mercoledì 14 maggio 2014

LA BELLEZZA EDUCHERÀ IL MONDO Presentazione del libro di Jorge Mario Bergoglio / Francesco di Julian Carron

la-bellezza-educherà-il mondo-jorge-mario-bergoglio-copertina-libro Don Julián Carrón.
Presentazione del libro di
Jorge Mario Bergoglio / Francesco
LA BELLEZZA EDUCHERÀ IL MONDO
EMI 2014

di Julián Carrón
Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione
di Julián Carrón 
Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione 
L’educazione è la grande sfida che tutti abbiamo davanti.
Non per niente si parla di “emergenza educativa”. Educare
è sempre stato decisivo per introdurre alla vita le nuove 
generazioni. Cosa c’è ora di diverso rispetto al passato?
Perché oggi si parla in termini così drammatici di emergenza
educativa? Solo rispondendo a queste domande possiamo
capire la portata del contributo che ha offerto a questo
problema papa Francesco fin da quando era ancora
arcivescovo di Buenos Aires. Qual è la sfida che abbiamo
davanti? In un articolo pubblicato su la Repubblica qualche
anno fa sulla generazione dei giovani d’oggi dal titolo «Gli
eterni adolescenti», Pietro Citati scriveva: «Un tempo si
diventava adulti prestissimo. Oggi c’è una continua corsa 
all’immaturità. Un tempo a tutti i costi un ragazzo
diventava maturo, conquistare la maturità era una rinuncia.
I giovani di oggi non sanno chi sono. Forse non vogliono
saperlo. Si chiedono sempre quale sia il loro io, amano
l’indecisione! Non dire mai sì e mai no: sostare sempre
davanti a una soglia che, forse, non si aprirà mai.
Non hanno volontà, non desiderano agire. Preferiscono
restare passivi e vivono avvolti in un misterioso torpore.
Non amano il tempo. L’unico loro tempo è una serie di
attimi, che non vengono legati in una catena o 
organizzati in una storia».1
A questo articolo aveva fatto seguito una risposta di
Eugenio Scalfari, sempre su la Repubblica, il quale
sosteneva che in questi giovani la ferita è consistita
nella perdita dell’identità e della memoria: «La ferita
è stata il silenzio dei padri, troppo impegnati nella 
conquista del successo e del potere. La ferita è stata
la noia, l’invincibile noia, la noia esistenziale che ha
ucciso il tempo e la storia, le passioni e le speranze.
Non vedo in loro quella profonda melanconia che
c’è nei giovani volti del Rinascimento dipinti da Tiziano.
Io vedo occhi stupefatti, estatici, storditi, fuggitivi,
avidi senza desiderio, solitari in mezzo alla folla che li
contiene. Io vedo occhi disperati. […] Eterni bambini.
[…] Una generazione disperata […] che avanza. Cercano
di uscire da quel vuoto di plastica che li circonda e li 
soffoca. La loro salvezza sta soltanto nei loro cuori.
Noi possiamo soltanto guardarli con amore e trepidazione».2
Un educatore, con una lunga esperienza di rapporto con i
giovani, Luigi Giussani, usava una immagine per descrivere
questo “misterioso torpore”: «È come se i giovani di oggi 
fossero tutti stati investiti […] dalle radiazioni di Chernobyl:
l’organismo, strutturalmente, è come prima [non si vede
alcun apparente cambiamento], ma dinamicamente non è
più lo stesso [come se l’organismo non avesse più energia,
per effetto delle radiazioni] […] È come se non ci fosse
più nessuna evidenza reale se non la moda, perché la
moda è [uno strumento] un progetto del potere».3
La conseguenza della debolezza descritta è che,
dice sempre don Giussani, «non è assimilato veramente
quello che si ascolta o si vede. Ciò che ci circonda,
la mentalità dominante […], il potere, realizza [in noi]
un’estraneità da noi stessi» – è come se ci strappassero
di dosso il nostro essere –. «Si rimane, da una parte,
astratti nel rapporto con se stessi [non solo con gli altri,
ma anche con se stessi; basta pensare a quanto tempo
uno è in grado di rimanere solo con se stesso, per un
momento di silenzio; dobbiamo subito fuggire, subito
distrarci, c’è come un’incapacità a stare con noi stessi
come se si fosse a casa propria], come affettivamente
scarichi».4 La estraneità a noi stessi diventa estraneità
a tutto: niente riesce veramente a interessarci. E allora
il disinteresse prende il sopravvento. A questa situazione
non si può immaginare di rispondere con delle regole
oppure con appelli etici, perché questi si sono già
dimostrati inefficaci. Non riescono a mettere in moto il 
soggetto da educare, non sono in grado di destare
l’interesse dell’io. E senza la mossa dell’io non c’è
educazione. Da dove ripartire, allora, in questa
situazione? Malgrado tutto, nell’uomo rimane quel 
“punto infiammato” dell’animo di cui parlava
Cesare Pavese.5 Ed è intorno a questo punto 
infiammato che può ruotare una proposta veramente
corrispondente all’umano. Lo ha colto molto bene
papa Francesco, identificando con chiarezza qual è
il punto infiammato: «L’uomo non è un essere tranquillo
nei propri limiti, bensì un essere “in cammino” […] e
quando non entra in questa dinamica, si annulla come
persona o si corrompe. Il mettersi in cammino è dovuto
a un’inquietudine interiore che spinge l’uomo a “uscire
da sé”. […] C’è qualcosa, fuori e dentro di noi, che ci
chiama a compiere il cammino». 6 Quella inquietudine,
di agostiniana memoria, rimane in fondo all’essere
dell’uomo. Questa inquietudine è l’origine del
desiderio, il punto infiammato del cuore. Ma è sempre
in atto il tentativo di anestetizzare il desiderio:
«I sistemi mondani cercano di acquietare l’uomo, di
anestetizzarne il desiderio di mettersi in cammino, con 
proposte di possesso e consumo […]. In questo
modo l’uomo è alienato dalla possibilità di 
riconoscere e ascoltare il più profondo desiderio del
suo cuore. Richiama l’attenzione la grande quantità
di “alibi” che manipolano il desiderio […] e offrono,
in cambio, una pace apparente. […] gola, lussuria,
avarizia, ira, invidia, tristezza, accidia, vanagloria,
superbia.  […] sono di certo pretesti, scappatoie
che nascondo qualcos’altro: la paura della libertà […]. 
servono da rifugio. Il fondamentalismo si organizza
a partire dalla rigidità di un pensiero unico, all’interno
del quale la persona si protegge dalle istanze
destabilizzanti (e dalle crisi) in cambio di un certo
quietismo esistenziale».7
 In questo contesto, l’allora arcivescovo Bergoglio
avvertiva gli educatori che occorre fare attenzione a non
utilizzare alcuno degli strumenti educativi per ridurre il
desiderio: «La disciplina è un mezzo, un rimedio necessario
al servizio dell’educazione integrale, ma non può
trasformarsi in una mutilazione del desiderio. […]
Il desiderio si contrappone alla necessità. Quest’ultima
è soddisfatta non appena la carenza viene colmata; il
desiderio, invece, è la presenza di un bene positivo e
sempre si accresce, si struttura e mette in moto verso
un «di più». Il desiderio di verità procede «da incontro
a incontro».8 Il noto psicoanalista Massimo Recalcati
osserva, in proposito, che «il desiderio non può essere
schiacciato sulla mera soddisfazione dei bisogni, ma si
rivela diverso dalla brama bestiale proprio in quanto
animato da una trascendenza che lo apre all’inedito,
al non ancora conosciuto, al non ancora pensato, al
non ancora visto».9 Dunque, la grande sfida per un
educatore è proprio come risvegliare il desiderio. 
«Come insegnare ai nostri alunni a non aver paura di
cercare la verità? Come educarli alla libertà? […]
Come fare in modo che i nostri ragazzi […] diventino
“inquieti” nella ricerca?».10 
C’è un solo modo: introducendo i ragazzi al rapporto
con la realtà. Ma i giovani non sono interessati a questo
rapporto, per quel misterioso torpore che diviene noia
invincibile. Perché manca questo interesse, perché è
così difficile che i ragazzi si interessino a qualcosa nel
reale, perché è così difficile trovare adulti che a
quaranta e cinquanta anni non siano ormai scettici? 
Scrive don Giussani: «Le capacità che sono in noi non
solo non si sono fatte da sé, ma anche non si traducono
in atto da sole. Sono come una macchina che, oltre ad
essere stata costruita da altri, ha bisogno anche di un
altro che la metta in marcia, che la faccia funzionare. 
Ogni capacità umana, in una parola, deve essere
provocata, sollecitata per mettersi in azione».11 
Qual è il problema? Una filosofa spagnola, María
Zambrano, fa capire la portata della situazione: «Ciò
che è in crisi è il nesso misterioso che unisce il nostro
essere con il reale, qualcosa di così profondo e
fondamentale che è il nostro più intimo sostentamento».12
Ciò che è in crisi è il nesso con il reale. E questo si vede
dal fatto che non riesce a interessare, che il reale non è
in grado tante volte di trascinare l’io. E perciò, se non c’è
niente che veramente ci interessi, la noia vince. Perché
senza che niente possa interessare, essendo questo
rapporto con il reale il sostento dell’io, della persona,
resta solo la noia. Sembra paradossale, perché oggi
nessuno direbbe che i giovani non si interessino a 
niente. Anzi, sembrano interessarsi a tutto, mai come
adesso hanno avuto tante possibilità; perché, allora,
finiscono nella passività e nella noia? Perché senza
significato la realtà perde il suo interesse. Ecco,
dunque, lo scopo di un’educazione adeguata alla
gravità del problema: educare è introdurre il giovane alla
realtà totale. Lo ha indicato al mondo della scuola papa
Francesco sabato scorso: «Amo la scuola perché è
sinonimo di apertura alla realtà. […] Andare a scuola
significa aprire la mente e il cuore alla realtà, nella
ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni.
E noi non abbiamo diritto ad aver paura della realtà!».13 
Come si può ben capire, questo è un problema che
riguarda tutti: associazioni, scuole, Chiesa, partiti politici,
perché non si tratta di un problema particolare, ma del
problema dei problemi: come ristabilire il nesso con il
reale, se c’è qualcosa in grado di ridestare l’interesse 
dell’io. Per interessare occorre un’educazione che
introduca al reale. Jungmann, definiva l’educazione
come «introduzione alla realtà totale».14 Perché senza
affermare il significato, una persona non si interessa alla
realtà. Facciamo un esempio. Se noi adulti regaliamo al 
bambino un giocattolo che vede per la prima volta, se noi
lo lasciamo da solo, si stupisce davanti ad esso, ma come
può essere introdotto a capire cos’è quel giocattolo?
Di solito ci sono le istruzioni per l’uso, che è come dire
al bambino: se lo usi così, imparerai a usarlo, e potrai
godere di come funziona. Sarebbe inumano regalare a
un bambino un giocattolo e non introdurlo al suo
funzionamento. Senza offrirgli una ipotesi di come si usa, lo 
abbandoneremmo alle sue reazioni: pianto, noia. 
L’incapacità di introdurre alla totalità della realtà non è indifferente per la nostra 
relazione con essa. Diceva Einstein: «Chi non ammette l’insondabile mistero non può essere 
neanche uno scienziato».15 Senza percepire il significato, la realtà non ci commuove fino al 
punto di risultare interessante. Questa è l’origine del nichilismo, di quell’atteggiamento che 
finisce nella noia perché niente desta il mio interesse. Pensavamo che la realtà potesse 
continuare a essere attraente senza significato, ridotta solo alla trasmissione di conoscenze, di 
dati, ma questo non è bastato per continuare a interessare i giovani. E gli adulti. Con la realtà 
ridotta a niente, senza significato, è apparsa una nuova forma di nichilismo, sulla quale ha 
richiamato l’attenzione anni fa il grande filosofo Augusto Del Noce: «Il nichilismo oggi 
corrente è il nichilismo gaio, [nel senso che] è senza inquietudine (forse si potrebbe 
[addirittura] definirlo per la soppressione dell’inquietum cor meum agostiniano)».16 Non si 
desta il desiderio, non si desta la curiosità. Ora, soltanto chi riesce a interessare potrà dare un 
contributo alla situazione drammatica in cui noi ci troviamo. 
Da dove ripartire, dunque? Dalla realtà. Ma la realtà non può essere ridotta alla 
apparenza, perché altrimenti ci stanca, ci fa diventare aridi, perché non riesce a prenderci, ad 
interessarci per molto tempo. 
La realtà desta un interesse per l’attrattiva della bellezza. Lo riconosceva Jorge Mario 
Bergoglio: «Quanti razionalismi astratti e moralismi “estrinsecisti” sarebbero curati […] se 
cominciassimo a pensare la realtà in primo luogo come bella, e solo dopo come buona e 
vera!».17 
Parlando sempre al mondo della scuola, papa Francesco ha detto che essa «educa al 
vero, al bene e al bello. Vanno insieme tutti e tre. L’educazione non può essere neutra. O è 
positiva o è negativa; o arricchisce o impoverisce; o fa crescere la persona o la deprime, 
persino può corromperla. […] La missione della scuola è di sviluppare il senso del vero, il 
senso del bene e il senso del bello. E questo avviene attraverso un cammino».18 
La realtà suscita domande. Ricordo ancora, dopo tanti anni, l’impressione che mi ha 
fatto l’avere portato i miei studenti di liceo al planetario di Madrid. Dopo la visita siamo 
tornati a scuola e ho cominciato a domandare che cosa li avesse impressionato di più di tutte 
le cose viste, le stelle, le galassie eccetera. Nessuno era colpito del numero delle stelle, oppure 
domandava quante galassie ci siano, ma tutti, colpiti da quello che avevano visto, hanno 
riempito la lavagna di domande come queste: ma chi ha fatto tutto questo? Siamo noi i 
padroni di questo? Qual è il senso di tutto questo? Quale ne è lo scopo? 
Questo è il problema: che a noi è stato regalato il giocattolo più bello che è la vita, 
tutto il cosmo, ma non siamo venuti al mondo con le istruzioni per l’uso sotto il braccio: per 
questo ci domandiamo come si vive, come si impara a godere della vita, come si impara ad 
affrontare adeguatamente la realtà, affinché la vita sia veramente vita, intensamente vissuta, 
affascinante da vivere. 
C’è bisogno di una ipotesi di lavoro: «Educare alla ricerca della verità, dunque, esige 
uno sforzo di armonizzazione tra contenuti, abitudini e valutazioni. […] Per raggiungere tale 
armonia non bastano le informazioni o le spiegazioni. […] È necessario offrire, mostrare una 
sintesi vitale di essi».19 
A questo livello si pone la necessità di un testimone. Dice, infatti, papa Francesco: 
«Questo può farlo solo il testimone. Entriamo così in una delle dimensioni più profonde e 
belle dell’educatore: la testimonianza. È quest’ultima a consacrare come “maestro” 
l’educatore e a renderlo compagno di strada nella ricerca della verità. Il testimone con il suo 
esempio ci sfida, ci rianima, ci accompagna, ci lascia camminare, sbagliare e anche ripetere 
l’errore, affinché cresciamo. Educare […] esigerà da voi, cari docenti, […] “saper rendere 
ragione”, però non solo con spiegazioni concettuali e contenuti isolati, ma con comportamenti 
e giudizi incarnati. […] Tutto diventa interessante, attraente, e finalmente suonano le campane 
che risvegliano la sana “inquietudine” nel cuore dei ragazzi. Il caso paradigmatico del 
maestro-testimone è lo stesso Gesù».20 
E Recalcati aggiunge: «Per farsi umana la vita necessita della presenza presente 
dell’Altro. […] Se questo incontro non si verifica la vita è esposta alla dissociazione dal 
senso, appare come vita senza senso».21 Infatti, «come avviene la trasmissione del desiderio 
da una generazione all’altra? Attraverso una testimonianza incarnata di come si può vivere la 
vita con desiderio».22 
Per questo la testimonianza non è possibile senza che gli educatori prendano sul serio 
innanzitutto la propria inquietudine: «Educare è di per sé un atto di speranza. […] Cari 
educatori, […] vi auguro che l’inquietudine, immagine del desiderio che muove tutta 
l’esistenza dell’uomo, apra il vostro cuore e vi indirizzi verso la speranza che non tradisce. E 
che, come educatori, vi trasformiate in testimoni autentici, vicini nella prossimità a tutti».23 
Sabato a Roma il Papa ha detto: «I ragazzi capiscono, hanno “fiuto”, e sono attratti dai 
professori che hanno un pensiero aperto, “incompiuto”, che cercano un “di più”, e così 
contagiano questo atteggiamento agli studenti».24 
Da qui nasce la nostra responsabilità
Per poter rispondere ad essa occorre non soccombere alla tentazione di disperare,
come ci ricorda ancora papa Francesco: «La tentazione è un invito a fermare la marcia, a di-
sperare. Come si fa a non cadere, quando sono già cadute tante e tante utopie? […] La 
tentazione è seria e il suo potere reale è ben conosciuto da chiunque abbia coraggiosamente 
seguito il proprio cuore. […] Solo costui conosce la difficoltà e la profonda problematicità del 
suo desiderio. […] In questo contesto […] ogni educatore è tentato di disperare»

Noi adulti dobbiamo riconoscere che non sempre siamo stati all’altezza di quella 
esigenza.
«Guardiamo i giovani. […] Li prepariamo per grandi orizzonti o per l’orizzonte dietro 
l’angolo? […] Vogliamo chiedere perdono ai ragazzi perché non sempre li abbiamo presi sul 
serio. Perché non sempre diamo loro gli strumenti affinché il loro orizzonte non si esaurisca 
dietro l’angolo, perché molte volte non siamo capaci di entusiasmarli con orizzonti più ampi 
che facciano loro apprezzare quello che hanno ricevuto e che devono trasmettere. Perché 
molte volte non abbiamo saputo farli sognare! […] E quando i ragazzi vedono da parte nostra, 
di noi dirigenti, una testimonianza di bassezza, allora non hanno il coraggio di sognare, allora 
non hanno il coraggio di crescere. […] Se non saremo in grado di testimoniare questa capacità 
di orizzonte e di lavoro, la nostra vita terminerà in un angolo dell’esistenza, a piangere 
lacrime amare sul nostro fallimento come educatori e come uomini e donne».26 
Concludo con le parole di papa Francesco che suonano come un appello urgente alla 
responsabilità: «Che essi [i giovani] possano apprendere dalla nostra testimonianza – poiché 
si insegna più con l’esempio che con le parole – la feconda cultura della vita. […] Non solo le 
droghe uccidono, non solo le droghe generano la cultura di morte; lo fanno anche l’egoismo 
del cuore di tutti noi che abbiamo la responsabilità di educare, le nostre chiusure, il 
disinteresse con cui passiamo vicino a qualcuno che è rimasto bloccato sul bordo della vita, 
senza insegnargli a uscire dalla sua immobilità per avvicinarsi alla vita».

 1 P. Citati, «Gli eterni adolescenti», in La Repubblica, 2 agosto 1999, p. 1. 2
 2 E. Scalfari, «Quel vuoto di plastica che soffoca i giovani», in La Repubblica, 5 agosto 1999, p. 1. 
3 L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), Bur, Milano 2010, pp. 181-182.
 4 Ivi. 
5 Cfr. C. Pavese, «A Rosa Calzecchi Onesti», 14 giugno [1949], Lettere 1926-1950, Einaudi, Torino 1968, vol. 2, p. 655. 
6 J.M. Bergoglio - Francesco, La bellezza educherà il mondo, Emi, Bologna 2014, p. 8. 
7 Ibidem, pp. 14-15.
8  Ibidem, pp. 12-13. 
9 M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, Feltrinelli, Milano 2013, p. 114. 
10 J.M. Bergoglio - Francesco, La bellezza educherà il mondo, op. cit., p. 17. 
11 L. Giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno, Bur, Milano 2010, p. 19. 
12 Cfr. María Zambrano, Hacia un saber del alma, Alianza, Madrid 1993. 
13 Francesco, Incontro con il mondo della Scuola italiana, 10 maggio 2014. 
14 J.A. Jungmann, Christus als Mittelpunkt religiöser Erziehung, Herder & Co. G.M.B.H. Verlagsbuchhandlung, 
Freiburg im Breisgau 1939, p. 5. 
15 A. Einstein in F. Severi, «Scoppiò cinquant’anni fa la “rivoluzione” di Einstein», Il Corriere della Sera, 20 
aprile 1955. 
16 A. Del Noce, Lettera a Rodolfo Quadrelli, Inedito, 1984. 
17 J.M. Bergoglio - Francesco, La bellezza educherà il mondo, op. cit., p. 23. 
18 Francesco, Incontro con il mondo della Scuola italiana, 10 maggio 2014. 
19 J.M. Bergoglio - Francesco, La bellezza educherà il mondo, op. cit., p. 24. 
20 Ibidem, pp. 24-25. 
21 M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, op. cit., p. 136. 
22 Ibidem, p. 141. 
23 J.M. Bergoglio - Francesco, La bellezza educherà il mondo, op. cit., pp. 35-36. 
24 Francesco, Incontro con il mondo della Scuola italiana, 10 maggio 2014. 
25 J.M. Bergoglio - Francesco, La bellezza educherà il mondo, op. cit., p. 10. 
26 Ibidem, pp. 46-48. 
27 Ibidem, pp. 52-53.
 





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