La riduzione del cristianesimo a un moralismo di tipo illuminista, astratto, ha molti più seguaci oggi di quanto non sembri a prima vista
Vorrei partire dall’esperienza dei miei 52 anni di sacerdozio, soprattutto come parroco. All’inizio le mie omelie venivano criticate per la sottolineatura dei temi dottrinali della fede professata, celebrata, pregata a fondamento di quella vissuta, sui temi della grazia divina e della libertà umana, sul Vangelo o lieta notizia che Dio Padre in Cristo con il dono dello Spirito non guarda quante volte cadiamo, ma quante volte, con il suo perdono ci rialziamo, che ci ama non quando o perché siamo buoni ma perché Lui è buono e vuole renderci buoni, suoi amici e a tale atteggiamento di assimilazione a Lui cioè di santità noi puntiamo nella vita e nella società. Domandavano di puntare, invece, all’azione e all’iniziativa degli uomini, alla moralità e all’eticità nella vita pubblica, il novanta per cento del commento biblico domenicale. Condizionati dal prassismo marxista c’era la tentazione di una pastorale attivistica, non dottrinale. Non bisogna dimenticare l’insegnamento pure agostiniano: “Chi ti ha creato senza di te, non ti può salvare senza la tua cooperazione” ma la moralità cristiana non è qualificata dal riuscire ma dalla tensione del tentare, ritentare anche quando non si riesce, con l’atteggiamento di fede che Lui porterà a compimento se trovati al momento terminale in questa tensione, per cui non possiamo giudicare buoni o cattivi dalla riuscita o non riuscita. Occorre giudicare le azioni se buone o cattive non le persone e nessuno va giudicato dal bene o dal male che fa: se uno dice una bugia non posso dire è bugiardo, ma ha detto una bugia, cento bugie.
Mi è venuta in mano una intervista de “il Sabato” di Lucio Brunelli che ho visto riproposta da Sandro Magister sul blog – L’espresso Settimo cielo del 15 gennaio 2013 in seguito ad un intervento su “Il Sole 24 Ore” del card. Gianfranco Ravasi: “Ancora qualche anno fa un movimento cattolico italiano attaccava altri cattolici con l’epiteto di ‘pelagiani’”. Il movimento cattolico qui evocato è Comunione e Liberazione” nelle pagine de “il Sabato”. Ecco l’intervista di Lucio Brunelli al card. Joseph Ratzinger, nel 1990, al Meeting di Rimini.
D. Volevo chiedere a Sua Eminenza se poteva spiegare, magari con qualche esempio, la sua frase a proposito dell’errore di Pelagio che cioè la riduzione del cristianesimo a moralismo di tipo illuminista, astratto, ha molti più seguaci oggi di quanto non sembri a prima vista.
R. “Ci sarebbe molto da dire e non vorrei entrare adesso in una discussione di filosofi e di ideologia contemporanea. Voi avete scritto cose valide sul “Sabato” e io mi sono riferito anche a queste. Da una parte, come ho detto, abbiamo questo fatto positivo di una rivalorizzazione della morale come fattore della società umana. Ma se rimane puro moralismo, allora diventa anche autocostruzione umana e ricade in errori che alla fine non creano una vera morale, perché sono esposti all’arbitrarietà. Anche nella Chiesa oggi assistiamo, mi sembra, a questa tentazione, naturalmente comprensibile umanamente, di farsi capire anche dove non c’è fede. Si vede che il ponte tra la fede della Chiesa e la mentalità odierna potrebbe essere la morale, perché tutti, più o meno, riconoscono che n’è bisogno, e così offrono la Chiesa come garanzia, istituzione di moralità, senza il coraggio di presentare il mistero. Perché, pensano, il mistero non è accessibile, omettono cose oscure e parlano di cose comprensibili, della morale. Così si riduce il cristianesimo, e anche la morale, allora, non viene ricostruita. In questo senso volevo soprattutto accennare a una tentazione cristiana, cattolica, di ridurre con una riflessione comprensibile ma sbagliata, l’annuncio cristiano alla morale. Così si estenua la morale stessa”.
D. Mi hanno incuriosito molte cose che lei ha detto su Pelagio e le chiedo: come è possibile oggi che anche nella Chiesa si possa correre il rischio del pelagianesimo, cioè di un appiattimento sui valori comuni?
R. “A me sembra molto comprensibile, perché anche nel quinto secolo il pelagianesimo non sarebbe nato se non avesse avuto una certa facile evidenza, naturalmente sbagliata, se non avesse avuto una piccola parte di verità. Sarebbe adesso troppo lungo entrare nei dettagli, benché molto interessante, e vedere come Pelagio nella sua vita monastica, e poi Giuliano di Eclano, nella vita da vescovo diocesano nell’Italia meridionale, avessero difficoltà con la posizione di sant’Agostino. Essi difendevano anche elementi difendibili, ma alla fine avevano dimenticato che l’uomo non si costruisce da solo, con una moralità completa in se stessa; al contrario, perde il senso del mistero, perde così il perdono e perde altresì il realismo della propria vita. Era un dibattito molto accanito, molto difficile nel secolo di sant’Agostino, ma in un certo senso paragonabile con la situazione contemporanea: noi viviamo oggi in un mondo paganizzante, razionalista, dove il mistero è difficilmente accessibile. E’ un mondo, il nostro, che può accettare, perché evidente, la necessità di leggi morali, di norme morali, ma non può capire che c’è un’espiazione, che c’è Uno che può perdonare e può così ricostruire la completezza della nostra vita. In una parola, rendere accessibile questo fattore nuovo che entra con il perdono nella nostra vita è difficile, mentre è abbastanza facile dire una parola morale all’umanità di oggi. Mentre aprire l’orizzonte del mistero significa anche ricostruire le evidenze umane perdute, come abbiamo visto nella discussione sull’aborto. Questa è la grande missione della Chiesa di oggi, ma non è realizzabile senza una testimonianza vissuta, dove, tramite la vita realizzata, diventi anche un po’ visibile la realtà della dimensione del mistero del perdono, della cristologia. Se rimaniamo su un livello puramente intellettuale, come è la nostra grande tentazione in un mondo intellettualizzato in cui mancano le esperienze di fede, allora diventa normale essere pelagiano”. Don Gino Oliosi - culturacattolica.it
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