domenica 26 gennaio 2014

Il cuore pensante del Lager

 È morta ad Auschwitz, «cantando». Era nata cent’anni fa, il 15 gennaio 1914. Ci ha lasciato un diario e una raccolta di lettere. Ma soprattutto, un percorso umano, nel dialogo continuo con Dio (da "Tracce" di gennaio)
La cartolina la trovò un contadino. Era sui bordi della ferrovia che attraversava la brughiera, fuori da Nieuweschans. Niente immagini, solo la data (7 settembre 1943), l’indirizzo («a Christine van Nooten, Deventer») e un testo scritto con una grafia fitta e tonda.«Apro a caso la Bibbia e trovo questo: “Il Signore è il mio alto ricetto”. La partenza è arrivata inaspettata, nonostante tutto. Abbiamo lasciato il campo cantando. Arrivederci». Era di Etty Hillesum, 29 anni, olandese, ebrea. L’aveva lanciata dal vagone numero 12 del treno che la portava ad Auschwitz. Morirà lì due mesi dopo. Era nata giusto cent’anni fa.
Si può andare verso la camera a gas cantando? Si può vivere l’orrore della Shoa dentro la pelle - veder morire gli amici, i parenti, i progetti, i sogni - e salire sul treno che ti porta incontro al sacrificio con il cuore lieto? In quella cartolina c’è il sigillo di una vita breve che a ripercorrerla mette i brividi, perché apre questa domanda e tante altre. E lo fa un po’ alla volta, passo per passo, raccontando ciò che scopre lei stessa osservandosi. Etty ci ha lasciato un diario e una raccolta di lettere. Tutto concentrato nell’arco di tre anni, tra il 1941 e il ’43. Il primo è diventato un caso, non solo editoriale (centocinquantamila copie vendute e studi, tesi, rilanci continui). Le seconde sono appena uscite nella versione integrale, per Adelphi, a completare la lettura di un’esistenza piena come poche.
Esther “Etty” Hillesum nasce a Middelburg, sul mare del Nord, in una famiglia borghese. Padre preside di liceo, madre russa e di carattere vulcanico, due fratelli di intelligenza brillante quanto la sua (Mischa sarà uno dei pianisti più promettenti d’Europa, Jaap a 17 anni si trova la strada spianata verso la carriera di medico per aver scoperto una nuova proteina), Etty si laurea prima in Giurisprudenza, poi in Lingue slave. Studia anche psicologia, ma per imboccare una strada è già tardi: i Lager stanno aprendo i cancelli, l’Olocausto è iniziato. Etty vorrebbe fare la scrittrice, lo ripete spesso agli amici e a se stessa. Non sa che, di fatto, lo è già.

Contro-dramma
In quel diario, scritto nella stessa città e nello stesso periodo di Anna Frank, c’è molto più di trame e romanzi. C’è un percorso umano potentissimo, un cammino di allargamento della ragione e dei sensi e del cuore, incontro dopo incontro, sofferenza dopo sofferenza. Qualcosa che le permette, negli anni in cui tutta l’Europa vive la tragedia, di «scrivere un contro-dramma», come dice Jan Gert Gaarlandt, il curatore del diario. Lo fa con una lucidità e una forza d’animo - non uno sforzo: proprio una consapevolezza sempre più netta di come stanno davvero le cose - che interrogano. Da dove arriva questa forza?
La prima risposta sta in un cuore inquieto. Molto. Un cuore che le fa amare Rilke e Agostino, Leonardo e Dostoevskji. Che le fa dire di continuo e in mille modi «voglio qualcosa e non so cosa». E che si spalanca quando incontra l’uomo che le segnerà la vita. Si chiama Julius Spier, ha il doppio dei suoi anni, ha studiato con Jung ed è il padre della «psicochirologia»: analisi e terapia della persona partendo dalle linee della mano. Può far sorridere; di certo, Spier ha un carisma e una profondità fuori dalla norma. E un ascendente forte su quella ragazza, di cui diventerà l’amante (non l’unico): «Mi ha preso per mano e mi ha detto: ecco, devi vivere così», scrive nel diario, probabilmente iniziato proprio su input di Spier. In quelle pagine, lui sarà presente di continuo. Ma avrà soprattutto un merito: «Sulla mia persona ha svolto una grande opera: ha dissotterrato Dio dentro me e lo ha portato alla vita. E adesso sarò io a continuare, scavando alla ricerca di Dio nel cuore di tutti gli uomini che incontrerò».
Una compagnia e una strada. Strane entrambe, accidentate, come è la vita, ma reali. Legandosi a Spier e ai suoi amici, e restando tenacemente attaccata all’esperienza («è l’unica realtà che non si possa annullare con le discussioni: le immagini possono venire insudiciate e distrutte»), Etty attraversa i dubbi che affiorano dall’anima e dalla tragedia intorno: «Paura di vivere su tutta la linea. Cedimento completo. Mancanza di fiducia. Repulsione», sintetizza in una riga il 10 novembre 1941. Ci sono, e torneranno. Ma non sono un ostacolo: sono passi di un cammino.
Etty lo percorre usando tutta se stessa, svelando in azione una ragione “larga” che sarebbe piaciuta a Benedetto XVI (non a caso il Pontefice emerito l’ha citata nell’ultima Udienza da Papa, a febbraio scorso): dice che occorre «pensare con il cuore» perché «forse possediamo altri organi oltre la ragione» e sono questi che ci permettono di affrontare e capire - cioè abbracciare - cose che non avremmo creduto possibili. E vede tutto il compito che una sensibilità del genere le affida: «Lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca», scrive. Non è presunzione: è la certezza che solo un cuore che pensa e vede e ama può reggere alla follia della guerra e della Shoa: per sé, e per gli altri.

Il pozzo
Un po’ alla volta, le sue pagine diventano una preghiera, un dialogo continuo con Dio («prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza»), uno scavo in quel «pozzo molto profondo dentro di me. E Dio c’è in quel pozzo. Talvolta mi riesce di raggiungerlo, più spesso pietra e sabbia lo coprono: allora Dio è sepolto. Bisogna proprio che lo dissotterri». Ogni giorno svela una ricerca accanita dell’essenziale. Trasforma il modo in cui Etty guarda a tutto e si lega a tutto. «“Sono così attaccata a questa vita”. Cosa vuoi dire con “vita”. La vita comoda che fai adesso? Si vedrà se sei veramente attaccata alla vita nuda e semplice, in qualunque forma essa si presenti». Comincia a cercare ciò che serve davvero per vivere. Anche aspettando il Lager.
Fa impressione vedere il fiore che sboccia da questa fede sempre più reale, personale. È un distacco che ti fa possedere le cose, conoscerle davvero: «Si deve essere capaci di vivere senza libri e senza niente. Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera». È un’apertura sempre più grande alla realtà: «Se si comincia ad accettare, non si deve accettare tutto, allora?». E ancora: «A un certo punto non si può più fare, ma soltanto essere e accettare». È un amore gratuito a quello che c’è perché c’è, non perché può o dovrebbe essere nostro. C’è una pagina bellissima in cui descrive questa scoperta, raccontando di una passeggiata al tramonto. «Una volta, se mi piaceva un fiore, avrei voluto premermelo sul cuore, o addirittura mangiarmelo (provavo un desiderio troppo fisico per le cose che mi piacevano, le volevo avere)... Ma quella sera, solo pochi giorni fa, ho reagito diversamente. Ho accettato con gioia la bellezza di questo mondo di Dio, malgrado tutto. Ho goduto altrettanto intensamente di quel paesaggio tacito, ma in modo per così dire “oggettivo”. Non volevo più possederlo».

Umiliazione 
In termini cristiani, la chiameremmo verginità. E colpisce che proprio intorno a questi passi spuntino citazioni del Vangelo di Marco («non preccupatevi del domani…») e delle lettere paoline. Ma questo atteggiamento è la sorgente e insieme l’espressione di una libertà interiore sempre più potente, che le fa dare giudizi accorati su quello che vede intorno («per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia, e colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, l’umiliazione evapora nell’aria») senza sfuggirlo, anzi.
Etty non resta fuori dall’inferno, ad osservare: ci entra. Nel luglio del 1942 trova un lavoro da dattilografa al Consiglio Ebraico, l’organismo che fa da intermediario tra i tedeschi e la comunità ebraica: media, tutela, tratta. Ma di fatto gestisce il flusso degli ebrei che vengono raccolti nel campo di Westerbork, da dove ogni martedì partono i treni per Auschwitz.Saranno più di centomila a transitare da qui per finire nella camere a gas: Etty sceglie di andarci e di restarci. Anche quando si presenta la possibilità di nascondersi, o gli amici le propongono un finto rapimento. In quel campo, assiste i malati e le famiglie, organizza l’arrivo dei pacchi di alimenti e fa compagnia ai bambini. Si spende, tutta. Ma intanto si spinge sempre più verso l’orlo del baratro, in qualche modo volontariamente. Liberamente.

«Devo partire» 
C’è molto di Westerbork nelle sue pagine. Descrizioni che aprono spaccati su grandezze e miserie di chi vive aspettando la morte: le baracche, l’attesa, le lotte per i timbri che possono regalarti un’altra settimana di vita, la preoccupazione per i genitori e i fratelli. Ci sono brani che tolgono il fiato («Una ragazzina mi chiama. È seduta sul suo letto, con gli occhi spalancati. Ha i polsi sottili, il faccino magro e diafano. È parzialmente paralizzata, aveva appena ricominciato a camminare. “Hai sentito? Devo partire”, sussurra: “Che peccato, eh? Pensare che quanto hai imparato nella tua vita è stata fatica sprecata”»). C’è molta ironia, anche. Come quando le dicono che deve partire pure lei e poi no, che «è stato un errore»: «È un po’ strana questa espressione: “un errore”, come se non lo fosse per tutti gli altri...».
Ma c’è anche uno sguardo vero sugli aguzzini. A cercarne ogni angolo di umanità, anche il più nascosto. È uno sguardo puro, privo di odio: «So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più facile e a buon mercato?». E poi: «Questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse agli abitanti di Corinto». È l’“inno alla carità”.
È in questo «strano stato di addolorata contentezza» che si fa spazio una necessità misteriosa e immensa: aiutare Dio. Non solo perdonarlo per il male assurdo che vediamo accadere («il fatto è che si ha tanto amore in sé da riuscire a perdonare Dio», scrive nell’agosto 1942), ma proprio servirlo, collaborare alla Sua opera misteriosa: «Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutarlo». Non è una bestemmia: è il desiderio che l’uomo resti uomo, che non smarrisca se stesso nella tragedia. E solo se non recide il legame può esserlo. Etty vuole che non si smarrisca Lui, per salvare se stessa e gli altri: «Partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri».

Il balsamo
L’approdo, alla fine, è questo: una gratuità diventata totale, senza condizioni. Un amore radicale per l’altro, che sgorga dall’essere arrivata al fondo di sé («quando prego, non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri... Se si prega per qualcuno, gli si manda un po’ della propria forza»). In fondo è questa la nota che colpisce leggendola. Perché sale, è un crescendo continuo. L’ultima frase del diario racconta tutto, in otto parole: «Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite».
Ecco, Etty Hillesum ha vissuto in questo modo. «Una vita bella, proprio così!», racconta da quel campo di attesa. Perché «la gratitudine sarà sempre più grande del dolore». Fino a scrivere, negli ultimi giorni: «Il cielo è pieno di uccelli (...) il sole splende sulla mia faccia, e sotto i nostri occhi avviene una strage, è tutto così incomprensibile. Io sto bene».
L’ordine di partire arriva la sera prima. Su quel treno salgono Etty, i genitori e il fratello Mischa. L’ultima parola che le sentono dire è un «ciaoooo» allegro, gridato dal vagone numero 12 in partenza da Westerbork. «Siamo andati cantando». Era vero.
http://www.tracce.it/?id=329&id_n=38866
Alcune pagine dal Diario
[pp. 32 - 35]
Domenica, le undici. [ ... ] L’ordine gerarchico all’interno della mia vita è un po’ cambiato. ‘Una volta’ preferivo cominciare a stomaco vuoto con Dostoevskij o con Hegel, e a tempo perso, quand’ero nervosa, mi capitava anche di rammendare una calza, se proprio non si poteva fare altrimenti. Ora comincio con la calza, nel senso più letterale della parola, e poi pian piano, passando attraverso le altre incombenze quotidiane, salgo verso la cima, dove ritrovo i poeti e i pensatori. Dovrò ancora sbarazzarmi faticosamente di queste espressioni patetiche se vorrò mai fare una figura decente, però credo che si tratti soprattutto di pigrizia nel cercare le parole giuste.
Le dodici e mezzo, dopo la passeggiata che è già diventata una bella tradizione. Martedì mattina, studiando Lermontov, scrivevo che dietro la sua testa spuntava sempre quella di S., che avrei voluto rivolgermi a quel caro viso, parlargli e accarezzarlo, che così non riuscivo a lavorare. È passato molto tempo
da allora, è già tutto un po’ diverso. Il suo volto c’è ancora, mentre lavoro, ma non mi distrae più, è diventato come un paesaggio amato e familiare che sta sullo sfondo, i suoi tratti sono sfumati, non vedo più un volto preciso - s’è dissolto in atmosfera, spirito, o altro che sia. E con ciò ho toccato un punto importante. Una volta, se mi piaceva un fiore, avrei voluto premermelo sul cuore, o addirittura mangiarmelo. La cosa era più difficile quando si trattava di un paesaggio intero, ma il sentimento era identico.
Ero troppo sensuale, vorrei quasi dire troppo ‘possessiva’: provavo un desiderio troppo fisico per le cose
che mi piacevano, le volevo avere. È per questo che sentivo sempre quel doloroso insaziabile desiderio,
quella nostalgia per un qualcosa che mi appariva irraggiungibile, nostalgia che chiamavo allora «impulso creativo». Credo che fossero queste forti emozioni a farmi pensare di esser nata per fare l’artista.
Ora, d’un tratto, non è più così, anche se non so dire per quale processo interiore. Me ne sono appena resa conto stamattina, ripensando a una piccola passeggiata intorno all’Ijsclub qualche sera fa. Era il crepuscolo: tenere sfumature nel cielo, misteriose sagome delle case, gli alberi vivi col trasparente intreccio dei loro rami, in una parola era un incanto. 
Mi ricordo benissimo di come sentivo ‘una volta’: trovavo tutto talmente bello che mi faceva male al cuore. Allora la bellezza mi faceva soffrire e non sapevo che farmene di quel dolore. Allora sentivo il bisogno di scrivere o di far poesie, ma le parole non mi volevano mai venire. E mi sentivo terribilmente infelice. In fondo io mi ubriacavo di un paesaggio simile, e poi mi ritrovavo del tutto esaurita. Mi costava un’enorme quantità di energie.  Ora chiamerei questo comportamento «onanismo». Ma quella sera, solo pochi giorni fa, ho reagito diversamente. Ho accettato con gioia la bellezza di questo mondo di Dio, malgrado tutto. Ho goduto altrettanto intensamente di quel paesaggio tacito e misterioso nel crepuscolo, ma in modo per così dire ‘oggettivo’. Non volevo più ‘possederlo’. Sono tornata a casa rinvigorita, al mio lavoro. E quel paesaggio è rimasto presente sullo sfondo come un abito che rivesta la mia anima - tanto per dirla con paroloni -, ma non m’impacciava più, non era più ‘onanismo’. E così è con S., come del resto con tutti. Anche la crisi di quel pomeriggio, quand’ero rimasta seduta a fissarlo tutta rigida e incapace di aprir bocca, era probabilmente dovuta a un atteggiamento ‘possessivo’. Mi aveva raccontato varie cose della sua vita personale: della moglie da cui è separato ma con cui è rimasto in corrispondenza, dell’amica con cui vuol sposarsi ma che si trova a Londra - «è sola e soffre» -, e poi ancora di un’altra amica che aveva avuto una volta, una bellissima cantante con cui pure è rimasto in corrispondenza. Più tardi, mentre facevamo di nuovo la lotta, io avevo sentito la suggestione del suo grosso corpo attraente. E poi, quando mi ero seduta di nuovo di fronte a lui ed ero ammutolita, forse avevo avuto la stessa reazione di quando attraverso un paesaggio che mi tocca l’anima. Lo volevo ‘possedere’. Volevo che S. fosse anche mio. Per quanto io non lo desideri come uomo - non mi ha ancora veramente colpita, sessualmente parlando, anche se sento sempre quella tensione in sottofondo -, S. mi ha toccata nel profondo del mio essere, e questo è ancora più importante. E così lo volevo avere in un modo o nell’altro, provavo odio o gelosia per tutte le donne di cui mi aveva raccontato e forse mi chiedevo, sia pur inconsciamente, se sarebbe rimasto qualcosa per me e me lo sentivo sfuggire. Erano sentimenti piuttosto meschini, non certo elevati, ma me ne rendo conto soltanto ora. In quel momento io mi sentivo infelicissima e sola, cosa che adesso capisco benissimo, avrei voluto andar via e mettermi a scrivere. Credo di capire anche questo. È un altro modo di ‘possedere’, di attirare le cose a sé con parole e immagini. L'impulso che mi spingeva a scrivere dev’essere stato soprattutto il desiderio di nascondermi agli altri con tutti i tesori che avevo accumulato, - di annotare ogni cosa e di goderla tenendomela per me. E adesso, improvvisamente, questo atteggiamento che per ora chiamo «possessivo» è cessato. Mille catene sono state spezzate, respiro di nuovo liberamente, mi sento in forze e mi guardo intorno con occhi raggianti. E ora che non voglio più possedere nulla e che sono libera, ora possiedo tutto e la mia ricchezza interiore è immensa. S. è completamente mio adesso, anche se domani dovesse partire per la Cina: me lo sento intorno e vivo nella sua sfera, se lo rivedrò mercoledì mi farà piacere ma non sto più a contare nervosamente i giorni, come facevo la settimana passata. E non chiedo più a Han* cento volte al giorno: «Mi vuoi ancora bene?», «Mi vuoi ancora tanto bene?», «Sono proprio il tuo tesoro?». Anche questo era un modo di aggrapparsi, un aggrapparsi fisico a ciò che fisico non è. Ora vivo e respiro con la mia anima, sempre che mi sia concesso usare questo termine screditato.


*Han Wegerif


[pp. 74 - 75]
Martedì mattina, le nove e mezzo. Qualcosa mi sta succedendo e non so se si tratti di un semplice stato
d’animo o di un fatto importante. Mi sembra di reggermi di nuovo su me stessa. Sono un po’ più autonoma e indipendente. Ieri sera pedalavo per la fredda e buia Larissestraat - se solo potessi ripetere tutto quel
che ho borbottato allora:
Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo purché tu mi tenga per mano. Andrò dappertutto allora, e cercherò di non aver paura.
E dovunque mi troverò, io cercherò d’irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. Ma non devo neppure vantarmi di questo ‘amore’. Non so se lo possiedo. Non voglio essere niente di così speciale, voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente. A volte credo di desiderare l’isolamento di un chiostro. Ma dovrò realizzarmi tra gli uomini, e in questo mondo.
E lo farò, malgrado la stanchezza e il senso di ribellione che ogni tanto mi prendono. Prometto di vivere questa vita sino in fondo, di andare avanti. Certe volte mi viene da pensare che la mia vita sia appena all’inizio e che le difficoltà debbano ancora cominciare, altre volte mi sembra di aver già lottato abbastanza. Studierò e cercherò di capire, ma credo che dovrò pur lasciarmi confondere da quel che mi capita e che apparentemente mi svia: mi lascerò sempre confondere, per arrivare forse a una sempre maggior sicurezza. Fin quando non potrò più smarrirmi, e si sarà stabilito un
profondo equilibrio - un equilibrio in cui tutte le direzioni saranno sempre possibili. Non so se potrò essere un’amica per gli altri. E se non potrò esserlo perché non è nel mio carattere, bisogna che affronti anche questo. In ogni caso non devi mai illuderti. Devi aver misura. E tu sola puoi essere misura a te stessa. È come se ogni giorno io sia scaraventata in un gran crogiolo e ogni giorno io riesca a uscirne. Certe volte mi capita di pensare: la mia vita è completamente sbagliata, c’è un errore: ma questo capita solo quando ci si fa una determinata idea della vita, rispetto a cui può apparire sbagliato come realmente viviamo.



[pp. 101 - 102]
27 febbraio, venerdì mattina, le dieci. [...] Mi sembra presuntuoso affermare che un uomo possa determinare il proprio destino dall’interno. Quel che invece un uomo ha in mano è il proprio orientamento interiore verso il destino. I fatti esterni non bastano per capire la vita di una persona: bisogna conoscerne i sogni, il rapporto con la famiglia, gli stati d’animo, le delusioni, la malattia e la morte.
[...] Mercoledì mattina presto, quando con un gruppo numeroso ci siamo trovati in quel locale della Gestapo, i fatti delle nostre vite erano tutti uguali: eravamo tutti nello stesso ambiente, gli uomini dietro la scrivania come quelli che venivano interrogati. Ciò che qualificava la vita di ciascuno era l’atteggiamento interiore verso quei fatti. Si notava subito un giovane che camminava su e giù con un’espressione palesemente scontenta, assillato e tormentato. Cercava in continuazione pretesti per urlare a quei disgraziati ebrei: «Mani fuori dalle tasche per favore... », ecc. Per me era da compiangere più di coloro a cui stava urlando; e questi, a loro volta, facevano pena nella misura in cui erano impauriti. Quando mi sono presentata davanti alla scrivania, mi ha urlato improvvisamente: «Che ci trova di ridicolo?». Avrei risposto volentieri: «Niente, tranne lei», ma per diplomazia m’è parso meglio lasciar stare. «Lei ride tutto il tempo» continuava a urlare lui. E io in tutta innocenza: «Non me ne accorgo proprio, è la mia faccia normale». E lui: «Per favore non dica scemenze, vada fuori», con una faccia che voleva dire: tra poco mi sentirai. Credo che questo fosse il momento psicologico in cui avrei dovuto spaventarmi a morte, ma quel trucco l’ho capito troppo in fretta. In fondo, io non ho paura. Non per una forma di temerarietà, ma perché sono cosciente del fatto che ho sempre a che fare con degli esseri umani, e che cercherò di capire ogni espressione, di chiunque sia e fin dove mi sarà possibile. E il fatto storico di quella mattina non era che un infelice ragazzo della Gestapo si mettesse a urlare contro di me, ma che francamente io
non ne provassi sdegno - anzi, che mi facesse pena, tanto che avrei voluto chiedergli: hai avuto una giovinezza così triste, o sei stato tradito dalla tua ragazza? Aveva un’aria così tormentata e assillata, del resto
anche molto sgradevole e molle. Avrei voluto cominciare subito a curarlo, ben sapendo che questi ragazzi
sono da compiangere fintanto che non sono in grado di fare del male, ma che diventano pericolosissimi se
sono lasciati liberi di avventarsi sull’umanità. È solo il sistema che usa questo tipo di persone a essere criminale. E quando si parla di sterminare, allora che sia il male nell’uomo, non l’uomo stesso.
Un’altra cosa ancora dopo quella mattina: la mia consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l’ingiustizia che ci sono al mondo, la coscienza che tutti questi orrori non sono come un pericolo misterioso e lontano al di fuori di noi, ma che si trovano vicinissimi e nascono dentro di noi. E perciò sono molto più familiari e assai meno terrificanti. Quel che fa paura è il fatto che certi sistemi possano crescere al punto da superare gli uomini e da tenerli stretti in una morsa diabolica, gli autori come le vittime: così, grandi edifici e torri, costruiti dagli uomini con le loro mani, s’innalzano sopra di noi, ci dominano, e possono crollarci addosso e seppellirci.



[pp. 116 - 117]
Venerdì sera, le sette e mezzo. Oggi pomeriggio ho guardato alcune stampe giapponesi con Glassner. Mi sono resa conto che è così che voglio scrivere: con altrettanto spazio intorno a poche parole. Troppe parole mi danno fastidio. Vorrei scrivere parole che
siano organicamente inserite in un gran silenzio, e
non parole che esistono solo per coprirlo e disperderlo: dovrebbero accentuarlo, piuttosto. Come in quell’illustrazione con un ramo fiorito nell’angolo in basso: poche, tenere pennellate - ma che resa dei minimi dettagli - e il grande spazio tutt’intorno, non un vuoto, ma uno spazio che si potrebbe piuttosto definire ricco d’anima. Io detesto gli accumuli di parole. In fondo, ce ne vogliono così poche per dir quelle quattro cose che veramente contano nella vita. Se mai scriverò - e chissà poi che cosa? -, mi piacerebbe dipinger poche parole su uno sfondo muto. E sarà più difficile rappresentare e dare un’anima a quella quiete e a quel silenzio che trovare le parole stesse, e la cosa più importante sarà stabilire il giusto rapporto tra parole e silenzio - il silenzio in cui succedono più cose che in tutte le parole affastellate insieme. E in ogni novella, o altro che sia, lo sfondo muto dovrà avere un suo colore e un suo contenuto, come capita appunto in quelle stampe giapponesi. Non sarà un silenzio vago e inafferrabile, ma avrà i suoi contorni i suoi angoli la sua forma: e dunque le parole dovranno servire soltanto a dare al silenzio la sua forma e i suoi controni, e ciascuna di loro sarà come una piccola pietra miliare, o come un piccolo rilievo, lungo strade piane e senza fine o ai margini di vaste pianure. È buffo: potrei riempire dei volumi su come vorrei scrivere, ma può darsi benissimo che a parte le ricette io non scriverò mai nulla. Però le stampe giapponesi mi hanno fatto capire a che cosa io aspiri, e mi piacerebbe camminare un a volta attraverso paesaggi giapponesi, per capirlo ancor meglio. Del resto credo che un viaggio in Oriente lo farò, in futuro - per trovare in quei luoghi, vissute ogni giorno, quelle cose in cui qui ci si sente soli, in dissonanza.


[pp. 126 - 127]
Sabato sera, mezzanotte e mezzo. [...] Per umiliare qualcuno si dev’essere in due: colui che umilia, e
colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva
è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria. Restano solo delle disposizioni fastidiose che interferiscono nella vita di tutti i giorni, ma nessuna umiliazione e oppressione angosciose. Si deve insegnarlo agli ebrei. Stamattina pedalavo lungo lo Stadionkade e mi godevo l’ampio cielo ai margini della città, respiravo la fresca aria non razionata. Dappertutto c’erano cartelli che ci vietano le strade per la campagna. Ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci niente, non possono veramente farei niente. Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e con la millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può esser tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trova bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e «lavorare a se stessi» non è proprio una forma d’individualismo malaticcio. Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso - se ogni uomo si sarà
liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà
trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione
possibile. E cosi potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d’eternità che ci portiamo dentro
può esser espresso in una parola come in dieci volumoni. Sono una persona felice e lodo questa vita, la
lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra.



[pp. 136 - 137]
La sofferenza non è al di sotto della dignità umana. Cioè: si può soffrire in modo degno, o indegno
dell’uomo. Voglio dire: la maggior parte degli occidentali 
non capisce l’arte del dolore, e così vive ossessionata da mille paure. E la vita che vive la gente adesso non è più una vera vita, fatta com’è di paura, rassegnazione, amarezza, odio, disperazione. Dio mio, tutto questo si può capire benissimo: ma se una vita simile viene tolta, viene tolto poi molto? Si deve accettare la morte, anche quella più atroce, come parte della vita. E non viviamo ogni giorno una vita intera, e ha molta importanza se viviamo qualche giorno in più, o in meno? Io sono quotidianamente in Polonia, su quelli che si possono ben chiamare dei campi di battaglia, talvolta mi opprime una visione di questi campi diventati verdi di veleno; sono accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi, ogni giorno - ma sono anche vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la mia finestra, in una vita c’è posto per tutto. Per una fede in Dio e per una misera fine. Si deve anche avere la forza di soffrire da soli, e di non pesare sugli altri con le proprie paure e coi propri fardelli. Lo dobbiamo ancora imparare e ci si dovrebbe reciprocamente educare a ciò, se possibile con la dolcezza e altrimenti con la severità. Quando dico: in un modo o nell’altro ho chiuso i conti con la vita, non è per rassegnazione. «Tutto quel che si dice è malinteso». Se mi capita di dire una cosa del genere, viene intesa altrimenti. Non è rassegnazione, non lo è di certo. Cosa voglio dire? Forse, che ho già vissuto questa vita mille volte, e altrettante volte sono morta, e dunque non può più succedere nulla di nuovo? È un modo di esser blaséNo, è un vivere la vita mille volte minuto per minuto, e anche un lasciare spazio al dolore, spazio che non può essere piccolo, oggi. E fa poi gran differenza se in un secolo è l’Inquisizione a far soffrire gli uomini, o la guerra e i pogrom in un altro? Assurdo, come dicono loro? Il dolore ha sempre preteso il suo posto e i suoi diritti, in una forma o nell’altra. Quel che conta è il modo con cui lo si sopporta, e se si è in grado di integrarlo nella propria vita e, insieme, di accettare ugualmente la vita. Sto teorizzando dietro la mia scrivania, dove ogni libro mi circonda con la sua familiarità, e con quel gelsomino là fuori? È solo teoria, non ancora messa alla prova da nessuna pratica? Non lo credo più. Tra poco sarò messa di fronte alle estreme conseguenze. Le nostre conversazioni sono già infarcite di frasi come: spero che egli possa ancora godere di queste fragole con noi. So che Mischa, col suo corpo delicato, sta per recarsi a piedi alla Centraal Station, penso ai visini pallidi di Mirjam e Renate, alle preoccupazioni di molti, so tutto, tutto, in ogni momento; a volte devo chinare il capo sotto il gran peso che ho sulla nuca, e allora sento il bisogno di congiungere le mani, quasi in un gesto automatico, e così potrei rimaner seduta per ore - so tutto, sono in grado di sopportare tutto, sempre meglio, e insieme sono certa che la vita è bellissima, degna di essere vissuta e ricca di significato. Malgrado tutto. Il che non vuol dire che uno sia sempre nello stato d’animo più elevato e pieno di fede. Si può esser stanchi come cani dopo aver fatto una lunga camminata o una lunga coda, ma anche questo fa parte della vita, e dentro di te c’è qualcosa che non ti abbandonerà mai più.



[pp. 169 - 170]
Preghiera della domenica mattina. Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta
ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di
dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani - ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. lo non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento - invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia, Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio.



[pp. 230 - 231]
In me non c’è un poeta, in me c'è un pezzetto di Dio che potrebbe farsi poesia.
In un campo deve pur esserci un poeta, che da poeta viva anche quella vita e la sappia cantare.
Di notte, mentre ero coricata nella mia cuccetta, circondata da donne e ragazze che russavano piano,
o sognavano ad alta voce, o piangevano silenziosamente, o si giravano e rigiravano - donne e ragazze
che dicevano così spesso durante il giorno: «non vogliamo pensare», «non vogliamo sentire, altrimenti diventiamo pazze » -, a volte provavo un’infinita tenerezza, me ne stavo sveglia e lasciavo che mi passassero davanti gli avvenimenti, le fin troppe impressioni di un giorno fin troppo lungo, e pensavo:
«Su, lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca». Ora voglio esserlo un’altra volta. Vorrei essere il cuore pensante di un intero campo di concentramento. Sono coricata qui con tanta pazienza e di nuovo calma e già mi sento assai meglio; leggo le lettere di Rilke Über Gott e ogni sua parola è carica di significato per me, avrei potuto scriverle io stessa, se le avessi scritte io le avrei scritte così e
non diversamente. Mi sento anche la forza di partire, non penso più a far progetti e a correre rischi, andrà come andrà e sarà per il meglio.

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