sabato 23 novembre 2013

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón 20 novembre 2013

Beato Angelico, <em>Noli me tangere</em>

Testi di riferimento: J. Carrón, Come nasce una presenza?,
suppl. Tracce-Litterae communionis,
n. 9, ottobre 2013, pp. X-XVI.
• You
• Liberazione n. 2
Gloria
Ci eravamo dati come lavoro la seconda parte della Giornata
d’inizio anno. Comincio leggendo una delle questioni che
erano emerse nell’ultima Scuola di comunità, che ci permette
di andare avanti: «Sono rimasto colpito da molte cose
all’ultima Scuola di comunità, ma a un certo punto una cosa
mi ha sorpreso, quando tu hai chiesto: “Come accade, come
riaccade, anche per quelle persone che possono in un certo
momento far fatica e partecipando allo stesso gesto non ne
sperimentano la vibrazione?”. Io stavo già pensando tutte le
possibili cose negative: certo, non riaccade perché sei nella
posizione sbagliata, sei chiuso, perciò non vedi le cose.
Tu però mi hai stupito dicendo: “È il disegno di Dio […] che
[…] dà la grazia a qualcuno perché continui a succedere
davanti ai nostri occhi, perché attraverso di lui, attraverso la
sua testimonianza, possa arrivare anche agli altri la stessa eco
dell’inizio”. Mi ha stupito, ma non ha diminuito il problema,
forse per il mio carattere o per circostanze, alcune delle
quali mi sono cercato io. Quasi sempre il fatto che capiti ad
altri per me non è una grazia, un dono, ma sembra quasi
una conferma che gli altri arrivano dove io non riesco ad
arrivare. È come se il fatto di vederlo in altri non riuscisse a
eliminare due forti obiezioni. Prima: il dubbio che in fondo
il cambiamento e la felicità che vedo in altri non siano
veramente ciò che desidero. Seconda: il dubbio che anche
se è quel che desidero, mai ci arriverò e mai lo capirò.
Volevo chiederti come può cambiare questa posizione.
A me sembra che, in fondo, se una cosa non succede a me
non è il mio nome che è chiamato, ma sempre quello degli
altri; come se anche nel movimento la grandezza fosse solo
per alcuni, non per tutti; mentre invece tu parlavi del
cambiamento che uno vede in altri come se fosse una
possibilità per tutti». Lo stesso mi scrive un’altra persona:
 «Che qualcosa capiti a un altro è un segno di speranza
anche per me. Questo regge nella teoria fino a un certo
punto, ma nella pratica non regge perché per vivere devo
fare esperienza io». E come faccio esperienza io se non
attraverso un altro? Come avete fatto esperienza nella
vostra vita se non attraverso un altro davanti a voi?
Don Giussani chi era? Un angelo del cielo? O era un altro
attraverso cui succedeva, come abbiamo detto nell’ultima
Scuola di comunità citando lui stesso, una «eco di
quell’avvenimento» nel presente? Non c’è un altro metodo!
Accade attraverso un altro, perché questo è stato il metodo
di Dio, da Abramo fino a oggi: scegliere uno perché attraverso
quest’uno arrivi ad altri. Allora, non è che succeda agli altri e
non succeda a me, succede a me attraverso gli altri, come è
accaduto sempre. Nessuno sarebbe qui – nessuno! – se non
fosse successo qualcosa attraverso un altro. Allora la
questione è se io, quando lo vedo accadere in uno – chiunque
sia questo uno che il Mistero ha scelto per arrivare a me –
continuo a obiettare che, siccome non succede secondo
l’immagine che ho io di come deve succedere, non succede.
Succede! Tanto è vero che diciamo che accade agli altri.
Allora ciascuno deve decidere davanti a quel che
succede, perché quando il Signore fa succedere davanti
a me qualcosa, allora è per me! Tutti lo abbiamo sperimentato,
e non pensiamo di cavarcela dicendo che non lo abbiamo visto
o che, essendo successo agli altri, non è successo a noi.
È successo a me perché è stato dato a me attraverso un altro;
 non c’è un altro modo. È il contenuto delle parole di Gesù:
«Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neppure se uno
risuscitasse dai morti saranno persuasi». Qui si gioca tutta
la nostra posizione davanti al reale: se noi ci lasciamo
veramente spostare davanti a quello che accade. Gesù
era l’ultima cosa che sarebbe potuta passare per
l’anticamera del cervello di coloro che vivevano al
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Suo tempo come metodo scelto da Dio per arrivare a tutti.
Ciascuno deve guardare questo metodo.
C’è poi un’altra questione che stupisce ancora di più: tutto
l’avvenimento cristiano sta arrivando costantemente a noi
attraverso la totalità della vita della Chiesa. Di recente –
ma mi succede spesso – una persona mi ha raccontato
che, di fronte ad amici che si trovano in difficoltà
veramente grandi, lei cita un testo della Bibbia o una cosa
che ha sentito dire dal Papa. Sembrerebbe la cosa meno
personale, la meno adeguata al problema che ha il singolo
davanti a noi con la sua difficoltà. E perché lo cita?
Perché questa risposta oggettiva, che è l’annuncio cristiano,
è l’unica che può rispondere al problema personale!
L’esempio eclatante è quello del limite più grande che
abbiamo: davanti alla morte non c’è alcuna cosa più risolutiva
che annunciare che Cristo è risorto (così come, davanti al
nostro male, non c’è altro da dire che: «I tuoi peccati sono
perdonati»). Ditemi se c’è qualcosa di più personale, di più
adeguato al mio bisogno che non sia l’annuncio cristiano! Per
questo mi stupisce che molti abbiano ridotto il «dire il mio
nome» a un sentimentalismo di cui non se ne può più!
E la cosa più grave è che questo sentimentalismo cancella
dalla faccia della terra e dalla faccia della nostra vita il fatto
che noi, tutti noi – come abbiamo detto ad Assago – siamo
stati scelti: «È una scelta oggettiva che non ci strappiamo
più di dosso, è una penetrazione del nostro essere che non
dipende da noi e che non possiamo più cancellare [...].
Non esiste niente di […] più rivoluzionario di questo»
(p. XI). Questo è ciò che è più reale, più oggettivo.
E se anche in questo momento a me sembra che non mi
faccia vibrare come lo ha fatto in altri momenti, non è perché
sia meno vero, non è perché sia meno consistente, non è
perché sia una risposta meno adeguata al mio problema e
alla mia situazione personale. Se non vibro è perché lo tratto
da “già saputo”, e non mi ci metto davanti con tutto il mio
bisogno, con tutto ciò di cui veramente è fatta la vita, per
sentire tutta (ma tutta!) la risposta che l’annuncio cristiano
porta con sé. Allora, amici, se non ci rendiamo conto che
tutti noi siamo chiamati per nome – ritorneremo su questo
agli Esercizi della Fraternità –, poi viene fuori il problema
posto dalla seconda lettera che ho citato. Capite perché
don Giussani ci teneva alla questione della personalizzazione
della fede? Perché se l’annuncio cristiano non diventa mio,
sarò sempre incastrato. Mi scrive uno: «Ti scrivo per
raccontarti due piccoli episodi che mi sono capitati, ma che
hanno provocato dentro di me un grande turbamento, perché
dopo quarant’anni di movimento uno scopre che è ancora
all’inizio del cammino. Dopo il lavoro sono andato a fare una
passeggiata in una strada della mia città. C’era molta gente.
A un certo punto, mi hanno fermato due giovani (penso
fossero evangelici), volevano parlarmi del loro culto. Io,
appena capito chi erano – anzi: non chi erano, ma cosa
volevano –, ho reagito con spavalderia: “Voi dite questo,
ma io ho incontrato Gesù, quindi non riuscite a smuovermi,
anzi, se volete ve la dico io la verità”. Pochi minuti e mi
sono allontanato soddisfatto di averli sistemati velocemente.
Ma subito sono stato insoddisfatto. Cosa ho raccontato di
 me? Niente! Ho contrapposto ideologia a ideologia.
Dopo pochi giorni, il secondo episodio. Dopo il lavoro torno
nell’albergo dove alloggio e mi fermo a chiacchierare con il
portiere, gli chiedo come sta e mi dice che ha mal di schiena.
“Ma io so tutto del mal di schiena, ne soffro da quarant’anni!”:
 e gli dico tutto quel che occorre fare per il mal di schiena, e
ciò che gli dico è così vero che lo convince decisamente,
più di quel che gli aveva detto il medico. Vado via soddisfatto.
Ma da quel momento non sono più stato tranquillo.
Perché su una cosa banale, il mal di schiena, ho giustamente
fatto riferimento all’esperienza; e invece quando si tratta di
Gesù o del movimento faccio il discorso. Perché? Eppure
sono certo di quel che ho incontrato, non ho dubbi; ma io
faccio il discorso. Eppure esperienza ne ho fatta, ma anziché
guardarla faccio il discorso. Non posso crederci! Sono
quindici giorni che è successo l’episodio, ma non mi do pace
 [lo capisco]. Davvero hai ragione che occorre decidere di
seguire don Giussani e seguirlo innanzitutto nel suo metodo.
Perché non faccio riferimento all’esperienza, ma teorizzo?».
Perché tante volte non è vero che facciamo esperienza.
E per questo un’altra persona scrive: «Ma com’è che si fa a
far diventare cammino l’esperienza della Maddalena? Perché
a me accade come se ogni mattina io dovessi ri-mendicare
la stessa esperienza per poter vivere e il giorno dopo capisco
sempre di essere bisognosa di rifarla, ma fra le due
esperienze c’è sempre un vuoto spaventoso di
buio, e l’unica speranza di incontrare qualcuno con quelle
caratteristiche senza pari è una necessità
per vivere. Come per te è diventato cammino?».
Qui, amici, ci troviamo davanti a una questione
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fondamentale di metodo, perché se noi non facciamo
esperienza, alla fine non abbiamo altro da comunicare a noi
stessi e agli altri, che un discorso. Quando parliamo del
sentirsi chiamati per nome noi abbiamo fatto esperienza
o  no? O è soltanto un discorso sull’altro, e noi non
c’entriamo? Perché questo è decisivo? Perché senza questo
 ciò che vivo non incrementa in me la certezza, e quindi sono
sempre in balìa di tutto il resto. Invece don Giussani ci ha
detto sempre che l’esperienza è vivere ciò che mi fa crescere,
non c’è esperienza se io non cresco nell’autocoscienza di me.
Scusate se mi dilungo. La settimana scorsa, durante un
raduno di universitari, una ragazza ha raccontato di una
sua amica, intervenuta alla Scuola di comunità che tiene lei
in facoltà, che aveva riferito di come era stata a fare un
servizio sociale (medico e igienico) per le prostitute, e tutte
le persone rifiutavano il servizio. «Mi sono stufata di ricevere
rifiuti, e a una ho semplicemente chiesto: “Ma come stai?”.
Allora da lì abbiamo incominciato a parlare, l’ho invitata a
prendere un caffè e sono riuscita almeno a entrare in
rapporto, e poi alla fine ha accettato quello che le
offrivo». E la ragazza che conduceva la Scuola di
comunità le ha detto: «Ma non ti sei accorta che tu eri
una presenza?». Ma l’altra ha continuato: «Poi ho avuto
un dialogo con un’altra prostituta che mi ha detto:
 “La vita è sempre da piangere”, e io davanti a questo
 non ho saputo cosa dire», riconoscendo di non
essere stata una presenza. Allora io ho interrotto il
racconto e ho detto all’amica che tiene la Scuola di
comunità:«Hai sbagliato tu. Perché quella ragazza aveva
perfettamente ragione nel dire che non era una presenza?
Primo, perché non aveva fatto esperienza. Se un altro
deve dirti di accorgertene, vuol dire che quel che è stato
vissuto da te non è stato giudicato. E quindi – dice
Giussani – non è esperienza. E qual è stata la prova
provata che non era cresciuta, cioè che non aveva fatto
esperienza vera? Che quando la prostituta le ha detto che
la vita era da piangere, lei non aveva niente da dire». Noi
 in tante occasioni non sappiamo cosa dire! Per questo,
qui abbiamo una questione di cui dobbiamo prendere
consapevolezza perché, cito Giussani, «l’“esperienza”
connota perciò il fatto dell’accorgersi di crescere» (Il
rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 126). E per
questo occorre che ciascuno si renda conto di che cosa
gli succede nella vita, facendo il paragone con le esigenze
del cuore, perché altrimenti non cresciamo, possiamo
stare venti anni o quarant’anni nel movimento, ma in
modo formale. Per questo don Giussani dice
testualmente: «La nostra compagnia o diventa esperienza
oppure realmente diventa pericolosa: perché chi ci sta
ci sta da gregge» (Certi di alcune grandi cose.
1979-1981, Bur, Milano 2007, p. 249). Cosa vuol dire
questo? Che non ci serve per crescere e quindi, siccome
noi non cresciamo nell’autocoscienza, è impossibile che
questo ci consenta, poi, di stare davanti al reale con tutte
le sue sfide. Infatti, qual è il segno di questa assenza di
autocoscienza? Come abbiamo detto agli Esercizi, lo
smarrimento davanti alle sfide del vivere. Invece non
sempre è così, e infatti ci sono testimonianze di come è
possibile affrontare le sfide del vivere se uno fa un’esperienza.

Poco più di un mese fa è nato Giacomo, il mio quarto 
figlio, e dopo diciannove ore di vita è salito al cielo 
perché affetto da una grave malformazione, la stessa 
che aveva avuto la mia prima figlia, nata e morta 
undici anni fa. Quando l’ho saputo al terzo mese, 
io ero letteralmente disperata, mi sembrava 
un’enorme ingiustizia e ho pensato veramente che 
questa volta avrei interrotto la gravidanza, tanto 
mi sentivo arrabbiata con Gesù e debole e incapace di 
portare avanti questa prova ulteriore. Tuttavia niente 
mi corrispondeva, né interrompere la gravidanza né 
portarla avanti moralisticamente. Mi sentivo in 
trappola e mi rimbombava nella testa e nel cuore la
domanda che tu avevi posto agli Esercizi: 
«Del fascino per Cristo cosa è rimasto?». Io lo avevo
perduto e lo stavo cercando. Nella disperazione più 
totale avevo però la domanda, forse incerta e debole,
che nulla andasse perduto e di riconoscere in quello 
che accadeva un Padre che aveva un disegno buono 
per me. Per fortuna un medico ginecologo, mio amico 
carissimo, mi disse che, di fronte alla mia quasi 
decisione di abortire, avrei potuto chiedere consiglio 
all’arcivescovo della mia città. Credo proprio che 
attraverso questo medico Gesù mi abbia chiamato la 
prima volta, delicatamente, ma già. Mi sono fidata, 
e così è avvenuto l’incontro con il cardinale, incontro
talmente potente, non appena per le parole che ci ha 
detto, ma per l’abbraccio, lo sguardo, la certezza che
 ci ha trasmesso. Uscendo, sia io sia mio marito
 sapevamo di aver incontrato Gesù e
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che da quel momento non saremmo più stati soli e che
il nostro limite e la nostra fatica non sarebbero stati 
un’obiezione alla verità. Sono stata guardata e allora 
ho visto, come diceva sant’Agostino, e come ci hai 
detto tu. Ho iniziato a vedere la realtà non 
attraverso la ferita che apriva, ma per quel che 
avrei potuto ricevere da Gesù se solo fossi andata 
avanti. E da lì in poi ho vissuto una sovrabbondanza 
di presenza, nella carne, nelle facce, nelle parole di 
amici e della Chiesa tutta, ed era un abbraccio mai 
sentimentale, ma che mi ha guarita, mi ha fatto 
cambiare ilmodo che prima avevo di stare di fronte 
al reale rendendo amabile la realtà, non solo 
qualcosa da sopportare con il fiato tirato. 
Quando però nel corso di un’ecografia verso il quinto 
mese ho visto chiaramente che Giacomo non solo 
non guariva, ma, al contrario, aumentavano le sue
malformazioni, ho perso improvvisamente 
l’equilibrio. In quel momento ho capito che mentre io
desideravo mio figlio sano, Gesù lo amava così 
com’era, e sono stata malissimo, proprio come una
bambina davanti al padre quando capisce che lui ha 
già deciso. Tuttavia nel dolore soffocante di
quei giorni non chiedevo più il miracolo della 
guarigione, chiedevo solamente che Gesù non mi
lasciasse, che continuasse a concedermi la Sua 
forza. Avevo bisogno solo di Gesù più che di un
figlio sano, perché capivo che senza di Lui sarei 
naufragata dentro la mia ferita. E nei mesi
successivi, fino al giorno del parto, ho continuato 
a chiedere che mi mostrasse la Sua potenza e la
Sua tenerezza. Dicevo proprio queste parole nelle 
preghiere. Ed ora che Giacomo è nato credo che
Gesù abbia risposto totalmente a questa mia 
domanda. In quelle diciannove ore di vita, infatti,
Gesù ha dominato in quella stanza d’ospedale, 
tanto che non solo i nostri amici, ma medici,
infermieri, ostetriche, gente non credente, tutti hanno
 voluto partecipare stupiti di questa vita e
continuavano a ringraziarci, e io e mio marito eravamo 
sorpresi di quanto Gesù, attraverso un piccolo bambino 
gravemente ferito, stava generando proprio lì in ospedale,
 in un ambiente dominato dalla cultura dello scarto. 
Giacomo c’era e sembrava dire: «Sono nato e ora sarò 
con voi per sempre». E poi vedevano noi, una mamma e
un papà che nella loro idea avrebbero dovuto essere
distrutti dalla disperazione; invece eravamo 
inspiegabilmente ma realmente felici, perché grati e 
commossi per questa vita inattesa. In fondo sono certa che
tutti, entrando in quella stanza, fossero afferrati da Gesù; 
consapevoli o meno di questo, Gesù ha afferrato e dominato 
tutti. Senza che noi facessimo nulla, Lui ha trasfigurato la 
realtà. Quando tu hai tenuto un’assemblea nella nostra città, 
mio marito ha invitato la caposala, che non è del movimento, 
perché voleva farle conoscere il luogo che ci genera e che ci 
ha permesso di aderire così alla realtà. Lei è venuta, si è
commossa, e ora mi dicono che in ospedale non sia più la 
stessa persona, lei e qualche medico hanno addirittura 
proposto di formalizzare un percorso di accompagnamento 
per bambini come Giacomo, una cosa assolutamente 
impensabile prima, perché bambini come Giacomo nella 
cultura dominante neanche dovrebbero nascere. Ora, nel 
ricominciare il tran tran della vita quotidiana, certamente 
mi ritroverò ancora intrappolata nella realtà, ma per 
fortuna ho fatto l’esperienza di questa Sua vittoria e di 
questa Sua presenza carnale nella faccia dei miei amici, 
a cui ho imparato a dare il Suo nome, e questo rimarrà 
sempre il punto da cui ripartire. Questa certezza, che prima
era debole e sempre al vento, è il dono più grande che 
Giacomo mi ha lasciato e di cui sarò grata per sempre.

È Lui che trasforma la realtà generando una presenza così.

Io mi permetto di intervenire su quel che ha raccontato la 
nostra amica – spero mi perdonerai se lo faccio –, anche 
un po’ sollecitato da quel che dicevi tu introducendo: ciò 
che di vero succede a un altro, succede a me. E allora 
vorrei dire cosa è successo a me adesso, ascoltando 
questo racconto. Io penso che, almeno per me, quello che  
lei ha raccontato adesso è l’esempio più significativo, più
sinteticamente acuto, direi, di tutto il contenuto della 
proposta della Giornata d’inizio anno. In sintesi c’è dentro 
tutto, soprattutto il fatto che per me questo spolvera via 
qualunque residuo di sospetto che la presenza nasca, 
cominci con un’iniziativa nostra, quasi che ci sia lo 
sguardo di un Altro – Cristo che mi ha chiamato per 
nome – e poi tocchi a me “generare” una presenza. 
A me quello che ha colpito è il fatto che si capisce bene 
che lei e suo marito non avevano il “problema”

di testimoniare agli altri, ma di vivere questa situazione. 
E per poter vivere questa situazione hanno
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cercato l’unico sostegno che poteva permetterglielo, cioè 
ciò a cui loro appartengono, il giudizio della fede. E quel 
che a me colpisce in tutto questo è che veramente uno 
diventa strumento di una cosa impensabilmente più 
grande perché la cerca, non perché la deve spiegare 
agli altri, perché la cerca, perché gli è indispensabile 
per poter vivere. Noi siamo certi di qualcosa e magari 
questa certezza è inizialmente fragile, e Dio dà le 
circostanze perché cresca, perché seguendoLo dentro la
circostanza io possa imparare ad amarLo. E allora 
imparo ad amarLo, e amandoLo, riconoscendone il volto 
che a poco a poco si chiarisce, imparo ad amare quel 
bambino, cioè comincio ad amare quel bambino per quel
che è e non per quel che dovrebbe essere. Lo amo per il
suo destino. E gli altri che vedono cominciano a 
desiderare di poter amare anche loro così (per cui
uno comincia a ipotizzare di formare un percorso per i 
bambini come Giacomo). Cioè, questo amore è
desiderabile perché ciò che fa grande un gesto non è la 
circostanza drammatica, no, ciò che fa grande un gesto 
è quel che lei ha raccontato, che uno impara – impara! – 
ad amare Cristo, e imparando ad amare Cristo impara 
ad amare tutto. Attraverso tutto ciò che è dato ama di più
Cristo e quindi ama tutto. A me veniva in mente quel che 
ho letto nelle prime pagine di Vita di don Giussani: ciò 
che dà gusto alla vita, ciò che ci fa grandi, è essere 
“impastati” con Lui, cioè essere della stessa pasta, che è 
anche quel che colpisce gli altri. Noi possiamo cercare di 
mostrare quel che vogliamo, ma ciò che colpisce è ciò 
che è vero fino in fondo per noi, ciò che genera una
certezza in noi.

Il racconto della nostra amica è un esempio che, quando la
vita stringe, quel che serve è vivere tutta la portata dell’annuncio
cristiano che ci è stato fatto; è aderendo a questo che uno può
stare davanti alle circostanze. È attraverso le circostanze che
cresce l’amore a Cristo, perché è la verifica che Cristo ci
sostiene. Non ci sostiene “prima”, ci sostiene “dentro” queste
circostanze. Se uno non fa esperienza di questo, sostituisce
Cristo con il discorso. Ciò che ci fa passare dal discorso alla
presenza è il fatto che tu lo vedi accadere lì, che ti sostiene lì,
 in mezzo al guado. E questo che cosa ha come risvolto (per
vedere come tutto è unito nella Giornata d’inizio anno)? Che
viene fuori una presenza che si pone nel reale, non fuori dal
reale. Vivendo la vita, uno pone lì, tra i medici, la caposala,
gli infermieri, le persone che sono intorno, una modalità
diversa di vivere il reale, che è veramente una perturbazione,
e non perché aggiunge qualcosa a quel che c’è, no, ma
semplicemente perché mette davanti a tutti una diversità
desiderabile. Alcuni di quell’ospedale sono venuti, poi,
all’assemblea cittadina proprio per vedere ciò che era
all’origine di quel che avevano visto in lei. E qualcuno di loro
si è quasi arrabbiato, e alla fine dell’assemblea le ha detto:
«Ma perché non mi avevi detto che occorreva pagare il
fondo comune?». Senza neanche appartenere al movimento!
Perché era la prima volta che sentivano parlare del fondo
comune, negli avvisi. Uno che partecipa a una cosa così,
anche se non è successo direttamente a lui, ha sperimento
qualcosa per sé, sì o no? Come è possibile altrimenti che
fossero a una nostra assemblea, visto che è gente diversa
per cultura, come mentalità, come pensiero? Allora come
è possibile generare una presenza? Soltanto per la fede.
Per nessun’altra cosa, nessuna! Ditemi se qualcosa avrebbe
potuto generare una presenza nel reale che sfidasse di più!
Ditemi qualche altra strategia che possa veramente smuovere
il cuore, sfidare la ragione, le persone che stanno agli
antipodi, se non una cosa così! Che cos’è una presenza?
Quando accade è facilissimo riconoscerla. Allora, in che
cosa questa testimonianza corregge l’immagine che noi
abbiamo di una presenza? Che cosa dobbiamo imparare
sull’origine che genera una presenza così? Perché la cosa
stupefacente è che come stupisce noi, così stupisce gli
altri, non è che noi abbiamo bisogno di una cosa e gli altri
di un’altra: è lo stesso, identico. Noi non abbiamo bisogno
di altro, se non del mangiare e del bere, del vivere e del
morire. Questa è una Presenza che “perturba” l’ambiente.
Qui vediamo che, senza dover fare altre aggiunte, la
testimonianza semplice di una modalità di affrontare la realtà,
di vivere una circostanza, è quello che tutti stanno aspettando.
Perché la presenza non è quello che decidiamo. La presenza
è quello che è, lo vedono tutti e lo riconoscono tutti, quelli di
dentro e quelli di fuori, non c’è una presenza “per noi” e
un’altra  “per gli altri”. Quando c’è una presenza, tutti la
riconoscono.  Allora la questione è: come vivere così?
Che cosa rende possibile che io, vivendo la vita così come
viene, con tutte le sfide che la vita  mi pone, ponga nel reale
una diversità? Altrimenti della nostra presenza
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non si interesserà nessuno. Invece quando viviamo le sfide
di tutti con negli occhi quello che a noi ci è capitato, poniamo
nel mondo una presenza che desiderano tutti. Poi ciascuno
dovrà decidere come rispondere alla sfida di avere visto
questa presenza. Questo è un affare di ciascuno, degli uni e
degli altri, come anche di noi. Ma questa è una presenza
che non lascia indifferente nessuno. Senza polemiche,
semplicemente per il fatto di porsi. Questo è quello che don
Giussani sta cercando di farci capire parlando della
personalizzazione della fede. Perché gli interessa la
personalizzazione della fede? Perché altrimenti noi di questo
non potremmo fare esperienza. E in che cosa si vede?
Come abbiamo ripetuto agli Esercizi, in che cosa si vede
che non è avvenuta in noi questa personalizzazione?
Nello smarrimento dell’adulto davanti alle vicende del vivere.
La questione è: noi vogliamo imparare a stare nel reale così
in ogni circostanza del lavoro, della famiglia, con i figli, con
gli amici, o ridurre tutto semplicemente a una serie di episodi
eclatanti, ma senza storia? Questa mi sembra una questione
decisiva, ed è quello a cui ci sta costantemente invitando il
Papa: quando invita a risvegliare la vita della fede nei nostri
contemporanei, che cosa intende? Suscitare delle domande,
come all’inizio del cammino della Chiesa. Perché vivono così?
Perché una madre può vivere così? Cioè, che cosa li spinge
a far così? Sono interrogativi che portano al cuore
dell’evangelizzazione, della missione: testimonianza della fede
e della carità. Ciò di cui abbiamo bisogno, specialmente in
questi tempi, dice il Papa, sono testimoni credibili, non
persone innanzitutto coerenti. Persone che, vivendo le
sfide del vivere, con la povertà di tutti, zoppicando come
tutti, a volte sbagliando, pongono una modalità diversa di
stare nel reale. E risvegliano così l’attrazione per Gesù Cristo.
Questo introduce un’altra questione, che emerge in molte
lettere, come in questa: «Io voglio capire che cosa vuol dire
la parola presenza, quando dici che occorre “sfondarla e
sfrondarla […] perché la presenza è nella persona, solo ed
esclusivamente nella persona” [lo dice Giussani]. Non
capisco che cosa significa “sfondare e sfrondare” e
soprattutto mi interessa l’accento posto sulla persona, sul
fatto che la presenza è nella persona, solo ed esclusivamente
nella persona. Io sono della generazione dell’“utopia” e
ancora, quando sento questo accento sulla persona, sento
una  cosa strana, come se la mia persona non potesse bastare.
Forse qui l’accento sulla persona significa, come dice dopo,
la chiarezza della coscienza che si chiama fede [effettivamente
 è così], l’intelligenza che identifica ciò di cui tutto consiste.
Io mi accorgo che, vivendo, spesso sono piena di risposte,
ma non di domande, e che queste risposte non mi portano
a una certezza, una chiarezza di giudizio, non mi portano a
consistere della Sua presenza ogni istante. Però, ci pensa la
vita poi a spaccare e ad aprire ferite attraverso le quali Cristo
possa passare [le circostanze a volte noi le pensiamo contro
di noi, ma sono la possibilità attraverso cui Cristo può entrare,
passare] e mi accorgo che attraverso tutto questo Cristo mi
sta chiedendo: “Ma in che cosa consisti? Cosa ti interessa
davvero?». Un’altra lettera dice: «Riprendendo la seconda
parte del testo ho ritrovato un ripetuto richiamo alla nostra
unità, quasi fosse un sinonimo del Mistero di Cristo, non
intesa come un richiamo alla coerenza e consistenza di
un’organizzazione, ma piuttosto come condizione
esistenziale per fare l’esperienza di una presenza». Che
cosa vuol dire che una presenza così è nella persona?
Forse occorre correggere Giussani? Cosa vuol dire che
tutta la presenza è nella persona?Tante volte questo,
come dice la lettera, è percepito come se fosse una
cosa assolutamente individualistica. Invece cosa vuol
dire che la persona è costruita nel rapporto con la comunità
cristiana e che la comunità è il luogo della generazione della
persona? Perché allora uno può essere da solo nel fare un
gesto, ma nessuno pensa che possa farlo da solo, tanto è
vero che tante persone dicono: «Ma dove l’hai imparato
questo? Come sei in grado di fare così?». E allora uno,
se è leale, deve fare riferimento al luogo generativo di questo
suo atteggiamento. Per questo dice don Giussani: la
compagnia è nell’io. La mia identità non la posso staccare
da questo luogo che mi genera, perché l’io che è ciascuno
di noi non sarebbe quello che è adesso, se non a
ppartenesse a un luogo. In questo senso la comunità
contribuisce alla costruzione della nostra persona.
E si può esprimere, poi, in certi gesti, in modo comunitario
o in modo personale. Ma il modo personale non è
individualistico, perché non ci sarebbe quella persona
storica con quel volto e con quella modalità di stare nel
reale, se non appartenesse a quel luogo. Tante
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volte, se noi stiamo da soli nel lavoro, pensiamo: «Siccome
sono da solo, che cosa posso fare, come posso
testimoniare?». No! Tu non sei mai da solo, non siamo mai
da soli, perché una persona può mostrare una diversità di
vita che fa scattare negli altri la domanda: «Ma tu perché
sei cosi?». E per dare risposta a questa domanda uno
deve fare riferimento al luogo a cui appartiene. Cioè,
nell’io è tutta dentro la comunità. Possiamo esprimerlo in un
modo o in un altro, ma sempre l’origine è questo luogo.
E questo è così decisivo che succede anche con persone
che non hai scelto tu, anche con persone che possono non
esserti simpatiche, ma senza di loro tu non saresti così.
La questione non è sentimentale di simpatia – più simpatia o
meno simpatia –, che ci sia un luogo oggettivo che
costantemente mi rigenera, perché la tua vita si nutre
costantemente delle testimonianze di tante persone, al di là
che siano simpatiche o no, di quello che ti testimoniano,
di quello che ti fanno vedere, di quello a cui ti introducono.
E tu sei grato di avere persone che ti accompagnano così al
destino. La questione è se questa unità, che ci costituisce,
determina poi esistenzialmente la vita. Quello che determina
la vita è se c’è qualcosa di oggettivamente presente per cui
tu vedi che, indipendentemente da tanti limiti, di fatto
l’appartenenza a questa unità ti costruisce, è decisiva per te.
Se noi non andiamo a fondo del perché vale la pena una
appartenenza così per la costruzione della nostra vita, ma
chi ce lo fa fare a rimanere nel movimento? Se noi non
arriviamo a capire la portata di questa unità, finiremo con
l’affermare l’unità formalisticamente, e basterà il minimo
inconveniente per mandarla a quel paese, ma solo perché
uno non ha capito cosa si gioca in quella unità.
È evidente, per quanto ci è stato testimoniato stasera:
la mamma di Giacomo, anche se è lei a portare il dramma,
non è l’origine della presenza, l’origine della presenza è il
luogo costitutivo dove il suo io viene costantemente generato.
Per questo ciascuno deve guardare la propria esperienza e
vedere se questa generazione la può ottenere da solo.
Il «noi» fa parte della definizione dell’io, nessuno è qui senza
dover ammettere fino a che punto il suo io storico è stato
generato in un luogo che lo costituisce. E questo fa capire
in un modo reale, storico, qual è il nesso tra una presenza
nella persona e il luogo dove si costruisce la persona,
l’unità a cui appartiene per la costruzione di questa
persona che è ciascuno di noi. La comunità non è un
ornamento o un cappello, ma è il luogo decisivo della
generazione di ciascuno di noi. Dire «io», anche se sono
da solo, non vuol dire qualcosa di individualisticamente
inteso, ma vuol dire, come ha testimoniato la mamma di
Giacomo, che quando la gente vede quel che ha visto in
lei, va a vedere il luogo dove lei stessa è stata generata.
È tutto nella persona; dove lo hanno visto è stato in lei,
ma non si può staccare dal luogo generativo. Dire «io»,
anche quando si è soli, non può succedere senza che l’io
abbia dentro il noi, il luogo che l’ha generato e che lo
genera costantemente. Come dice Giussani, la prima
compagnia è nell’io. La mia identità non la posso staccare
da questo luogo. Per questo l’appartenenza a questa unità
è cruciale e non è in contrapposizione con l’io. Poi se
succede che possiamo dirlo insieme, lo diremo insieme;
se occorre, come in questo caso, dirlo personalmente, lo
diremo personalmente. Tante volte uno può essere da solo
nel luogo di lavoro, ma questo non vuol dire che sia isolato,
purché sia definito dall’appartenenza; perché allora, anche lì,
sfrondato di tutto, può testimoniare un luogo che lo sta
generando costantemente. E questo si vede nella diversità che
quella persona vive. Per questo se noi cerchiamo di capire i
nessi e non contrapporre le cose, forse ci aiutiamo a capire,
perché, se uno è così “presenza”, è soltanto perché appartiene
a un luogo che costantemente lo genera e lo costruisce.
E questo è fondamentale per la persona, che poi si pone con
tutta se stessa davanti al reale.

Volevo raccontare un episodio in cui mi sono scoperto 
capace di un giudizio cambiato. È venuta a lavorare 
dove sono io una persona del movimento che era stata 
in precedenza in un altro luogo dove aveva avuto 
un’esperienza molto bella. Quando è arrivata pian 
pianino è venuta fuori una grossa arrabbiatura per 
una totale non corrispondenza tra quel che lei vedeva 
e il suo desiderio, addirittura in maniera esagerata: 
tutto era brutto. Io all’inizio mi sono limitato a cercare 
di limare, di addolcire, di sottolineare gli aspetti belli, 
che sono convinto esistano. Man mano che passava il
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tempo queste critiche diventavano sempre più severe. 
E questo suscitava in questa persona un grosso scandalo 
e, man mano che ne parlavamo, un’accusa implicita a me 
perché affermavo qualcosa di buono lì, come se invece a 
me questo andasse bene. Quando questo dialogo è 
diventato esplicito fino a questo punto, dentro di me è 
sorta una grossa obiezione al suo giudizio, perché
capivo bene che non voler distruggere è diverso 
dall’essere connivente. E pensando alla mia storia
all’interno del luogo dove lavoro, con tutte le 
difficoltà che ci sono state, con tutto il cammino che
c’è stato per costruire qualcosa di buono, mi rendevo 
conto che questa era la realtà che mi era stata affidata 
e che mi era data per custodirla e per farla crescere per 
la gloria di Gesù. Per questo uno non può non amare la 
realtà che ha intorno a sé. Leggendo la Vita di don 
Giussani mi ha veramente folgorato, a un certo punto, 
un brano: Monica della Volpe, colei che diventerà la
badessa di Valserena, racconta di come è stata la sua 
storia di incontro con il movimento. Va a un raduno a 
Varigotti, rimane colpita, cede dopo tentennamenti, 
però quando torna a casa rimane di nuovo invischiata 
dentro quello che era il suo ambiente e ritorna fuori il 
dubbio; allora l’amico che l’ha invitata a Varigotti la 
vuole portare a Milano, e la porta. Dice: «Non so come, 
riesce a infiltrarsi in un pranzo di capetti con il Gius, al 
ristorante. “Io li vedo tutti lì: piccini, ansiosi di
carpirsi una parola, uno sguardo del capo. 
Insopportabili. Poi vedo Giussani che si fa portare un
carciofo crudo, con una salsina. Comincia a staccare 
le foglie a una a una, le mangia ed esclama: ‘Ah, come è 
buono questo carciofo! Come è buono questo carciofo!’.
 Come è diverso dai preti che conosce a Bologna. Intanto 
Giussani “guarda quegli altri, gli lancia battute, zampate 
fra l’ironico e l’affettuoso, li prende in giro… e 
improvvisamente capisco: li ama tutti! Li conosce 
perfettamente, li vede perfettamente, così piccini come li 
vedo io e anche di più, ma lui li ama tutti e ciascuno,
appassionatamente, come un padre”». Leggendo questa 
cosa ho subìto un contraccolpo, perché è questo giudizio 
che ho scoperto su di me, cioè una capacità diversa di 
guardare la realtà. Mi sono chiesto: va bene, allora 
cos’è che ha generato in me questo? Mi sono reso conto 
che è stato un desiderio, sincero e disponibile, che la 
presenza di Gesù si manifestasse anche laddove non 
veniva fuori come piaceva a me, dove non me 
l’aspettavo. Un desiderio che fosse reale, e disponibile…

Disponibile a che cosa?

Disponibile a che fosse diverso da come me l’ero 
immaginato.

Cioè disponibile a un disegno…

…Che era diverso da quello che avevo in testa io.

Disegno che può svilupparsi nel tempo, e non entrare come
un elefante in una cristalleria. Perché tante volte ci prende
l’impazienza davanti a come succedono le cose, nel reale
o in noi. Leggo per questo un’altra lettera: «Vedo che tante
volte non cambio, non scalfisco il mio modo naturalistico di
guardarmi, e ogni mattina riparto dalle mie pretese e da una
riduzione di me, e questo sguardo nuovo deve sempre
rientrare da fuori. Come può essere la sequela, una sequela
vera che arrivi a cambiare il nocciolo del mio cuore e del mio
sguardo, così che io possa davvero guardarmi così sempre?».
 E quando succede così a chi diamo la colpa? Dobbiamo
prendercela con qualcuno? Dobbiamo prendercela con noi!
Qui Giussani di nuovo entra con lo sguardo con cui ci ha
guardato, con cui guardava quei ragazzi durante il pranzo,
perché il tempo fa parte del disegno di Dio, ed è soltanto
se noi abbiamo la pazienza di seguire che potrà accadere,
come racconta questo amico: «Lo vediamo nel piccolo della
nostra vita questa concezione della nostra persona che è tale
soltanto perché c’è Uno che ridice il nostro nome, altrimenti
saremmo ancora lì a piangere per il fatto di vivere. Non è
un’astrazione, è un’esperienza prima che una concezione,
e proprio da questo scaturisce un’autocoscienza di noi
che è come quella nata in Maria, che non ha più potuto
guardarsi come prima, ma tutta determinata da quel
“Maria!”. La mia vita è cambiata nelle piccole cose della
vita proprio così. Ho sempre cercato di evitare di guardare
quel che mi accadeva, le circostanze che mi ferivano non
volevo vederle, quelle che mi infastidivano di più facevo
proprio finta che non esistessero [questo è il punto:
possiamo essere qui, in fondo, sfuggendo costantemente
da quel che accade], andavo avanti con il braccio alzato
davanti agli occhi, cercando di non farmi colpire, o almeno
il meno possibile. E qualcosa è cambiato quando  ha
cominciato a cambiare mio marito. Ha iniziato lui facendo
Scuola di comunità con alcuni colleghi, ha iniziato a
guardarmi in un modo
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diverso, io non ho più sentito il bisogno di difendermi
costantemente da lui e ho iniziato anche io a cambiare
[è il metodo di Dio, fa cambiare il marito prima di te:
concediamo al Mistero questa possibilità o no?].
E ho cominciato anche io ad andare a Messa appena
potevo, quando il lavoro, i figli e gli svariati impegni me lo
permettevano, perché non potevo resistere a ringraziarLo
di questo dono. Poi mio marito mi ha fatto conoscere i
suoi amici e sono rimasta stupita e affascinata dal modo
che avevano di guardarsi e di guardarmi. Nella semplicità
di un gesto qualunque c’era la ricerca di Gesù, cosa
diceva alla loro vita, come stare di fronte al lavoro, alla
scuola dei figli, alla vacanza, a tutto. Tutto era abbracciato,
guardato, giudicato, magari nella preoccupazione di scelte
difficili, ma non censurato. Ho cominciato ad andare a
Messa non solo ringraziando, ma chiedendo che potesse
essere anche per me, di poterLo vedere sempre più.
Infine quest’estate la sorpresa più grande, quando mio
marito mi ha chiesto: “Come vorrei che anche tra di noi
ci fosse questo livello di profondità di guardare a Cristo”.
Non ho più potuto resistere. Non ho più potuto guardarmi
senza sentirmi chiamata per nome [attraverso quel che era
successo a un altro!]. Adesso ho una grande certezza:
anche quando cado, quando tutto mi sembra contro o sono
arrabbiata con tutti e con tutto, ho chi guardare per
risollevare lo sguardo. Non è un continuo dubitare della
bellezza che ho intravisto, come facevo prima; sono stata
chiamata per nome e questo non me lo posso più togliere
di dosso, e sento sempre più frequente e più potente il
bisogno di inginocchiarmi dinanzi al Signore e domandarGli
tutto. Perché l’evidenza della mia inadeguatezza, del mio
errore, del mio limite, non è più l’ultima parola su di me,
ma vince la certezza di essere sempre riabbracciata e
perdonata da Chi mi ha voluto e mi dà ogni istante».
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 18 
dicembre alle ore 21.30. Riprendiamo – non
abbiamo fretta! – il libro All’origine della pretesa cristiana,
lo strepitoso capitolo ottavo: “La concezione che Gesù ha
della vita”, un capitolo talmente ricco e in continuità con
quello che stiamo dicendo in queste ultime Scuole di
comunità. È disponibile il Volantone di Natale, che propone
un’immagine del Presepe, di Federico Barocci (Pinacoteca
Ambrosiana), e due testi: di papa Francesco e di
don Giussani.«L’incontro con Cristo, il lasciarsi afferrare e
guidare dal suo amore allarga l’orizzonte dell’esistenza, le
dona una speranza solida che non delude. La fede non è
un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione
della vita. La fede non è luce che dissipa tutte le nostre
tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi,
e questo basta per il cammino. All’uomo che soffre,
Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre
la sua risposta nella forma di una presenza che
accompagna» (Papa Francesco).

«Il cristianesimo è il legame che Cristo stabilisce con te,
non che tu stabilisci con Cristo [potete sostituire “il legame
che Cristo stabilisce con te” con la forma di “chiamare per
nome”, c’è qualche differenza?] […]: puoi non averLo
guardato in faccia fino a un minuto fa, e Lui stabilisce un
legame con te; puoi non guardarLo in faccia per trent’anni
ancora, e fra trent’anni stabilisce un legame con te. La
decisione per l’esistenza è il sì che tu dici al legame che Cristo
 ha con te, come uomo, come uomo ferito, mortalmente ferito.
L’io diventa protagonista quando sa per cosa vive, quando
riconosce il suo destino, il destino attendendo il quale batteva
i piedi sulla soglia, tra il freddo e il gelo, da una parte, e
dall’altra, il presentimento del calore che emanava dalla
dimora»  (Luigi Giussani).

È iniziata la campagna abbonamenti di Tracce. Non è un
caso che lo slogan sia: «Fai un regalo da amico»: regalare
un abbonamento alla rivista è uno dei modi semplici per far
conoscere la nostra esperienza ad amici, colleghi e via
dicendo. È un modo per comunicare alle persone quello che
abbiamo di più caro. Per questo vi raccomando, ciascuno
pensi tra le persone a cui vuol far conoscere, mettere nelle
loro mani uno strumento attraverso cui possa arrivare anche
una briciola di quello che noi riceviamo, come “toccare il mantello”.
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Accogliendo l’appello di papa Francesco, Comunione e
Liberazione ha promosso una raccolta straordinaria di
fondi in favore delle popolazioni delle Filippine colpite
dal tifone Haiyan. I fondi raccolti verranno usati sia per
partecipare alla carità del Papa − che tramite il Pontificio
Consiglio Cor Unum sostiene le opere di assistenza in
favore degli sfollati e degli alluvionati − sia per le necessità
eventuali degli amici del movimento colpiti dal tifone.
Sul sito di CL trovate le indicazioni per la raccolta fondi.
Vi ricordo la preghiera tutti i giorni per papa Francesco,
come ho scritto nella lettera dopo l’udienza
che ho avuto con lui.
Veni Sancte Spiritus

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