sabato 10 maggio 2014

L’eterna sfida dell’educatore formare persone autentiche

L’insegnamento è un ambito dell’educazione. L’educazione abbraccia la vita. La vita è intera e universa.
C’è un’armonia possibile a cui le cose tendono, una pienezza inscritta in ogni fibra dell’universo. Le cose dell’universo nascono piccole e tendono alla loro pienezza, che Dante identificava nella gloria di colui che "tutto move" che penetra e risplende più in una parte e meno altrove secondo la scala dell’essere del creato.

In questa "scala dell’essere" alcune cose crescono per una loro interna potenza, una verità che procede intrepida e che nel suo splendore è fonte inesausta di stupore: nel movimento migratorio di uccelli, nella geometria dei petali della rosa e delle orbite celesti. Altre cose, chiamate uomini, crescono con quella stessa potenza interna, ma il loro tendere non si esaurisce in questo.

Condividono con l’universo vegetale e animale la crescita lineare, ma non si limitano alla linearità del biologico, perché caratterizzati da altri due livelli di crescita: quello dell’anima, che li rende capaci di intendere e di volere (distinguere vero/falso, bene/male, bello/brutto e scegliere), e quello dello spirito, che rende gli altri livelli capaci di trascendenza.
I livelli non sono tra loro separati, ma come cerchi concentrici si trovano a diverse profondità, simili a una spirale. Il più profondo è quello in cui alberga la trascendenza che l’uomo da solo non può darsi, ma a cui tende ogni elemento degli altri livelli: il terribile dono della libertà dà la possibilità di scegliere tra l’orgoglio dell’auto-trascendersi o l’accettazione della vita da altro.

Su questi tre livelli (corpo, anima, spirito) si gioca l’educazione integrale dell’uomo, anche se l’uomo, ferito dal male, possiede questa armonia non in equilibrio: essa quindi va curata, rafforzata, indirizzata, educata.


Se educare oggi sembra impossibile, la motivazione non va cercata nei tempi, ma nella carenza di pensiero: "nos sumus tempora" (noi siamo i tempi) diceva Agostino, perché solo nell’uomo e nella sua profondità si dà tutto il tempo (passato, presente e futuro). Abbiamo perso o confuso la verità sull’uomo e i suoi livelli di esistenza, come dimostra il moltiplicarsi e perdersi in mille pedagogie oscillanti tra addestramento (ad azione reazione) e razionalismo meccanico (se riempio la testa allora funzionerà). Lo ha detto in maniera chiara e semplice una donna che san Giovanni Paolo II nel 1998 – non a caso – ha scelto come patrona d’Europa, in un libro significativamente intitolato «Vita come totalità»: «L’insegnamento non è che una parte dell’educazione, particolarmente dell’intelletto. Ma col termine educazione intendiamo la formazione dell’essere umano nel suo complesso, con tutte le sue forze e tutte le sue capacità. Cos’altro vogliamo aggiungere coll’educazione se non che il giovane che ci è affidato divenga un essere umano vero, autentico e autenticamente se stesso (tale quale Dio prescrive all’uomo di essere e questo sia nel senso generale della natura umana quanto in quello particolare della personalità individuale). Come conseguire però questo fine? L’educatore deve possedere un’opinione chiara e un giudizio vero riguardo a in che consista l’educazione, cioè l’autentica natura umana e l’autentica individualità... Formare esseri umani autentici significa formarli ad immagine di Cristo, ma per farlo l’educatore deve essere lui stesso un essere umano autentico» (Edith Stein).
La scuola è al servizio dell’autentica formazione dell’uomo e della donna. L’uomo è chiamato a realizzare la pienezza della sua natura (umana) e la pienezza della sua individualità (unica e irripetibile). Per raggiungere tale fine bisogna aver chiara idea della vera natura umana e la vera individualità. La vita è un tutto che tende alla pienezza, ma nel caso degli uomini attraverso l’aiuto di altri uomini (Dio è relazione, e l’uomo, a sua immagine, è chiamato a crescere nella relazione). Per questo ogni epoca, con la sua cultura, interpella in modo diverso l’educazione dell’uomo, perché ogni cultura è parziale rispetto al progresso massimo mai raggiunto e raggiungibile per l’uomo: Cristo, perfetto uomo, oltre che perfetto Dio. Per questo san Giovanni Paolo II scriveva che Cristo «svela l’uomo all’uomo». Ogni carenza educativa è quindi una carenza di conoscenza di Cristo, non come un modello mitico irraggiungibile a cui si tende con uno sforzo titanico impossibile all’uomo, ma fondamento che agisce nel singolo uomo da dentro, incontrandosi così in modo unico con il dinamismo della storia, perché in certo modo si è unito a ogni uomo e a tutto l’uomo. Per questo la Stein parla anche dell’autentica individualità.


Non basta portare a pienezza la natura umana, che non si dà separata dal concreto vivente, ma occorre portare a pienezza quel concreto vivente, dotato di natura umana. Ma la pienezza può essere raggiunta come fine solo se è chiaro quale sia tale pienezza realizzata in quell’uomo e in quella donna, per questo ancora Giovanni Paolo II scriveva che «l’uomo è via della Chiesa», perché è nella molteplicità del suo camminare nel mondo, cioè nella sua unicità, che l’uomo va accompagnato su quella strada che è sua e solo sua, ma che porta alla pienezza inscritta nel progetto che dall’eternità Dio ha su di lui, perché l’uomo faccia dono agli altri uomini di quel progetto.


Ogni epoca, con i suoi squilibri culturali, interpella l’antropologia equilibrata (proprio perché fa i conti col male) della rivelazione cristiana, che ha il compito di rispondere alle soluzioni relative che si danno nelle singole culture, famiglie e uomini, purificandole, innalzandole, completandole. Senza chiarezza su questa antropologia non possiamo educare, anzi meglio, non riusciamo a educare, perché in realtà educhiamo sempre, perché siamo dentro la vita: una mamma educa il bambino anche nel modo in cui lo prende in braccio o gli sorride, un insegnante educa nel modo di guardare negli occhi un alunno o nella posizione che assume in aula.


Come dice la Stein, solo l’autenticità del vivere stesso dell’educatore riesce a educare, altrimenti educheremo secondo una parzialità che è già in noi e che prima dobbiamo superare in noi. Senza una chiarezza di idee sull’uomo e senza l’autenticità personale (che non è essere risolti, ma aperti) finiremo con l’improvvisare (in-pro-videre): cioè non saremo pro-videnti, non vedremo in anticipo e da lontano, e quindi non saremo prudenti (sempre dal verbo pro-videre), cioè non sapremo trovare soluzioni adeguate al singolo uomo e alla singola situazione, alla luce di una chiarezza di fondo sulla persona umana e i suoi livelli di esistenza.


Non ci sono soluzioni per tutti, come crede una cultura in cui la mente, ridotta a pensiero calcolante, cerca l’applicazione. Si danno invece inedite e concrete occasioni che interpellano quel progetto di armonia ed equilibrio a cui tendiamo. Per educare in famiglia e a scuola si richiede intelligenza del cuore, che non sta (solo e principalmente) nei manuali, ma nella capacità di aprirsi all’altro dell’educatore, cioè nel suo volere amare l’altro in quanto soggetto e non in quanto oggetto della sua azione educativa. Si pone al servizio di un soggetto dotato di libertà e quindi di un progetto. Rivoluzione copernicana che ogni educatore sa di dover affrontare e senza la quale riceverà solo frustrazioni dal suo ruolo, perché tenderà al controllo, che è il contrario dell’amore: chiude, addestra, invece di aprirsi e servire. Gli oggetti si controllano, i soggetti si amano.


La nostra antropologia educativa di marca post-cartesiana galleggia spaurita in una visione dell’uomo diviso in un cogito, che riempito di nozioni dovrebbe bastare a renderlo migliore, e in un corpo di passioni, sentimenti, emozioni, che abbandonato a sé è preda della reattività e spontaneità del buon selvaggio, che buono non è mai stato né sarà. Lo spirito, terzo livello dell’essere umano, in questa dicotomia tra ragione e corpo è andato perduto e con esso qualsiasi ricerca di senso su quella sete di infinito che ci caratterizza (il cor inquietum agostiniano è narcotizzato, Bauman dice che siamo sottoproletari dello spirito) e che però si ostina a manifestarsi in insoddisfazione, noia, malattie, precipitazione, affanno, idoli.


Basti pensare che a scuola educhiamo prevalentemente con il sistema degli errori. Il cogito, come una macchina, sbaglia, viene ripreso, si corregge. L’errore invece è parte del percorso della vita, va integrato anch’esso. Quando facciamo complimenti per i punti di forza di uno studente, più che sull’errore commesso? Quando disponiamo i banchi in modo che si abbia l’impressione che il sapere si condivida come in un "convivio" e non sia invece addestramento a obbedire? Quando troveremo un modo di interrogare rispondente alla persona (soggetto di relazioni) anziché all’individuo (magazzino di nozioni)? Le pratiche relative a una antropologia equilibrata ed equilibrante sono un terreno fecondo da esplorare, migliorare o ripensare.


Noi se non siamo consapevoli del progetto intero che è l’uomo, operiamo secondo schemi non frutto di riflessione, ma di "luoghi comuni". Finiamo con il fare "come hanno fatto con noi": teniamo in piedi risposte a domande che non ci sono più, difendiamo mondi già tramontati, e rimaniamo frustrati. Non è che non sappiamo più educare, ma non accettiamo il rischio di educare, che è partecipare alla vita delle persone e non imporre formule che danno sicurezza (a noi più che ai ragazzi). Chi educa si comporta come i bastoncini che mia nonna poneva accanto alle piantine ancora fragili. Affianchiamo, non determiniamo, l’elaborazione dell’io, cioè la progressiva (ma non lineare come una pianta, perché le piante e gli animali vivono solo nel presente, mentre la profondità dell’uomo si estende nel passato e nel futuro) appropriazione di un io a partire da un sé dato, che non può essere omesso o dimenticato, altrimenti si cade nell’idea meccanicistica e volontaristica di un io che si può costruire a suo piacimento, che è pura illusione, con conseguenti mancanze di equilibrio: squilibri.


Solo una antropologia integrata e integrante porta l’uomo alla piena fioritura, all’equilibrio, alla pace nei limiti delle condizioni del mondo finito in cui ci muoviamo. Solo una antropologia completa rende il destino (ciò che in noi non scegliamo) una destinazione (come integriamo, curiamo, indirizziamo e perfezioniamo ciò che è dato).
Chi educa affianca la fioritura della natura umana (condivisa) e della specifica persona (con luci e ombre, con talenti e difetti). Il corpo ha bisogno di una cura lineare, anima e spirito no. Anche se parliamo sempre di maturazione: nel primo è progressiva, nei secondi va a salti e conosce progressioni e regressioni, a seconda di come la vita è interpellata dai fatti e dall’educazione. La vita nella sua molteplicità attiva livelli di profondità diversi di quel sé. Un educatore può prendersi cura dei vari livelli se li ha presenti e li coltiva in sé, altrimenti si appellerà a ricette che andavano bene ai suoi tempi o a ricette prese a prestito da concezioni più o meno adeguate alla pienezza del concreto vivente. Basti pensare, come piccolo esempio, alle letture: di quale libro ha bisogno in questo momento questo alunno? Siamo sicuri abbia bisogno di quello che ho letto io alla sua età? Non sarebbe meglio una lista da cui scegliere?


Solo la scoperta e il gusto di raggiungere questa pienezza consente all’uomo di percepire la propria vita come dono da fare e non come ego da affermare sugli altri, fonte di insolvibili conflitti. Solo chi ri-conosce qualcosa di dato può poi dare a sua volta e concepire la propria vita come dono e compito. Questa percezione della propria vita è l’obiettivo dell’educazione e quindi mediatamente dell’insegnamento. Siamo noi educatori capaci di far vedere a ogni singolo ragazzo, ragazza, quell’unità di senso che rimane nel tempo, anche se viene sollecitata, messa alla prova, arricchita, e a volte quasi annichilita, dal fluire più o meno burrascoso della vita? Siamo noi capaci di aiutare a trovare il "fondamento" che unifica a partire dalla molteplicità dell’esperienza? Se non lo facciamo "improvviseremo" soluzioni "provvisorie", liquide come il mondo senza fondamento, incapaci di far sgorgare risorse di vita che scaturiscono dalle profondità del sé sollecitato da ciò che nella vita è imprevedibile ma che può essere integrato come arricchimento.


È un compito che san Giovanni Paolo II aveva segnalato in modo chiaro, ma che forse dobbiamo ancora raccogliere nella sua pienezza, nella «Fides et ratio»: «Una grande sfida che ci aspetta è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l’interiorità dell’uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge». Ciò può avvenire se l’educatore sa attingere nella sua vita a questo fondamento, perché poi sarà capace di coglierlo negli altri, nessuno ri-conosce ciò che non conosce: «Chi non incontra mai una persona degna d’amore, non può mai vivere le profondità nelle quali si radica l’amore» (Edith Stein, «L’empatia»).


Tutto questo richiede studio, preparazione, trasformazione personale, dono di sé. La scuola si fa a partire dai maestri. Così è e sempre sarà. Le soluzioni organizzative sono importanti, ma saranno dettate da questa visione più ampia, altrimenti saranno oggetto di un dibattito esclusivamente ideologico, di qualsiasi marca sia. Gli educatori non sono chiamati a essere organizzatori, ma «esperti in umanità, che conoscano a fondo il cuore dell’uomo d’oggi, ne partecipino gioie e speranze, angosce e tristezze, e nello stesso tempo siano dei contemplativi innamorati di Dio» (Giovanni Paolo II, discorso dell’11 ottobre 1985). Solo questa profondità detterà soluzioni sempre nuove e creative, pratiche virtuose capaci di realizzare nel mondo quella "incarnazione" che è il centro della pedagogia divina e quindi fonte di ogni pedagogia umana.

Alessandro D’Avenia

Nessun commento: