sabato 18 gennaio 2014

Quando Giussani mi ha abbracciato, ho imparato ad amare il prossimo

aldo-trento-don-giussani
Dio ha creato “l’uomo maschio e femmina” vale a dire come relazione. È un principio ontologico della natura umana. Un principio che nemmeno il peccato originale riuscì a spezzare. Dio creò l’uomo, maschio e femmina li creò, afferma la Genesi. Per questo la prossimità è strutturale alla natura umana. Gesù stesso lo afferma chiaramente nel Vangelo, nel dialogo con il maestro della legge, curioso di conoscere quello che doveva fare per ereditare la vita eterna. «Maestro, cosa devo fare per essere felice?», chiese l’esperto della legge a Gesù. E Gesù gli rispose: «Cosa c’è scritto nella legge?», «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo essere, con tutto il tuo cuore e il prossimo come te stesso», rispose il maestro della legge. E Gesù: «Hai detto bene, fai questo e vivrai».
Ma l’avvocato, che voleva cercare un tranello per condannare Gesù, prende nuovamente la parola e gli domanda: «Chi è il mio prossimo?», e Gesù gli racconta la parabola del buon Samaritano che tutti conosciamo e che mi commuove; ma che solamente pochi vivono.
«Ama il tuo prossimo», cioè ama in primo luogo chi vive gomito a gomito con te. Una impresa impossibile senza la grazia della presenza di Cristo. Impossibile persino nella relazione più attraente che esiste, come quella tra maschio e femmina. Per questo l’apostolo Pietro, che era un realista e non un romantico idealista, quando Gesù gli parlò dell’indissolubilità del matrimonio reagì immediatamente affermando: «Signore, se questa è la condizione dell’uomo con la donna, non conviene sposarsi».
E Gesù, senza usare mezzi termini gli rispose: «Hai ragione, tuttavia ciò che è impossibile all’uomo (la prossimità) è possibile a Dio». Non esiste miracolo più grande della prossimità vissuta intensamente. Non esiste segno più potente della presenza di Dio tra noi che quello di una vera prossimità: «Siate una sola cosa perché il mondo creda», afferma sempre Gesù.
Ma la prossimità non è solo ed esclusivamente quella di una persona con un’altra, ma il contatto con la realtà, dalla cosa apparentemente più banale, come quella di raccogliere un pezzettino di carta dal pavimento, fino al rispetto della cosa più preziosa e bella che esiste nella realtà. Normalmente noi siamo definiti dal “ruolo”, sia a livello di persone che nella relazione con la realtà in se stessa. Sarebbe sufficiente entrare nel mondo del lavoro per vedere come tutto è definito dal ruolo, dalle competenze. “Questa cosa tocca a me”, “Il mio obbligo arriva fino a qui…”, “È finito il mio orario di lavoro” eccetera.
La prossimità è sostituita dal ruolo. Per questo se una persona ha bisogno è quasi impossibile che trovi qualcuno che la aiuti. Perfino nelle nostre opere di carità molte volte è difficile trovare una persona che dica: “Padre, se ha bisogno di qualcosa sabato o domenica, per favore mi chiami”. È la mentalità mondana che ha contaminato il cristianesimo. Per questo anche l’esperienza del volontariato diventa difficile.
Sono stato educato a guardare, guardare a 360 gradi. Per questo, quando vado in giro per le opere del San Rafael qui ad Asunción, di solito porto con me un block notes e una penna nella tasca della camicia, in modo tale che, se vedo qualcosa di interessante, posso fissarlo sulla carta per non dimenticarlo. Non solo, quando alla sera vado a ispezionare in particolare l’hospice, porto con me il cellulare per chiamare Fredy, il tecnico, se ci fosse bisogno di un suo intervento.
Lui può ben dire quante volte l’ho chiamato dicendogli: «Per favore, puoi venire ad aggiustare questo che non funziona? Domattina puoi pulire completamente il seminterrato? Puoi aggiustare questa luce che si è guastata o mettere gli spigoli di alluminio ad ogni colonna o dove c’è bisogno?».
padre-trento-jpg-crop_displayGuardare e imparareDomenica 7 luglio, mentre camminavo e dicevo il Rosario nel patio, ho visto in un angolo un mucchio di spazzatura. Ho pensato che appena finita la recita del Rosario avrei preso una carriola per portarla tutta nella discarica. Molta gente aveva visto (normalmente guardiamo senza vedere, vale a dire senza riconoscere la realtà che ci provoca) questo pattume, ma a nessuno era venuto in mente di pulire. Non appena mi hanno visto spingere la carriola con i rifiuti, sono corsi tutti a fare quel lavoro al posto mio, e lo hanno fatto molto bene. È il metodo che uso sempre per educare le persone.
Prendere la scopa e cominciare a ramazzare, e subito le persone che mi stanno vicino, mi prendono la scopa e puliscono. Quando ho incominciato ad abbellire il patio della chiesa con piante e fiori, la gente non capiva perché ero io a fare cose che erano di competenza del giardiniere e chiedevano spiegazioni. Ma io, invece di parlare, continuavo a lavorare. Dopo una settimana c’erano già diverse persone ad aiutarmi e sostituirmi.
Quando mi hanno nominato parroco mi sentivo inesperto e inadeguato per questo compito. Ricordo che mi sono inginocchiato davanti al Santissimo dicendogli: «Signore, io non so cosa significhi essere parroco e guidare una parrocchia. Per favore, aiutami!». E Lui mi ha fatto capire che l’unica cosa che dovevo fare era proporre quello che il Mistero mi chiamava a vivere in ogni momento e viverlo come relazione con Lui. In questo modo mi sono educato a vivere ogni cosa, ogni gesto, con questa coscienza.
Per esempio, fino a quel momento la gente entrava in chiesa come si entra in un qualsiasi salone, senza nemmeno percepire la presenza del Santissimo Sacramento. Quando mi sono reso conto di questo “mercato”, fermavo la gente sulla porta e dicevo: «Guardate come io entro e fate come me». Con le mani giunte mi sono messo alla testa della piccola processione, camminando in silenzio verso l’altare e la gente, dietro di me, faceva lo stesso. Arrivato davanti all’altare, mi sono girato e ho spiegato loro l’importanza e il perché del mettermi in ginocchio, sempre con le mani giunte dicendo: «Lodato sempre sia il Santissimo e Divinissimo Sacramento dell’altare».
giussaniL’insegnamento dei miei genitoriÈ stato necessario molto tempo per far capire loro il valore di questo atteggiamento ma, alla fine, questa brutta abitudine di entrare in chiesa come in una qualsiasi sala è scomparsa. I bambini, invece, l’hanno assimilato immediatamente. «Padre, che bello è partecipare ora alla santa Messa, mentre prima era come entrare in una sala giochi». E allo stesso modo mi preoccupo di testimoniare cosa significa vivere la realtà con la coscienza che tutto è relazione (prossimità) con il Mistero.
Col tempo questo metodo è “passato” in ogni luogo della parrocchia, dove non esiste un solo metro quadro che non sia come lo esige la realtà. Non c’è nulla fuori posto, perché tutto riporta al Mistero. Ci sono persone che vengono a visitare la scuola a metà mattina e sono stupite nel vedere la pulizia dei bagni, la totale assenza di graffiti, eccetera. Questo è frutto di un cammino iniziato ventiquattro anni fa…
Alcuni mi chiedono: «Che cosa significa essere parroco?». Il tenero abbraccio di don Giussani era presente in ogni gesto. Una cosa molto semplice, che chiedeva alla mia libertà la totale disponibilità del mio cuore a lasciarmi provocare dalla realtà. Così, un semplice gesto come quello di chiedere in ogni momento che non si buttino per terra cartacce e cannucce, dopo vent’anni ha formato un piccolo popolo. Un popolo che sa distinguere la destra dalla sinistra, che ama il silenzio nei posti dovuti, che è disponibile alla solidarietà, che vede un bisogno e subito ti offre il suo aiuto.
Un’altra esperienza interessante è stata quella di insegnare a cantare in chiesa. È stata un’impresa difficile ma oggi abbiamo un coro polifonico tra i più belli del Paraguay. Un coro che propone la musica gregoriana e quella delle Reducciones gesuitiche. Questo è stato per me il successo più bello e più grande di questi anni di missione. Insomma, educare alla prossimità è educare alla verità della relazione con tutti e con tutto. E questo implica una persona che, mettendosi alla guida, vive con passione tutta la realtà, vive in modo quotidiano l’eroico e l’eroico nel quotidiano.
Non si tratta, allora, dei diplomi o dei titoli che si hanno, ma della passione con cui si vive la realtà. Questo è quanto ho imparato dai miei genitori, che avevano frequentato la scuola solo fino alla quarta elementare e conoscevano appena le preghiere principali.
paldo.trento@gmail.com

Nessun commento: