
mi stupisce sempre. Nella tarda serata del Giovedì
Santo 2013 ho ricevuto una mail. A scrivere era Lilia,
un’amica medico e madre di famiglia, che avevo conosciuto
all’inizio dell’anno. Il marito mi aveva ascoltato raccontare
qualcosa del mio lavoro sulla vita di don Giussani e ne
aveva parlato a casa, sentendosi rispondere dalla moglie:
«Io non ho tempo per aspettare l’uscita del libro. Ma
se Alberto venisse a cena…». Ecco che cosa mi ha
scritto due mesi dopo quella serata in famiglia:
 «Carissimo Alberto, sono qui nella mia “cella” a
conclusione del secondo ciclo di chemio, sono affaticata
e spesso sofferente, ma con le indicazioni del don Giuss,
arrivate a me attraverso te, ho obbedito, ho solo
obbedito e per ora ho continuato a farlo; questo viatico
alla malattia continua ad essere preziosissimo e mi
sembra l’unica strada con la compagnia amante che
ci permette di vivere da uomini la sofferenza. Voglio
farti gli auguri di Pasqua». La mattina della Risurrezione
ha raggiunto don Giussani e ora conosce fino in fondo
il «libro» della sua vita. Queste pagine sono come un
invito a cena, quasi dicendo: «Il meglio deve ancora
venire», un meglio che don Giussani ha iniziato a scrivere
con la sua vita e che non si è ancora interrotto.

Note bibliografiche
1 Orazione dell’offertorio dell’antica liturgia della festa del SS. Cuore 
di Gesù, in Messale Ambrosiano. Dalla Pasqua all’Avvento, Milano 
1942, p. 225; Cfr. 1 Cr 29,17.
2 L. Giussani, L’uomo e il suo destino. In cammino, Marietti 1820, 
Genova 1999, p. 57. 
3 L. Giussani, Cristo è tutto in tutti, suppl. Tracce-Litterae 
communionis, n. 7 (1999), p. 34.
4 J. Carrón, «Non vivo più io, ma Cristo vive in me», suppl. 
Tracce-Litterae communionis, n. 5 (2012), p. 20.
5 L. Giussani, La familiarità con Cristo, San Paolo, Cinisello
 Balsamo-mi 2008, pp. 107-108.
6 L. Giussani, Qui e ora. 1984-1985, bur, Milano 2009, pp. 209-210.
7 L. Giussani, La coscienza religiosa nell’uomo moderno, Chieti, 
1986, pro manuscripto, p. 15.
8 J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 2005, p. 75.


Nessun commento: