sabato 22 giugno 2013

LA «RIVOLUZIONE» DI CHI SEGUE CRISTO


  IL COMPITO D’OGNI GIORNO
 
 
« Noi che abbiamo la gioia di accorgerci che non siamo orfani, che abbiamo un Padre, possiamo essere indifferenti verso questa città che ci chiede, forse anche inconsapevol­mente, senza saperlo, una speranza?». Le parole del Papa alla Chiesa di Roma, lunedì scorso, de­vono essere rimaste in mente, come incise, a mol­ti di quelli che le hanno ascoltate. Parole come un grido, come di uno che ti urti e ti riscuota dal so­pore. Siamo responsabili di testimoniare la no­stra speranza a chi non ce l’ha, ha detto France­sco alla città di Roma, ma in realtà la sua esorta­zione vale per la città dell’uomo, per ognuna e per tutte.
  Perché la differenza esistenziale che passa tra chi ha fede e chi no sta innanzitutto proprio in que­sto nodo: nel ritenersi figli di un Padre che ha molto caro il nostro destino, o monadi lanciate nella storia da un caso cieco, e dunque padroni assoluti di sé, e, ciascuno, solo. Figli di un Dio vis­suto nella carne, crocefisso e risorto, i cristiani affermano da duemila anni una rivoluzione che trascina in sé ogni morte e ogni male e dolore. U­na rivoluzione, disse Benedetto XVI, che è «la più grande mutazione della storia dell’umanità». (Di tante millantate, sanguinose, epocali rivoluzio­ni, la sola che permane, la sola perennemente vera).
  Ma questa eredità pone, a chi la custodisce, l’ob­bligo di essere testimoniata, l’urgenza anzi, ci ri­pete con forza Francesco da tre mesi: spinto com’è dall’ansia di allargare l’ annuncio proprio là dove diresti che non interessi, non serva, e da nessuno sia cercato. Bisogna osare questa rivo­luzione, ripete il Papa, anzi ai romani ha detto te­stualmente: «Un cristiano non rivoluzionario non è cristiano».
  Ora, immaginiamoci questa affermazione pro­nunciata nella sua nettezza in una delle nostre ca­se di poveri credenti, di fede timida, di costanza ondivaga, di debole coraggio. La radicalità della domanda del Papa non ci spaventa, forse? Noi che chiudiamo la nostra fede, spesso, in un in­volucro privato, e non ne facciamo cenno maga­ri neanche con chi da vent’anni ci lavora accan­to: come attanagliati da uno strano pudore, se non forse intimoriti dalla enormità della stessa pretesa che professiamo – del nostro Dio nato da donna, ucciso e risuscitato.
  È come un vento forte la parola detta da France­sco a Roma, ma in realtà a tutte le città dell’uo­mo. A dire la verità, non ce ne sentiamo spiazza­ti? A noi sembrava già abbastanza restare fedeli dentro ai confini delle parrocchie, delle associa­zioni, delle amicizie in cui si è credenti come noi. Invece, il Papa insiste, la grazia cristiana va por­tata agli altri. E allora «è una lotta tutti i giorni contro la tristezza, contro l’amarezza, contro il pessimismo», ha ribadito ai romani. E questo, ha aggiunto, è il martirio, non della vita «ma di tut­ti
 i giorni, di tutte le ore». La poderosa fatica di resistere alla corrente che dice che nulla ha senso, e che il nostro destino si gioca sotto a un cielo cieco. La umile testarda o­stinazione di restar fedeli alla promessa ricevu­ta, nello scorrere spesso opaco e monotono de­gli oneri quotidiani. Certo, una fede così non può vivere di morali­smo o devoto ricordo di una memoria lontana, ma solo di un Cristo vivo, e operante oggi. La ri­voluzione più radicale della storia si alimenta non in un dover essere, ma, audacemente, nel lascia­re che in noi operi l’Altro. Solo così si può non spa­ventarsi davanti alla tensione rivoluzionaria di Francesco. Solo così si può non smarrirsi per ciò che non siamo, e per ciò che non sappiamo fare; e la sera, sui bus e sui metrò che ci riportano a casa stanchi, avere addosso ancora, nelle nostre città di uomini e donne scoraggiati e soli, la cer­tezza che camminiamo dentro a un destino buo­no. E una serenità, così, nello sguardo, che me­ravigli e provochi gli altri, sconosciuti, accantoMARINA CORRADI

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