giovedì 1 maggio 2014

LAVORO CIOÈ CURA OLTRE DISEGUAGLIANZA E POVERTÀ

 
Se vogliamo continuare a scrivere la­voro come prima parola del nostro Patto sociale, oggi dobbiamo affian­cargli altre parole prime. Tra queste c’è la cura, che va declinata assieme al lavoro. Per ricreare lavoro la prima opera­zione da fare è riconoscere che l’esperienza la­vorativa di una persona deve oltrepassare il la­voro remunerato ( job) per includere attività di cura prestate in famiglia e nelle comunità. Nel Novecento abbiamo confinato il lavoro al po­sto di lavoro, alla fabbrica e all’ufficio, lascian­do fuori dal lavoro tutto quel lavoro che non veniva valorizzato né conteggiato solo perché avveniva fuori del 'mercato del lavoro'. Oggi, invece, il lavoro rinascerà violando i confini che gli abbiamo assegnato finora, e incon­trandosi – o re-incontrandosi – con il grande e decisivo mondo della cura e dei legami so­ciali primari non mercantili. La nostra società di mercato sta creando una crescente diseguaglianza soprattutto in ter­mini di libertà e di opportunità. Chi oggi pos­siede sufficiente denaro ha il potere di com­prare, sul mercato, tempo libero e persone per la propria cura. Chi non ne possiede abba­stanza, soprattutto se è donna e mamma, è sempre più schiacciata in 'trappole di povertà' nelle quali precipitano anche matrimoni, fa­migliari, bambini. È questa una forma grave di neo-feudalismo, molto sottovalutata.
  Il lavoro è stato il grande strumento e il prin­cipale luogo per far diventare libertà e ugua­glianza principi sostanziali e non solo forma­li delle nostre democrazie. Ma quell’umanesi­mo
 del lavoro è nato e cresciuto in una società costruita su una forte divisione sociale del la­voro: gli uomini lavoravano fuori casa e le don­ne garantivano la cura di bambini, malati e an­ziani. Negli ultimi decenni stiamo rivedendo la parte del patto sociale relativa al lavoro, per garantire pari opportunità di lavoro e fioritu­ra civile anche alle donne. Un cambiamento epocale che però non sta avvenendo sull’asse della cura e dell’accudimento, e quindi del wel­fare.
 
 Con la grave conseguenza che le donne, in particolare le donne sposate con bambini e ragazzi (e magari con anziani) si trovano oggi in una condizione di discriminazione sostan­ziale, che determina un forte svantaggio so­ciale e professionale negli anni cruciali della vi­ta della persona (25-40), e che mette in gran­de difficoltà non soltanto loro ma anche i loro bambini, tutta la famiglia, le relazioni, e quin­di le comunità. Infatti, queste donne non so­lo lavorano di più a casa, ma dormono meno (in media circa 10 ore in meno alla settima­na), hanno meno tempo da dedicare alla vita politica ed economica, e soffrono di più (degli uomini) quando per poter e dover lavorare sentono di non dare abbastanza tempo e cu­ra ai figli e ai loro genitori anziani. 
Ele conseguenze non finiscono qui: un recente studio nord-americano, ad esempio, ha messo in luce che oggi, in questa situazione, per la prima volta le malattie psichi­che dei bambini hanno superato le altre malattie. C’è proprio bisogno di ripensare il lavoro di tutti in rapporto alla cura che ogni cittadino adulto dovrebbe offrire. Per migliorare la qualità delle relazioni familiari e sociali, e ridur­re le asimmetrie tra uomini e donne, dovremmo quindi ridurre le ore di lavoro e poter co­sì ridistribuire tra tutti le attività di cura e di accudimento di se stessi, dei propri famiglia­ri ma anche dei bambini e degli anziani dei nostri vicini di casa, della comunità, dei beni comuni. E 'cura part-time per tutti' vuol dire veramente per tutti:medici e magistrati, o­perai e politici; giovani, adulti, anziani... Dobbiamo iniziare a pensare che occuparsi di se stessi e degli altri sia parte del dovere di cittadinanza di ogni persona, ed espressione con­creta del principio di fraternità e di solidarietà. E che crescere bambini e assistere anzia­ni è lavoro, e un grande contributo al bene comune che va pubblicamente riconosciuto. La filosofa canadese Jennifer Nedelsky propone, ad esempio, che questo part-time della cura consista in almeno 12 ore settimanali per ogni persona adulta, di cui almeno due o­re al di fuori della famiglia. Ore di lavoro che sarebbero sottratte a quelle lavorative fuori casa, ma considerate all’interno del 'pacchetto di ore di lavoro' di ogni cittadino (quelle offerte sul mercato-impresa e quelle spese nella cura delle famiglie-comunità).
  Utopie, dicono in tanti. Progetti politici e democrazia sostanziale, diciamo in pochi. Ciò che è certo è che il lavoro va ripensato
 insieme alla cura, che non può più essere 'appal­tata' alle famiglie o allo Stato o, magari, ad aziende for-profit. Il prendersi cura può e de­ve diventare anche compito ordinario di ogni uomo e di ogni donna. La domanda di cu­ra nel mondo è in grande crescita, ma la sua offerta è in continuo progressivo calo. E così il suo 'prezzo' sta diventando troppo alto. Ripensare il lavoro in rapporto alla cura signi­fica, allora, essere coscienti che le nostre società post-moderne e frammentate hanno bi­sogno di nuovi legami sociali, di nuovi incontri e intrecci nelle relazioni ordinarie. Altri­menti il lavoro non si crea più, o non se ne crea abbastanza per tutti. Buon primo maggio. 
 Luigino Bruni
 

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