Il primo amore, per lui, è sbocciato un po’ alla volta, in modo insolito. «Ero bambino e vedevo mia mamma che pregava in chiesa: da sola, in silenzio. Si vedeva soltanto il movimento delle labbra. Io guardavo, e capivo che dall’altra parte doveva esserci qualcuno. È stata la prima impressione della presenza di Cristo nella mia vita». Se chiedi a don Pigi Bernareggi, 75 anni, da 49 in missione in Brasile, quando si è innamorato di Gesù, la risposta parte da lì, «dall’impressione di realtà che avevo guardando mia madre». E dai primi due anni al Berchet, al ginnasio, «dove ho trovato un ambiente in cui tutto diceva il contrario di quella Presenza», in cui il ritornello di tanti professori era che il vero non esiste e Dio è un’invenzione. «Ma dove, in un clima di sommossa che scuoteva tutto quello che io sapevo, una cosa è sempre continuato ad essere evidente per me: che Lui c’è. Non riuscivano a scalfire questo». È in quella classe che una mattina del 1954 «è piombato don Giussani con la sua forza e la sua persuasività. Quello che diceva coincideva con questa evidenza primaria che avevo io».
Alcuni compagni iniziarono a seguirlo. Lui ci mise un po’. «Ma era evidente che era certo di Cristo. Dominato dalla Sua presenza. Ecco, se il “primo amore” di cui si parla negli Esercizi è questo, è il contrario del sentimento: si tratta proprio del fondamento dell’essere di una persona».
Un fondamento di cui, poco alla volta, don Pigi ha scoperto il volto, i «tratti inconfondibili», passando sempre dalla stessa strada: fatti. Episodi. Un avvenimento. Come quello che poi gli ha fatto dire di «sì» a don Giussani: «In un certo senso, non avevo bisogno di dirglielo: quello che proponeva coincideva con la mia esperienza originaria, era oggettivo. Precedeva qualsiasi possibile reazione. Ma a un certo punto ho iniziato a seguirlo. Fu dopo il primo incontro a cui andai in via Statuto, la sede di Gs. Mi aveva invitato il mio compagno di banco, Dino Quartana. Leggemmo il Vangelo del Seminatore. Giussani, alla fine, fece una sintesi: da quello che dite, mi pare che il fattore che fa la differenza tra i terreni dove cade il seme sia la lealtà con l’esperienza, con ciò che accade. Io tra me dissi: “È così, bisogna essere leali con ciò che si vede. Bisogna dire sì”. Quella riunione me la ricorderò per sempre».
Ci fu un altro fatto che lo interrogò, l’estate di quello stesso anno. «All’inizio di quelle vacanze, mia mamma mi fa: “Questo è un biglietto del treno. Da Milano a Dublino. Parti domani e ti aspettano su dei miei amici”. “Chi viene con me?” “Nessuno, vai solo”. Mi ha messo in mano il biglietto e via. La Svizzera, la Francia, Dover, il ferry boat... E l’Irlanda. Mia mamma ha avuto un fegato tremendo. Sono stato là tutte le vacanze estive. Ed è stato un colpo tremendo per me. L’Irlanda di allora era un Paese completamente cattolico, tutto; dovunque mettessi il naso, vedevi il cristianesimo fotografato nel modo di parlare, di lavorare, di fare. Un’impressione grande. E quindi un grande rinforzo di questa esperienza della prossimità di Cristo». Ma quando questa «esperienza di prossimità» ha iniziato ad avere tratti più precisi? Quando hai iniziato a dire «questo è Gesù»? «Veniva fuori pian piano: dagli incontri, i raggi, le vacanze. I raduni a Varigotti di fine estate o Pasqua. Erano esercizi spirituali di livello profondo. Lì questa prossimità veniva delineandosi con tutti i tratti. Ho iniziato a spiegarmi perché restavo così “secco” quando vedevo mia mamma parlare con Dio. Ma era come il prendere luce e forma di qualche cosa che già c’era».
Ci fu una lezione di Giussani che lo segnò molto. Tema: l’Ascensione. «Sarà stato il 1962 o ’63. Diceva: è asceso al Cielo, ma quale cielo? Questo dove volano gli Sputnik e Jurij Gagarin? No: il Cielo è dove c’è il Padre. E il Padre dove è? Nel profondo della tua persona, E Cristo, con il Suo corpo glorioso - con il suo corpo umano, fisico, reale -, si è installato nel fondo del nostro essere. Lì ho capito che il mistero dell’Ascensione è la fotografia di quello che succede nella vita delle persone. Cristo, in quel momento, ha preso possesso di tutta la gente di tutte le epoche, anche di quelli di prima, e dei futuri, e persino di quelli che neanche si immaginano che esista Gesù Cristo». Per questo incontrarlo «è come nell’innamoramento: tu ti innamori senza sapere un cavolo di questa persona», ma trovi una corrispondenza oggettiva, inesorabile: «Poi la scopri man mano. Avviene una specie di contagio ontologico. Perché tu possa riconoscere quello che già c’è. Quando facevamo gli incontri a Varigotti ci veniva dato un librettino con su una citazione. In una c’era Laurentius Eremita: “Mi fu detto: tutto deve essere ricevuto e custodito nel silenzio. Pensai allora che forse tutta la mia esistenza sarebbe trascorsa nel rendermi conto di ciò che mi era accaduto. E il tuo ricordo mi riempie di silenzio”. Ecco, la mia vita è stata questo».
Quel primo amore si è ripetuto e approfondito, nello stesso modo. Fino a diventare totale. «Che la mia vocazione fosse dare tutto a Cristo era già dentro l’esperienza che facevo. Ma a farmene rendere conto fino all’imboccare una strada fu un altro incontro, al gruppo del lunedì, quello in cui don Giussani, nei primissimi anni Sessanta, vedeva ogni settimana i ragazzi che pensavano alla verginità. La prima volta che andai, ci fece ascoltare i cori russi. Maestosi. Ma serve una voce guida nel coro. Lui ci fece capire come una certa forma di vocazione può avere questa funzione nella comunità cristiana. Ci ha accompagnato molto in questa traiettoria. E da questa percezione della totalità, la questione della verginità veniva fuori come una cosa bella, piena, come è totale questa bellezza di Cristo che ti rapisce. La verginità non come rinuncia, ma come un fascino maggiore, un dilatarsi del cuore. Ma anche qui, in qualche modo si esplicitava quello che era già dentro dall’inizio». E il tuo rapporto con Lui diventava più saldo… «Sì. Una volta a Varigotti c’era il tema della missione. Don Giussani mi fece tenere una lezione sull’universalità. Io lì mi accorsi che c’è un’universalità estensiva che dipende da un’universalità intensiva: se il tuo rapporto con Cristo è veramente universale, allora puoi creare la missione nel senso popolare della parola, allargato al mondo. Ma se tu non scopri che la tua stanza ha dentro il mondo, non vivrai mai la missione. Così questa storia, ancora adesso, è la storia del cuore che si apre all’infinito, al di là di tutte le barriere di razze, ideologie, direi addirittura di tutte le spiritualità».
Che cosa sia questa apertura all’infinito è la vita stessa di don Pigi a mostrarlo. Lui fu tra i primi giessini ad andare in missione in Brasile, nel 1964. «Ero già laureato in filosofia, dopo un po’ sarei dovuto entrare in seminario a Venegono con altri sei o sette. Eravamo alle vacanze estive della comunità, all’hotel Panorama di Madonna di Campiglio. Don Giussani ci riuniva tutte le sere, verso le sette, per dire una decina del Rosario davanti al Brenta, tutto rosso. Una roba fantastica. Una sera, mi sento dare una gomitata: “Tu, vuoi andare in Brasile?”. Quando finsce il rosario, vado da Giussani e dico: “Senta, ma lei lo dice sul serio?». Gli davi del lei?
«Sempre. Non sono mai riuscito a dargli del tu. Comunque: “Dice sul serio?” Lui: “Come no”. E io: “Guardi, le do la risposta domani”. In missione c’erano già tre o quattro persone. Per noi erano come idoli, extraterrestri. Ci ho pensato e mi sono detto: perché no? Il giorno dopo gli ho detto che sarei andato. E lui: “Va bene, quando finiscono queste vacanze vengo dai tuoi genitori a parlarne”». Ma perché lo ha chiesto a te? «Non lo so. Non ne ho la minima idea». Ma te lo sarai chiesto… «Di fatto, no. Perché le cose che facevamo in Gs erano tutte cose inedite. Nessuno se le immaginava. Quindi anche questa. Come mia mamma, quando mi dà il biglietto e dice: vai a Dublino. Io ci sono andato. Era proprio una cosa senza limite. E poi, non vedevo perché dirgli di no».
Quattro anni dopo, fu anche l’unico a restare, a resistere all’ondata del 1968: sotto l’ondata della contestazione, della Teologia della liberazione, delle proteste contro il governo militare, il movimento - neonato in Brasile - si sgretolò, letteralmente. Andarono via tutti. Perché lui no? «Credo che sia proprio questa cosa di cui stiamo parlando. La mia esperienza religiosa era abbastanza sedimentata da reggere anche sotto quella pressione spaventosa». E da permettergli, poi, di fare la vita che fa da mezzo secolo a Belo Horizonte: coadiutore, parroco, poi nelle favelas «dove c’è un’umanità incredibile e un’esperienza di fede grande. Sono come i fontanili nostri, le sorgive. Tutti i giorni la favela si espande. Vanno tutti a lavorare in giro, in città. E comunicano a questo mondo ricco ma disumanizzato, quasi pagano, l’umanità e le radici cristiane della gente. La favela in Brasile è la grande risorsa del popolo». E in cosa si vedono le radici cristiane? «Nell’esperienza della Passione: Morte e Resurrezione di Cristo. Questa gente vive il dolore. Sono macinati giorno e notte dalla sofferenza. Vissuta in Cristo, come partecipazione vera alla Croce di Cristo, per cui genera la Resurrezione. È un popolo. Che gioisce nella tribolazione, che comunica nell’incomunicabilità. Che dona dove è sfruttato». Ma quando dici che questa gente partecipa della passione di Cristo è perché vedi una consapevolezza da parte loro di partecipare alla croce? «Molte volte sì. Molte volte è un’eredità portata avanti senza che qualcuno la coltivi. Per cui poi si coltivano tra loro e viene fuori quello che può venire fuori. Se la Chiesa assume la favela non come posto dove andare a fare la carità ai poveri, con le coperte, ma dove puoi aiutarli a vivere la loro esperienza, è una cosa fantastica…».
Cinquant’anni così, o quasi. Ma il tuo rapporto con Lui è cambiato? Puoi dire di essere più affezionato a Gesù? «Nelle modalità no. Anche perché Lui resta Lui: l’Assoluto non cresce e non diminuisce. Umanamente parlando, noi cresciamo. Ma divinamente parlando, no. E siccome l’Incarnazione è il Divino nell’umano, non è un’antinomia: è un mistero. Come può convivere il cambiare della nostra umanità con il perdurare dell’impassibilità di Cristo, questo è indescrivibile, no? Ma come cuore mio, come impeto, sì. L’affezione è cresciuta». È ancora un innamoramento? «Sì. Nei termini che dicevamo ora, sì. Con una profondità più ampia. Ma è come quella lauda, hai presente?». Cerca le parole, mischiando portoghese e italiano. Trova la melodia. E la canta, a voce bassa e giovane: «“Troppo perde il tempo ki ben non t’ama,/ dolc’amor Jesù…». E tutta la strofa, fino a «“Ki nol sentisse nol saprie parlare...”. Ecco, chi potrà descrivere l’amore di Cristo?». E chi ci può separare da Lui, innamorato di noi? Davide Perillo
venerdì 14 giugno 2013
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