lunedì 12 maggio 2014

È ancora possibile amarsi per sempre? (Quasi) recensione di un libro di Scola da parte di un (quasi) ateo

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Eravamo ragazzi e un amico mi chiese: «Come educherai i tuoi figli?». Risposi: «Secondo i precetti della Chiesa cattolica, ma omettendo Dio». Non è andata così. Non ho omesso Dio, non era possibile. I miei figli – che hanno otto e cinque anni – al primo insetto spiaccicato in terra, al primo uccellino mangiato dal gatto, alla prima carcassa di cane ai bordi dell’autostrada hanno chiesto dove fossero ora l’insetto, l’uccellino e il cane e non c’era risposta adeguata, dunque mi sono adeguato io. Giulio, il più piccino, qualche mese fa (l’ho già scritto su Tempi) era lì lì per piangere mentre domandava: «Babbo, vero che io non muoro?». Non è stato abbandonato dall’ossessione, naturalmente. Non ha nessuna attrazione per un mondo perfetto governato dal sommo amore divino. Vuole sapere quando morirò io e quando la mamma e se lui morirà prima o dopo sua sorella.
Ecco, la sorella. Arriva un giorno a casa da scuola e mi interpella a bruciapelo: «Tu sei per la religione o per la scienza?». A una questione (quasi) da adulto ho risposto con una franchezza istintiva di cui mi pento: «Non credo all’una né all’altra». Lei ha trasecolato. Poi ha detto la sua: «Io sto un po’ più per la scienza perché Dio non lo ha mai visto nessuno mentre la scienza scava e trova i fossili e gli orecchini di bronzo…».
Non c’è nessuna considerazione generale da trarre. Nessuna teoria. Soltanto si ascolta, si cerca di capire.
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Una civiltà fondata sulla rocciaIl direttore mi ha chiesto una recensione del libro del cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano (Il mistero nuziale, Marcianum press). Non la farò, ovvio. Ho letto il libro con vero interesse, e lì dentro ci sono le meditazioni e gli studi profondissimi di una vita, e se osassi la recensione presupporrei una parità intellettuale con l’interlocutore che – senza nessuna falsa modestia – so di non raggiungere. È un libro con l’obiettivo di dimostrare il fondamento divino e trinitario del matrimonio e della procreazione. Il concetto di Trinità mi è sempre sfuggito, è senz’altro colpa mia, ma credo, forse in una forma pagana, panteista (non saprei dire: sono parole buttate lì), nel soffio divino dell’incontro fra un uomo e una donna e sulla loro fertilità. Perché vivo così come avrei voluto educare i miei figli: secondo i precetti della Chiesa cattolica, omettendo Dio.
Dentro i dieci comandamenti c’è il fondamento del consorzio umano e la famiglia è il nucleo fondante di quel consorzio. La famiglia è una piccola società e le società si basano sul rispetto e la lealtà reciproci. In più la famiglia è edificata sul miracolo dell’innamorarsi, su un patto che – a differenza di Scola – non so se sia indissolubile ma che deve partire dall’idea del “per sempre”. Se ci si crede, spesso ci si riesce.
Come un rampicanteL’amore non è stabile, si modifica col tempo, se si impara a riconoscere le sue mutazioni si rafforza. Il matrimonio – scriveva l’evangelista – è una casa sulla roccia; arrivano le inondazioni, straripano i fiumi, ma la casa non cadde perché era fondata sulla roccia. Altre volte pensi che sia roccia, ma non lo è. La roccia è Dio. Ma non è detto che se nella tua vita Dio non c’è il tuo matrimonio debba essere per forza fondato sulla palude. Magari i concetti di responsabilità, di serietà, di dedizione nelle relazioni su cui si è deciso di costruire la propria vita reggono lo stesso.
Da ragazzino, facevo le medie, raggiunsi un compromesso con mia madre, donna intimamente religiosa: non sarei più andato a messa ma avrei impegnato un’ora della mia domenica nella lettura della Bibbia. È stata una lettura fondamentale, durata qualche anno: la Bibbia è la pietra angolare della storia dell’uomo. Però non è mai scattata la scintilla. E anche il libro del cardinale Scola lo sento così vicino e allo stesso tempo così distante. La tragedia infinita di chi non crede è un lutto che oscura le proprie vesti per sempre.
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Il termine “ontologico” così di frequente speso da Scola, i postulati da cui trae origine la sua visione del mondo, mi escludono da quello stesso mondo. Scola sa, lo scrive, che nell’andamento della nostra civiltà ha avuto un ruolo una predicazione inadeguata della parola di Cristo e però non è tutto lì: si può non coltivare pregiudizi, ricercare con attenzione, vivere immersi dentro una cultura che affonda le radici nei millenni, e poi restare senza fiato. Si può camminare in una stradina di campagna e imbattersi in una madonnina, non c’è nulla di più struggente, e vederci dentro il volto della propria madre e del proprio padre, dei loro genitori e di tutti i loro avi, le speranze e le lacrime, le regole che hanno governato e governano le loro e le nostre esistenze, sentirsi dentro tutto questo, aggrappato come un rampicante. Ma niente di più.
Non esistono solamente devoti e bestemmiatori, esiste tutto un mondo di mezzo che non sa dove sbattere la testa. E non è questione di oggi: si è vissuti per secoli in nome di Dio e nella speranza della salvezza; poi si è vissuti in nome dell’uomo e della salvezza di classe; adesso si vive – molti vivono – concentrati su di sé. Non si è mai stati così salutisti, così aggrappati al benessere (non soltanto fisico), così idolatri dei figli come da quando Dio si è allontanato sui nostri orizzonti. Il bello è che non c’è contraddizione.
Quando l’ateo Giuliano Ferrara si presentò alle elezioni con la lista “Aborto? No, grazie” lo votai. Ho condiviso tutte le sue battaglie sulla bioetica anche perché pensavo (e penso) che siano battaglie perse. L’aborto, la fecondazione assistita, la prospettiva della clonazione, sono pratiche che mi atterriscono ma che si sono già imposte. Non c’è niente da fare. Non so se siano la premessa della devastazione dell’umanità, ma so che indietro non si torna, non si è mai tornati. Bisogna farci i conti. Ed è sulle pagine impegnate dal cardinale Scola su questi temi che mi sono sentito fatto fuori.
Chiedo scusa per l’improntitudine, ma pare un dialogo fra sordi. Non credo che avere un figlio sia un diritto ma se la scienza dà figli a chi non può averne quei figli nasceranno, sempre di più. Temo che si sceglieranno i bambini sui cataloghi ma se quei cataloghi arriveranno nessuna frustata teologica, la più arguta, cancellerà quei cataloghi. Quando Scola parla di tentazione prometeica, mi viene in mente lo zio Vania de Il più grande uomo scimmia del Pleistocene (romanzo di Roy Lewis), il quale si ostinava a vivere sugli alberi perché se Dio avesse voluto farci vivere nelle caverne ci avrebbe creato nelle caverne; quando i suoi fratelli presero a governare il fuoco, predisse la fine dell’uomo per sua stessa mano.
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Il mondo in cui ci tocca vivereMi è venuto in mente un meraviglioso film di Ermanno Olmi (mio conterraneo e grande credente), Il mestiere delle armi, in cui Giovanni dalle Bande Nere muore ucciso dal cannone; dopo di che i contemporanei dissero “mai più”, e di arma in arma si arrivò all’atomica. È proprio il parallelo che offre il libro di Scola: dopo Hiroshima (e dopo Nagasaki) l’uomo non ha più usato la bomba, e però è vero che ha continuato a usare l’energia, a perfezionarla, a superarla. Ad ammazzarsi in tecniche sempre più sofisticate e potenzialmente più devastanti. Non è il mondo che vorremmo ma è il mondo che inevitabilmente abbiamo messo in piedi sospinti dall’unica forza che regge il confronto con Dio: la forza di andare avanti semplicemente perché si ha paura di morire, e se la consolazione non viene dalla speranza in un premio eterno viene dalla disperazione di costruire un altro metro di strada nell’illusione che la strada ci porti da qualche parte.
Forse non ci ho capito nulla, del libro di Scola. Forse mi sono affezionato a quella vecchia battuta secondo la quale Dio ha creato l’uomo, e viceversa. Forse non ci ho capito nulla della vita e del destino dell’uomo e quest’ultimo “forse” è benevolo. Forse mi sono soltanto arreso e per cui non condanno quello che mi spaventa, compresa la bioetica, e lo faccio soltanto perché non escludo Dio, fedele a una frase di mio padre: «Noi siamo come le formiche davanti a un semaforo: la formica non capirà mai il semaforo. Cercare di capire Dio è folle».
Ps. A pagina 231 del libro del cardinale Scola è riportata – come esempio dello smarrirsi dell’uomo – una considerazione di Jean-Paul Sartre: «Non vi sono padri buoni, è la regola; non prendiamocela con gli uomini ma con il legame di paternità che è marcio. Far figli, nulla di meglio; averne, che iniquità! Fosse vissuto, mio padre si sarebbe adagiato su di me, e mi avrebbe schiacciato. Per fortuna, è morto in giovane età…». Magari è vero, magari non ci sono padri buoni. Nemmeno figli buoni. Né uomini buoni. Ma mi pare un discorso così grossolano. Si diventa padri per la stessa ragione per cui si era figli, perché siamo dominati da un mistero che esce dagli occhi lampeggianti miei, di mia moglie e dei miei bambini, certe domeniche pomeriggio, quando si è tutti insieme e qualcosa è dentro di noi, ci attrae come calamite, ed è una forza che non si perderà mai del tutto, e che nessuna tecnologia ha ancora imparato a misurare

Tempi.it 

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