sabato 23 novembre 2013
Il perdono fa bene. E anche il cervello lo segnala
Il perdono fa bene. Lo sa chi ha sperimentato il risentimento per essere stato tradito da persone di cui si fidava o il desiderio di vendetta verso coloro che gli hanno sottratto qualcosa di caro, ma poi ha saputo raggiungere una pacificazione emotiva in cui si smette di ricordare ossessivamente il fatto e di pensare con ostilità a colui che l’ha compiuto.
In quel momento si riguadagna un equilibrio psicologico che si accompagna a una serenità ritrovata. Che il perdono faccia bene lo ha dimostrato ormai anche la ricerca psicologica e medica: il ritorno alla condizione personale precedente l’e-pisodio doloroso subito, infatti, fa spesso uscire da depressioni e migliora le condizioni cardiovascolari, che invece sono più precarie in chi si macera in sentimenti di odio.
Ma oggi possiamo anche indagare le basi cerebrali del processo del perdonare. Un’impresa scientificamente assai impegnativa, riuscita per la prima volta a un gruppo italiano dell’Università di Pisa, coordinato da Pietro Pietrini, e appena pubblicata su 'Frontiers in Human Neuroscience', primo autore Emiliano Ricciardi. Per capire che cosa succede quando perdoniamo, i neuroscienziati hanno costruito situazioni di sofferenza provocata da altri, che i dieci volontari che hanno partecipato all’esperimento dovevano immaginarsi il più vividamente possibile mentre erano all’interno dello scanner per la risonanza magnetica funzionale (uno strumento che permette di individuare le zone più coinvolte in determinati compiti). Una volta immedesimati nella scena, i soggetti erano chiamati alternativamente a perdonare (o a non perdonare) il responsabile del torto compiuto ai loro danni.
Per aiutarli nel compito, venivano invitati a considerare, nel primo caso, che l’autore del torto poteva essere in una condizione di disagio personale, aveva qualche giustificazione, la stessa vittima portava parte della responsabilità o che gli eventi potevano essere riconsiderati in termini meno negativi. Nel caso di non perdono, invece, si enfatizzava il risentimento e l’idea della vendetta. Quando i partecipanti 'si convincevano' al perdono e lo 'simulavano' mentalmente, esprimevano anche sollievo e un maggiore benessere soggettivo misurato con apposite scale, rispetto alla rabbia e alla frustrazione che caratterizza il non perdono. Correlata al dato psicologico spicca l’attivazione di specifiche aree cerebrali, in particolare il precuneo, le regioni parietali inferiori destre e la corteccia prefrontale dorsolaterale.
Si tratta di quelle zone che sono note per essere coinvolte nella teoria della mente, nell’empatia e nella regolazione cognitiva degli aspetti emozionali. «Si può probabilmente dire che il perdono attraverso una rielaborazione razionale del pensiero negativo e una rivalutazione- riconsiderazione del proprio vissuto passi attraverso il mettersi nei panni dell’altro, nell’assumere la sua prospettiva, nel capire che il traditore o l’aggressore sono esseri umani come noi», spiega Pietrini. In questo modo, si dà del perdonare una descrizione anche da un punto di vista biologico, come meccanismo che ripristina la naturale omeostasi, facendo superare il blocco emotivo e lo stato disfunzionale tipici della ruminazione continua sull’episodio doloroso. Pur con le ineliminabili limitazioni di uno studio di laboratorio, e senza la pretesa di spiegare tutte le componenti di un processo così complesso, la ricerca apre la strada a una feconda contaminazione tra livelli di analisi, che potrà avere ricadute positive a livello sociale. Non a caso è stata finanziata dalla americana Templeton Foundation all’interno di un più vasto progetto dedicato proprio alla comprensione e alla diffusione del perdono. ANDREA L AVAZZA
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