venerdì 31 gennaio 2014
“Non esiste libertà religiosa laddove essa non venga riconosciuta a tutti e a ciascuno.. Scola a Istanbul per incontrare il patriarca Bartolomeo I
“Siamo qui con il desiderio di compiere un ulteriore piccolo passo nel necessario cammino verso l’unificazione piena tra tutti i cristiani. Questa unità, ne siamo ben consapevoli, non può essere che il frutto sovrabbondante della grazia del Risorto. È Lui a prendere sempre l’iniziativa”. Con queste parole l’arcivescovo di Milano cardinale Angelo Scola ha salutato oggi a Istanbul al Fanar, sede del patriarcato ortodosso, il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I. L’incontro ricambia la visita di Bartolomeo a Milano, avvenuta il 14 e 15 maggio 2013 in occasione delle celebrazioni dei 1700 anni dalla firma dell’Editto di Milano, con cui l’imperatore Costantino, fondatore della città sul Bosforo, riconobbe la libertà religiosa.
“Vogliamo esprimere la nostra vicinanza e il nostro sostegno perché si ristabilisca pienamente la libertà della Chiesa nelle vostre terre” ha proseguito il cardinale Scola riferendosi alla difficile situazione dei cristiani in Turchia. “Non esiste, infatti, libertà religiosa laddove essa non venga riconosciuta a tutti e a ciascuno. Sebbene le situazioni in Oriente e in Occidente siano diverse – e differenti pertanto anche i problemi cui far fronte – l’azione a favore della piena libertà religiosa ci trova uniti in modo deciso. Un’importante mescolanza di etnie, culture e religioni caratterizza la vita quotidiana delle nostre città. I popoli e le nazioni sono pertanto chiamati a imparare e ad approfondire il bene pratico dell’essere insieme. A questo compito comune a tutta la famiglia umana le nostre Chiese possono offrire un prezioso contributo. A questo impegno in favore della libertà religiosa e della ricerca del bene comune nelle nostre società appartengono a pieno titolo le attività di collaborazione tra il Patriarcato ecumenico, le Chiese ortodosse e la Chiesa cattolica”.
Da qui l’impegno concreto annunciato a Istanbul da Scola: “In questo contesto si vuol umilmente inserire il contributo della Chiesa milanese che ha in sant’Ambrogio il suo patrono. Penso alla fattiva cooperazione nell’attenzione pastorale ai fedeli ortodossi presenti nella nostra diocesi. Mi riferisco anche al sostegno alla formazione e alla diffusione del pensiero teologico. Non mancheremo, Santità, di far incrementare tale collaborazione e aprire la nostra porta per nuove iniziative”.
Dopo questo primo incontro il cardinale Scola e Bartolomeo sono intervenuti alla presentazione del libro “Papa XVI Benedikt, Aziz Pavlus” (edizione Fondazione Internazionale Oasis) traduzione in turco di 20 catechesi che Benedetto XVI dedicò a San Paolo durante l'anno paolino 2008-2009).
L’iniziativa è stata organizzata dalla Fondazione internazionale Oasis e dalla Conferenza episcopale turca e ha visto l'intervento inoltre di monsignor Louis Pelâtre (vicario apostolico di Istanbul), Niyazi Öktem (professore di Filosofia del Diritto all’Università Dogus e Fatih di Istanbul) ed Erendiz Özbayoglu (docente emerito di Lingue e Letteratura latina all’Università di Istanbul).
“La prima preoccupazione dell’ecumenismo non è politica, accordare le voci per farsi sentire meglio, ma teologica: la ricerca dell’unità tra i cristiani scaturisce dalla fede stessa”, ha detto Scola nel suo intervento. Il cammino di unificazione piena tra tutti i cristiani “è uno scambio di doni, non la ricerca di un’alleanza strategica”, o un modo “per rivendicare meglio e con più forza alcuni diritti”, ha spiegato il Cardinale ribadendo che proprio “questa sottolineatura toglie anche ogni ombra di sospetto che i non cristiani – nel nostro caso i nostri amici musulmani – potrebbero nutrire circa lo scopo della nostra attività”.
L’incontro di questo pomeriggio è il primo appuntamento della vista del Cardinale in Turchia, che suggella le iniziative della diocesi di Milano per la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani dal 18 al 25 gennaio.
I prossimi appuntamenti del programma in Turchia saranno, sabato 1 febbraio, la vista di Scola alla Facoltà teologica sull’isola di Calchi, dom
«San Paolo, sorgente permanente d’ispirazione a cui tutti i cristiani possono continuamente attingere»
Presentazione del libro Aziz
Pavlus (San Paolo)
Istanbul,
31 gennaio 2014
+ Angelo Card. Scola
Arcivescovo di Milano
Santità,
Eccellenza,
Chiarissimi Professori,
Signore e Signori,
essere
qui questa sera insieme a voi significa per me vivere un momento di particolare
letizia poiché l’occasione mi è data dall’invito del Patriarca Bartolomeo, che
ringrazio di cuore per averci voluto onorare della sua presenza, come pure per
aver scritto la prefazione a questo libro. Questa presentazione non è infatti
un’iniziativa estemporanea, ma si situa piuttosto all’incrocio di due cammini.
Il
primo è legato alla figura dell’imperatore Costantino, il fondatore di questa
città, e al suo editto che pose fine alle persecuzioni ai danni dei cristiani e
non solo nell’impero romano. Questo accordo, che costituì un initium per la libertà religiosa, fu
sottoscritto a Milano nel 313[1].
Così, per commemorare il 1700° anniversario dell’editto, sono state
organizzate, a Milano e in altre città del mondo, una serie di iniziative. Tra di
esse, l’incontro con il Patriarca Bartolomeo il 14 maggio scorso è stato per me
il momento più atteso e più significativo, una visita
che oggi sono lieto di ricambiare.
Il secondo cammino che mi porta qui è quello della Fondazione
Oasis che ormai da 10 anni si occupa di promuovere la conoscenza tra cristiani
e musulmani nel contesto di quel processo che chiamo “meticciato di civiltà e
di culture”. Oasis è nota soprattutto per la sua rivista e la sua newsletter,
entrambe in più lingue, ma cura anche alcuni libri, tra cui traduzioni di testi
teologici o del magistero ecclesiale nelle lingue orientali. Così, dopo due
volumi editi in arabo, la Fondazione ha osato il passo di una traduzione in
turco, che si è potuta realizzare solo grazie alla generosa dedizione di
diverse persone, religiosi e laici, giovani e anziani, che hanno lavorato
insieme in questo non facile compito.
Il libro che presentiamo questa sera nasce nel contesto dell’anno
paolino, che cattolici e ortodossi hanno celebrato nel 2008-2009, e raccoglie
le catechesi che l’allora Pontefice Benedetto XVI dedicò alla figura
dell’apostolo delle genti. Il nesso con la Turchia è immediato e fisico: Paolo
nacque a Tarso e nell’odierna Turchia si è svolto il suo primo viaggio, e gran
parte del secondo e del terzo. L’anno paolino poi ha avuto impatti
significativi sulla vita in Turchia, dando tra l’altro nuovo impulso al turismo
religioso. Tante persone forse sono state indotte a domandarsi: “Ma chi è
questo Paolo, che attira così tante persone sui luoghi della sua vita? Che cosa
ha fatto?” Questo libro vuole offrire una prima risposta, a partire dalla fede
della Chiesa. Esso
non va giudicato sulla base della sua lunghezza. Porta piuttosto il segno
inconfondibile di un grande teologo, capace di condensare in poche righe il
frutto di lunghe ricerche. Perché, come si sa, è più difficile scrivere una
pagina di sintesi profonda, alla portata di tutti, che dieci pagine
specialistiche per soli addetti ai lavori.
Tuttavia, che il protagonista di questo libro sia l’apostolo Paolo
è prima di tutto provvidenziale per la dimensione ecumenica che questa scelta
porta inevitabilmente con sé. Il testo infatti ci conduce diritti al cuore
della fede mostrando una verità importante: i cristiani non si riuniscono prima
di tutto per rivendicare meglio e con più forza alcuni diritti, ma per
ringraziare il Signore per «l’incontro
con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con
ciò, la direzione decisiva»[2].
La prima preoccupazione dell’ecumenismo non è politica, accordare le voci per
farsi sentire meglio, ma teologica: la ricerca dell’unificazione tra i
cristiani scaturisce dalla fede stessa. È molto bello allora che la chiesa di
Costantinopoli e quella di Milano si siano ritrovate insieme, in occasione dei
1700 anni dall’editto, per richiamare il valore civile della libertà religiosa,
sempre da riguadagnare in particolare nella sua dimensione pubblica, ma è ancor
più bello che oggi s’incontrino attorno a quell’esperienza di fede da cui discende
anche l’attenzione per la libertà religiosa. In questo modo «l’impegno per un’unità che faciliti
l’accoglienza di Gesù Cristo smette di essere mera diplomazia o un adempimento
forzato»[3]. Questa sottolineatura
toglie anche ogni ombra di sospetto che i non cristiani – nel nostro caso i
nostri amici musulmani – potrebbero nutrire circa lo scopo della nostra
attività ecumenica. Essa è uno scambio di doni, non la ricerca di un’alleanza
strategica. Anche perché tutte le volte che l’ecumenismo tra cattolici e
ortodossi è stato impostato contro qualcuno non ha resistito alla prova del
tempo.
Se la figura di San Paolo è dunque una sorgente permanente
d’ispirazione a cui tutti i cristiani, cattolici, ortodossi ed evangelici,
possono continuamente attingere, occorre riconoscere con realismo che essa è
invece un motivo di divergenza nel rapporto con i musulmani. Molti di essi
guardano con sospetto all’operato di Saulo, non di rado accusato di un radicale
travisamento del primitivo annuncio cristiano. Occorre riconoscere con onestà
intellettuale questa divergenza, ma al tempo stesso va anche richiamata la
necessità, per un dialogo autentico, di confrontarsi con l’integralità delle
diverse esperienze religiose. Se cioè i cristiani di tutte le confessioni (più
di un miliardo di fedeli) sono concordi nel riconoscere in Paolo una figura
centrale per la loro fede, chiunque voglia conoscere il Cristianesimo dovrà
fare i conti con i suoi scritti. Un esempio può aiutare a ben capire quello che
intendo dire. Come cristiani avvertiamo una particolare sintonia con la
letteratura mistica islamica, che valorizza il rapporto personale con un Dio
vicino e, in qualche misura, accessibile perché amante. Leggiamo con profitto
diversi passi dei Mathnawi di Mevlana Rumi[4]
o alcune poesie di al-Hallaj[5].
Ma se dicessimo che l’Islam è solo Rumi e al-Hallaj, dimenticando il contributo
degli uomini di Legge e degli studiosi degli Hadith, finiremmo per
formarci un quadro deformato della religione islamica e di quello che i
musulmani abitualmente credono. In altre parole, per un dialogo culturale
serio, non posso scegliere alcuni autori con cui mi trovo in sintonia,
dimenticandone volutamente altri per me più problematici, ma devo cercare di
formarmi una visione globale del fenomeno che indago, eventualmente utilizzando
gli autori più prossimi alla mia sensibilità come una porta per accedere a
quelli più remoti. Così, in modo speculare, se voglio capire il Cristianesimo,
non posso fare a meno di Paolo. E non posso fare a meno di lui neppure se
voglio capire la filosofia occidentale, la storia occidentale, l’arte
occidentale o addirittura la sua politica. Come ricorda la Evangelii Gaudium,
«per sostenere il dialogo con l’Islam è
indispensabile la formazione adeguata degli interlocutori, non solo perché
siano solidamente e gioiosamente radicati nella loro identità, ma perché siano
capaci di riconoscere i valori degli altri»[6].
Solo in questo modo potremo dare un contributo effettivo al dialogo tra le
culture oggi così urgente.
Paolo rappresenta una sfida particolare. Innamorato delle
tradizioni dei Padri, pronto a difenderle con la vita, ma anche a perseguitare
chi, a suo modo di vedere, le metteva in pericolo. Chiunque sminuisca la
serietà dell’impegno di Saulo alla scuola di Gamaliele non comprende la ricerca
del Volto di Dio attraverso la sequela della Legge e la sottomissione a essa,
che è una delle esperienze più radicali per la coscienza religiosa dell’uomo di
ogni tempo. Ma proprio per questo sorge più forte la domanda: che cosa ha
incontrato Paolo di così potente da portarlo a superare questa prospettiva,
lanciandosi a capofitto in un’attività missionaria senza confini, che è stata
decisiva per aprire la Chiesa alla dimensione universale? È una domanda che
merita di essere indagata.
C’è poi – credo – un terzo motivo d’interesse specifico per
l’Islam. Dal punto di vista storico infatti, Paolo è stato il primo grande
teorizzatore della distinzione tra lettera e spirito di un testo sacro. Per lui
il significato esteriore è insuperabile (non è infatti uno gnostico), ma
richiede allo stesso tempo di essere vivificato da un’esperienza interiore, perché «la lettera uccide, lo Spirito invece dà
vita» (2Cor 3,6). Com’è noto, una coppia analoga di concetti è stata
sviluppata anche dall’esegesi islamica del Corano e secondo molti pensatori
musulmani contemporanei, essa è fondamentale per poter coniugare fino in fondo
l’Islam con la modernità. Sono idee spesso ripetute, ma di rado approfondite
come meriterebbero. Penso perciò che un confronto serio con la coppia paolina
di lettera e spirito potrebbe essere molto utile per il dibattito in corso
nell’Islam, in modo particolare in un Paese come la Turchia dove la ricerca
scientifica, anche in campo teologico, è molto avanzata.
Con
queste brevi notazioni, spero di avervi comunicato le ragioni che hanno
condotto a questa iniziativa. Essa è un primo, timido passo. Ci auguriamo che
altri possano seguire. Occasione d’incontro ecumenico e momento di dialogo culturale,
questo libro schiude davanti a noi un ampio cammino, che domandiamo a Dio di
poter percorrere con gioia e fiducia, insieme a tutti quelli che lo vorranno.
Grazie.
Papa Francesco: se perdiamo il senso di Dio, il peggiore dei peccati ci appare una piccolezza
Quando viene meno la presenza di Dio tra gli uomini, “si perde il senso del peccato” e così può accadere di far pagare ad altri il prezzo della nostra “mediocrità cristiana”. Lo ha affermato oggi Papa Francesco all’omelia della Messa mattutina in Casa Santa Marta. Chiediamo a Dio, ha esortato il Papa, la grazia che in noi non diminuisca mai la presenza “del suo Regno”.
http://www.youtube.com/watch?v=Ob0yJc2oy0w
Un peccato grave, come ad esempio l’adulterio, derubricato a “problema da risolvere”. La scelta che compie il re Davide, narrata nella prima Lettura di oggi, diventa lo specchio davanti al quale Papa Francesco pone la coscienza di ogni cristiano. Davide si invaghisce di Betsabea, moglie di Uria, un suo generale, gliela prende e spedisce il marito in prima linea in battaglia, causandone la morte e di fatto perpetrando un assassinio. Eppure, adulterio e omicidio non lo scuotono più di tanto. “Davide si trova davanti a un grosso peccato, ma lui non lo sente peccato”, osserva il Papa. “Non gli viene in mente di chiedere perdono. Quello che gli viene in mente è: ‘Come risolvo questo?’”:
“A tutti noi può accadere questa cosa. Tutti siamo peccatori e tutti siamo tentati e la tentazione è il pane nostro di ogni giorno. Se qualcuno di noi dicesse: ‘Ma io mai ho avuto tentazioni’, o sei un cherubino o sei un po’ scemo, no? Si capisce… E’ normale nella vita la lotta e il diavolo non sta tranquillo, lui vuole la sua vittoria. Ma il problema – il problema più grave in questo brano – non è tanto la tentazione e il peccato contro il nono comandamento, ma è come agisce Davide. E Davide qui non parla di peccato, parla di un problema che deve risolvere. Questo è un segno! Quando il Regno di Dio viene meno, quando il Regno di Dio diminuisce, uno dei segni è che si perde il senso del peccato”.
Ogni giorno, recitando il “Padre Nostro”, noi chiediamo a Dio “Venga il Tuo Regno…”, il che – spiega Papa Francesco – vuol dire “cresca il Tuo Regno”. Quando invece si perde il senso del peccato, si perde anche “il senso del Regno di Dio” e al suo posto – sottolinea il Papa – emerge una “visione antropologica superpotente”, quella per cui “io posso tutto”:
“La potenza dell’uomo al posto della gloria di Dio! Questo è il pane di ogni giorno. Per questo la preghiera di tutti i giorni a Dio ‘Venga il tuo Regno, cresca il tuo Regno’, perché la salvezza non verrà dalle nostre furbizie, dalle nostre astuzie, dalla nostra intelligenza nel fare gli affari. La salvezza verrà dalla grazia di Dio e dall’allenamento quotidiano che noi facciamo di questa grazia nella vita cristiana”.
“Ilpiù grande peccato di oggi
è che gli uomini hanno perduto il senso del peccato”. Papa Francesco cita questa celebre frase di Pio XII e poi sposta lo sguardo su Uria, l’uomo incolpevole mandato a morte per la colpa del suo re. Uria, dice il Papa, diventa allora l’emblema di tutte le vittime della nostra inconfessata superbia:
“Io vi confesso, quando vedo queste ingiustizie, questa superbia umana, anche quando vedo il pericolo che a me stesso avvenga questo, il pericolo di perdere il senso del peccato, mi fa bene pensare ai tanti Uria della storia, ai tanti Uria che anche oggi soffrono la nostra mediocrità cristiana, quando noi perdiamo il senso del peccato, quando noi lasciamo che il Regno di Dio cada… Questi sono i martiri dei nostri peccati non riconosciuti. Ci farà bene oggi pregare per noi, perché il Signore ci dia sempre la grazia di non perdere il senso del peccato, perché il Regno non cali in noi. Anche portare un fiore spirituale alla tomba di questi Uria contemporanei, che pagano il conto del banchetto dei sicuri, di quei cristiani che si sentono sicuri”.
Un peccato grave, come ad esempio l’adulterio, derubricato a “problema da risolvere”. La scelta che compie il re Davide, narrata nella prima Lettura di oggi, diventa lo specchio davanti al quale Papa Francesco pone la coscienza di ogni cristiano. Davide si invaghisce di Betsabea, moglie di Uria, un suo generale, gliela prende e spedisce il marito in prima linea in battaglia, causandone la morte e di fatto perpetrando un assassinio. Eppure, adulterio e omicidio non lo scuotono più di tanto. “Davide si trova davanti a un grosso peccato, ma lui non lo sente peccato”, osserva il Papa. “Non gli viene in mente di chiedere perdono. Quello che gli viene in mente è: ‘Come risolvo questo?’”:
“A tutti noi può accadere questa cosa. Tutti siamo peccatori e tutti siamo tentati e la tentazione è il pane nostro di ogni giorno. Se qualcuno di noi dicesse: ‘Ma io mai ho avuto tentazioni’, o sei un cherubino o sei un po’ scemo, no? Si capisce… E’ normale nella vita la lotta e il diavolo non sta tranquillo, lui vuole la sua vittoria. Ma il problema – il problema più grave in questo brano – non è tanto la tentazione e il peccato contro il nono comandamento, ma è come agisce Davide. E Davide qui non parla di peccato, parla di un problema che deve risolvere. Questo è un segno! Quando il Regno di Dio viene meno, quando il Regno di Dio diminuisce, uno dei segni è che si perde il senso del peccato”.
Ogni giorno, recitando il “Padre Nostro”, noi chiediamo a Dio “Venga il Tuo Regno…”, il che – spiega Papa Francesco – vuol dire “cresca il Tuo Regno”. Quando invece si perde il senso del peccato, si perde anche “il senso del Regno di Dio” e al suo posto – sottolinea il Papa – emerge una “visione antropologica superpotente”, quella per cui “io posso tutto”:
“La potenza dell’uomo al posto della gloria di Dio! Questo è il pane di ogni giorno. Per questo la preghiera di tutti i giorni a Dio ‘Venga il tuo Regno, cresca il tuo Regno’, perché la salvezza non verrà dalle nostre furbizie, dalle nostre astuzie, dalla nostra intelligenza nel fare gli affari. La salvezza verrà dalla grazia di Dio e dall’allenamento quotidiano che noi facciamo di questa grazia nella vita cristiana”.
“Ilpiù grande peccato di oggi
è che gli uomini hanno perduto il senso del peccato”. Papa Francesco cita questa celebre frase di Pio XII e poi sposta lo sguardo su Uria, l’uomo incolpevole mandato a morte per la colpa del suo re. Uria, dice il Papa, diventa allora l’emblema di tutte le vittime della nostra inconfessata superbia:
“Io vi confesso, quando vedo queste ingiustizie, questa superbia umana, anche quando vedo il pericolo che a me stesso avvenga questo, il pericolo di perdere il senso del peccato, mi fa bene pensare ai tanti Uria della storia, ai tanti Uria che anche oggi soffrono la nostra mediocrità cristiana, quando noi perdiamo il senso del peccato, quando noi lasciamo che il Regno di Dio cada… Questi sono i martiri dei nostri peccati non riconosciuti. Ci farà bene oggi pregare per noi, perché il Signore ci dia sempre la grazia di non perdere il senso del peccato, perché il Regno non cali in noi. Anche portare un fiore spirituale alla tomba di questi Uria contemporanei, che pagano il conto del banchetto dei sicuri, di quei cristiani che si sentono sicuri”.
giovedì 30 gennaio 2014
PERDIAMO L’ITALIA
Nessuno ne parla. Ma la vera emergenza nazionale non è la legge elettorale (ridate le preferenze ai cittadini e un premio di maggioranza se occorre per governare, il resto è fuffa), ma la perdita dell'Italia come identità.
Non si intende qui la identità nazionalista e moraleggiante di chi ha scambiato la italiana per una razza pura, quando è una delle più bastarde comparse nella storia. E nemmeno di una identità retorica fondata su cose forse valide ieri ma oggi superate.
Il problema riguarda invece che cosa collabora alla formazione della identità attuale di chi nasce in Italia (opporsi allo ius soli, già lo dicemmo qui, significa solo procrastinare un problema). Che cosa offre l'Italia alle nuove generazioni? Essere una Germania mal riuscita? Una impossibile Danimarca? Dei copioni degli USA? Una parte di Un'Europa che in fondo non piace quasi nessuno?
O cosa abbiamo da passare? Credo che la nostra natura ed eredità sia d essere un luogo mistico e popolare. Ovvero bello di infinito rapporto col mistero e capace di forza popolare. Fuori da questo l’Italia non esiste. Ma chi ci sta lavorando? Chi la tramanda?
Non si intende qui la identità nazionalista e moraleggiante di chi ha scambiato la italiana per una razza pura, quando è una delle più bastarde comparse nella storia. E nemmeno di una identità retorica fondata su cose forse valide ieri ma oggi superate.
Il problema riguarda invece che cosa collabora alla formazione della identità attuale di chi nasce in Italia (opporsi allo ius soli, già lo dicemmo qui, significa solo procrastinare un problema). Che cosa offre l'Italia alle nuove generazioni? Essere una Germania mal riuscita? Una impossibile Danimarca? Dei copioni degli USA? Una parte di Un'Europa che in fondo non piace quasi nessuno?
O cosa abbiamo da passare? Credo che la nostra natura ed eredità sia d essere un luogo mistico e popolare. Ovvero bello di infinito rapporto col mistero e capace di forza popolare. Fuori da questo l’Italia non esiste. Ma chi ci sta lavorando? Chi la tramanda?
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AFORISMA DI GIOVEDÌ 30 GENNAIO 2014
“La violenza è l’arma più debole; la non-violenza quello più forte.”
Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatma
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Kaliméra di Ermanno Olmi: "Cara Chiesa, non dirmi come devo pensare, non impormi i dogmi".
Salvete!
Don Carlo
Kaliméra di Ermanno Olmi: "Cara Chiesa, non dirmi come devo pensare, non impormi i dogmi".
Salvete!
Don Carlo
Un seminarista scrive al Papa: lui lo riceve e lo confessa
Un giovane brasiliano ha ricevuto la chiamata di Bergoglio sul cellulare: “Vieni a trovarmi a Santa Marta”
Anche papa Francesco sembra ormai consapevole del fatto che le sue telefonate fanno il giro del mondo ma non rinuncia a chiamare chi gli scrive e invia messaggi suscitando sorpresa e commozione nei destinatari delle sue telefonate `pastorali´. Questa volta è capitato a Gleison de Paula Souza, un brasiliano della Congregazione di Don Orione, che non solo è stato chiamato da Bergoglio già il giorno seguente al ricevimento di un suo biglietto ma è stato anche invitato a Santa Marta dal Papa che lo ha poi confessato. Occasione in cui Francesco ha anche esaltato figure di santi e religiosi piemontesi, terra d'origine della sua famiglia: «Il Cottolengo è un'opera bella, la vostra vocazione è bella, dentro quella cornice di santi Piemontesi dell'Ottocento, un laicismo feroce, anticlericalismo feroce, massoneria feroce e poi viene fuori don Bosco, Cafasso, don Orione, il Cottolengo, e anche le donne, tante donne sante».
La storia la racconta lo stesso giovane seminarista. «Ho scritto - spiega - una lettera al Papa Francesco e l'ho data ad un'amica affinché gliela consegnasse personalmente. L'ha fatto durante la sua visita del 19 gennaio alla Parrocchia del Sacro Cuore di Gesù. Mi ha poi detto che il Papa l'ha messa nella sua tasca». «Lunedì 20 - continua - stavo studiando. Alle 15.56, squilla il mio cellulare. Era un numero privato. Rispondo. Una voce ripete più volte: `È Gleison? È Gleison? Parlo con Gleison?´. Rispondo `Si´, Santo Padre, sono Gleison'. Prosegue: `Vedo che riconosci la mia voce. La mia voce è ormai troppo conosciuta".
Con il Papa Gleison ha parlato di quanto aveva scritto nella lettera riguardo al suo cammino vocazionale ed è stato da lui incoraggiato. Poi Francesco gli ha detto: «Vieni a trovarmi». Gleison ha tentato a sua volta di invitare il Papa a visitare la comunità del Teologico. Bergoglio ha risposto che non sapeva se era possibile anche se stando la comunità a Monte Mario, non distante dal Vaticano, era «un po' più facile» e che glielo avrebbe fatto sapere dopo qualche giorno. Giovedì 23 il Papa ha quindi richiamato e invitato il giovane ad andare a Santa Marta, dove Gleison si è recato con due confratelli. Lunedì 27, alle 16.15, con il direttore Don Carlo Marin e il padre spirituale Don Giacomo Defrancesco, si è dunque presentato all'ingresso del Vaticano e a Santa Marta, dopo un'attesa di soli 5 minuti, è comparso lo stesso Papa ad aprire la porta. «Scherza con noi - riferisce Gleison - perché dall'emozione non sapevamo ove sederci e lui dice: `È meglio guardare in faccia i nemici´, e si mette a sorridere. Ci ha sorpreso la sua veste bianca con tre bottoni con la stoffa sfilacciata, segno della sua povertà e semplicità».
Il Papa ha quindi parlato della Congregazione, dicendo di conoscerla bene e ha ricordato che a Buenos Aires, faceva fare un'esperienza di volontariato al Cottolengo di Claypole di circa 15 giorni ai novizi gesuiti.
Alla fine Gleison si è intrattenuto da solo col Pontefice circa 35 minuti e il Papa lo ha confessato come da lui richiesto. «Lui non mi ha dato risposte - fa sapere -, ma mi ha lasciato libertà di riflettere dicendo che è con me». Il Papa, conclude, «ci ha evangelizzato non con parole ma con la sua presenza accogliente, la sua semplicità, i suoi gesti e la sua tenerezza». http://vaticaninsider.lastampa.it/
Il Papa all’Università Notre Dame: non diluire identità cattolica
Stamani il Papa ha ricevuto una Delegazione della “University of Notre Dame”, dello stato americano dell’Indiana. “Cari Amici – ha detto - sono lieto di salutare il Consiglio Direttivo dell’Università Notre Dame in occasione del vostro incontro a Roma, che coincide con l’inaugurazione del Centro Universitario di Roma. Sono fiducioso che il nuovo Centro contribuirà alla missione dell’Università, mettendo in contatto gli studenti con l’unicità delle ricchezze storiche, culturali e spirituali della Città Eterna, e aprendo le loro menti e i loro cuori alla mirabile continuità tra la fede dei santi Pietro e Paolo, quella dei confessori e martiri di ogni epoca, e la fede cattolica trasmessa loro nelle famiglie, nelle scuole e nelle parrocchie. Fin dalla sua fondazione, l’Università Notre Dame ha dato un notevole contributo alla Chiesa nel vostro Paese, con il suo impegno nell’educazione religiosa dei giovani e nell’insegnamento di un sapere ispirato dalla fiducia nell’armonia tra fede e ragione nel perseguimento della verità e della rettitudine. Consapevole della speciale importanza dell’apostolato per la nuova evangelizzazione, desidero esprimere la mia gratitudine per l’impegno che l’Università Notre Dame ha mostrato nel corso degli anni, aiutando e rafforzando l’insegnamento cattolico nella scuola elementare e secondaria negli Stati Uniti”.
Il Papa ha sottolineato che “l’ispirazione che ha guidato Padre Edward Sorin e i primi religiosi della Congregazione della Santa Croce nell’istituire l’Università Notre Dame du Lac rimane centrale, nelle mutate circostanze del secolo XXI, per l’identità che contraddistingue l’Università e il suo servizio alla Chiesa e alla società americana. Nell’Esortazione apostolica sulla gioia del Vangelo ho sottolineato la dimensione missionaria del discepolato cristiano, che ha bisogno di rendersi evidente nella vita delle persone e nel lavoro di ciascuna istituzione ecclesiale. Questo coinvolgimento in un “discepolato missionario” dovrebbe essere percepito in un modo del tutto speciale nelle università cattoliche (cfr Evangelii gaudium, 132-134), che, per loro stessa natura, sono impegnate a mostrare l’armonia tra fede e ragione e a mettere in evidenza la rilevanza del messaggio cristiano per una vita umana vissuta in pienezza ed autenticità. A tale riguardo, è essenziale una coraggiosa testimonianza delle università cattoliche nei confronti dell’insegnamento morale della Chiesa e della difesa della libertà di sostenere tali insegnamenti, in quanto proclamati con autorità dal magistero dei Pastori, precisamente nelle e attraverso le istituzioni formative della Chiesa. Auspico che l’Università Notre Dame continui ad offrire la sua indispensabile ed inequivocabile testimonianza a questo aspetto della sua fondamentale identità cattolica, specialmente di fronte ai tentativi, da qualsiasi parte essi provengano, di diluirla. E questo è importante: l’identità propria, come è stata voluta dall’inizio. Difenderla, conservarla, farla andare avanti!”.
Quindi, ha concluso: “Cari amici, vi chiedo di pregare per me, affinché io adempia il ministero che ho ricevuto al servizio del Vangelo, e vi assicuro le mie preghiere per voi e per tutti coloro che svolgono la loro missione educativa nell’Università Notre Dame. Su di voi e sulle vostre famiglie, e in modo particolare sugli studenti, i docenti e il personale di questa amata Università, invoco i doni divini di sapienza, gioia e pace, e cordialmente imparto la mia Apostolica Benedizione”.
Il Papa ha sottolineato che “l’ispirazione che ha guidato Padre Edward Sorin e i primi religiosi della Congregazione della Santa Croce nell’istituire l’Università Notre Dame du Lac rimane centrale, nelle mutate circostanze del secolo XXI, per l’identità che contraddistingue l’Università e il suo servizio alla Chiesa e alla società americana. Nell’Esortazione apostolica sulla gioia del Vangelo ho sottolineato la dimensione missionaria del discepolato cristiano, che ha bisogno di rendersi evidente nella vita delle persone e nel lavoro di ciascuna istituzione ecclesiale. Questo coinvolgimento in un “discepolato missionario” dovrebbe essere percepito in un modo del tutto speciale nelle università cattoliche (cfr Evangelii gaudium, 132-134), che, per loro stessa natura, sono impegnate a mostrare l’armonia tra fede e ragione e a mettere in evidenza la rilevanza del messaggio cristiano per una vita umana vissuta in pienezza ed autenticità. A tale riguardo, è essenziale una coraggiosa testimonianza delle università cattoliche nei confronti dell’insegnamento morale della Chiesa e della difesa della libertà di sostenere tali insegnamenti, in quanto proclamati con autorità dal magistero dei Pastori, precisamente nelle e attraverso le istituzioni formative della Chiesa. Auspico che l’Università Notre Dame continui ad offrire la sua indispensabile ed inequivocabile testimonianza a questo aspetto della sua fondamentale identità cattolica, specialmente di fronte ai tentativi, da qualsiasi parte essi provengano, di diluirla. E questo è importante: l’identità propria, come è stata voluta dall’inizio. Difenderla, conservarla, farla andare avanti!”.
Quindi, ha concluso: “Cari amici, vi chiedo di pregare per me, affinché io adempia il ministero che ho ricevuto al servizio del Vangelo, e vi assicuro le mie preghiere per voi e per tutti coloro che svolgono la loro missione educativa nell’Università Notre Dame. Su di voi e sulle vostre famiglie, e in modo particolare sugli studenti, i docenti e il personale di questa amata Università, invoco i doni divini di sapienza, gioia e pace, e cordialmente imparto la mia Apostolica Benedizione”.
Testo proveniente dalla pagina http://it.radiovaticana.va/news/2014/01/30/il_papa_all%E2%80%99universit%C3%A0_notre_dame:_non_diluire_identit%C3%A0_cattolica/it1-768744
del sito Radio Vaticana
Papa Francesco: dicotomia assurda amare Cristo senza la Chiesa
“Non si capisce un cristiano senza Chiesa”: lo ha affermato stamani Papa Francesco durante la Messa presieduta a Santa Marta. Il Pontefice ha indicato tre pilastri del senso di appartenenza ecclesiale: l’umiltà, la fedeltà e la preghiera per la Chiesa.
L’omelia del Papa è partita dalla figura del re Davide, come viene presentata dalle letture del giorno: un uomo che parla col Signore come un figlio parla con il padre e anche se riceve un “no” alle sue richieste, lo accetta con gioia. Davide – osserva Papa Francesco – aveva “un sentimento forte di appartenenza al popolo di Dio”. E questo – ha proseguito – ci fa chiedere su quale sia il nostro senso di appartenenza alla Chiesa, il nostro sentire con la Chiesa e nella Chiesa:
“Il cristiano non è un battezzato che riceve il Battesimo e poi va avanti per la sua strada. Il primo frutto del Battesimo è farti appartenere alla Chiesa, al popolo di Dio. Non si capisce un cristiano senza Chiesa. E per questo il grande Paolo VI diceva che è una dicotomia assurda amare Cristo senza la Chiesa; ascoltare Cristo ma non la Chiesa; stare con Cristo al margine della Chiesa. Non si può. E’ una dicotomia assurda. Il messaggio evangelico noi lo riceviamo nella Chiesa e la nostra santità la facciamo nella Chiesa, la nostra strada nella Chiesa. L’altro è una fantasia o, come lui diceva, una dicotomia assurda”.
Il “sensus ecclesiae” – ha affermato - è “proprio il sentire, pensare, volere, dentro la Chiesa”. Ci sono “tre pilastri di questa appartenenza, di questo sentire con la Chiesa. Il primo è l’umiltà”, nella consapevolezza di essere “inseriti in una comunità come una grazia grande”:
“Una persona che non è umile, non può sentire con la Chiesa, sentirà quello che a lei piace, a lui piace. E’ questa umiltà che si vede in Davide: ‘Chi sono io, Signore Dio, e che cosa è la mia casa?’. Con quella coscienza che la storia di salvezza non è incominciata con me e non finirà quando io muoio. No, è tutta una storia di salvezza: io vengo, il Signore ti prende, ti fa andare avanti e poi ti chiama e la storia continua. La storia della Chiesa incominciò prima di noi e continuerà dopo di noi. Umiltà: siamo una piccola parte di un grande popolo, che va sulla strada del Signore”.
Il secondo pilastro è la fedeltà, “che va collegata all’ubbidienza”:
“Fedeltà alla Chiesa; fedeltà al suo insegnamento; fedeltà al Credo; fedeltà alla dottrina, custodire questa dottrina. Umiltà e fedeltà. Anche Paolo VI ci ricordava che noi riceviamo il messaggio del Vangelo come un dono e dobbiamo trasmetterlo come un dono, ma non come una cosa nostra: è un dono ricevuto che diamo. E in questa trasmissione essere fedeli. Perché noi abbiamo ricevuto e dobbiamo dare un Vangelo che non è nostro, che è di Gesù, e non dobbiamo – diceva Lui – diventare padroni del Vangelo, padroni della dottrina ricevuta, per utilizzarla a nostro piacere”.
Il terzo pilastro – ha detto il Papa – è un servizio particolare: “pregare per la Chiesa”. “Come va la nostra preghiera per la Chiesa? – domanda Papa Francesco - Preghiamo per la Chiesa? Nella Messa tutti i giorni, ma a casa nostra, no? Quando facciamo le nostre preghiere?”. Pregare per tutta la Chiesa, in tutte le parti del mondo. “Che il Signore –ha concluso il Papa - ci aiuti ad andare su questa strada per approfondire la nostra appartenenza alla Chiesa e il nostro sentire con la Chiesa”.
http://it.radiovaticana.va
L’omelia del Papa è partita dalla figura del re Davide, come viene presentata dalle letture del giorno: un uomo che parla col Signore come un figlio parla con il padre e anche se riceve un “no” alle sue richieste, lo accetta con gioia. Davide – osserva Papa Francesco – aveva “un sentimento forte di appartenenza al popolo di Dio”. E questo – ha proseguito – ci fa chiedere su quale sia il nostro senso di appartenenza alla Chiesa, il nostro sentire con la Chiesa e nella Chiesa:
“Il cristiano non è un battezzato che riceve il Battesimo e poi va avanti per la sua strada. Il primo frutto del Battesimo è farti appartenere alla Chiesa, al popolo di Dio. Non si capisce un cristiano senza Chiesa. E per questo il grande Paolo VI diceva che è una dicotomia assurda amare Cristo senza la Chiesa; ascoltare Cristo ma non la Chiesa; stare con Cristo al margine della Chiesa. Non si può. E’ una dicotomia assurda. Il messaggio evangelico noi lo riceviamo nella Chiesa e la nostra santità la facciamo nella Chiesa, la nostra strada nella Chiesa. L’altro è una fantasia o, come lui diceva, una dicotomia assurda”.
Il “sensus ecclesiae” – ha affermato - è “proprio il sentire, pensare, volere, dentro la Chiesa”. Ci sono “tre pilastri di questa appartenenza, di questo sentire con la Chiesa. Il primo è l’umiltà”, nella consapevolezza di essere “inseriti in una comunità come una grazia grande”:
“Una persona che non è umile, non può sentire con la Chiesa, sentirà quello che a lei piace, a lui piace. E’ questa umiltà che si vede in Davide: ‘Chi sono io, Signore Dio, e che cosa è la mia casa?’. Con quella coscienza che la storia di salvezza non è incominciata con me e non finirà quando io muoio. No, è tutta una storia di salvezza: io vengo, il Signore ti prende, ti fa andare avanti e poi ti chiama e la storia continua. La storia della Chiesa incominciò prima di noi e continuerà dopo di noi. Umiltà: siamo una piccola parte di un grande popolo, che va sulla strada del Signore”.
Il secondo pilastro è la fedeltà, “che va collegata all’ubbidienza”:
“Fedeltà alla Chiesa; fedeltà al suo insegnamento; fedeltà al Credo; fedeltà alla dottrina, custodire questa dottrina. Umiltà e fedeltà. Anche Paolo VI ci ricordava che noi riceviamo il messaggio del Vangelo come un dono e dobbiamo trasmetterlo come un dono, ma non come una cosa nostra: è un dono ricevuto che diamo. E in questa trasmissione essere fedeli. Perché noi abbiamo ricevuto e dobbiamo dare un Vangelo che non è nostro, che è di Gesù, e non dobbiamo – diceva Lui – diventare padroni del Vangelo, padroni della dottrina ricevuta, per utilizzarla a nostro piacere”.
Il terzo pilastro – ha detto il Papa – è un servizio particolare: “pregare per la Chiesa”. “Come va la nostra preghiera per la Chiesa? – domanda Papa Francesco - Preghiamo per la Chiesa? Nella Messa tutti i giorni, ma a casa nostra, no? Quando facciamo le nostre preghiere?”. Pregare per tutta la Chiesa, in tutte le parti del mondo. “Che il Signore –ha concluso il Papa - ci aiuti ad andare su questa strada per approfondire la nostra appartenenza alla Chiesa e il nostro sentire con la Chiesa”.
mercoledì 29 gennaio 2014
La Grande Bellezza è il desiderio e la risposta Nel quotidiano possiamo contemplare ciò che cerchiamo
DALLE DOMANDE DEL FILM UNO SGUARDO «SACRAMENTALE»
Ho cercato la grande bellezza», dice il protagonista dell’omonimo film, alla fine del suo percorso umano e spirituale. «E non l’ho trovata». È la constatazione rassegnata.
Rimane solo la promessa non mantenuta di un amore giovane e freschissimo. La realtà purtroppo è un grande trucco, provoca illusioni e conseguenti delusioni.
Si vive di sogni o di ricordi. Il velo di Maia copre il nulla. La prima parte del film di Paolo Sorrentino in corsa per l’Oscar è un viaggio alla ricerca di una via di uscita dal torpore esistenziale e letterario dei meandri quasi infernali delle feste romane, «i cui trenini sono i più belli perché non portano da nessuna parte», per giungere – nella seconda parte – a porre la domanda di senso a interlocutori validi perché 'spirituali': un vescovo in odore di papato e una suora austera fino a destare paura. Ma validi non si dimostrano: il primo perché carnale, la seconda perché angelica. Nessuno dei due è spirituale, nel senso di albergare la vita dello Spirito nella carne. Il vescovo alla confidenza del protagonista sulle sue inquietudini spirituali si allontana o cambia discorso parlando di carne e vino (non quelli eucaristici). La suora, soprannominata 'la Santa', invece mangia radici e dorme per terra. Proprio lei in una scena suggestiva raduna attorno a sé bellissimi uccelli di cui dice di conoscere «il nome di battesimo», e li fa volare soffiando loro sopra, nell’alba, un frammento di grande bellezza in cui il creato è l’alfabeto che Dio usa per dialogare con l’uomo. Ma la santità capace di questo – scavata in uno sguardo perso nel vuoto, in rughe profondissime ma senza la vitalità di madre Teresa, nella salita slogata e dolorosa della Scala Santa – è un modello lontanissimo per l’uomo di tutti i giorni, figuriamoci per il protagonista dandy disilluso, timidamente in cerca di un paradiso non artificiale. La narrazione cinematografica riconosce quindi la Chiesa come ultimo interlocutore e le chiede ragione della speranza (che è la grande bellezza del cristianesimo) che dice di avere. Ma il vescovo (carne senz’anima) e la Santa (anima senza carne) non hanno risposte appetibili per l’uomo del mondo che, del mondo nichilista ed edonista, ha riconosciuto 'il trucco'. L’uomini uomo del mondo chiede dove siano del mondo come lui, ma con risposte. Questa è l’assenza fragorosa che il film fa emergere. Dove sono i fedeli laici immersi nel mondo, «come l’anima nel corpo», si diceva dei primi cristiani? Chi sta nel mondo può essere solo mondano? Solo chi si allontana dal mondo non ne è inghiottito? C’è spazio per la contemplazione della bellezza nell’agone delle 24 ore? C’è spazio per ilnon plus ultra nel quotidiano? Eppure, la fede è fondata sull’incarnazione del Verbo. La carne di Dio ha attraversato in Cristo tutto il ventaglio dell’esperienza umana: il lavoro, il sudore, il fallimento, la gioia, il sorriso, il pianto, la stanchezza, la noia, il tradimento, l’amicizia... e ha reso quindi ogni vissuto umano – in unione con Cristo – un luogo di incontro con il Dio trascendente, che salva quella singola e apparentemente insignificante esperienza. Ma questo è possibile solo a chi vede Dio nell’agire quotidiano, anzi, trova nell’agire quotidiano il dialogo con Dio, altrimenti impossibile per chi ha un lavoro e una famiglia. La grande bellezza è quotidiana e a portata di mano, se reintroduciamo la contemplazione all’interno dell’azione quotidiana, se l’ininterrotto dialogo, che lo Spirito causa dentro di noi e attorno a noi, viene colto in ogni momento. Ma questo è possibile solo grazie a una vita dallo 'stile sacramentale', in cui il visibile rimanda a una pienezza di cui è ombra: «...la fede ha una struttura sacramentale. Il risveglio della fede passa per il risveglio di un nuovo senso sacramentale della vita dell’uomo e dell’esistenza cristiana, mostrando come il visibile e il materiale si aprono verso il mistero dell’eterno». Sono parole della Lumen fidei (n.40), che forse potremmo prendere sul serio. È impossibile contemplare senza vita sacramentale, perché la trasformazione è gratis data sacramentalmente solo dallo Spirito a ogni singolo uomo che la desideri mentre si muove nel mondo, con il suo lavoro, le sue bollette e il traffico. Quel tocco divino che rivela nell’agire ordinario la grande bellezza, che non è da mettere nelle cose ma è nelle cose e nelle persone, perché ce l’ha già messa Dio. Contemplativo può essere chiunque risponda a questa chiamata continua, reale, forte nella vita ordinaria: sul tram, in macchina, in cucina, a tavola. Solo nel sacramento lo sguardo, l’udito, l’olfatto, il tatto, il gusto si aprono alla grande bellezza, che quotidianamente balugina nelle 24 ore e fa nuove tutte le cose di quelle 24 ore. E si trova non solo nel silenzio di una chiesa, ma nel caricare una lavatrice e nel fare una lezione, nell’inserire dati in un computer e in una passeggiata al parco, nell’ascoltare musica e nel chiacchierare con un amico... In tutto, perché tutto è grazia e tutto è buono per chi crede. Il mondo diventa tempio, pur mantenendo l’autonomia che Dio gli ha conferito. Ma solo chi vive sacramentalmente la vita vede la vita per quello che è: frammento di una trascendenza, che dà gusto a quel frammento. Il cristiano contemplativo è il vero edonista: immerso nel mondo senza esserne sommerso. Dio è un padre che si china su un bambino e gli regala il mondo perché giochi con lui. Dio non è una dottrina astratta per pochi o una serie di leggi impossibili da rispettare. Dio è un gioco padre-figlio, un gioco impegnativo come tutti i giochi divertenti. La grande bellezza, la grandissima bellezza, è la trasfigurazione sacramentale del visibile, scovata dalla contemplazione nell’agire quotidiano, l’ancoraggio a Cristo nella giornata concreta, i cui gesti 'risorgono', i gesti tutti, e la loro grandezza non è determinata dal loro incerto successo ma dall’amore che vi scopriamo dentro e mettiamo dentro. Troppo cristianesimo triste – papa Francesco ha detto recentemente che «i cristiani tristi non credono nello Spirito Santo» – assomiglia a quelle coppie in cui l’amore dato per scontato si spegne, non viene più espresso, celebrato, festeggiato. Il mondo non è più il teatro dove l’altro si muove, ma ritorna muto e ripetitivo. Lo stile non è più luminoso e aperto, ma grigio e ripetitivo, ripiegato su di sé. Non c’è più nessuna liturgia amorosa, non c’è più segno che ricordi l’altro: nessuna foto nel portafogli o sulla scrivania, nessun piatto preferito in tavola. Solo se cerchiamo di affermare, approfondire, rendere consapevole e impegnativo l’amore di Dio, allora tutto in noi si trasforma, come un giovane che s’innamora, o come un amore che dimora nella giovinezza. Solo se i nostri sensi diventano porte aperte al dono continuo della grazia, lo Spirito potrà attraversarci e mostrarci la grande bellezza dell’ordinario. Senza questo la vita è dis-graziata, esiliata dalla grazia. Del bianco delle vesti di Cristo, nella Trasfigurazione, ci viene detto che non poteva ottenerlo nessun lavandaio. Le vesti, persino le vesti, a contatto con la carne del Verbo, diventano luce e bellezza. Persino i vestiti diventano segno di Dio, stilista impareggiabile già dell’erba del campo, figuriamoci dell’uomo che per le strade faticose del mondo brama la Grande Bellezza.
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DON GIUSSANI: Quell'accanita dipendenza dalla realtà
- L'incontro organizzato dal Centro culturale
Piergiorgio Frassati, al Teatro Valdocco.
A Torino la presentazione della biografia. Si sono confrontati Alberto Savorana e Gianni Riotta, editorialista de "La Stampa". Un libro che ci restituisce «un uomo diverso da quello che i media tratteggiano». E che indica «la sua originaria direzione»
«Recensire il libro scritto da una persona cara è sempre un grande rischio. Ho perso molti amici per questo motivo». Gianni Riotta tentò di mettere in guardia Alberto Savorana, quando, quasi un anno fa, ricevette la bozza del libro su don Luigi Giussani. Ma Savorana rispose con entusiasmo a quella provocazione: «Accetto la sfida». E ora che il testo è a disposizione di tutti, i due, amici di lunga data, hanno voluto incontrarsi, a Torino, per presentarlo pubblicamente e confrontarsi insieme con la vita di un grande uomo e testimone.
«Bisognerebbe leggerlo levandosi di dosso tutti i pregiudizi. Quelli positivi e quelli negativi», è l’invito che Riotta fa ai più aspri critici di Comunione e Liberazione come ai militanti del movimento. «Quella di Savorana è un’opera monumentale, che restituisce a tutti noi un personaggio molto diverso da quello che i media tratteggiano». Un uomo spesso travagliato, che sente la drammaticità della vita, a volte osteggiato, che rivoluziona alcune prassi consolidate nella società, come quella di portare ragazzi e ragazze in vacanza separatamente, che definisce Pier Paolo Pasolini l’unico intellettuale cattolico italiano del suo tempo. «Dal libro emerge don Giussani, non un oggetto di polemica. Si trovano descritti tanti momenti della sua vita, compresi quelli divertenti», continua Riotta: «E insieme a questo, c’è un favoloso dipinto della società italiana, uno scorcio approfondito sulla storia del nostro Paese». Ma l’aspetto più importante, secondo il giornalista de La Stampa, non è il grande valore storico e culturale che porta in sé il testo, è piuttosto il fatto che indica, con estrema precisione e fedeltà, l’originaria direzione di don Giussani: la radicalità dell’annuncio cristiano e la figura di Cristo.
«Il solo appunto che voglio fare al mio amico Alberto», ammette Riotta, «è quello di essere uno scrittore troppo vicino al movimento e a don Giussani. La vicinanza è uno svantaggio perché ci fa pensare di sapere già tutto e per questo ci rende il lavoro più difficile. Nonostante questo, Alberto è stato capace di mettersi da parte per affidarsi totalmente ai documenti e alle testimonianze». «La vicinanza non è uno svantaggio, caro Gianni», ribatte subito Savorana, «quanto più uno conosce l’oggetto di cui sta parlando, tanto più acuisce l’intelligenza, la capacità critica e rimane aperto ad accogliere tutto quello che trova. In questi cinque anni di lavoro sul libro, ho scoperto che don Giussani è molto più di quello che io ho visto con i miei occhi».
Nelle pagine del libro c’è una vita che eccede da tutte le parti, ma che è tenuta insieme da un filo sottile e tenace: la dipendenza accanita dalla realtà. «Don Giussani ama studiare, ma ad un certo punto», continua Savorana, «durante una confessione si imbatte in un ragazzo che bestemmia e, invece di fargli la predica, lo sfida: non sarebbe più bello amarlo l'Infinito piuttosto che odiarlo?». Senza paura, senza preconcetti, obbedisce a quel ragazzino e si accorge che, al paradiso della teologia, è meglio preferire il purgatorio della vita con i giovani. Inizia a fare la stessa cosa con tutti: giovani, anziani, atei e credenti. Non vuole che nessuno si perda la bellezza del cristianesimo. «Per tutta la vita», conclude l'autore della biografia, «don Giussani medita sull’esperienza dell’inizio e non smette mai di rimandare a Lui. È per questo, come ha ricordato l’allora cardinale Joseph Ratzinger al suo funerale, che possiamo considerarlo un padre»
«Bisognerebbe leggerlo levandosi di dosso tutti i pregiudizi. Quelli positivi e quelli negativi», è l’invito che Riotta fa ai più aspri critici di Comunione e Liberazione come ai militanti del movimento. «Quella di Savorana è un’opera monumentale, che restituisce a tutti noi un personaggio molto diverso da quello che i media tratteggiano». Un uomo spesso travagliato, che sente la drammaticità della vita, a volte osteggiato, che rivoluziona alcune prassi consolidate nella società, come quella di portare ragazzi e ragazze in vacanza separatamente, che definisce Pier Paolo Pasolini l’unico intellettuale cattolico italiano del suo tempo. «Dal libro emerge don Giussani, non un oggetto di polemica. Si trovano descritti tanti momenti della sua vita, compresi quelli divertenti», continua Riotta: «E insieme a questo, c’è un favoloso dipinto della società italiana, uno scorcio approfondito sulla storia del nostro Paese». Ma l’aspetto più importante, secondo il giornalista de La Stampa, non è il grande valore storico e culturale che porta in sé il testo, è piuttosto il fatto che indica, con estrema precisione e fedeltà, l’originaria direzione di don Giussani: la radicalità dell’annuncio cristiano e la figura di Cristo.
«Il solo appunto che voglio fare al mio amico Alberto», ammette Riotta, «è quello di essere uno scrittore troppo vicino al movimento e a don Giussani. La vicinanza è uno svantaggio perché ci fa pensare di sapere già tutto e per questo ci rende il lavoro più difficile. Nonostante questo, Alberto è stato capace di mettersi da parte per affidarsi totalmente ai documenti e alle testimonianze». «La vicinanza non è uno svantaggio, caro Gianni», ribatte subito Savorana, «quanto più uno conosce l’oggetto di cui sta parlando, tanto più acuisce l’intelligenza, la capacità critica e rimane aperto ad accogliere tutto quello che trova. In questi cinque anni di lavoro sul libro, ho scoperto che don Giussani è molto più di quello che io ho visto con i miei occhi».
Nelle pagine del libro c’è una vita che eccede da tutte le parti, ma che è tenuta insieme da un filo sottile e tenace: la dipendenza accanita dalla realtà. «Don Giussani ama studiare, ma ad un certo punto», continua Savorana, «durante una confessione si imbatte in un ragazzo che bestemmia e, invece di fargli la predica, lo sfida: non sarebbe più bello amarlo l'Infinito piuttosto che odiarlo?». Senza paura, senza preconcetti, obbedisce a quel ragazzino e si accorge che, al paradiso della teologia, è meglio preferire il purgatorio della vita con i giovani. Inizia a fare la stessa cosa con tutti: giovani, anziani, atei e credenti. Non vuole che nessuno si perda la bellezza del cristianesimo. «Per tutta la vita», conclude l'autore della biografia, «don Giussani medita sull’esperienza dell’inizio e non smette mai di rimandare a Lui. È per questo, come ha ricordato l’allora cardinale Joseph Ratzinger al suo funerale, che possiamo considerarlo un padre»
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Udienza generale. Il Papa: Con la Cresima è Lui che prende forma nella nostra vita
“È importante avere cura” che tutti i ragazzi ricevano la Cresima, perché è il Sacramento che permette di vivere in pienezza la vita cristiana. È quanto Papa Francesco ha raccomandato questa mattina durante la catechesi pronunciata dell’udienza generale in Piazza San Pietro. Al termine, il Papa ha chiesto ancora una volta che il lavoro, “sorgente di dignità”, sia “preoccupazione centrale” per chi gestisce la cosa pubblica.
All’udienza generale, Papa Francesco ha lanciato anche un appello contro la piaga sociale dell’usura.
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Aforisma del mercoledì
Kaliméra da un proverbio africano: "Nella foresta, quando i rami litigano (becere sceneggiate ritenute essenziali), le radici (valori sempre riemergenti) si abbracciano".
Salvete!
Don Carlo
martedì 28 gennaio 2014
Aforisma del martedì
Kaliméra di Marc-Alain Ouaknin: "Ani maamin" è uno degli inni, forse il più noto, che gli Ebrei cantavano mentre entravano nelle camere a gas, andando verso morte certa. Le parole di Anì Maamin sono tratte dagli "articoli di fede" di Mosè Maimonide, considerato il più grande filosofo ebreo di tutti i tempi: "Io credo / con fede completa / nella venuta del Messia, / e benchè tardi a venire / io credo".
I "Chassidim" di Breslav sono entrati cantando nelle camere a gas: in questo modo, nel cuore stesso dell'inferno, sono riusciti a dimostrare d'essere rimasti uomini fino alla fine, di non essersi lasciati sfigurare, nè umiliare, per non morire prima di morire.
Salvete!
Don Carlo
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“Se un uomo viene chiamato a fare lo spazzino, dovrebbe spazzare le strade come Michelangelo dipingeva, o come Beethoven componeva, o Shakespeare scriveva poesie. Dovrebbe spazzare le strade così bene che tutti gli ospiti del cielo e della terra si fermerebbero a dire che qui ha vissuto un grande spazzino che faceva bene il suo lavoro.”
Martin Luther King
Ciò che uccide il cuore
Caro Padre Aldo,
Ho potuto veder le stupende opere che Dio mediante il tuo niente ha realizzato in Paraguay. Le ho visitate tutte e mi é difficile dire quale sia la piú bella perché ognuna ha una sua caratteristica ed una funzione speciale. L’incontro con queste opere mi ha fatto nascere un sacco di domande: per esempio come puó un uomo ammalato e ignorante fare tutte queste cose? E per di piú fatte bene? Vorrei farle una domanda chissá indiscreta: dentro questa perfezione visibile a tutti qual’é la cosa che piú le preoccupa?
L’opera é di Dio e non certamente mia. Io centro come i cavoli a merenda. Non solo ma tutto ciò che il mondo e gli ecclesiastici hanno fatto per impedire o distruggere quest’opera solo Dio lo sa. Certo ho sofferto molto a 360 gradi, dentro e fuori la Chiesa. Ma tutto ciò è stato ed è bello perché riafferma che l’opera é di Dio. Perfino l’unico sacerdote che mi era amico, P. Paolino, mi é stato tolto cacciandolo via come un cane dall’intero continente perché sospettato di pedofilia ed io mi trovo qui ammalato di espondiliti iperostosante dismetabolica, quasi impotente nel muovermi. Allora capisci che solo Dio, la sua Divina Provvidenza, puó creare, sostenere, accompagnare queste opere e pagare gli stipendi a 180 collaboratori che amano queste meraviglie di Dio.
Mentre la cosa che piu mi preoccupa é il rischio del cinismo e della buracrazia che possiamo vivere senza renderci conto se non ci fossero delle Presenze autentiche fra noi:
1. Il cinismo, l’indifferenza, l’abituarsi a tutto, come Hitler o come Stroessner, che trattavano come “cose” gli esseri umani di razza non ariana o con idee differenti, motivo per cui realizzarono le barbarie che tutti conosciamo. É lo stesso che succede molte volte tra di noi: che una madre perda un figlio, a chi puó interessare? Chi questa domenica ha versato una lacrima quando ho celebrato la messa per un bambino di dieci anni? Dove siamo quando si celebra un matrimonio, un battesimo, o qualcosa di grande nella vita dei nostri colleghi o pazienti? Neppure ci rendiamo conto, mentre il pettegolezzo riguardo a tante altre cose corre di bocca in bocca. É terribile verificare che a volte non siamo al corrente di chi arriva per la prima volta, di chi esce, o ancora peggio, di chi muore. Chi sente davvero il dolore di coloro che soffrono fra di noi e nella clínica? Chi ha chiamato Nancy o Silvia per domandargli come stanno? Il primo giorno dell’anno, alle 14.30 suonarono al campanello della mia porta, con fatica riuscí ad aprirla e incontrai la nonna di tre ragazze della casita. La signora parla solo guaraní, viene da un paesino lontano dalla capitale. Era arrivata il giorno prima per festeggiare il capodanno e desiderava fermarsi con le sue nipotine qualche ora in piú ma la responsabile della casita le aveva detto che l’orario di visita era giá terminato. Quindi come sempre, venirono a chiedere a Padre Aldo. Lui vedendola in lacrime le diede un foglietto con scritto: “Per favore, che si fermi fino alle 18.00”. Quando la responsabile mi chiamó per chiedermi spiegazioni le chiesi: ”Secondo te, che cosa avrebbe fatto Gesú?”. E tutto finí lí. Dio mio, siamo o non siamo come Stroessner? Ovviamente piccoli Stroessner, piccoli come i pidocchi, peró il pidocchi di Stroessner. Amici, meglio morire squartati che morire nell’indifferenza, nel cinismo. La clínica, o é un luogo dove si vive con drammaticitá, o é meglio chiuderla. Ció significa che se uno arrivando nella clinica, dal primo momento fino all’ultimo minuto che rimane, non vibra con questa drammaticitá, é meglio che se ne vada e io stesso lo aiuto a trovarsi un altro lavoro. Gli indifferenti sono quelli che distruggono questa opera di Dio. Per favore, i perfezionisti se ne vadano e rimangano solo quelli che vivono drammaticamente la vita. Io sono figlio di don Giussani e non di Chiara Lubich né di Escrivá de Balanguer, o altri, tutti grandi santi, peró a me mi ha afferrato il carisma di Giussani. Il vivere con drammaticitá ogni istante, drammaticitá che é frutto dell’incontro con Cristo, cosí come lo incontró Giussani e me lo comunicó. La Clinica é un opera d’arte, meravigliosa, perfetta, condotta come poche nel mondo. Peró dov’é la drammaticitá della nostra vita, questa vibrazione dell’essere? Nella Clinica per grazia di Dio ci sono alcune imperfezioni tecniche, peró l’umano vibra, salta di gioia come il piccolo Giovanni Battista nel ventre di sua madre quando questa si incontró con la Vergine e ascoltó la sua voce?
2. La burocrazia: “Le analisi portano alla paralisi”. Amici, una cosa é vera? Non si discute!
Eventualmente ti aiuteró a capirla con infinita pazienza. Noi non discutevamo mai con Giussani perché quello che diceva era cosí vero che l’unica domanda che nasceva era: come posso vivere quello che lui ci sta dicendo? Gli chiedevamo che ci aiutasse a immedesimarci con le ragioni che muovevano la sua vita e niente di piu. C’era una corrispondenza impresionante tra quello che ci diceva e quello che il nostro cuore desiderava. Ricordo che quando lo ascoltavo – non importava in che parte del mondo fossi- volevo tornare subito alla vita quotidiana per mettere all’opera quello che lui svegliava nel mio cuore. Per lui la burocrazia era il demonio, perché era la modalitá che gli impediva di vedere la veritá. É quello che succede con il políticamente corretto, con i protocolli, con chi non prende mai una decisione e continua a dire: “Vedremo… OK” peró non succede mai niente. Persone che ci fanno morire di infarto perché sembrano mummie: non ridono, non piangono, non sono né caste né prostitute, sono inumane. Nella clínica abbiamo alcuni esempi di burocrazia, di legalismo del cuore che si nutre nella cultura positivista, oggi dominante. Mentre l’unica legge é il “Giá, adesso”, “Si, Si” “No, No” come dice Gesú, perché il resto viene dal demonio. Un esempio di questa burocracia é quello che é successo alla piccola Margarita. L’infermiera, che aveva fretta perché il segnatore della puntualitá diceva che il suo turno era giá finito, scrisse nel rapporto per le colleghe che entravano: “Mettere la flebo…” In questo modo la bambina é rimasta dieci ore senza prendere acqua dopo aver vomitato varie volte. Chi é il colpevole? Lo Spirito santo o Padre Aldo. Ovviamente, invece di prendere misure riguardo a tutto ció, una delle responsabili dell’infermeria disse: “Vedremo…” e nient’altro. O la responsabile medica: “Faremo un mansionario per le infermiere”. O quello che é successo con il caso di Daniel, con l’inutile pretesa medica di intervenire in una massa tumorale della bocca, mettendo a rischio la sua stessa vita. Grazie a Dio un’infermiera e uno studente di Medicina si opposero ai medici e la questione tornó a buon fine. Personalmente non sopporto questo modo di stare di fronte alle cose. Alla nuova Direttrice Medica la dottoressa Leda Ruiz Diaz ho chiesto únicamente una cosa: rispondere “Giá“ alla richiesta del personale e di ogni paziente, perché “Nell’esperienza di un grande amore tutto diventa avvenimento in quell’ambito” affermava Romano Guardini. Inoltre quante volte guardando gli avvisi nella formazione settimanale richiamo alla fedeltá, peró chi ha la responsabilitá: “Ok, Padre, verificheremo”. Se non arriva il macete di Padre Aldo non succede niente o solamente si afferma “Faremo un rapporto”. Cosí i mesi passano senza che niente succeda.
Come lavoro settimanale quotidiano chiedo a tutto il personale di cercare nei Vangeli il modo in cui Gesú esercitava la medicina e con cui si curvava sul dolore umano. “Arrivava la notte (Gesú non sapeva del cartellino da timbrare) stanco di curare” affermava il Santo Vangelo.
Infine vi auguro quello che ci ripeteva Giussani: “Non siate mai tranquilli”. Ai tranquilli Dio non li sopporta e al diavolo danno fastidio.
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