I FIGLI DA SPERARE E DA ACCOGLIERE di MARINA CORRADI
A guardarla attraverso le cronache e i telegiornali, questa Italia sembra logora e stanca. Nella ripetitività di scandali e accuse, e nel tenace mantenimento di vecchi coriacei interessi. Nel cinismo di chi non si fida più di nessuno, e nella amarezza di un 'bene comune' che sembra essersi eclissato dal nostro cielo. Le cifre della disoccupazione e della produttività sconfortano, e l’uscita dalla crisi è sempre qualche mese più in là. Ma nemmeno questo forse è il problema di fondo; piuttosto, lo è una inespressa domanda: abbiamo ancora voglia, crediamo ancora di voler vivere insieme e qui?
Intanto, i ragazzi dai curricula eccellenti partono; e quelli che ragionevolmente non credono di poter confidare in un futuro migliore si affidano alla sorte, al gratta-e-vinci che si paga la mattina assieme al caffè. Ci vorrebbe un nuovo inizio, qualcosa da cui poter ricominciare. Ma che cosa? Ogni promessa sembra, in questo orizzonte grigio, usurata. Per questo una frase del messaggio della Cei per la Giornata della vita del 2 febbraio prossimo merita di essere sottolineata: «Si tratta – dice il messaggio – di accogliere con stupore la vita, il mistero che la abita, la sua forza sorgiva, come realtà che sorregge tutte le altre, che è data e si impone da sé e pertanto non può essere soggetta all’arbitrio dell’uomo».
Qualcosa di elementare: accogliere con stupore la vita, la sua forza sorgiva. In questi tempi amari e avari, ricominciare dal fidarsi, e dall’accogliere chi bussa alla porta. Migliaia di figli che ogni anno vengono respinti più duramente di profughi e migranti alle frontiere. Di tutti, loro, i più «clandestini». Accogliere: perfino quelli che nemmeno si affacciano, ma restano sospesi nei pensieri e nei sogni (le giovani coppie, stando alle indagini, dicono di volere – nella curiosa lingua delle statistiche – 2,2 figli, e ne avranno invece solo 1,3). Perché certo, assurdo sarebbe un altro bambino proprio adesso, e perdere, la madre, quel posto di lavoro precario per una gravidanza. Per questo la ventata di coraggio, la folata di bella follia che si intravede in quella frase dovrebbe contagiare imprenditori, banche, datori di lavoro, insomma tutti quei soggetti collettivi e invisibili che sprangano la porta, quando un nuovo figlio presenta la sua muta domanda d’asilo. Pensate se, nella crisi di questa Italia, si osasse ricominciare da quello che già è o che potrebbe essere, se tante madri, e padri, non fossero lasciati soli. Se per dire che questo Paese vuole vivere, e continuare la sua storia, ci si voltasse insieme verso quel principio intimidito o negato, e lo si lasciasse passare con la sua forza, e col suo mistero.
A chi scrive accade, incrociando fuori da una cattedrale o da un museo delle scolaresche di bambini vocianti, di pensare per un istante, un istante soltanto, a quelli che avrebbero la loro età, e non ci sono; ai respinti senza appello e senza un nome, che pure nel loro primo inizio erano assolutamente uguali a questi, vivi. E oggi ancora, e domani mattina, di nuovo migliaia di donne sceglieranno. Molte di quelle che dicono di no, oggi, sono immigrate, o senza lavoro, e abortiscono per ragioni economiche. Pensate quanti figli verrebbero da un collettivo 'sì', da un fidarsi comunque, dal riconoscere con stupore e accogliere la vita che bussa – piano, come un mendicante. Il «miracolo del cominciamento » lo chiamava la filosofa Hannah Arendt. Il «miracolo del cominciamento», disse, è ciò che preserva il mondo. Che lo crea e lo rinnova, e lo rifà.
In fondo, i modi per tradurre concretamente questo favore alla vita si potrebbero trovare, e ancora prima questo favore si potrebbe dire, rappresentare mediaticamente. Nessuna eco del 'dare figli alla Patria' del Ventennio; invece, un aprire le porte, un abbraccio ai nostri invisibili clandestini. Una accoglienza, invece della cultura dello scarto di cui parla il Papa («Un popolo che non si prende cura degli anziani e dei bambini e dei giovani non ha futuro – ha detto – perché maltratta la memoria, e la promessa»).
Semplicemente, ricominciare da qui. Da un abbraccio, da una fiducia che venire al mondo in questa terra sia un bene. Ma ci crediamo noi, veramente? È un dubbio che si respira, che si sente; e che forse solo si scioglierebbe in una preghiera lucida, e grata di ciò che un uomo, un figlio, ciascun figlio, è.
lunedì 11 novembre 2013
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