L’arcivescovo di Milano nel discorso di sant’Ambrogio apre le celebrazioni per i 1700 anni dell’editto di Costantino "initium libertatis" e parla di libertà religiosa .
1. Il
XVII centenario dell’Editto di Milano
«L’Editto di
Milano del 313 ha un
significato epocale perché segna l’initium libertatis dell’uomo
moderno»[1]. Quest’affermazione
di un illustre cultore del diritto romano, il compianto Gabrio Lombardi,
permette di evidenziare come i provvedimenti, a firma dei due Augusti Costantino
e Licinio, determinarono non solo la fine progressiva delle persecuzioni contro
i cristiani ma, soprattutto, l’atto di nascita della libertà religiosa. In un
certo senso, con l’Editto di Milano emergono per la prima volta nella storia le due dimensioni che oggi
chiamiamo “libertà religiosa” e “laicità dello Stato”. Sono due aspetti
decisivi per la buona organizzazione della società politica.
Un’interessante
conferma di questo dato si può trovare in due significativi insegnamenti di
sant’Ambrogio. Da una parte l’arcivescovo non esitò mai a richiamare i
cristiani ad essere leali nei confronti dell’autorità civile, la quale, a sua
volta - ecco il secondo insegnamento - doveva garantire ai cittadini libertà
sul piano personale e sociale. Veniva così riconosciuto l’orizzonte del bene
pubblico a cui sono chiamati a concorrere cittadini e autorità.
Non si può tuttavia negare che
l’Editto di Milano sia stato una sorta di “inizio
mancato”. Gli avvenimenti che seguirono, infatti, aprirono una storia lunga
e travagliata.
La storica, indebita commistione
tra il potere politico e la religione può rappresentare un’utile chiave di
lettura delle diverse fasi attraversate dalla
storia della pratica della libertà religiosa.
La
situazione cambiò profondamente con la promulgazione della dichiarazione Dignitatis
humanae. Quali sono le novità fondamentali dell’insegnamento
conciliare? Il Concilio, alla luce della retta ragione confermata e illuminata
dalla divina rivelazione, ha affermato che l’uomo ha diritto a non essere
costretto ad agire contro la sua coscienza e a non essere impedito ad agire in
conformità con essa.
In questo modo, con la
dichiarazione conciliare venne superata la dottrina classica della tolleranza
per riconoscere che «la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa»,
e che tale diritto «perdura anche in coloro che non soddisfano l’obbligo di
cercare la verità e di aderire ad essa» (DH 2). A dire di Nikolaus Lobkowicz, già rettore della Università
di Monaco di Baviera e presidente dell’Università cattolica di Eichstätt, «la straordinaria qualità della
dichiarazione Dignitatis humanae consiste nell’aver trasferito il tema della libertà
religiosa dalla nozione di verità a quella dei diritti della persona umana. Se
l’errore non ha diritti, una persona ha dei diritti anche quando sbaglia.
Chiaramente non si tratta di un diritto al cospetto di Dio; è un diritto
rispetto ad altre persone, alla comunità e allo Stato»[2].
2.
Praticare e pensare oggi la libertà religiosa
Tuttavia parlare oggi di libertà
religiosa significa affrontare un’emergenza che va sempre più assumendo un
carattere globale. Secondo l’accurato studio di Brian J. Grim e Roger Finke[3], nel
periodo compreso tra il 2000 e il 2007 sono stati ben 123 i
Paesi in cui si è verificata una qualche forma di persecuzione religiosa, e purtroppo il numero è in continuo aumento.
Questi dati, espressione
preoccupante di un grave malessere di civiltà, spingono ad intensificare
l’approfondimento del tema senza trascurare i dibattiti, talora accesi e mai
sopiti, sulla natura, sulla corretta interpretazione e sulla necessaria
assunzione della dichiarazione Dignitatis humanae.
Anzitutto
il tema della “libertà religiosa”, che a prima vista suscita un consenso molto
ampio, possiede da sempre un contenuto tutt’altro che ovvio. Si impiglia, infatti,
in un nodo alquanto complesso, in cui s’intrecciano almeno tre gravi problemi:
a) il rapporto tra verità oggettiva e coscienza individuale, b) la
coordinazione tra comunità religiose e potere statale e c), dal punto di vista
teologico cristiano, la questione dell’interpretazione dell’universalità della
salvezza in Cristo di fronte alla pluralità delle religioni e di mondovisioni
(visioni etiche “sostantive”).
In
secondo luogo bisogna aggiungere che a questi problemi, per così dire classici,
dell’interpretazione della libertà religiosa se ne sommano oggi di nuovi, non
meno decisivi.
Ne
indico tre. Il primo è quello del rapporto tra la ricerca religiosa personale e
la sua espressione comunitaria. Spesso viene sollevata la domanda: fino a che
punto la libertà religiosa può limitarsi ad una espressione soltanto individuale?
D’altra parte, ci si deve chiedere a quali condizioni un “gruppo religioso” può
rivendicare un riconoscimento
pubblico in una società plurale interreligiosa e interculturale. Siamo di
fronte alla delicata questione relativa al potere dell’autorità pubblica legittimamente
costituita di distinguere una religione autentica da ciò che non lo è. I fatti
confermano in tal modo che la distinzione tra potere politico e religioni non è
così ovvia come può apparire a prima vista.
Con
caratteristiche analoghe si presenta il problema della distinzione tra
religioni e “sette”: si tratta di un tema antico quanto la nozione romana di religio
licita, ma che recentemente ha assunto caratteri molto più acuti per una
serie di motivi: la frammentazione e la proliferazione di “comunità” all’interno
del mondo cristiano; la posizione agnostica della maggior parte delle
legislazioni di fronte ai fenomeni religiosi.
È
infine importante notare che oggi uno dei temi più scottanti nell’ambito della
discussione sulla libertà religiosa è quello del suo legame con la libertà di
conversione.
Per
tutti questi motivi, pensare e praticare la libertà religiosa appare oggi molto
più difficile di quanto ci si aspetterebbe soprattutto dopo la dichiarazione
conciliare.
3. Nodi da sciogliere
In
questo quadro, per sciogliere taluni nodi problematici, sono utili ed appropriati
almeno due ordini di considerazioni.
Il
primo riguarda il nesso tra libertà religiosa e pace sociale. Non solo la
prassi, ma anche diversi studi recenti hanno evidenziato come tra le due realtà
esista una correlazione molto stretta. Se astrattamente parlando si potrebbe
immaginare che una legislazione in grado di ridurre i margini della diversità
religiosa riesca anche a ridurre fino ad eliminare la conflittualità che ne può
derivare, di fatto si verifica la
situazione esattamente opposta: più lo Stato impone dei vincoli, più aumentano
i contrasti a base religiosa. Questo risultato è in realtà comprensibile:
imporre o proibire per legge pratiche religiose, nell’ovvia improbabilità di
modificare pure le corrispondenti credenze personali, non fa che accrescere
quei risentimenti e frustrazioni che si manifestano poi, sulla scena pubblica,
come conflitti.
Il secondo problema è ancor più complesso e
richiede una riflessione un po’ più articolata. Riguarda la connessione tra
libertà religiosa e orientamento dello
Stato e, a diversi livelli, di tutte le istituzioni statuali, nei confronti delle comunità religiose presenti nella società
civile.
L’evoluzione
degli Stati democratico-liberali è andata sempre più mutando l’equilibrio su
cui tradizionalmente si reggeva il potere politico. Ancora fino a qualche
decennio fa si faceva riferimento sostanziale ed esplicito a strutture
antropologiche generalmente riconosciute, almeno in senso lato, come dimensioni
costitutive dell’esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la
generazione, l’educazione, la morte.
Che
cosa è accaduto quando questo riferimento, identificato nella sua origine
religiosa, è stato messo in questione e ritenuto inutilizzabile? Si sono andate
assolutizzando in politica delle procedure decisionali che tendono ad
autogiustificarsi in maniera incondizionata. Ne è conferma il fatto che il
classico problema del giudizio morale sulle leggi si è andato sempre più
trasformando in un problema di libertà religiosa. Di ferita alla libertà religiosa
parla in modo esplicito la Conferenza episcopale degli Stati Uniti a proposito
dell’HHS Mandate, cioè alla riforma sanitaria di Obama che impone
a vari tipi di istituzioni religiose (specialmente ospedali e scuole) di
offrire ai propri impiegati polizze di assicurazione sanitaria che includano
contraccettivi, abortivi e procedure di sterilizzazione[4].
Il
presupposto teorico dell’evoluzione sopra richiamata si rifà, nei fatti, al modello francese di
laicité che è parso ai più una
risposta adeguata a garantire una piena libertà religiosa, specie per i gruppi
minoritari. Esso si basa sull’idea dell’in-differenza,
definita come “neutralità”, delle istituzioni statuali rispetto al fenomeno
religioso e per questo si presenta a prima vista come idoneo a costruire un
ambito favorevole alla libertà religiosa di tutti. Si tratta di una concezione
ormai assai diffusa nella cultura giuridica e politica europea, in cui però, a
ben vedere, le categorie di libertà religiosa e della cosiddetta “neutralità” dello
Stato sono andate sempre più sovrapponendosi, finendo così per confondersi. Nei
fatti, per vari motivi ad un tempo di carattere teorico e storico, la laicité alla francese ha finito per
diventare un modello maldisposto verso il fenomeno religioso. Perché? Anzitutto,
l’idea stessa di “neutralità” si è rivelata assai problematica, soprattutto
perché essa non è applicabile alla società civile la cui precedenza lo Stato
deve sempre rispettare, limitandosi a governarla e non pretendendo di gestirla.
Ora,
rispettare la società civile implica riconoscere un dato obiettivo: oggi nelle
società civili occidentali, soprattutto europee, le divisioni più profonde sono
quelle tra cultura secolarista e fenomeno religioso, e non – come spesso invece
erroneamente si pensa – tra credenti di diverse fedi. Misconoscendo questo
dato, la giusta e necessaria aconfessionalità dello Stato ha finito per dissimulare,
sotto l’idea di “neutralità”, il sostegno dello Stato ad una visione del mondo
che poggia sull’idea secolare e senza Dio. Ma questa è una tra le varie visioni culturali (etiche “sostantive”) che
abitano la società plurale. In tal modo lo Stato cosiddetto “neutrale”, lungi
dall’essere tale fa propria una specifica cultura, quella secolarista, che
attraverso la legislazione diviene cultura dominante e finisce per esercitare
un potere negativo nei confronti delle altre identità, soprattutto quelle
religiose, presenti nelle società civili tendendo ad emarginarle, se non espellendole
dall’ambito pubblico. Lo Stato,
sostituendosi alla società civile, scivola, anche se in maniera
preterintenzionale, verso quella posizione fondativa che la laicité
intendeva rispettare, un tempo occupata dal “religioso”. Sotto una
parvenza di neutralità e oggettività delle leggi, si cela e si diffonde – almeno
nei fatti – una cultura fortemente connotata da una visione secolarizzata
dell’uomo e del mondo, priva di apertura al trascendente. In una società
plurale essa è in se stessa legittima ma solo come una tra le altre. Se però lo
Stato la fa propria finisce inevitabilmente per limitare la libertà religiosa.
Come ovviare a questo grave
stato di cose? Ripensando il tema della aconfessionalità dello Stato nel quadro
di un rinnovato pensiero della libertà religiosa. È necessario uno Stato che, senza far propria una specifica visione, non
interpreti la sua aconfessionalità come “distacco”, come una impossibile neutralizzazione
delle mondovisioni che si esprimono nella società civile, ma che apra spazi in
cui ciascun soggetto personale e sociale possa portare il proprio contributo
all’edificazione del bene comune[5].
Conviene
tuttavia chiedersi: il modo migliore di affrontare questa delicata situazione è
rivendicare una liberty of religion delle diverse comunità, chiedendo il
rispetto delle “peculiarità” delle loro sensibilità morali minoritarie? Questa
sola richiesta, anche se doverosa, rischia di rafforzare sulla scena pubblica
l’idea secondo cui l’identità religiosa è fatta di nient’altro che di contenuti
ormai desueti, mitologici e folcloristici. È assolutamente necessario che
questa giusta rivendicazione si iscriva in un orizzonte propositivo più largo,
dotato di una ben articolata gerarchia di elementi.
Questi
troppo rapidi accenni mostrano non solo quanto il tema della libertà religiosa
resti complesso, ma soprattutto ci spingono a riconoscere come, oggi più che
mai, questo tema rappresenti la più sensibile cartina di tornasole del grado di
civiltà delle nostre società plurali.
Infatti
se la libertà religiosa non diviene libertà realizzata posta in cima alla scala
dei diritti fondamentali, tutta la scala crolla. La libertà religiosa
appare oggi come l’indice di una sfida molto più vasta: quella della elaborazione
e della pratica, a livello locale ed universale, di nuovi basi antropologiche,
sociali e cosmologiche della convivenza propria delle società civili in questo
terzo millennio. Ovviamente questo processo non può significare un ritorno
al passato, ma deve avvenire nel rispetto della natura plurale della società.
Pertanto, come ho avuto modo di dire in altre occasioni, deve prendere l’avvio
dal bene pratico comune dell’essere insieme. Facendo poi leva sul
principio di comunicazione rettamente inteso, i soggetti personali e
sociali che abitano la società civile devono narrarsi e lasciarsi narrare tesi
ad un reciproco, ordinato riconoscimento in vista del bene di tutti.
4. Per un cammino comune
In
proposito vorrei solo accennare a una condizione secondo me imprescindibile di
questo cammino arduo, ma improcrastinabile.
Acquisito
l’insegnamento di Dignitatis humanae connesso a quell’initium libertatis inaugurato positivamente nell’Editto del 313, che
l’adesione alla verità è possibile solo in maniera volontaria e personale e la coercizione
esterna è contraria alla sua natura, bisogna riconoscere che questa doppia
condizione resta nei fatti spesso irrealizzabile. Perché? Perché contemporaneamente non si persegue «quel dovere e
quindi il diritto di cercare la verità» (DH 3) che toglie ad ogni
retta affermazione della libertà religiosa il sospetto di essere un altro nome
dell’indifferentismo religioso che non può non porsi, almeno nei fatti, come
una specifica mondovisione la quale, nell’attuale frangente storico, tende
sempre più a far valere l’egemonia di una particolare visione del mondo
sulle altre.
Che
dire in proposito di fronte all’obiezione di quanti non soddisfano l’obbligo di
cercare la verità per aderirvi? Anzitutto si deve ribadire che questa è sempre
comunque la scelta di una
mondovisione che ha cittadinanza in una società plurale, ma che non può essere
surrettiziamente assunta come fondamento della aconfessionalità dello Stato.
Tuttavia
ancor più decisivo è il libero invito loro rivolto a riflettere in che cosa
consista tale obbligo.
Agostino,
genio espressivo dell’umana inquietudine, ne aveva carpito il segreto, come ci
ricorda Benedetto XVI: «Non siamo noi a
possedere la Verità dopo averla cercata, ma è la Verità che ci cerca e ci
possiede»[6].
In questo senso, è la stessa verità,
attraverso la pregnanza delle relazioni e delle circostanze della vita di cui
ogni uomo è protagonista, a proporsi come “il caso serio” dell’umana esistenza
e dell’umana convivenza. La verità che ci cerca si documenta
nell’insopprimibile anelito con cui l’uomo ad essa aspira: «Quid enim fortius desiderat anima
quam veritatem?»[7]. E questo
anelito rispetta la libertà di tutti, anche di chi si dice agnostico,
indifferente o ateo. La
libertà religiosa sarebbe altrimenti una parola vuota.
5.
L’anniversario dell’Editto, opportunità per Milano
La città di Milano e le terre
lombarde sono e saranno sempre più abitate da tanti nuovi italiani (immigrati
di prima, seconda e terza generazione). Saranno chiamate a fare i conti con
il processo storico (sottolineo processo
storico e non progetto sincretistico) di meticciato di civiltà e di culture, a mostrare la capacità di
rispettare la libertà di tutti, di edificare il corpo ecclesiale e un buon
tessuto sociale trasmettendo fede e memoria.
Le nostre terre sono e saranno
obbligate a confrontarsi con lo sviluppo di una società civile dai contorni
molto più variegati e a rischio di sempre maggior frammentazione per la
presenza di interessi corporativi, i cui centri effettivi di potere sono e
saranno sempre più dis-locati “altrove”, in Europa e nel mondo;
poteri, mai neutri, che vedranno sempre più accresciuta la loro capacità di
presentarsi come attori sociali e gruppi di pressione.
La
celebrazione dell’anniversario dell’Editto di Milano cade in un momento storico
in cui la Chiesa ambrosiana, insieme a tutte le Chiese del nostro paese, è
chiamata ad un’opera di trasformazione della propria presenza nella società
plurale. Superati i decenni della contestazione che annunciavano la fine di
ogni forma pubblica del cattolicesimo (negli anni ’70 anche a Milano molti
pensavano così), i cristiani possono testimoniare l’importanza e l’utilità
della dimensione pubblica della fede. Il cattolicesimo popolare ambrosiano -
che non è privo di profonde fragilità sia nell’assunzione del pensiero di
Cristo che nella pratica sacramentale e del senso cristiano della vita - si
mostra tuttavia capace di risorse innovative per il vivere sociale,
inimmaginabili nelle previsioni di qualche decennio fa. Il concreto tessuto ambrosiano di vita cristiana, forse in modo
culturalmente minoritario, sta infatti cercando nuove forme per mantenersi
capillarmente radicato nell’esteso territorio della diocesi. Lo fa attraverso
reti di solidarietà, di accoglienza, di costruzione di risposte ai bisogni
fondamentali, di gestione del legame sociale, di educazione alla fede e alla
cultura, che va dall’annuncio esplicito della bellezza, della bontà e della
verità dell’evento di Gesù Cristo presente nella comunità, fino alla proposta
di tutte le sue umanissime implicazioni antropologiche, sociali e di rapporto
con il creato.
6.
Un lavoro comune
Il nostro è un tempo che domanda
una nuova, larga cultura del sociale e del politico. I molti frammenti
ecclesiali e civili che già oggi anticipano la Milano del futuro sono chiamati a
lasciar trasparire il tutto. L’insieme deve brillare in ogni frammento a
beneficio della comunità cristiana e di tutta la società civile. Vita buona e
buon governo vanno infatti di pari passo.
[1] G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa.
Dall’Editto di Milano alla “Dignitatis humanae”, Studium Roma 1991, 128.
[2] N. Lobkowicz, Il Faraone Amenhotep e la Dignitatis Humanae , in Oasis 8 (2008) 17-23, qui 18.
[3] The Price of Freedom Denied. Religious Persecution and
Conflict in the Twenty-first Century, Cambridge
University Press, New York 2011.
[4] United
States Conference of
Catholic Bishops, Our First, Most
Cherished Liberty . A Statement on
Religious Liberty,
12.04.2012.
[5] Cf. A. Scola, Buone ragioni per la vita in comune, Mondadori, Milano 2010, 16-17.
[6] Benedetto XVI, Udienza Generale, 14 novembre 2012.
[7] Agostino,
“Che cosa più potentemente l’uomo
desidera del vero?”, Commento al
Vangelo di san Giovanni 26,5.
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