Al via in tutte le scuole italiane gli esami di maturità. Un'insegnante, commissario interno, guarda la sua classe e si chiede: «Cosa si aspettano da me? E cosa mi aspetto io?». Un'occasione perché «vengano fuori per quello che sono»
19 giugno, ore 8. Inizia l’Esame di Stato, prima prova. Sono commissario, membro interno di italiano nella mia terza liceo classico, classe che accompagno e che mi accompagna da tre anni. Siamo al via: i volti tesi, si entra in silenzio, con chissà quali pensieri che affollano la mente. Li aspetto e li guardo, li conosco uno a uno, con alcuni fra i banchi è nata una familiarità palpabile, alcuni sono diventati compagni al destino, in un'amicizia che ha dentro il gusto, la promessa dell’eterno. Altri sono stati più restii, ma è evidente che tutti mi sono stati dati. Durante l’ultimo giorno di scuola ci dicevamo che in quest’anno volti poco noti sono entrati a far parte della nostra vita e questo a pensarci bene è un dono straordinario. Sono cresciuti. E mentre si accavallano i ricordi, penso: «Come posso star qui a valutarli?». A valutare cosa? Sono qui per difenderli, per presentarli, per esaminarli?
Scorrono le ore, si cimentano con tracce non semplici, alcuni decisi e certi, altri più titubanti, ma si buttano con l’impeto che da sempre li muove. Che muove il cuore di tutti, ma che in certi momenti di “prova” si fa incontenibile. Mi guardano, sembra che si rassicurino, cosa si aspettano ancora da me? O meglio, cosa mi aspetto io? Stamattina ho detto loro che le sorprese che ci hanno accompagnato non sono finite. Gli ho detto di starci all’esame, impegnandosi tutti interi, liberi, come sono e sanno. Li guardo e penso alle discussioni con la commissione nelle riunioni preliminari, quando per strappare sette minuti per la "tesina" (e non tre) ho dovuto quasi litigare. Loro si aspettano di essere guardati, abbracciati da uno sguardo buono, che dica loro che valgono, che i loro tentativi valgono, perché c’è tutto di loro in quello che fanno. Perché i ragazzi ci credono alla tesina, credono che valga la pena dire a noi commissari quello che a loro sta a cuore, noi non possiamo perderceli, non possiamo non vederli, non rispettarli, perché loro ci prendono sul serio. Penso di avere un ruolo: permettere che vengano fuori per quello che sono, che incontrino adulti propensi a entrare in "simpatia" con i loro tentativi, permettere che anche altri partecipino della mia commozione nel vederli in azione.
È solo l’inizio del match. Domani si procede e poi ci saranno le correzioni e gli sguardi dell’orale, e poi… il distacco. Quando le classi mi segnano è grave pensarci, non per sentimentalismo ma perché un pezzo di vita si stacca, ma questo è anche il bello del nostro lavoro: si impara la verginità, il distacco. Ci sto tutto intero, mi godo tutto e so che tutto quello che accade è per me, ma non è mio. Loro voleranno come Dante che tanto abbiamo amato, dopo il suo viaggio (Dante che è in tutte le tesine, una poi sorprendente su cosa vuol dire insegnare imparando). Ma, di una cosa sono certa: quello che conta dura, nei cuori di ognuno, nella ragione spalancata, nei rapporti che per grazia non finiranno mai.
Marina
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