martedì 7 gennaio 2014

L’EPIFANIA DEGLI IMPERFETTI . LETTERA DI UN PAPÀ DELLA DEBOLEZZA

Papa Francesco.
Caro direttore, che meraviglioso scambio! O forse, che meraviglioso errore! Abbia­mo celebrato ieri la solennità dell’im­perfezione di quella natura umana (im­perfetta per definizione) che addirittu­ra è fatta propria dal totalmente Amore, l’Assoluto che di nulla ha bisogno, tanto meno assumere in sé la carne stessa di chi ha saputo peccare. Eppure qui non c’è trucco e non c’è inganno, non ci sono erro­ri: è proprio l’essere uomo, piccolo e impreciso che il 6 gennaio la Chiesa veste di regalità, in una so­lennità che attira le folle e scomoda la gente, facen­dola arrivare da molto lontano. E allora comincio a sentirmi a mio agio perché d’imperfezione me ne in­tendo: mi chiamano papà figli che altri hanno scar­tato perché vittime di errori di concepimento, di ge­stazione o più semplicemente perché soli (e la soli­tudine è il primo passo nella categoria degli imper­­fetti), perché nessuno si riconosceva capace di po­terli amare. Quanti scarti per obbedire alle leggi del­l’impeccabilità!
 
 Come uno dei nostri piccoli più fragili, che non rie­sce neanche a pronunciare il mio nome perché por­ta ferite così gravi e deficit così invalidanti che, sep­pure sul suo volto improvvisamente compare una gioia ineffabile quando sente la mia voce o quella della mamma, nessun suono esce dalle sue labbra. Che mistero grande! Ha 10 anni e i suoi primi quat­tro anni di vita sono trascorsi lentamente passando da un ospedale all’altro in cerca di cure sempre più specialistiche fino ad approdare finalmente nel no­stro abbraccio caldo ed essere chiamato 'figlio', co­me ancora nessuno aveva osato fare; non cammi­na, non mangia da solo, non respira da solo ma con l’aiuto di un respiratore, passa spesso le sue giornate a letto, e quando lo metto sulla sua carrozzina gli al­laccio le fibbie ai piedi, al bacino, al torace, alle spal­le e gli posiziono la testa perché non cada troppo al­l’indietro. Che mistero grande la debolezza!
  Non riesce ad alzare il braccio da solo e talora quan­do vediamo che cerca di direzionare il ditino sul suo tablet per toccare qualche immagine colorata dello schermo, esultiamo come di fronte a un vero mira­colo, estasiati di fronte ai progressi inaspettati del­la natura umana schiacciata dal dolore e al progresso della scienza quando si mette a servizio dei più pic­coli per farli sentire un pochino più grandi.
  È imperante il convincimento che la perfezione sia l’ovvietà della vita e quando ti arriva un figlio han­dicappato o quando ti accorgi del disastro neurolo­gico che si porta dentro quella piccola creatura, l’ov­vietà diventa scartare ciò che è deforme. Eppure, sebbene taluno possa pensare che io sia un padre scellerato, quella debolezza mi ha conquistato la vi­ta e con la mia sposa crediamo che donare il nostro matrimonio alle piccole creature che portano gran­di ferite nel corpo e nella psiche sia l’ovvietà del ma­trimonio, che non può non farsi nido accogliente. Come si può tollerare che rimanga senza amore chi porta una croce troppo grande per le sue spalle? Quanti hanno pensato di ricoverare mio figlio in strutture sanitarie senza un papà e una mamma o peggio ancora di staccare la spina del suo respira­tore per attendere il suo ultimo respiro, credendo che il suo fiato sia meno importante o meno dignitoso del mio, solo perché più debole?
  La dignità della vita non si misura con il calibro del­la perfezione né tantomeno con lo stato di salute della persona. Solo la capacita di amare e farsi a­mare dà dignità alla nostra vita. E io amo la debo­lezza dei miei tanti figli in questa famiglia in cui con la mia sposa viviamo quotidianamente in quindici persone e sono certo che ogni volta che m’inginoc­chio ad allacciare le scarpe a chi non riesce a farlo da solo, o a lavare i piedi a chi non cammina, non faccio altro che ripetere il gesto di chi in ginocchio ha adorato il bambino che Maria portava in brac­cio. La solennità dell’Epifania è stata viva nelle no­stre chiese come nelle nostre case in cui celebriamo la liturgia dell’imperfezione, resa perfetta dalla ca­rità dei nostri gesti d’amore. A chi, come noi, è pa­dre e madre della debolezza diciamo: «Oggi è la fe­sta dei nostri figli». Non teniamoli nascosti, sono es­si la luce della nostra vita e della vita di quanti da lontano vengono a inginocchiarsi per adorare il Dio­Bambino, presente e vivo in ogni umana debolez­za. Non lasciamoci schiacciare dalla stanchezza, non lasciamoci persuadere dai luoghi comuni che c’invitano a credere in una vita divertente e legge­ra,
 fatta di evasioni e vanità. 
Non c’è bellezza maggiore di una vita spesa nella gioia della carità; non c’è dono più grande che rendere forte la vita segnata dalla de­bolezza e dal dolore, attraverso il dono della propria vita.
  Che mistero grande, la bellezza dell’imperfezione umana. Davanti a
 essa mi genufletto… e ti adoro mio Dio–Bambino. 

Luca Russo Comunità Papa Giovanni XXIII 
M
i piace l’idea che questo tempo di Natale, culminato nell’Epifania del Signore, ci lasci nel cuore e nella bisaccia dell’anno che abbia­mo davanti anche queste sue parole, caro amico. Forti e dolciamare com’è forte e dolceamara la vita. Libere, serene e profonde come posso­no davvero essere i nostri sguardi, i nostri gesti e i nostri giorni. Grazie.
 (mt) 

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