«È Gesù Cristo che noi vogliamo porgere, il Suo nome far risuonare. Non è vero che a noi interessa far politica, noi vogliamo dire Gesù». Così il Card. Bagnasco ha aperto lunedì 28 gennaio il Consiglio Episcopale Permanente. Tra i temi affrontati, l’allargarsi della condizione di indigenza, la disoccupazione giovanile, i tagli alla sanità, ma anche la risposta e la responsabilità delle parrocchie, la centralità essenziale della famiglia, i temi cruciali della biopolitica. Li pone una Chiesa a cui «sta a cuore tutto l’uomo».
Venerati
e Cari Confratelli,
ci
incontriamo all’inizio di un nuovo anno, che immaginiamo cruciale,
riconoscendolo fin d’ora quale tempo di Dio, tempo speciale in cui Egli ci
parla e ci conferma la sua volontà di salvezza verso tutti gli uomini. Il
Vescovo, infatti, «dev’essere preso dall’inquietudine di Dio per gli uomini.
Deve, per così dire, pensare e agire insieme con Dio. […] L’inquietudine
dell’uomo verso Dio e, a partire da essa, l’inquietudine di Dio verso l’uomo
devono non dar pace al Vescovo» (Benedetto XVI, Omelia per la Solennità
dell’Epifania, 6 gennaio 2013). «Presi dentro» da questa inquietudine,
siamo già in speciale pellegrinaggio ad limina apostolorum, toccando
infatti all’episcopato italiano compiere il gesto canonicamente prescritto, e
compierlo – per un dono della Provvidenza di Dio – proprio nell’Anno della
Fede. Sappiamo che si tratta di un incontro di carattere unico, di un distinto
evento di Chiesa, che tocca in modo singolare ciascuno di noi, perché non
abbiamo a trovarci a nostra volta nel rischio di «correre o aver corso invano»
(Gal 2,2). Fin d’ora, ringraziamo Benedetto XVI per l’accoglienza che ci
accorda, e lo ringraziamo in particolare – come Vescovi d’Italia – per aver
voluto di recente dichiarare venerabile il Papa Paolo VI: il riconoscimento
delle sue virtù eroiche esemplifica in modo eminente che l’autorità episcopale
o si sostanzia della testimonianza evangelica o difficilmente parla al mondo
d’oggi.
1.
Siamo ancora avvolti dall’ala del Natale,
mistero di sconfinata delicatezza e insieme di vigorosa scossa: «Abbiamo
veramente posto per Dio, quando Egli cerca di entrare in noi? Abbiamo tempo e
spazio per Lui? […] La questione che riguarda Lui non sembra mai urgente. Il
nostro tempo è già completamente riempito. Ma le cose vanno ancora più in
profondità. Dio ha veramente un posto nel nostro pensiero?» (Benedetto VI, Omelia
della Messa di Mezzanotte, 24 dicembre 2012). Non è una domanda che ci
poniamo di passaggio, essa ha ruolo centrale e definitivo nella nostra
esistenza: quanto il recente Natale ci ha spinto a purificare il nostro
sguardo, a riconsiderare le nostre priorità, a scuotere stanchezze, ad affinare
i nostri pensieri sulla verità di Cristo? Nell’aula del Sinodo – esperienza di
Pentecoste – è risuonata dall’intero Orbe che anche nell’irrinunciabile compito
di annunciare il Vangelo, prima di ogni altra considerazione, è Lui che
dobbiamo guardare sempre di nuovo; Lui, la lieta notizia e l’annunciatore
primo, la verità e il maestro, il seme e il seminatore. Fa parte «del diventare
cristiani l’uscire dall’ambito di ciò che tutti pensano e vogliono, dai criteri
dominanti, per entrare nella luce della verità del nostro essere e, con questa
luce, raggiungere la vita giusta» (J. Ratzinger-Benedetto XVI, L’infanzia di
Gesù, Rizzoli-Editrice Vaticana 2012, pag. 80). In Gesù vi è, infatti, il
segreto di ogni metodo e di ogni vera efficacia: Lui, Gesù, è la Luce vera che
viene nel mondo, il Figlio del Dio vivente, il Rivelatore del Dio invisibile,
il Prototipo dell’umanità, il Centro della storia e del mondo, la Meta del
nostro cammino, il compagno di strada, l’Amico indefettibile, il Sostegno
sorprendente, il Conforto risanatore, la Speranza affidabile, Egli è la nostra
ineffabile gioia! Sì, benché nessuno possa negare che siamo dentro a un
travaglio storico delicatissimo e intricato, noi sappiamo di poterci affidare
alla gioia. Una gioia che reinterpreta e ricolloca le angosce, gioia che
spoglia le apparenze e aiuta a riconoscere la vera consistenza dei virgulti
positivi che il nostro tempo genera. Gioia che non è solo un sentimento, una
fragile emozione: è una Persona. Lui è tutta la nostra gioia, nel senso che le
ricapitola tutte, condensandole in Sé. No, non finiremmo mai di parlare di
Gesù. E se anche stasera o domani, nell’opinione pubblica echeggeranno solo
alcune delle nostre parole, e non precisamente queste – forse perché ritenute
ovvie, di maniera, persino scontate –, si sappia però che è questo, è Gesù
Cristo che noi vogliamo porgere, il Suo nome far risuonare. Non è vero che a
noi interessa far politica, noi vogliamo dire Gesù. Uomini e donne che ci
ascoltate, qualunque sia la vostra interiore convinzione, noi Pastori abbiamo
da dirvi una parola antica che si affida alla nostra povera voce, ma che fa eco
a quella poderosa dei secoli: «l’Infinito fatto bambino, è entrato nella nostra
umanità» (Benedetto XVI, Messaggio Urbi et Orbi, 25 dicembre 2012), cioè
ha fatto qualcosa di non immaginabile, ha compiuto l’impossibile, e comunque
qualcosa che va al di là dell’umana comprensione. Eppure, questa Onnipotenza
d’amore ha scelto di non imporsi alla nostra libertà, ma solo di offrirsi. Egli
non vuole «entrare nel mio cuore se non apro io la porta» (ib). Sì,
Porta fidei, è ciò che cercheremo di sperimentare in quest’anno di
grazia, sperimentare nella gioia (cfr Paolo VI, Gaudete in Domino,
1975)! C’è una diffusa mestizia, che si tenta di attenuare con il chiasso e il
rumore, ma Lui – inesorabile nel suo amore – sta alla porta e bussa (cfr Ap 3,20),
e ognuno deve decidere se aprirgli, deve soppesare la convenienza anche umana
del credere in Lui: «Potremmo rimanere spaventati, davanti a questa nostra
onnipotenza alla rovescia. Questo potere dell’uomo di chiudersi a Dio» (Messaggio
cit.). Abituati a trattare con un altro genere di prodigi – della scienza e
della tecnica – o con un altro tipo di poteri – politici o giudiziari –
potremmo forse non cogliere subito l’assoluta novità di questo impareggiabile
Prodigio, di questa ineguagliabile Onnipotenza. L’«ignoranza pratica» circa la
fede (Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi francesi, 30 novembre 2012)
troppo spesso ci ottunde e devìa. Attenzione, però; chinandosi, Dio ci provoca,
ci sfida amorevolmente a cogliere il vuoto diffuso attorno a noi e dentro di
noi, «ma è proprio a partire da questo deserto, da questo vuoto che possiamo
nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi
uomini e donne» (Benedetto XVI, Omelia per l’Apertura dell’Anno della Fede, 11
ottobre 2012). Un germoglio di eternità possiamo impiantare nell’umana
gestazione della vita, scenario impensabile, soprassalto di orgoglio: è un
Miracolo quello che abbiamo tenuto tra le mani a Natale, miracolo che ora
dobbiamo vivere perché fiorisca il deserto.
2.
I fronti di crisi che più ci sgomentano,
all’inizio di questo anno che ancora una volta il Papa ha voluto inaugurare nel
segno della Pace, sono le situazioni di persecuzione in cui si trovano i
cristiani, situazioni che in buona parte coincidono con i conflitti aperti in
diverse nazioni, ma in parte si sviluppano anche là dove apparentemente non
dovrebbero esserci motivi di tensione. Oltre ai luoghi ormai noti, emergono in
Asia nazionalismi razziali che suscitano periodicamente furori intolleranti
sotto gli occhi distratti dell’Occidente, che proclama sì i diritti umani ma
poi sembra volerli applicare ed esigere con pesi e misure diverse. Bisogna
aggiungere le frontiere incresciose dell’Africa: Nigeria, Kenya, Repubblica Democratica
del Congo, Mali, in cui le ragioni degli attacchi si mescolano e i motivi
pubblici delle violenze sembrano voler identificare il cristianesimo con il
mondo occidentale. Eppure il Vangelo, ovunque si incultura, si fa costantemente
accompagnare da esperienze di soccorso alle popolazioni, spesso le uniche
riscontrabili in loco. Poi ci sono le migrazioni etniche basate sempre sul
fattore religioso, per cui i cittadini che professano il cristianesimo –
religione che magari è storicamente la più radicata in quell’ambito geografico
– debbono andarsene lasciando tutto quello di cui era fatta la loro esistenza,
e ciò per non abiurare la fede. Dietro i sommovimenti avvenuti di recente nel
Nord Africa, emergono inquietanti tentativi di ulteriore discriminazione, e in
troppi Paesi ai cristiani non è consentito alcun segno di appartenenza
religiosa, salvo mimetizzarsi, nascondersi, dislocarsi. Gli esperti parlano
complessivamente di oltre centomila cristiani delle varie confessioni uccisi
nel 2012. Una cifra spaventosa, che non può lasciar indifferente nessuno –
singoli e istituzioni – tanto meno in nome di interessi economici e politici.
Quanti soffrono e muoiono per Cristo lo fanno anche per noi, e noi li sentiamo
nostri fratelli nonostante qualsiasi distanza. Nell’economia misteriosa
attraverso cui si intesse concretamente il regno di Dio sulla terra, è la
comunione con queste situazioni di martirio che dà verità e vigore al nostro
lavoro pastorale, impegnato oggi nella rievangelizzazione delle terre che hanno
da tempo conosciuto il Vangelo. Se le nostre parrocchie tenessero viva, anzi
alimentassero, una sistematica memoria dei fratelli che nel mondo sono
perseguitati, anche la locale vitalità della fede ne sarebbe rimotivata. Chi
infatti, se non costoro, possono darci ragioni e convinzioni di slancio
autentico?
Nel
contempo, non abbandoniamo mai la preoccupazione per il problema della fame nel
mondo e l’impegno per gli aiuti da prestare alle varie regioni. La crisi
alimentare, a giudizio del Papa, è «ben più grave di quella finanziaria» (Messaggio
per la 46a Giornata della pace, n.
5). Ci sono le istituzioni preposte, ma c’è innanzitutto la solidarietà che mai deve venir meno, a
livello pratico e anche a livello culturale. Benedetto XVI ha di recente voluto
valorizzare la formula cooperativistica quale strumento efficace per combattere
strutturalmente la fame. Dare impulso al lavoro autoctono e specialmente
agricolo è «un modo per consentire agli agricoltori e alle popolazioni rurali
di intervenire nei momenti decisionali e insieme uno strumento efficace per
realizzare quello sviluppo integrale di cui la persona è fondamento e fine» (Messaggio
per la Giornata dell’Alimentazione, 16 ottobre 2012). Una circostanza
questa che ci induce ad esprimere, per assonanza, vero stupore per una specie
di improvvisa incomprensione che ha colpito il settore dell’economia sociale:
proprio da noi, che storicamente siamo stati tra i primi a sperimentarla e
abbiamo così tante ragioni concrete per stimarla. Nutrire più rispetto per
l’economia sociale e civile, e per le sue esperienze più tipiche in quello che
è chiamato il Terzo settore, è condizione per continuare a disporre del cespite
di un’economia prossima a tutti e certamente propizia per la collettività.
3.
Ma c’è un’altra emergenza che il Natale, con il
suo realismo crudo e implacabile, ha messo sotto gli occhi di chi vuol vedere:
la condizione di indigenza che si va obiettivamente allargando, e sta
intaccando segmenti di società in cui prima era sostanzialmente marginale. I
dati vengono monitorati da varie agenzie, le quali oggi convergono
nell’assegnare uno spessore crescente al fenomeno. A nessuno deve far comodo
esagerare in termini catastrofici, ma occorre però che il Paese non esorcizzi la
realtà. Gli schemi sociali classici sono saltati e non si ripristineranno
automaticamente. Scongiurato il baratro, è il momento decisivo e irrimandabile
del rilancio. La ripresa, quando ci sarà – e segnali di speranza, grazie a Dio,
cominciano ad affacciarsi – non sarà tale purtroppo da porre rimedio da sola
alle emergenze nel frattempo scoperte. È il sistema che va posto in discussione
– il meccanismo consumi-spesa-debito pubblico (cfr. Messaggio per la 46a Giornata Mondiale della Pace, n. 5) –
abbandonando la logica delle “illusioni” che ha fatalmente mostrato la propria
assoluta inadeguatezza morale e pratica. C’è da rivoluzionare il modello grazie
al supporto di un pensiero nuovo, fermamente convinti che il lavoro è
definitorio dell’umano: esso, infatti, è la nobile partecipazione dell’uomo
all’opera del Creatore, consente il dignitoso sostentamento, contribuisce alla
costruzione della società, esprime le potenzialità di ciascuno nell’armonia
generale, genera futuro per tutti. Giustamente da più parti si evidenzia la
nuova rilevanza che ha acquisito la questione sociale in Italia e in Europa,
per gli esiti di emarginazione che sta creando. Noi, per la prossimità che ci è
data con la vita reale della gente, non possiamo che confermarlo con crescente
allarme e soprattutto con cuore afflitto: «La giustizia chiede di superare lo
squilibrio tra chi ha il superfluo e chi manca del necessario» (Benedetto XVI, Discorso
all’Angelus, 16 dicembre 2012). E tra quanto è più necessario è proprio il
lavoro, bene «prioritario, anche nei periodi di recessione economica»
(Benedetto XVI, Discorso a Justitia et Pax, 3 dicembre 2012). La
disoccupazione giovanile è, per ora, una sorta di epidemia che non trova
argini, mentre ci si chiede se le iniziative legislative che si sono finora
succedute abbiano determinato sollievo o aggravamento. Bisogna che le
competenze migliori cooperino in uno sforzo solidale e così ogni istituzione,
affinché si possa vedere e toccare il rilancio dell’occupazione e
dell’economia; rilancio per il quale la gente ha accettato sacrifici anche
pesanti. Tanto patrimonio di responsabilità e rigore, di dignità e adattamento,
non può andare sprecato per colpa di alcuno – sarebbe un insulto – e invece si
deve cominciare a vederne i frutti. Non può essere il capitale umano quello che
per primo viene messo in discussione quando un’industria è in sofferenza; se è
approdata ad alti livelli è grazie al lavoro e all’apporto delle diverse
maestranze, ed è ingiusto che proprio queste, per prime, vengano messe alla
porta. Vorremmo incoraggiare e sostenere quanti, nei diversi ruoli, vanno per
il mondo ad assicurare credibilità e aprire nuovi sportelli di mercato. Vediamo
lavoratori che si stringono di più gli uni agli altri, che cercano di
appoggiarsi reciprocamente in modo generoso e intelligente. Vediamo famiglie
che solidarizzano, condividendo economie e risorse, scambiando tempo e servizi.
Vediamo giovani – non sono per noi i nuovi invisibili – non disposti ad
arrendersi. A loro siamo particolarmente vicini in ogni momento di
disillusione, ma anche in ogni tentativo che conducono: in ogni curriculum
che inviano, ad ogni porta a cui bussano, siamo con loro per appoggiare la loro
tenacia. Nel frattempo tuttavia bisogna che il sistema sappia migliorare le
prestazioni e innovare nel senso della sostenibilità, della ricerca, della
sicurezza. Bisogna affinare le eccellenze, sveltire i processi, alleggerire la
macchina burocratica, valorizzare continuamente la creatività e l’inventiva. E
bisogna abbandonare la logica dell’essere contro “a prescindere”, atteggiamento
che appare come un’offesa all’intelligenza e alla serietà delle questioni. La
logica del sospetto ideologico genera divisioni artificiose, contraccolpi
indesiderati, ritorsioni a loro volta superficiali e dolorose. Servitori di
Gesù Cristo, noi Vescovi vorremmo annunciare oggi, con particolare persuasione,
il vangelo del lavoro. Gesù ha investito almeno due decenni della sua vita nel
laboratorio di Giuseppe, ha conosciuto la fatica del lavoro, l’ha praticata
senza sconti o fughe. Anche in quel lungo tratto della sua esistenza, Egli
ubbidiva al Padre e aveva un programma da indicare a noi.
Una
parola, in questo contesto del welfare, vorremmo dirla a proposito della
sanità: da una parte per condannare gli imbrogli, i maneggi, le astuzie che si
consumano in un settore ad altissima vocazione altruistica, dall’altra per
prendere le distanze da logiche irrazionalmente pretenziose e talora
esclusivamente campanilistiche. Dobbiamo allargare lo sguardo. Chiediamo
tuttavia che la politica dei tagli sia compensata e guidata dal criterio che al
centro vi sia sempre la persona del paziente: quale che sia la sua età e
condizione, va prioritariamente salvaguardata. Per questo ci sono specialità,
competenze e ricerche che vanno strategicamente preservate. Non ci devono
essere privilegi, ma neppure visioni ristrette o punitive.
Un’altra
parola, molto convinta, intendiamo riservarla alle popolazioni del Meridione,
non da oggi vessate dalla malavita, i cui tentacoli ormai si allargano all’intero
Paese. Dobbiamo vigilare, resistere, incoraggiare, denunciare, bonificare e
recuperare: tutto in una chiave di educazione e promozione umana che è
inseparabile dall’evangelizzazione.
4.
Queste problematiche sociali, in certa misura
antiche ma anche inedite, hanno oggi una spigolosità che non lascia certo
indifferente la nostra Chiesa, la quale per la sua parte intende rispondervi
rinnovando profondamente se stessa e la propria presenza sul territorio,
anzitutto grazie ad un profilo più missionario delle parrocchie: «Il messaggio
cristiano viene seminato e si radica efficacemente là dove è vissuto in modo
autentico ed eloquente da una comunità» (Benedetto XVI, Messaggio
all’Assemblea del CCEE, 8 ottobre 2012). La riduzione del clero non può
coincidere con l’affievolirsi di tali presidi pastorali, anzi è semmai il
tenerli ancor più aperti, attenti e prossimi alle persone che può configurare
una fondamentale risposta alla sfida della nuova evangelizzazione. È noto
quello che viene messo in campo dalle nostre Diocesi per rispondere all’appello
dei bisognosi. In tal senso, la sensibilità e la reperibilità, riscattate da
pragmatismi farraginosi e connotate da amicizia e condivisione, diventano
caratteristiche irrinunciabili della carità evangelica. Ma oltre al territorio,
quest’opera va meglio coniugata con la pastorale degli ambienti, in vista di un
accreditamento reciproco e un’integrazione più consapevole ed esplicita con la
presenza dei movimenti e delle aggregazioni, come con proposte che per natura loro sono sovra-parrocchiali.
Si pensi alle GMG o ai pellegrinaggi. Una pastorale integrata, dunque, che
ponga il proprio baricentro nell’Eucarestia, e da lì si moduli senza
isolazionismi, mirando a ciascun soggetto e ciascun ambito, finanche ai
crocicchi delle strade. Ma mentre attiviamo una migliore creatività (cfr.
Benedetto XVI, Omelia per la conclusione del Sinodo, 28 ottobre 2012),
dobbiamo sempre ricordare che non è il nostro fare più o meno esasperato che
compie il miracolo della fede, bensì il consentire attraverso di noi il fare
del Signore, il non ostacolarlo e anzi favorire la sua attrattività. Lui fa
nascere figli di Abramo dalle pietre (cfr Lc 3,8), Lui dobbiamo
collocare sempre più al cuore della nostra attività e delle nostre relazioni,
Lui riconoscere come il senso vero di ogni iniziativa catechetica e di ogni
sforzo per rinnovarla, Lui soprattutto la Presenza palpitante di una liturgia
meno pragmatica e sciattamente didascalica, perché meglio capace di far
incontrare il Signore, non noi. È nella cura ai sacramenti, a partire da quelli
dell’iniziazione cristiana, che parrocchie e diocesi mettono in gioco il
permanere della loro cattolicità. Non abbiamo un prodotto da imporre – come ci
avvertiva il Messaggio finale del Sinodo – ma una Persona, una presenza,
un’amicizia che cambia la vita. In questo senso è la testimonianza e sono i
testimoni coloro che concretamente fanno la nuova evangelizzazione. Qui si
insinua la dinamica di una nuova devotio di cui pure s’è parlato, che
deve spingerci a ritrovare, nella post-modernità, quei modi e quelle occasioni
atte a parlare al cuore. Cercando di arrestare ogni processo di involontaria
auto-secolarizzazione, le nostre comunità devono rispondere alla nostalgia di
Dio, senza porre in alternativa ciò che è essenziale con il clima necessario
alla pietà, al senso di stupore, all’interiorizzazione. Se si è impoverito il
lessico della fede ed è stato eroso il linguaggio che teneva viva la relazione
con Dio, bisogna far sì che il tempo della nuova evangelizzazione coincida con
la riscoperta dell’identità cristiana e della sequela personale del Signore.
C’è una tiepidezza che discredita il cristianesimo, osservava il Papa: «La fede
deve divenire in noi fiamma dell’amore […] la verità diventi in me carità e la
carità accenda come fuoco anche l’altro. Solo in questo accendere l’altro
attraverso la nostra carità, cresce realmente l’evangelizzazione, la presenza
del Vangelo, che non è più solo parola, ma realtà vissuta» (Meditazione alla
1a Congregazione generale del Sinodo, 8 ottobre
2012).
5.
Sotto il peso della congiuntura, il popolo
italiano si è mostrato ancora una volta solido: nella capacità di dedizione e
di sacrificio ha rivelato forza di tenuta e di speranza. Ma nessuno s’illuda o
cerchi spiegazioni ideologiche e parziali: se ciò è accaduto, prima che ai
risparmi, alle autoriduzioni, alla revisione di stili di vita, ciò è dovuto al
naturale e insostituibile moltiplicatore di ogni più piccola risorsa: la
famiglia. È il suo patrimonio di amore,
di sostegno e di legami virtuosi, che permette ad ognuno di mantenere
quell’invisibile e incomparabile capitale di autostima e fiducia che nessuna
ricchezza materiale può comprare, e senza del quale le difficoltà diventano
massi schiaccianti. Neppure possiamo dimenticare che a livello pubblico hanno
rappresentazione la volatilità degli indicatori economici, la gracilità della
sicurezza economico-sociale, l’improvvisa friabilità dei nostri argini di
garanzia, l’imperiosità delle disposizioni europee. È comprensibile dunque un
certo senso di smarrimento. Azioni importanti nell’ultimo periodo sono state
fatte per recuperare affidabilità e autorevolezza, a prezzo anche di pesanti
sacrifici non sempre proporzionatamente distribuiti. Il Paese ha tenuto duro,
avvertendo intuitivamente che stava facendo quello che bisognava fare. Resta
ora da saldare in modo anche visibile la disponibilità della gente con il
costume pubblico e politico. Non c’è un rigore istituzionale degno di questo
nome se non ci sono formazioni politiche che lo assumono su di sé, lo
interpretano con scrupolo, ciascuna con le proprie sensibilità, ma alla fine su
di esso sostanzialmente convergono. Si respira uno sbilanciamento tra il
desiderio popolare di uscire dal tunnel e ciò che viene messo in campo perché l’impresa riesca grazie
all’iniziativa dei pubblici poteri. Di qui la percezione di un Paese
perennemente incompiuto, che costa molto a se stesso ma non riesce ad ottenere
i risultati che merita. Sistema non riformabile?, ci si chiede. Dipende dalla
capacità della classe politica complessivamente intesa di sfidare i propri vizi
storici, mettendo con ciò in riga anche i comportamenti popolari che resistono
al cambiamento, come il costume dell’evasione fiscale o quello delle “scorciatoie”.
Ma finché non si dimostrerà vincente la logica del merito, dell’obiettività,
del non-familismo, sarà difficile confidare. Finché la lotta all’evasione non
produrrà risultati in cifre consistenti, e queste entrate non serviranno per
abbattere la tassazione generale, è difficile dar credito alle promesse. Il
precipitare della legislatura verso una prematura conclusione sembra aver
risvegliato, nel panorama politico, una agilità e prontezza sorprendenti. C’è
un professionismo esibito nelle fasi elettorali che palesemente contrasta con
la flemma e la sciatteria dimostrate talvolta in altri frangenti, come se si
volesse stare a guardare lo svolgersi degli eventi, pronti ad appropriarsi dei
meriti ma non a condividere i pesi, pronti a cogliere l’occasione opportuna.
Opportuna per chi? Forse per il Paese? «La Chiesa non può e non deve prendere
nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta
possibile»: queste parole normative di Benedetto XVI, espresse nella sua prima
enciclica Deus caritas est, al n. 28, sono il binario a cui strettamente
ci atteniamo. Ma se la Chiesa non è chiamata a caricare immediatamente su di sé
il compito politico, «non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta
per la giustizia» (ib). Per questo, a quanti sono in campo osa oggi
richiedere parole chiare circa le proprie personali intenzioni, e alle
formazioni politiche l’impegno su programmi espliciti, non infarciti di
ambiguità lessicali e tattiche. Il Paese sano è stanco di populismi e reticenze
di qualunque provenienza e comunque vestiti. Le riforme domani saranno
realizzate solo se oggi non si fanno promesse incaute e contraddittorie. Gli
italiani, a quel che comprendiamo, non chiedono l’impossibile, esigono
piuttosto che nessuno dei sacrifici compiuti vada deviato o perduto. E che a
partire da questi sacrifici si allestisca l’intelaiatura di una ripresa
concreta, diffusa, equa. Ma un simile obiettivo, insieme morale e politico, è
concretamente sperabile se non manca ora la capacità di autocritica,
l’abbandono di ogni automatico addebito ad altri, la determinazione di non
raggirare domani gli impegni assunti con l’elettorato oggi. La gente vuole che
la politica cessi di essere una via indecorosa per l’arricchimento personale.
Per questo s’impone un potere disciplinare affidabile e una regolazione
rigorosa affinché il malcostume della corruzione sia sventato, tenendo conto
però che a poco servono le necessarie leggi se le coscienze continuano a
respirare una cultura che esalta il successo e la ricchezza facile, anziché
l’onore del dovere compiuto.
6.
Il prossimo vaglio elettorale ci renderà più o
meno poveri? Ecco un modo, a nostro avviso non banale, per affrontare le
scadenze all’orizzonte. Va da sé che qui stiamo parlando di indigenza o di
benessere secondo il prevalente profilo antropologico. Se è sacrosanto il
ciclico appello al popolo, affinché in coscienza e responsabilità questi decida
sulla strada da percorrere e sulla classe dirigente a cui per un tratto
affidarsi, a ciò corrisponde il diritto-dovere di ogni cittadino alla convinta
partecipazione alla vita civile e politica del Paese. Per questo merita
superare allergie e insoddisfazioni, anche profonde: la diserzione dalle urne è
un segnale di cortissimo respiro. Non bisogna cedere alla delusione, tanto meno
alla ritorsione: non sarebbe saggio e, soprattutto, sarebbe dannoso per la
democrazia. Partecipare è dovere irrevocabile, specie se si pretende di
inserire questa prossima scelta in un quadro più maturo che coinvolga nei
debiti modi l’intera vita civile. Tornano qui provvidenziali le elaborazioni
sulla società che a più riprese sono state condotte dalle nostre Settimane
Sociali: guardare con sufficienza, o peggio ironizzare sull’afasia dei
cattolici e dei Pastori, è quanto meno ingiusto come è stato anche recentemente
riconosciuto. La dottrina sociale cristiana ha una sua precipua originalità
rispetto al collettivismo sedicente progressista e al liberismo falsamente
egualitario.
È
certamente riconosciuto dalla coscienza in generale l’esigenza di esprimere il
proprio voto liberamente, cioè svincolato da suggestioni e da pressioni spesso
veicolate da minoranze che hanno l’abilità di non apparire tali. La biopolitica
è oramai una frontiera immancabile di qualsiasi programma. Francia, Spagna,
Inghilterra, Stati Uniti…, per limitarci a questi soli Paesi, ci dicono che non
si può far finta di accantonare i problemi quando sono semplicemente nodali
nelle società post-moderne. Parlare di vita, salute, malattia, stati cosiddetti
vegetativi, dolore, previsione infausta, medicina palliativa, invasività delle
diagnosi, disabilità, rapporto medico-ammalato, ma anche di medicina e bilancio
dello Stato, obiezione di coscienza, politica dei trapianti… significa
affrontare temi cruciali che tali saranno sempre di più. Insieme a quello
scandaloso – per le evidenze che vorrebbe ignorare – dell’aborto, della
maternità surrogata, dell’eutanasia attiva o passiva. Andando sul concreto,
quanti aborti e quanti tentazioni eutanasiche si verificano a motivo del
primato economicista? Non ha senso nascondere gli argomenti, riconoscendo
invece cittadinanza elettorale solo all’economia, in quanto fenomeno che
obiettivamente brucia. Si parla ovunque di biopolitica e di biodiritto; perché
non concepire anche l’economia come bioeconomia? Linee di compromesso, o peggio
di baratto tra economia ed etica della vita, a scapito della seconda, sarebbero
gravi. Senza il primato antropologico non solo la finanza e l’economia
sarebbero oppressive perché ridurrebbero la persona in termini di costi e
ricavi, ma anche lo stato sociale nascerebbe su basi anguste e riduttive.
Né
ci si può illudere di neutralizzare in partenza il dibattito, acquisendo
all’interno delle varie formazioni orientamenti così diversi da annullare
potenzialmente le posizioni, o prevedere al massimo il ricorso pur apprezzabile
all’obiezione di coscienza. Viene qui spontanea una analogia con la famiglia:
come questa ha un volto, un’identità fatta dal suo modo di ragionare, di amare
e di agire, così è della società e dello Stato se vogliono essere una comunità,
e non solo un agglomerato di interessi o istanze particolari. In questa seconda
ipotesi, lo Stato potrà solo cercare di “tenere a bada” gli appetiti
contrastanti dei singoli soggetti o parti, allergici ad un progetto di bene
comune. Il suo massimo merito sarebbe in questo caso di bilanciare non di
costruire. Ma la famiglia – riferimento principale dell’analogia – non è
questo! La famiglia è una scelta d’amore che – in un progetto comune – diventa
patto tra un uomo e una donna nel matrimonio.
Similmente,
anche la società deve avere alla base un progetto di bene comune, altrimenti cadrà
fatalmente in balia di pressioni o interessi contrastanti, dove sarà ascoltato
ed esaudito chi fa la voce più forte e insistente. Ora, alla radice del bene
comune troviamo le realtà primarie della vita, della famiglia e della libertà,
che si intrecciano e si richiamano universalmente perché sono valori fondativi
e quindi irrinunciabili dell’umano. Si potrebbe dire che l’inviolabilità della
vita è il principio, la famiglia ne è il grembo sorgivo, la libertà la
condizione prima di sviluppo. Tutto il resto viene di conseguenza. Quando la
Chiesa si interessa dell’inizio e della fine della vita, lo fa anche per
salvaguardare il “durante”, perché ciò che le sta a cuore è tutto l’uomo, la
cui dignità non è a corrente alternata. Sviluppando la precedente metafora,
nella famiglia nasce la vita, viene accudita con amore e dedizione, fedeltà e
gioia, tanto più quanto essa si presenta fragile e indifesa. La piccola vita –
come la vita malata o anziana – è sentita parte viva e cara del corpo familiare
poiché ognuno è importante, e sta a cuore agli altri per quello che è, non per
ciò che fa o produce. Così deve essere nel corpo sociale e nello Stato. Lasciar
andare alla deriva la vita fragile, che non ha neppure la voce o il volto da
opporre per affermare se stessa, rivela un’autocomprensione efficientista e
arrogante dello Stato, una sua inquietante carta d’identità, pur se il tutto è
spesso motivato con ragioni alte. È qui in questione non la sofferenza e il
dramma di persone concrete, ma il porsi – e prima ancora il concepirsi – di uno
Stato verso i suoi membri. La fotografia realista di una società è determinata
anzitutto dal suo rapportarsi virtuoso non verso i soggetti efficienti,
produttivi e gagliardi, ma verso i più bisognosi e indifesi. Sta qui la sua
prima e incancellabile verità. E non in termini di assistenza, ma di giustizia
poiché questo è lo scopo della buona politica. La vita fragile interpella non
solo la famiglia, che già se ne fa carico, ma la società intera. Chiede alla
comunità e ai suoi apparati istituzionali di non essere abbandonata ma di
essere presa “a cuore”. È evidente che ciò rappresenta un impegno per la
collettività in termini di risorse economiche e assistenziali; come è evidente
che tali vite spesso non avranno da ricambiare con compensi o consenso. Ma la
vera risposta sta nel fatto che la società avrà fatto il proprio dovere, paga
di essere umana. Ecco perché quando si giunge di fronte alla grande porta dei
fondamentali dell’umano, non è possibile il silenzio da parte di alcuno,
persone e istituzioni: si è arrivati al “dunque”. Reticenze o scorciatoie non
sono possibili: bisogna dire il volto che si vuole dare allo Stato, se è una
famiglia di persone o un groviglio di interessi; se un agglomerato di individui
o una rete di relazioni su cui ciascuno sa di poter contare, specialmente nelle
fasi di maggiore fragilità.
7.
Certo la difesa dei diritti ha fatto grandi
progressi, e dunque in qualche modo può ritenersi un dato basilare unificante
le diverse formazioni e diversi gruppi. Ma come non riconoscere una singolare
tendenza arbitrariamente selettiva di quanto viene proposto come irrinunciabile
e innegoziabile? Ecco perché la già evocata «questione sociale è diventata
radicalmente questione antropologica» (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n.
75). Dobbiamo stare attenti che una certa cultura nebulosa non ci annebbi la
vista, inducendoci a non riconoscere più, tra i principi che mandano avanti la
società, i fondamenti che non sono confessionali, come si insiste a dire, ma
semplicemente di ordine razionale. Anzi, è necessario che in un momento
elettorale si certifichi dove essi trovano dimora. Si tratta della vita, come
ho detto, dal suo concepimento alla morte naturale, dunque la rinuncia
all’eutanasia comunque si presenti, la libertà di coscienza e di educazione, la
famiglia basata sul vincolo del matrimonio tra l’uomo e la donna, la giustizia
uguale per tutti, la pace. Sono le determinazioni storico-pratiche o principi
basilari, dunque non negoziabili, per i quali c’è un fondamento, oltre che
nella ragione, nella nostra stessa Costituzione, e ai quali tutti gli uomini di
buona volontà debbono attenersi. Chiunque si rifà al bene comune immediato non
può non considerarli per ciò che sono, ossia valori non derogabili sul piano
della civiltà politica, pena un arretramento antropologico e sociale. Perché la
Chiesa insiste tanto? Perché ha a cuore l’uomo! Perché è chiamata a
rappresentare «la memoria dell’essere uomini di fronte a una civiltà
dell’oblio, che ormai conosce soltanto se stessa e il proprio criterio di
misura. […] La Chiesa certamente non ha soluzioni pronte per le singole
questioni. Insieme alle altre forze sociali, essa lotterà per le risposte che
maggiormente corrispondano alla giusta misura dell’essere umano. Ciò che essa
ha individuato come valori fondamentali, costitutivi e non negoziabili
dell’esistenza umana, lo deve difendere con la massima chiarezza. Deve fare
tutto il possibile per creare una convinzione che poi possa tradursi in azione
politica» (Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 2012).
Su questi principi i cattolici sanno che non esiste compromesso o mediazione
comunque si voglia chiamare, poiché ne va dell’umano nella sua radice. Per
questo la Chiesa è “avanguardia”. Si sente ripetere che questi sono valori
“divisivi” mentre quelli sociali sarebbero “unitivi”: in realtà, i valori
sociali dei quali abbiamo parlato sopra e che la Chiesa conosce e pratica fin
dal suo nascere (cfr At 2) stanno in piedi se a monte c’è il rispetto
della dignità inviolabile della persona. Fa specie che taluno consideri tali
principi come retaggio clericale quando sono le garanzie ultime per gli
indifesi e i senza diritto di parola. In questa cornice, ci pare senza dubbio
importante la campagna «Uno di noi» che partirà prossimamente e vuole portare
nelle sedi comunitarie l’istanza della vita, senza più selezioni. Così come
stupisce che si programmi fin d’ora di discostarsi da essi, quale passaggio
necessario per “entrare” a pieno titolo nell’Europa evoluta. Ma l’evoluzione e
il progresso consistono nel negare i valori umani? E perché dovremmo noi
inseguire e copiare qualcuno che, abdicando ad essi, si è allontanato dal
circuito valoriale ed è entrato in un assolutismo del relativo, del precario,
del soggettivo, rischiando di congedarsi dalla storia? Gli esiti sociali
riscontrabili di quella impostazione ci legittimano a tanto? Perché si dovrebbe
«contenere» l’Europa – per altro necessaria – quando avanza pretese esigenti
sul fronte – ad esempio – delle regole sul lavoro, ed assecondarla invece
quando vorrebbe decidere dell’equilibrio esistenziale della nostra umana
esperienza? Fa pensare la Caritas in veritate quando avverte: «Come ci
si potrà stupire dell’indifferenza per le situazioni umane di degrado, se
l’indifferenza caratterizza persino il nostro atteggiamento verso ciò che è
umano e ciò che non lo è?» (ib). Come Vescovi, sentiamo di dover far
nostro l’invito proveniente oggi anche da soggetti insospettabile, di non lasciarci
dividere dal secolarismo piegato in versione nichilista. La crisi in atto – che
in ultima istanza può essere vinta solo con la cultura della vita (cfr Messaggio
CEI per la Giornata della vita 2013), ci ricorda che senza un’apertura al
trascendente l’uomo diventa incapace alla lunga di agire per la giustizia (cfr.
Benedetto XVI, Discorso a Justitia et Pax cit.). Dunque, il bene comune
immanente che tenacemente va perseguito, deve mantenere i cieli aperti perché
questo procura perentorietà e dedizione all’iniziativa dei singoli.
8.
La madre di tutte le crisi è l’individualismo. E
questo è figlio della cultura nichilista per cui tutto è moralmente
equivalente, nulla vi sarebbe di oggettivo e di universale valido e obbligante.
È questo il tarlo più o meno mascherato che sta modificando dal di dentro gli
assetti dell’orientamento comune e delle prassi sociali. Nel suo congenito
utilitarismo, l’ideologia individualistica concepisce «la persona come un
essere fluido, senza consistenza permanente», per la quale non c’è una natura
precostituita, è il soggetto a crearsela (cfr. Benedetto XVI, Discorso alla
Curia Romana cit.). In realtà, è la cultura del limite quella che viene
rimossa, in quanto ritenuta negazione della libertà individuale e dello slancio
vitale. Dunque, non conveniente e
ingiusta. Si tratta – a ben vedere – di una sorta di moderno delirio di
onnipotenza che nella storia umana è già stato più volte sperimentato. Una
distorsione radicale del desiderio di libertà e di autorealizzazione, una sorta
di fuga dal realismo fattuale e dalla ragione stessa. Di qui l’incapacità di
legami veri, in cui l’altro sia non solo la proiezione o lo specchio di sé, ma
il terminale di una relazione a misura intera dell’essere. Si annida qui
un’idea bugiarda e infondata di un’autonomia personale che accetta di entrare
in comunicazione con l’altro solo potendola – la comunicazione – interrompere
in ogni momento (cfr ib). Ovvio che tutto questo abbia una ricaduta
pesante sull’esperienza familiare e le sue possibilità di tenuta, ma prima
ancora sulla prospettiva di potervi tener fede. Ed è uno dei motivi del calo
dei matrimoni, di cui pure si è parlato negli ultimi mesi, ma anche della grave
situazione demografica. Peccato che, nei giorni successivi, l’argomento sia
rapidamente scomparso dal dibattito pubblico, quasi fosse un tema tra mille
altri, e non ci si sia interrogati adeguatamente sulle proiezioni in termini di
futuro di questa sottovalutazione. Ed ecco anche uno dei motivi per cui si
continua a riproporre il tema dei matrimoni omosessuali, quasi si trattasse di
un approdo inevitabile. La famiglia precede lo Stato, in quanto è un istituto
dotato di una sua naturalità per nulla convenzionale, perché iscritta nel
codice addirittura fisico della persona: le differenze sessuali, infatti, si
richiamano vicendevolmente in vista di un mutuo completamento nel segno
dell’amore che è accoglienza e dono, grembo di nuove vite da generare e
educare. Il diritto del bambino – non al bambino – viene prima di ogni
desiderio individuale.
La
famiglia si è mostrata ancora una volta come l’elemento fondamentale per la
coesione sociale delle diverse generazioni, la cellula primordiale e il
patrimonio incomparabile su cui poggia la società. Per queste ragioni nulla può
esserle equiparata, né tanto né poco. Né può essere indebolita da ideologie
antifamiliari o simil-familiari, che vorrebbero ridefinire la famiglia e il
matrimonio mutando l’alfabeto naturale e istituendo modelli alternativi che la
umilierebbero alimentando il disorientamento educativo. Si sente dire che “dove
c’è amore c’è famiglia”. Mi sembra un’affermazione suggestiva ma qualunquista,
perché la coppia – per fare famiglia – oltre l’amore richiede anche altri
elementi costitutivi: capacità, doveri e diritti, su cui la società conta e per
i quali s'impegna. Tutto ciò appartiene a quel senso comune in grado di sfidare
qualunque sollecitazione: semmai ha solo bisogno di essere confortato e
consolidato. Dispiace, a dire il vero, che tutto questo non si voglia
comprendere, come se la Chiesa nutrisse degli ostinati pregiudizi. Ma se esistono lucidità intellettuale e
onestà morale, perché non è dichiarato apertamente ciò che ad arte viene
taciuto, seppur faccia qua e là capolino? E cioè, se la natura dell’uomo non
esiste, allora si può fare tutto, non solo ipotizzare il matrimonio tra persone
dello stesso sesso. La recente sentenza della Cassazione sull’adottabilità da
parte delle coppie omosessuali, oltre ad essere stata immotivatamente ampliata
nella propria valenza, non può certo mutare la domanda innata di ogni bambino:
quella di crescere con un papà e una mamma nella ricca armonia delle
differenze. C’è in giro una notevole confusione, perché si pensa che la realtà
sia superata, che nessuna verità esista, ma se ciò è vero – avverte Spaemann –
allora tutto diventa questione di potere. Ed è ciò che sta sotto i nostri
occhi, ma è anche ciò che la Chiesa, «esperta in umanità» (Paolo VI, Discorso
all’Assemblea dell’Onu, 4 ottobre 1965), non potrà mai accettare: «La
verità per noi è più importante della derisione del mondo» (Benedetto XVI, Omelia
all’Epifania cit.). E questo non per opporsi al mondo moderno con le sue
luci e conquiste, i suoi aneliti giusti e nobili, ma per lo stesso amore che ha
spinto il Samaritano del Vangelo a farsi umilmente prossimo. Così come il
venerabile Paolo VI disse al termine del Concilio Vaticano II: «L’antica storia
del Samaritano è stato il paradigma della spiritualità del Concilio. Una
simpatia immensa lo ha tutto pervaso […]. Questo Concilio tutto si risolve nel
suo conclusivo significato religioso, altro non essendo che un potente e
amichevole invito all’umanità d’oggi a ritrovare […] quel Dio “dal Quale
allontanarsi è cadere, al Quale rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è
stare saldi, al Quale ritornare è rinascere, nel Quale abitare è vivere”
(Sant’Agostino, Soliloqui, I,1 3)» (7 dicembre1965).
Cari Confratelli, mi fermo qui, anche se le
questioni toccate meriterebbero probabilmente dell’altro: ma questo verrà dal
nostro confronto. Continuiamo a stare nella speranza, cioè con il
Signore e la sua beatissima Madre
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