venerdì 25 gennaio 2013

I principi non negoziabili non sono bandiere in mano a bigotti


Nel nuovo libro di Francesco Ventorino (Luigi Giussani. Il coraggio della speranza, Marietti 1820) in uscita nelle prossime settimane, c’è un capitolo in cui Giancarlo Cesana racconta la sua esperienza di impegno “politico” (in senso ampio) nato dall’appartenenza a Comunione e Liberazione. Un contributo che torna particolarmente utile in periodi come questo che stiamo attraversando: una campagna elettorale nel pieno di una delle più potenti crisi economiche e politiche, nella quale spesso i cattolici appaiono frastornati, quasi fossero senza punti di riferimento. Eppure gli ultimi due pontificati, in totale continuità e in piena sintonia con la Conferenza Episcopale Italiana, hanno sempre segnato con estrema chiarezza la strada da seguire, anche per coloro che si impegnano in politica e per chi deve eleggere i propri rappresentanti nelle istituzioni.
Basterebbe per esempio rileggere con attenzione, e soprattutto onestà intellettuale, la Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede, redatta nel novembre 2002 dall’allora cardinal Ratzinger, durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Oppure il discorso che il cardinal Bagnasco ha pronunciato in occasione del primo raduno di Todi, nell’ottobre del 2011. Due testi che fanno ben capire perché i “princìpi non negoziabili” sono alla base dei criteri per scegliere i partiti in cui impegnarsi e per cui votare, come negli ultimi anni Papa e vescovi non si stancano di ripetere.
Non sorprende quindi che Cesana, raccontando dei suoi anni di impegno politico e sociale, si rifaccia a tali princìpi, anche se non erano neppure formulati in questi termini negli anni della storia di Cl cui fa riferimento. Scrive infatti Cesana: «Tra i contenuti su cui si è distinta la “battaglia” politica del movimento fin dal suo sorgere vi è la libertà di educazione. Fateci andare in giro nudi, ma lasciateci la libertà di educare, ripeteva instancabilmente Giussani. È indubbio che, politicamente parlando, la libertà di educazione è il principio metodologico che permette a tutti gli altri princìpi, in particolare quelli definiti da Benedetto XVI come non negoziabili – tutela della vita, dalla nascita alla morte naturale; famiglia, come matrimonio tra uomo e donna; e appunto diritto dei genitori a educare i figli – di essere difesi e sviluppati. È evidente che l’affievolimento di tali princìpi sia in correlazione con l’indebolimento della capacità di proposta educativa dei cristiani (…). Il valore della libertà di educazione non sta solo nella organizzazione delle scuole, ma dell’intera società, nel senso che non tutti fanno scuola in egual modo, ma nemmeno in egual modo assistono gli anziani, costruiscono ospedali, pensano al lavoro, alla casa, alla convivenza e così via (…)».
Tutta la storia del movimento di Cl echeggia in queste parole, e sarebbe bene farne tesoro. Ma è un errore pensare che questi princìpi siano appannaggio solo dei cattolici, anche se, incredibilmente, siamo noi a tenerne il testimone in questi tempi. Non si tratta certo di princìpi nuovi nel magistero della Chiesa, a cominciare dalla tutela della vita e del matrimonio. Ma allo stesso tempo non è solamente l’espressione che li accomuna – “princìpi non negoziabili” – ad avere un tono di novità. Se per esempio centinaia di migliaia di persone, non solo cristiane ma anche musulmane, ebree, non credenti, e di tante appartenenze politiche hanno di recente sfilato nella laicissima Francia per dire un’ovvietà – i bambini nascono da un uomo e da una donna – è miserevole archiviare il tutto come un’iniziativa politica o, peggio ancora, ideologica: qualcosa è successo negli ultimi trent’anni per cui questi princìpi hanno assunto un peso tutto speciale per la storia dell’intera comunità umana, e non solo per i cattolici, che si sono trovati ad avere la responsabilità di ricordarlo a tutti. Cerchiamo di capirne il perché.
La riproduzione collaborativaNel luglio del 1978 è nata Louise Brown, il primo essere umano venuto al mondo, concepito al di fuori del grembo materno. Se potessimo mettere una data di inizio all’epoca dei “princìpi non negoziabili”, dovremmo adottare questa. Per la prima volta nella storia dell’umanità, infatti, un essere umano è stato generato in un laboratorio, a prescindere da un rapporto fisico fra un uomo e una donna, e successivamente trasferito nel corpo di una donna da mani umane. È stato da quel momento che un uomo e una donna avrebbero potuto concepire un figlio fuori dal proprio corpo, anche senza conoscersi, senza venire a contatto. Da quel momento è stato possibile che una donna partorisse un figlio non suo, ma geneticamente di un’altra donna, affittando – letteralmente – il proprio utero, su richiesta e a pagamento. Da quel momento è stato possibile per un bambino avere fino a sei genitori, quattro legati biologicamente a sé e due sociali. La maternità biologica si può scindere addirittura in tre: una donna mette a disposizione l’utero e una i propri ovociti, che in alcuni casi possono essere manipolati geneticamente inserendo una quota di Dna proveniente da un’altra donna ancora. Alle tre “madri biologiche” se ne potrebbe aggiungere una quarta, cosiddetta “sociale”, cioè quella che legalmente sarà indicata come madre. Aggiungendo un padre biologico e uno sociale, ecco un totale, tecnicamente possibile, di sei genitori. La plurigenitorialità biologica, accettata dal pensiero dominante, viene definita “riproduzione collaborativa” e prevede anche che una donna possa cedere i propri gameti a una sorella, o a sua madre – e analogamente può fare un uomo – creando con il bambino nato legami parentali difficili da definire.
Dalla nascita di Louise Brown è stato possibile, per coppie omosessuali, pensare di avere figli legati biologicamente a sé, escludendo qualsiasi rapporto fisico con l’altro sesso, come se un bambino potesse nascere da due maschi o da due femmine. Quante volte abbiamo letto “il figlio di Elton John e del suo compagno”? Eppure quel bambino, come tutti, è nato da un uomo e una donna, ma è possibile negarlo e dire altro perché i due conviventi maschi hanno potuto comprare ovociti da una donna, farli fecondare con il liquido seminale di uno di loro, e trasferire l’embrione nel grembo di un’altra (è pratica comune, nelle coppie gay maschili, usare l’utero di una donna e i gameti di un’altra: la frammentazione biologica della maternità rende più difficile per entrambe percepire il figlio come proprio, evitando così possibili contenziosi giuridici). Due omosessuali maschi possono quindi avere un figlio mediante agenzie specializzate, senza neppure conoscere le donne che vendono i propri gameti o affittano l’utero, e analogamente due donne possono avere un figlio comprando liquido seminale di sconosciuti. Nelle coppie omosessuali femminili c’è la variante dello scambio: una mette a disposizione gli ovociti, l’altra l’utero, così ognuna è un po’ madre biologica.
In questo modo è più facile negare che il bambino nato è stato concepito insieme a una persona di sesso diverso dal proprio. Se una donna ha un figlio comprando gli spermatozoi, per esempio, potrà dire più facilmente che quel bambino è figlio suo e della sua compagna, riducendo il contributo maschile a una fiala di cellule, il cui “produttore” è un uomo anonimo, oggettivamente difficile da chiamare “papà”, anche se, altrettanto oggettivamente, lo è. Se, invece, un figlio viene concepito durante un rapporto sessuale, anche occasionale, diventa difficile negare l’esistenza di un padre. Con la fecondazione in vitro si compie la scissione della procreazione dalla sessualità – figli senza sesso – iniziata con la contraccezione – sesso senza figli – aprendo all’idea del matrimonio omosessuale ed equiparandolo a quello eterosessuale grazie all’esistenza di figli simulati come propri, un’idea che senza queste tecniche non sarebbe stata così dirompente.
Un collante tra laici e cattoliciÈ solo con la nascita di Louise Brown che si è posto il problema della clonazione umana, e degli embrioni umani creati per essere manipolati e distrutti nei laboratori di ricerca, con tutte le “applicazioni” che ne conseguono, per esempio la creazione di embrioni ibridi umano/animale. Finora nessuno di questi embrioni è sopravvissuto abbastanza per ricavarne cellule staminali. Nessuno è stato mai in grado di definirne la natura e dire che cosa sono stati, nelle loro poche ore di esistenza: è possibile parlare di embrioni prevalentemente umani? Sarebbe stato lecito trasferirli in uteri di donna, in nome della tutela della vita di esseri prevalentemente umani?
Gli sviluppi scientifici e tecnologici sono stati preceduti e/o accompagnati da elaborazioni teoriche sulla natura umana – dal gender all’enhancement – che però non avrebbero avuto lo stesso impatto senza la disponibilità piena della vita umana che le nuove conoscenze consentono. È questo il cuore della “questione antropologica”: il tentativo di ridisegnare i confini dell’umano intervenendo sui corpi e modificando radicalmente le relazioni basilari – uomo, donna, genitori, figli – mediante le nuove tecniche della biomedicina. E per questo si è reso necessario individuare alcuni princìpi fondanti perché l’antropologia che conosciamo, quella che si basa sui figli nati da uomo e donna, con un padre e una madre certi, si vuole violare e trasformare, disegnando rapporti in cui a contare sono i desideri individuali e transitori di ciascuno, indipendentemente dalla realtà dei fatti. “Princìpi” non negoziabili perché stanno all’origine, all’inizio di tutto il resto, e non sono divisivi, ma anzi, sono il collante di laici e cattolici, perché non c’è niente di confessionale nel dire che vogliamo una società con legami certi, in cui ogni bambino ha il diritto di crescere con l’uomo e la donna che lo hanno generato, nell’ambito di un rapporto stabile e tutelato, dove l’adozione serve per porre rimedio a qualcosa che non ha funzionato, non un espediente per legittimare coppie omosessuali.
Potremmo fare analoghe considerazioni per la pretesa di introdurre il “diritto a morire”, che disegna una società di individui avulsi dalle relazioni, apparentemente autodeterminati ma disperatamente soli, in cui è lo Stato a legittimare l’idea che esistono vite non più degne di essere vissute. La libertà di educazione attraversa gli altri due princìpi, ed è la condizione perché essi vengano riconosciuti e rispettati. Libertà di educazione parente stretta di quella religiosa, che non si può certo comprimere in una agibilità dei luoghi di culto e libertà delle coscienze, ma significa la possibilità di una presenza ed espressione piena di ciascuno nella società in cui vive.
Per tutto questo i “princìpi non negoziabili” sono l’espressione che meglio sottolinea e sintetizza le urgenze di oggi. Chi ritiene che se ne debba parlare solo in occasione della elaborazione di qualche legge o in casi eccezionali come quelli di Terry Schiavo ed Eluana Englaro, se non è in malafede allora non ha capito che si tratta invece di questioni che irrompono nella quotidianità, su cui si sta giocando la possibilità stessa dell’esistenza della comunità umana così come l’abbiamo conosciuta e vissuta fino adesso, e sulle quali è letteralmente impossibile, per chi si candida a governare un paese, non avere una precisa opinione a riguardo.Assuntina Morresi


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