sabato 2 novembre 2013

Il “miracolo” di Francesca, una morte che genera vita Così la fede ha trasfigurato la malattia. «Io non ho paura

 I n una società in cui la mor­te è argomento tabù perché non si riconosce più il signi­ficato della vita, accadono fatti che si portano dentro un carico di umanità così forte che è suf­ficiente guardarli per “capire”. Bisogna solo lasciarsi colpire dalla testimonianza che ne sgor­ga. Basta guardare, basta ascol­tare. È tutta da guardare, è tutta da ascoltare la storia di Francesca Pedrazzini, che ha attraversato il mare di una malattia senza scam­po con la certezza che Dio conti­nuava a starle accanto. E viven­do così fino all’ultimo respiro, ha lasciato un segno incancellabile nel cuore di tante persone che l’hanno accompagnata nel suo calvario.
  Una bella famiglia, la sua. Inse­gnante di diritto in una scuola superiore di Milano, sposata con Vincenzo, avvocato, tre figli, grintosa e appassionata sul la­voro e con gli amici, un amore speciale per il mare della Grecia. Una vita costellata di superlati­vi assoluti. Tutto “issimo”: la piz­za buonissima, la persona in­contrata simpaticissima, e che spesso diventava amicissima. Cercava la felicità ovunque, e se in una cosa ne percepiva an­che solo un barlume, quella co­sa diventata “issima”.
  Un giorno di febbraio del 2011, mentre si toglie il maglione, av­verte un fastidio al seno. Un so­spetto, poi la visita ginecologica, gli esami, la scoperta di un pic­colo tumore, l’intervento chi­rurgico, i medici che rassicura­no - «complimenti, è guarita, tutto a posto». E invece dopo qualche mese il male rispunta, i marker tumorali sono alti, «è ar­rivato dappertutto, ossa e fega­to », si sfoga con un’amica. Fran­cesca va col marito a confidarsi con l’amico Claudio al mona­stero benedettino della Casci­nazza, alle porte di Milano. Un dialogo essenziale. «Noi pre­ghiamo per la tua guarigione – le
 dice il monaco – ma sappi che se non ci sarà questo miracolo, ce ne sarà uno ancora più grande». Comincia un calvario fatto di ra­dio e chemioterapia, ricoveri e periodi trascorsi a casa tra letto e divano, cortisone, gonfiori, complicazioni, le ossa che si fan­no cristallo. Gli amici, tantissi­mi, si stringono a lei e alla famiglia. In una mail scrive a Clara: «Sono so­praffatta dalla ca­rità di tutti verso di me e quindi dall’abbraccio di Gesù. Lo sai che si girano un file-ex­cel con i turni mattino-pranzo­pomeriggio- sera? È incredibile, continua a chia­marmi gente che vuole venire a trovarmi». «Sopraffatta». Lo dice anche quando viene a sapere che il giro degli amici si è allar­gato al punto che c’è gente che prega e chiede la grazia della guarigione in America, Russia, Libano, Taiwan. Ad Anna, un’al­tra amica, confida che «la mise­ricordia di Dio è grande, perché non passa giorno in cui non mi tiri fuori dalla disperazione. C’è sempre una persona, una te­lefonata, qualcosa che leggo che non permette alla tristezza di avere il sopravvento».
  Si fa più intenso, più vero, il suo cammino nel movimento di Co­munione e liberazione che ave­va incontrato da ragazza e le a­veva letteralmente riempito l’e­sistenza, aiutandola a ricono­scere la presenza del Mistero in ogni circostanza. Una frase di Julián Carrón, il sacerdote spa­gnolo che guida Cl e al quale racconta della malattia, le resta nel cuore: «Vedi Francesca, tut­ti noi siamo malati cronici. Ma tu hai un’occasione in più per la tua maturazione, che non
 puoi perdere».
  Anche quando il male si fa più aggressivo, Francesca vuole gu­stare la vita fino in fondo. A fine luglio 2012 l’ultima vacanza a Cefalonia, in Grecia: «Voleva guardare il mare, avere davanti una bellezza – ricorda il marito –. La notte prima di partire l’ha passata sveglia, sul terrazzo. C’e­ra quella vista pazzesca, con la luna riflessa nell’acqua».
  Pochi giorni dopo è di nuovo in ospedale, a Milano, dove ri­marrà fino alla morte. Il 22 ago­sto niente visite, vuole dedicare tutto il giorno ai suoi bambini: Cecilia, 9 anni, Carlo 6, Sofia 3. Chiacchiere, scherzi, indovinel­li, qualche lacrima. A Cecilia, che si infila nel suo letto, dice: «Vado in un posto bellissimo, so­no contenta e curiosa. Mi rac­comando, quando vado in Para­diso dovete fare una bella festa». Vincenzo, guardando oggi i suoi bambini, commenta: «Sono se­reni, pieni di vita. La nostalgia c’è, ma non è un ostacolo. Mia moglie quel giorno ha fatto per loro più di quello che una madre può fare in cinquant’anni di a­more
 e educazione». In ospeda­le sono stupiti dallo spettacolo di tanti amici attorno a quel let­to, a parlare, ridere, piangere, pregare. Un medico dice alla madre di Francesca: «Una fede come quella di sua figlia non l’ho mai vista. Mi sarebbe pia­ciuto conoscerla un po’ di più. Le dica che quando sarà in Pa­radiso si ricordi dell’ultimo me­dico che l’ha curata». Il 23 ago­sto entra in coma, il tempo si fa breve. Vincenzo le dà un bacio e sussurra all’orecchio: «Non ave­re paura». Lei si riprende, apre gli occhi e dice a voce alta: «Io non ho paura».
  Sono le sue ultime parole. E so­no diventate il titolo di un libro scritto da Davide Perillo (edi­zioni San Paolo), che raccoglie decine di commoventi testimo­nianze e sta vendendo migliaia di copie. La vicenda di France­sca ha segnato il cuore di molti, ha favorito il riavvicinamento al­la fede di qualcuno, ha lasciato a bocca aperta il taxista che ac­compagnava una delle sue ami­che al funerale: «Che aria di fe­sta, credevo fosse un matrimo­nio ». Piccoli e grandi miracoli quotidiani che continuano ad accadere. Il monaco benedetti­no che Francesca aveva incon­trato dopo avere saputo del tu­more, le aveva detto: «Preghia­mo per la tua guarigione, ma sappi che se non ci sarà questo miracolo, ce ne sarà uno anco­ra più grande». È andata proprio 
così.  GIORGIO PAOLUCCI

Nessun commento: