mercoledì 22 gennaio 2014

Cosa fa riemergere dall'acqua?

Che fare quando l’acqua palmo a palmo si prende i campi, le fabbriche, le case, le macchine e a volte anche le persone? Il fiume Secchia, affluente del Po, con le piogge delle ultime settimane si è ingrossato a tal punto che domenica scorsa ha rotto gli argini pochi chilometri a nord di Modena. Una breccia di 20 metriche in poco tempo è diventata più del doppio. «È più l’acqua che esce dall’argine di quella che prosegue per il corso naturale del fiume», dicono le cronache.

Che fare? Se lo chiedeva anche un don Camillo stanco e scoraggiato dopo la piena del Po al Crocefisso che gli rispondeva: «Bisogna fare come il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi. Bisogna salvare il seme: la fede». E quel Mondo Piccolo raccontato da Guareschi non è poi così lontano (né così diverso) dalla Bassa modenese.

L’acqua si è riversata nei campi, è arrivata nelle stesse zone piegate dal terremoto di un anno e mezzo fa. Bastiglia e Albareto le città più colpite. Il fango ha invaso strade, capannoni, campi e infine le case, rendendo inutilizzabili i piani terra della abitazioni e intrappolando le persone ai piani superiori. In attesa dei soccorsi senza luce e senza possibilità di muoversi. Un metro e mezzo d’acqua è arrivato a ricoprire la piazza di Bastiglia. Per la conta dei danni non si possono fare che ipotesi, attendere che l’acqua riconceda ciò che ha sottratto.

«Sono circondato», dice Alberto. Come Noè, dopo il diluvio, le vede scorrere intorno. Fa il viticoltore, a Sorbara, e da lui l’alluvione non è arrivata. «È come stare su un’isola», dice. L’acqua si è fermata a cinquecento metri. «Non me la sento di dire che non abbiamo avuto danni solo perché abitiamo in un posto che è qualche metro più alto della pianura, l’acqua poteva seguire un altro giro e arrivare qui. Un anno e mezzo fa anche il terremoto ha colpito fino a qualche chilometro da qui». Casa sua, come nel 2012, diventa punto di ritrovo per tutti gli amici in difficoltà. Continua Alberto: «Mi chiedo cosa permetta alla gente di andare avanti. La consolazione della fede diventa qualcosa di reale. Qualcosa che è nella comunione con gli altri». In cantina, tra uno scatolone e l’altro, Alberto si ritrova davanti al messaggio che don Carrón aveva mandato per il terremoto: «Qui si vede chi siamo, dov’è la nostra consistenza. Il terremoto può essere l’occasione attraverso cui il Mistero ci fa prendere coscienza di noi stessi domandando a ciascuno di noi: vi rendete conto chi siete voi e Chi sono io?»

«Teniamo botta». Due parole che dicono bene quello che sta vivendo Marco con la sua famiglia. Sfollati un anno e mezzo fa da Mirandola dopo le scosse, trovano un’altra casa vicino a Bastiglia. Domenica gira voce che “l’acqua sta arrivando”. Rimane appena il tempo di prendere la macchina e scappare via, con l’acqua che già arriva alle ginocchia. Ospitati a Modena dalla famiglia di Cristina e Giovanni, vengono sommersi un’altra volta, questa volta di chiamate e messaggi. Amici che offrono aiuti, ospitalità, preghiere. «Siamo andati via con i soli vestiti che avevamo addosso, subito zuppi non appena abbiamo messo piede fuori casa. Viviamo una dimensione del chiedere molto concreta». Alla vista del garage allagato pieno di tutte quelle cose che erano riusciti a sottrarre dalle macerie del terremoto, Marco commenta: «È evidente che attaccarsi agli oggetti ora non è la cosa più importante».

Ma come si fa in queste condizioni? Maria Sara, figlia di Marco e Valentina, spiega: «La reazione immediata è stata quella di dire: “Non si può vivere scappando di casa”». Ma poi un’amica le scrive ricordando che Dio non chiede niente di più di quello che non possiamo sopportare. E continua: «È dalla vicinanza dei nostri amici che tra le righe di tutto questo possiamo intravedere un positivo». Salvare il seme. Attaccarsi a ciò che regge anche quando la terra trema e i fiumi straripano. Francesco Graffagnino - 
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