sabato 3 maggio 2014

Scola: «Ritrovare l’esempio dei Padri che amano la libertà dei figli.

Cardinale Scola, la santificazione di Giovanni XXIII e di papa Wojtyla è un forte richiamo alle figure di riferimento, a chi riesce a dare nei momenti difficili un messaggio di speranza ai giovani, ai disoccupati, alle famiglie, agli anziani soli. Guardiamo al passato quando cerchiamo valori da proporre, come se nel presente ci fosse un vuoto. A un anno dalla nomina papa Francesco è diventato un riferimento, ma il senso di smarrimento resta forte nella società e tra i fedeli. Le chiese sono più vuote di un tempo e lei ha parlato di ateismo anonimo, riferendosi alle generazioni intermedie, quelli tra i 25 e i cinquant’anni: anche Dio sembra non interessare più? 
«Guardare al passato in profondità non è una fuga: aiuta il presente ad affacciarsi sul futuro. Comunque, il più convincente messaggio di speranza prima che di parole è fatto di gesti, di uno stile di vita. Si può dire che papa Francesco si sia messo energicamente sulla scia dei due Papi che ha canonizzato. Su questa strada della testimonianza siamo tutti chiamati a camminare. Quanto alle chiese più vuote di un tempo, a me sembra che il trend si stia piuttosto invertendo. Avverto un fermento e una grande domanda di senso che provoca anzitutto noi cristiani. Sento acutamente l’urgenza di una maggior consapevolezza della nostra fede: in questo senso ho parlato del rischio di ateismo anonimo». 

Lei cita spesso il teologo Balthasar, il lasciar essere, aiutare l’altro a conquistare la propria libertà. Si cresce attraverso una rete di relazioni. Sono queste relazioni che latitano? 

«Prendiamo la scuola. Si sente parlare spesso, e giustamente, di alleanza educativa. Io per esempio, non sarei quello che sono senza la mia insegnante di storia dell’arte, al liceo Manzoni di Lecco. Nelle sue lezioni questa giovane professoressa lasciava passare tutta se stessa, entrando in relazione con il cuore dell’esperienza umana di noi studenti. Era evidente che i ragazzi per quell’insegnante, e viceversa, erano una risorsa e non un problema». 

Manca oggi il senso della condivisione? 

«Lo si tocca con mano ogni giorno: se uno deve fare un sacrificio non lo fa. Il problema per molti si riduce al sentirsi bene. Ma così si resta a fior di pelle. Non c’è una prospettiva. Non si cresce. L’individualismo radicale, che per osmosi entra nei pori della pelle di tutti, rende molto fragili». 

I primi riferimenti vengono dalla famiglia. Si discute molto sulla figura del padre in crisi. Com’era il rapporto con il suo? 

«Mio padre era un uomo deciso, anche un po’ caparbio. Un gran lavoratore, con un forte senso della giustizia e del bene comune, sempre pronto a spendersi per tutti. Faceva il camionista perciò il lavoro lo costringeva a stare spesso lontano da casa, eppure il suo centro di gravità era la famiglia. A nessuno di noi mancava il suo affetto, sobrio e un po’ ruvido, ma intensissimo». 

Che cosa rispose quando gli annunciò che voleva andare in seminario? 
«Le sue parole furono queste: “Sei un uomo libero”». 

Papa Francesco oggi rappresenta un po’ la figura del padre? 

«Per come si mette in gioco in prima persona è certamente un padre. In particolare mi richiama il padre del figliol prodigo, che ama senza riserve e fino alla fine la libertà del figlio. E questo ha aperto il cuore della gente. Vedono in lui una luce di speranza». 

Che ricordo ha della sua comunità a Malgrate ? 

«Quello di gente con un forte senso dell’appartenenza». 

Rimpiange un certo tipo di relazioni? 

«Abbiamo bisogno di esempi. Uno dei motivi di smarrimento della nostra società e del nostro Paese è la mancanza di amicizia civica. Il ridurre la convivenza ad un ring nel quale si combatte e basta, senza lasciarsi contaminare dall’ascolto dell’altro, è un grave limite. La frammentazione impedisce la relazione». 

Si può dire che nella società attuale i giovani trovano pochi incoraggiamenti verso un protagonismo positivo? 

«Nonostante la fragilità sul piano affettivo, i giovani sono molto meno smarriti di quanto si pensi. Dai numerosi incontri con loro vedo una positiva capacità di adattamento a questo nostro mondo frammentato». 

Qual è la riflessione che propone sul futuro? 

«Oggi, più che mai, siamo messi di fronte a una grande domanda: chi vuole essere l’uomo del terzo millennio? Vive in un tempo che esalta le libertà, eppure rischia di indebolirle con le sue stesse mani. Ci si lascia abbagliare da una sorta di imperativo tecnologico. Siccome si può fare, allora si deve fare». 

È il ruolo della scienza. Come diceva Einstein: una cosa non si può fare finché un giorno arriva qualcuno che la fa. 
«Ma l’uomo - questo è il dato inoppugnabile - è sempre un io in relazione. Pensiamo alla fecondazione eterologa. Il figlio non rischia, così, di diventare un prodotto? Ma di un prodotto, prima o poi, si porrà la questione del proprietario, come nel caso di Roma in cui sono state scambiate le provette». 

Scienza, tecnologia e umanità pongono continuamente interrogativi etici. Perché la Chiesa così prudente verso le opzioni della scienza si è subito schierata a favore di Expo? Anche su cibo e natura ci sono dubbi etici. 

«La Chiesa chiede anche ad Expo di porre la tecnica al servizio dell’uomo e dei suoi bisogni oggettivi. La scelta fatta è assolutamente coerente. Cito un solo dato: la tragedia della fame nel mondo: non è un problema di risorse. Quelle ci sono. Manca la volontà politica». 

Che cosa vede nell’Expo che partirà fra un anno? 

«Vedo un grande catalizzatore: credo che tutte le forze vitali, al lavoro per un risorgimento di Milano, per il Paese, per una speranza migliore, abbiano la grande occasione di operare insieme. Vedo la possibilità di costruire un nuovo umanesimo». 

Abbiamo parlato di spirito di comunità: Milano appare ancora come una città che fatica a trovare il senso della sua missione per il Paese? 

«Io sono pieno di speranza per Milano. Non ho elementi per dire che la crisi è finita, ma vedo germogli significativi. La notte di Pasqua 146 adulti di più di 70 nazionalità hanno ricevuto il battesimo. È un nuovo e promettente germoglio fiorito sull’antico e grande tronco della Chiesa di Milano, una speranza per la società civile che diventa sempre più plurale». 

C’è la consapevolezza di poter diventare metropoli a livello mondiale? 

«Non ancora forse. Ma Expo offre spunti per un’ampia riflessione: dalla fame nel mondo alla cultura dello scarto, alla dimensione tecnico scientifica dell’economia e della finanza. Papa Francesco sta costringendo tutti ad un pensiero forte nella lotta alle povertà. La politica ha l’occasione per progettare un nuovo tipo di welfare comunitario in grado di superare l’individualismo libertario e rivitalizzare la società civile». 

La politica è il convitato di pietra al quale si chiedono risposte. Come si può costruire una comunità civica senza una politica attenta a questo progetto? 
«Ridando alla politica il suo significato più ampio e nobile. La prima politica è quella delle famiglie e dei corpi intermedi tesi a realizzare la necessaria alleanza educativa di cui abbiamo parlato. Edificare dal basso: la forza primaria della politica in Italia è stata sempre il suo radicamento nel popolo. Per me questa radice popolare è oggi più che mai necessaria».

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