Solo l’incontro con un grande amore salva e cambia la vita. È stato così per me da parte del Servo di Dio monsignor Luigi Giussani ed è quello che mi succede ogni giorno incontrando tante persone che mi scrivono o vengono qui a visitarmi o fanno parte della mia grande famiglia. Ma l’amore è un uomo, un uomo che duemila anni fa affermò di essere Figlio di Dio. E quest’uomo continua ad essere nell’abbraccio, nella carezza, nella compagnia di chi Lui ha scelto per manifestarsi in ogni uomo. Quando molti anni fa insegnavo in un liceo, ero solito ripetere con molta passione che il segno dell’amore di Dio in una classe era evidente nel fatto che tra 20 o 25 ragazzi Dio aveva scelto alcuni di loro per essere il segno della Sua Presenza.
Ed era per me una commozione quando nelle assemblee perfino i peggiori “nemici” chiedevano: ma chi siete voi, nostri compagni di banco, per vivere in modo completamente differente da noi? La stessa domanda che ogni classe di persone continua a pormi dopo 42 anni di sacerdozio e 24 di missione in Paraguay. Qui incontro tutti: poveri della strada, bambini, bambine distrutte, malati terminali di Aids o di cancro, persone di altre confessioni cristiane, giornalisti, politici, ministri, fino al presidente della Repubblica. Tutti si avvicinano con la stessa domanda degli anni nei quali stavo al liceo di Feltre, Belluno. Saranno cambiati i tempi, ma la curiosità dell’uomo davanti ad una provocazione vera è tuttavia sempre la stessa. E la provocazione non è una coerenza di vita ma uno sguardo pieno di compassione come quella di Gesù con Zaccheo, la samaritana, Matteo, l’adultera. È l’amore, la tenerezza che rompe il cuore di pietra e muove la persona a confrontarsi con lo sguardo di Gesù vivo negli occhi di un peccatore innamorato di Gesù. Il mondo è affamato di Cristo. Cioè di una carezza autenticamente umana, di un abbraccio capace di comunicare il senso, il gusto della vita.
Alcuni giorni fa è morta di cancro Carola, una bella ragazza di 20 anni. È morta quasi all’improvviso, con grande sorpresa di tutti. Non potrò dimenticare mai l’abbraccio di sua mamma appoggiata con la testa sulla mia spalla. In quel momento ho sentito la presenza di Gesù che mi chiedeva di comunicarle tutta la sua tenerezza, come segno della tenerezza divina nella quale la figlia stava già vivendo. Finché i suoi singhiozzi si sono calmati, lasciando il posto ad una profonda pace. È la stessa cosa che succede con i miei bambini che quando mi vedono da lontano cominciano a gridare il mio nome, correndomi incontro e gettandosi tra le mie braccia o aggrappandosi a me. L’altro giorno una bimba voleva abbracciarmi e, istintivamente, per quell’inumano clima di terrore creato dalla questione della pedofilia, mi sono tirato indietro. La bimba mi ha chiesto, triste: «Papà, perché non lasci che ti abbracci?».
Mi ha causato un forte dolore e anche, sinceramente, una grande rabbia verso chi crea questo clima di violenza per il quale non posso permettermi neanche di amare questi bambini a cui nessuno ha mai voluto bene nella vita e che hanno bisogno di tanto amore. Nei giorni scorsi, in compagnia dell’avvocato della Fondazione, sono dovuto comparire davanti al Tribunale dei minori perché una donna pazza, alla quale abbiamo proibito di portarsi a casa tre bambini, denunciò alla procura la casetta di Betlemme per abusi sessuali. Una cosa assurda, una vergogna che non mi preoccupa personalmente, sono abituato a questo genere di vendetta. Una persecuzione normale per chi si occupa di raccogliere, amare, educare questi bambini abbandonati. Ma niente e nessuno mi potrà impedire di andare avanti, vivendo la posizione di Gesù verso i più piccoli. La testimonianza che segue è quella di un giovane che vive con noi nella fattoria “Padre Pio.” È la storia di un immenso dolore e di un piccolo gesto di amore che gli ha salvato la vita.
paldo.trento@gmail.com
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Il mio nome è Julio Santiago Fernandez Ramirez. Sono nato a Caaguazú il 6 luglio del 1985 e sono figlio unico. Non sono riuscito a finire la scuola perché soffrivo di epilessia. Per anni mio padre e mia madre hanno badato molto a me, dato che la mia malattia è incurabile. Prendevo medicine per cercare di avere meno convulsioni, perché le avevo molto spesso. Poi a 16 anni ho conosciuto una ragazza, Juanita, di 15 anni, anche lei della mia città. Nel 2004, quando avevo 19 anni, mio padre è morto di ictus ed è stato un colpo molto duro. Dopo la sua morte ho iniziato a bere alcolici e ho smesso di prendere le medicine. Mia madre e la mia fidanzata mi dicevano di smettere ma io non gli davo retta.
Ho cercato di imparare un mestiere per costruirmi un futuro, ma per colpa della malattia avevo poche possibilità di lavorare. A 22 anni ho sposato Juanita con rito civile anche se mia madre mi consigliava di aspettare. Mio zio è venuto dall’Argentina per portarci a vivere là. Ci siamo rimasti per 5 mesi, ma mia madre non stava bene e infatti a maggio, tre giorni prima del suo compleanno, è morta improvvisamente. Prima di morire le avevo promesso che avrei ripreso a prendere la mia medicina. Mio zio mi aiutò molto a superare questa perdita tanto grande, la più dolorosa della mia vita. Sono tornato in Paraguay molto scioccato insieme a mia moglie, anche lei mi è stata molto vicina. Siamo venuti a Caaguazú, nella casa che aveva comprato mia madre. Abbiamo messo su un negozietto che mia moglie si occupava di gestire quando io dovevo andare a lavorare fuori. Lei era incinta e diede alla luce un bambino che abbiamo chiamato Keanu Gerardo Fernandez Ramos. Dopo alcuni mesi mi accorsi che mia moglie si comportava in modo strano.
Al principio pensavo che fosse arrabbiata con me perché continuavo a bere, ogni fine settimana con un vicino di nome Fazio e in più non prendevo le medicine. Finché un giorno mia moglie non mi disse la verità: amava Fazio. Quando l’ho saputo ho preso una fune, l’ho fissata a un albero e me la sono messa intorno al collo. Mi sono buttato e poco dopo ho visto una persona vestita di bianco e poi mia moglie insieme al mio vicino che mi hanno salvato. Lei allora mi ha detto: «Grazie a Fazio sei vivo!». Le ho chiesto perché non mi avesse lasciato morire. Poco dopo questo fatto lei è tornata a casa dei suoi genitori e io ho deciso di tornare in Argentina. Sono partito senza conoscere nessuno nel posto in cui andavo. Sono rimasto in una piazza per quindici giorni senza mangiare né bere niente.
Una casa e ancora il vagabondaggioUn giorno una persona mi ha chiesto di dove fossi. «Sono del Paraguay», ho risposto. Era paraguaiano anche lui e mi ha offerto ospitalità a casa sua per alcuni mesi. Ho cercato di lavorare, ma il guadagno era minimo e così sono tornato in Paraguay, nella città di Capiatá, all’indirizzo che mi aveva dato l’amico con cui ero vissuto in Argentina. I primi giorni sono stati molto difficili perché non conoscevo nessuno e nemmeno il posto. Ancora una volta mi sono ritrovato in una piazza e poi mi sono giocato le possibilità di alloggio che avevo trovato. Soprattutto, non potevo lavorare molto per via della mia malattia. Eppure riuscivo a rimediare qualcosa per guadagnare denaro e ubriacarmi. Fino a che un giorno il miscuglio della mia medicina e dell’alcol mi hanno quasi ammazzato. In quel momento ho preso la decisione di smettere di bere e così ho fatto.
È già da un anno e mezzo che ho smesso di bere e ho ripreso le medicine. Per fortuna ho trovato delle persone che mi aiutavano quando terminavo la medicina, ma riconosco che comunque non mi curavo come avrei dovuto. Poi nel 2012 mi viene detto che dovevo lasciare la casa in cui vivevo perché i proprietari dovevano affittarla. Mi sembrava uno scherzo. Invece dopo due anni mi hanno buttato fuori per davvero. Per fortuna nel quartiere viveva una signora chiamata Rufina che di solito mi aiutava dandomi da mangiare e a volte anche dei soldi. Grazie a lei e a molte altre persone ho continuato a vivere. Grazie a Rufina, in particolare, sono arrivato alla Fondazione San Rafael, a padre Aldo e a tutte le persone che ci lavorano.
Grazie a loro posso continuare il mio trattamento in modo adeguato e avere una casa dove vivere. Rendo grazie a Dio e alla Vergine, ai miei genitori che mi proteggono. Sono arrivato alla Fattoria Padre Pio e qui sono rinato, ho incominciato una vita nuova e mi sento molto felice perché ho finalmente trovato persone che mi vogliono veramente bene. Qui viviamo come persone normali, abbiamo i nostri lavori giornalieri, come una famiglia. C’è un’altra cosa che voglio dire: qui vive una persona molto speciale. Mi cura e mi consiglia quando ho qualche problema e mi aiuta molto. Quella signora è Ña Nilda e io la ringrazio moltissimo. Sono già 8 mesi che sto vivendo nella fattoria e mi sento molto felice. Ringrazio padre Aldo Trento per avermi ricevuto quando ero già perso, anche la Fondazione San Rafael per offrirmi tutto quello di cui ho bisogno per curarmi, le medicine e altre cose. Di tutto cuo-re dico loro molte grazie e chiedo a Dio e alla Vergine che abbiano cura delle loro vite.
Julio
Julio
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