L’articolo di fondo firmato da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, pubblicato oggi, domenica 15 settembre 2013, sul quotidiano Il Sole 24 Ore
La lettera a chi non crede, scritta da Papa Francesco in risposta alle domande di Eugenio Scalfari, ha suscitato moltissime reazioni, per lo più di stupore e apprezzamento. Un aspetto del dialogo, tuttavia, quello che a me pare in assoluto il più intrigante per tutti, non mi sembra sia stato evidenziato dai più. Si tratta del carattere del tutto “post-moderno” di questo intreccio dialogico. Esso è tutt’altro che un ennesimo processo illuministico alla pretese della fede. Dio non è stato chiamato a difendersi di fronte agli interrogativi e alle sfide della ragione, com’era nella classica “teodicea” – o giustificazione del divino – di moda dagli albori del Secolo dei Lumi in poi, alla scuola di Leibnitz. Non si è trattato neanche, da parte di Francesco, della classica difesa apologetica della fede, tradizionalmente impegnata sul triplice fronte della causa di Dio, della rivelazione cristiana e della Chiesa. Le visioni dell’uomo, del divino e dell’altro, entrate in gioco, sono del tutto “post-moderne”, in certo modo “post-illuministe” e “post-apologetiche”, tanto da parte del non credente, quanto da parte del Vescovo di Roma. Vediamo perché.
La visione dell’uomo che si rivela nei due interlocutori non è quella prometeica delle grandi “narrazioni” ideologiche della modernità: l’umano, di cui Scalfari si fa voce, è fragile, consapevole della sua caducità, anche se non ignaro delle sue potenzialità. È l’uomo fallibile, che non esita a mettere in conto la possibilità della colpa, anche se - rifiutando l’orizzonte della trascendenza divina - si chiede come essa possa essere riconosciuta e perdonata. “Se una persona non ha fede né la cerca, ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?”, chiede. E aggiunge: “Il credente crede nella verità rivelata, il non credente crede che non esista alcun ‘assoluto’ ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per la Chiesa è un errore o un peccato?”. È estremamente interessante quest’interrogarsi di chi non crede sulla qualità etica delle scelte e dei comportamenti e sullo spessore che essi possano avere nell’ottica di chi crede nel Dio che giudica e perdona. Si tratta di un segnale importante: al di là dell’aver fede o no, l’uomo che ha conosciuto i drammi del Novecento, le guerre mondiali e i genocidi, a cominciare dalla Shoah, non ha più nulla di quella presunzione d’innocenza della ragione, che sembrava ammaliare le ideologie illuminate, giustificando le più grandi atrocità in nome della causa. A quest’uomo – genialmente interpretato da Scalfari – Francesco risponde da pastore, non da maestro distante e asettico: “Mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che - ed è la cosa fondamentale - la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza”. Queste parole non sono l’esaltazione del tribunale della ragione chiusa in se stessa e fine a se stessa, ma l’appello largamente umano alla voce interiore che guida chiunque voglia ascoltarla, espressa in maniera universale nel grande codice che è il Decalogo. Misericordia divina e responsabilità umana s’incontrano nel confine altissimo della coscienza, dove il no a ogni estrinsecismo morale, come ad ogni relativismo etico, si congiunge al sì alla legge formulata da Agostino all’inizio delle sue Confessioni: “Fecisti nos ad Te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te”. Francesco sa che il più grande alleato di Dio è il cuore umano e non teme la fede nell’uomo del suo interlocutore, perché essa è porta all’abisso del cuore.
La visione di Dio evocata nel dialogo è tutt’altra da quella delle moderne polemiche razionalistiche e delle argomentazioni apologetiche di risposta ad esse. Da parte sua, il non credente chiede: “La modernità illuminista ha messo in discussione il tema dell'‘assoluto’, a cominciare dalla verità. Esiste una sola verità o tante quante ciascun individuo ne configura? I Vangeli e la dottrina della Chiesa affermano che l'Unigenito di Dio si è fatto carne… Le altre religioni monoteiste, l'ebraica e l'Islam, prevedono un solo Dio, il mistero della Trinità gli è del tutto estraneo. Il cristianesimo è dunque un monoteismo alquanto particolare. Come si spiega per una religione che ha come radice il Dio biblico, che non ha alcun Figlio Unigenito e non può essere né nominato né tantomeno raffigurato, come del resto Allah?”. Nella risposta a questi interrogativi, Francesco tocca il vertice della sua attitudine dialogico-pastorale: “Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità assoluta, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l'amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant'è vero che anche ciascuno di noi la coglie e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita… La verità essendo in definitiva tutt'uno con l'amore, richiede l'umiltà e l'apertura per essere cercata, accolta ed espressa”. Il Dio dei cristiani è insomma tutt’altro dall’Assoluto della ragione illuminista: e ciò perché, in quanto è amore in se stesso e verso la creatura, è tutt’altro che “ab-solutus”, sciolto da relazioni e legami, è anzi relazione di dono e accoglienza in se stesso, come unità dell’Amante, dell’Amato e dell’Amore, e verso di noi, come amore che accoglie, dona e perdona. Un Dio vicino, Padre e Madre nell’amore, ricco di misericordia e grande nel perdono, non un Sovrano freddo e straniero, giustiziere implacabile. Un Dio che, come ama ripetere Papa Francesco, non si stanca mai di offrirci la sua misericordia, anche quando noi sembriamo stanchi di domandarla…
È, infine, la visione dell’altro, che - nel dialogo fra i due - è lontana dal sogno moderno di dominare la terra e di plasmarla a misura della ragione illuminata, sogno che ha prodotto mostri di tirannia e di violenza. Il caso serio – emblematico per tutti – è quello della considerazione del popolo ebraico. Scalfari chiede: “Dio promise ad Abramo e al popolo eletto di Israele prosperità e felicità, ma questa promessa non fu mai realizzata e culminò, dopo molti secoli di persecuzioni e discriminazioni, nell'orrore della Shoah. Il Dio di Abramo, che è anche quello dei cristiani, non ha dunque mantenuto la sua promessa?”. Francesco risponde: “Che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo - mi creda - un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l'aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch'io, nell'amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l'apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all'alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità”. Come ha osservato Riccardo Di Segni, “dopo secoli di predicazione cristiana contro la ‘superstizione giudaica’ e la vanità dell’attesa messianica, oggi la fedeltà ebraica diventa un modello per i cristiani e per l’umanità, e questa è una svolta non improvvisa, ma molto significativa, di cui anche gli ebrei dovranno prendere coscienza”. L’altro non è minaccia, ma ricchezza, non pericolo, ma possibile modello e dono. Gesù, ebreo di nascita e per sempre, non potrà non essere contento di questa parola di verità e d’amore del Successore di Pietro. Gli odi, fomentati dall’ideologia moderna, sono tragiche memorie del passato. “È venuto ormai il tempo – scrive Francesco -, e il Vaticano II ne ha inaugurato la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro” con l’altro, con ogni altro.
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