Esercizi degli universitari di Comunione e Liberazione
R I M I N I , D I C E M B R E - 7-9 dicembre 2012
IntroduzIone Julián Carrón
7 dicembre, sera
«Attesa» è la parola che definisce ciascuno di noi. Ed è questa attesa che
ci ha portati qui, altrimenti non saremmo venuti. Ma, allo stesso tempo,
tutti sappiamo come essa sia osteggiata da tante preoccupazioni; mille
distrazioni cercano di staccarci da questa attesa che ciascuno di noi è,
vogliono staccarci da noi stessi, dalla verità più profonda di noi.
Per questo, coscienti della nostra debolezza, della nostra fragilità,
domandiamo lo Spirito, che ci renda noi stessi, cioè quello che veramente
siamo: attesa sconfinata di compimento.
Discendi Santo Spirito
Ballata dell’uomo vecchio
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Saluto uno ad uno tutti voi che siete giunti dall’Argentina, Austria,
Belgio, Russia, Slovenia, Spagna, Svizzera, Uganda, oltre che dall’Italia,
con questo grido, come abbiamo appena cantato, perché più passa il tempo,
più la vita va avanti, e più ci rendiamo conto di quanto siamo bisognosi, di quanto
la nostra attesa sia sterminata.
È per questo che il titolo che abbiamo scelto per gli Esercizi di quest’anno non ha
lasciato indifferente nessuno. Ciascuno si è sentito provocato,
tanto esso tocca un nervo scoperto in ognuno di noi, come dice questa
nostra amica: «Quando ho saputo il titolo degli Esercizi mi sono un po’
intimorita perché non è affatto banale: “Qualcuno ci ha mai promesso
qualcosa? E allora, perché attendiamo?”. Per me la domanda non è solo
questa, ma implicitamente ne comprende anche un’altra: io attendo qualcosa?
Aspetto qualcosa o no? Nella vita piena di cose da fare devo trovare
il tempo di attendere o vivo attendendo? Perché c’è un abisso di mezzo.
Infatti, se io cerco solo quando sono libera dal resto, vuol dire che non
amo, perché quando sei innamorata la presenza del volto amato permea
ciò che hai da fare. Se vivo attendendo, la porta del mio cuore rimane
socchiusa alla possibilità che la Presenza che aspetto entri in qualunque
circostanza, compresa quella che sto vivendo. La lotta tra queste due
posizioni è continua in me, tutti i giorni».
1. Questo definisce il nostro essere, e i geni poetici lo hanno colto ed
espresso in modo eccezionale: «Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo
stellato finirà) / Perché bramo Dio?»
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, dice Ungaretti. «Perché bramo?».
Non vi distragga adesso la parola “Dio”: perché bramo così tanto? Perché
questo grido, questa urgenza è così potente? Bramo. Bramare è desiderare
qualcosa intensamente, appassionatamente, quasi in modo irresistibile.
Ciò che stupisce è che noi, pur chiusi tra cose mortali, tra cose effimere, abbiamo un desiderio così potente, così sconfinato. E ce ne rendiamo
conto particolarmente in certe circostanze.
«Nel rispondere alla provocazione del titolo degli Esercizi non posso
prescindere da quello che ha investito la mia vita negli ultimi giorni: la
morte del papà di Stefano, un amico nostro di Torino. È stato il primo
di una serie di fatti eccezionali di fronte a cui è stato sorprendentemente
facile riconoscere la presenza di un Altro: nella testimonianza della moglie, dei figli, nel fiorire continuo dei rapporti, nell’unità tra di noi. E mi
sono reso conto di come l’egemonia culturale, il potere di cui spesso ci
parli, influisca sulla consapevolezza del nostro cuore, perché in questi
giorni ho riscoperto di che cosa è strutturalmente fatto il mio cuore. Il
mio cuore è attesa. Queste circostanze hanno riaperto la ferita che costituisce la natura stessa del cuore, hanno rispalancato in tutti noi l’esigenza
di significato, felicità e verità, di cui parla Il senso religioso. L’esperienza
degli ultimi giorni mi ha mostrato con chiarezza che se il mio desiderio
è così grande è perché c’è una Presenza altrettanto grande che risponde,
e questo desiderio è ciò che ha incominciato a muovermi ed è diventato
domanda». Non siamo in grado di rispondere noi, infatti, a tutto questo
desiderio, a tutta questa attesa. Ma è come se tante volte questa attesa fosse sepolta, e allora deve succedere qualcosa per risvegliarla in tutta la sua
potenza, come abbiamo appena visto. O come mi raccontavano poco fa a
cena: la morte improvvisa della mamma di una nostra amica, che perciò
non è potuta venire agli Esercizi, ha determinato una serietà con la vita,
nel modo di stare insieme, nel modo di affrontare le cose, che rende più
autenticamente se stessi. Questo indica che l’attesa di cui parliamo non è
pacifica, è un’attesa contrastata in tanti modi.
2. Rilke ha identificato bene quel tentativo di osteggiare l’attesa che pervade
il clima in cui siamo e le nostre giornate: «E tutto cospira a tacere di
noi, un po’ come si tace un’onta, forse, un po’ come si tace una speranza
ineffabile».
L’attesa è osteggiata, tutto cospira a farla tacere, anche tra di
noi, nella banalità delle giornate, nella distrazione quotidiana; è come se
questa cospirazione ci riguardasse in tanti modi, in tanti momenti. Chi di
noi può non arrendersi a questo riconoscimento doloroso e reale?
Scrive uno di voi: «L’esempio che porto risale ad oggi. Vengo via
dall’università perché sento un disagio come non mi succedeva da quando ero
al primo anno, non sono assolutamente contento, anzi, sono particolarmente spento.
Mi accorgo che è da quando mi sono svegliato che ho fatto
esattamente ciò che avevo in mente, ho adempiuto tutti i miei programmi sulla giornata,
ho studiato cose che mi piacevano, sono andato alle
lezioni che mi interessavano, ma un senso di vuoto dentro di me rimane.
Quello che è certo della giornata di oggi è che non sono contento, che non
ho voglia di andare a dormire, in generale che la giornata è finita e non
è successo niente. È evidente che Ciò che mi riempie non lo faccio, non
lo conosco io, e finché non succede non succede, niente. La verità è che
attendo qualcosa».
Attendo anche se sono spento. Come dice un altro amico, che descrive questa lotta,
che può essere la lotta di ciascuno di noi: «Ho passato il
primo anno di università a dire no a tutto quello che mi veniva proposto
dal movimento e in generale dalla realtà. Dietro questo no c’era una serie
di pregiudizi, che nascevano soprattutto dal paragone con la comunità e
l’esperienza che avevo fatto precedentemente nel movimento.
Mi alimentavo, quindi, di queste lamentele, creando giustificazioni superficialmente
ragionevoli, che mi permettevano di sopravvivere ed essere al riparo dalle
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mille provocazioni che mi arrivavano. Questo “no” ripetuto e incessante aveva ridotto in modo sostanziale le domande che avevo sulla vita, le
mie esigenze, il mio desiderio. Ormai dalla realtà non mi aspettavo nulla.
Avendo già vissuto tanti anni all’interno del movimento avevo maturato
una posizione borghese rispetto al movimento e alla vita, perché sapevo
già tutto, non avevo bisogno di chiedere niente. Avevo ridotto anche l’esperienza del movimento a “questione intellettuale”, a “idea sulla vita e
su Dio”, avevo eliminato l’ipotesi che quello fosse un luogo per me, che
mi era stato dato per la mia maturazione, anzi, la comunità era diventata un luogo contro di me. Ho iniziato, quindi, il secondo anno pieno
di perplessità e di preoccupazioni, ero disorientato, non sapevo perché
stavo ancora lì, per quale assurdo motivo non abbandonavo tutto. E poi è
successo quello che non mi sarei mai aspettato. Una sera, prendendo una
birra con un mio amico, ho deciso di tirare fuori tutte le mie perplessità
e i miei dubbi verso la comunità, non per lamentarmi, come se la responsabilità della mia insoddisfazione ricadesse su di lui, ma per cercare di
capire perché, dall’esperienza totalizzante che avevo fatto prima di venire
in università, ora mi ritrovavo distante, quasi in disaccordo su tutto. Alle
sue domande secche e non opinabili mi ritrovavo a tirar fuori scuse e
giustificazioni per non rispondere, aggirando il problema, pensando che
non avesse capito bene quello che volevo dire, che non mi conosceva abbastanza per poter capire quale fosse il mio problema. Invece aveva capito anche troppo bene. Ho stampata in mente una delle domande che
continuava a ripetermi, a cui cercavo in ogni modo di non rispondere:
“Ma tu cosa cerchi?”. Non rispondevo perché dall’alto del mio orgoglio
e della mia superbia pensavo che dopo una vita passata nel movimento
non erano queste domande basilari, che sentivo superate, ciò a cui era
importante rispondere. Più continuavo a pensare che non avesse capito
quali erano in realtà i miei problemi, più spostavo la questione, la rinviavo,
rispondevo ad altro, perché quel “cosa cerchi?” era troppo fastidioso,
troppo scomodo. Lui non faceva altro che mettermi la verità davanti,
niente di più, e l’insistenza con cui lo faceva mi faceva solo arrabbiare, mi
metteva davanti a una fatica: capire cosa cerco e quali sono gli strumenti
per cercarlo in modo chiaro. C’è stato un momento in cui ho dovuto
cedere, non riuscivo più a fermare l’impeto della verità, era troppo forte».
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Tra queste due posizioni, quella che ci ricordava Ungaretti: «Perché bramo?»,
e quella descritta da Rilke: «Tutto cospira», chi ha ragione? Attesa o
cospirazione? È una alternativa che dobbiamo guardare in faccia: da una
parte, quello che ci troviamo a bramare, quello che sorprendiamo dentro
di noi bramando così intensamente, e, dall’altra, questa cospirazione
che riscontriamo intorno a noi e dentro di noi, di cui noi siamo anche
complici. Chi ha ragione? Non è un problema di schieramenti, non è un
problema di sentimenti, non è un problema di opinioni, è un problema
di verità: chi ha ragione?
3. Ecco, allora, il terzo punto in cui si inserisce il tema dei nostri Esercizi:
«Com’è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno
ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?».
Perché è più vera l’attesa che la cospirazione contro di essa? Perché è più vera?
Perché niente, come abbiamo visto, può toglierla, anche se può essere sepolta
sotto mille distrazioni, sotto mille pregiudizi, sotto mille obiezioni. Perché
continuiamo ad attendere? Questa frase di Pavese la porteremo con noi
fino alla tomba: «E allora perché attendiamo?». Ciascuno dica se può
opporre qualcosa a questa domanda. Il grande atto di amicizia che un uomo
può fare verso un altro uomo è porgli una domanda vera: «Qualcuno ci
ha promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?». Nell’attesa si documenta
la struttura della nostra natura, l’essenza della nostra anima. Noi
attendiamo perché la promessa è all’origine, è l’origine della nostra fattura,
di come siamo stati fatti. Chi ha fatto l’uomo lo ha fatto come promessa.
E questo lo sappiamo proprio perché attendiamo.
«Strutturalmente – ci ricorda don Giussani – l’uomo attende; strutturalmente
è mendicante: strutturalmente la vita è promessa».Possiamo
dire o fare tutto quello che vogliamo – cercare di distrarci secondo tutte le
modalità che conosciamo, essere conniventi con tutta la cospirazione che
c’è oggi intorno a questa attesa, ciascuno può aggiungere tutto quello che
sa o tutte le strategie che usa per scappare dal guardarla, e anche stando
insieme possiamo non avere il coraggio di guardarla –, ma non possiamo
strapparci di dosso questa attesa, perché è la struttura della nostra natura,
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non abbiamo deciso noi di averla, né possiamo decidere noi di sopprimerla,
non è da noi che dipende, non possiamo farci nulla. Possiamo,
questo sì, decidere di assecondarla oppure di contrastarla, di amarla oppure
di odiarla, e questa è l’alternativa che si pone davanti a ciascuno di
noi ogni giorno.
Bramo perché la sostanza dell’io è attesa, e se la struttura originale
dell’uomo è attesa, la cosa più terribile che posso compiere contro questa
natura che sono io è non aspettare niente. Scrive Pavese: «Aspettare è
ancora una occupazione. È non aspettar niente che è terribile».
È drammatico aspettare, ma è tragico non aspettare niente. Infatti, l’alternativa
all’attesa è la noia. Lo dice bene Blanchot: «La putrefazione dell’attesa
[è] la noia».
Ma questa attesa è così resistente che, come scrive Marcel
Proust, «sapere che non si ha più nulla da sperare non impedisce di continuare
ad attendere»;essa è così strutturalmente una cosa sola con noi, ci
definisce talmente in ogni fibra del nostro essere, che non possiamo non
aspettare. Come dice ancora Rilke: «Sempre distratto ancora d’attesa, /
come se tutto t’annunciasse un’amata». Uno si sorprende “distratto” ad
attendere. Come quando uno è innamorato: «A che cosa stai pensando?»
«A che cosa credi che pensi?». «Distratto ancora d’attesa, / come se tutto
t’annunciasse un’amata».Dai letterati ai cantanti, il tema è il medesimo, come
abbiamo visto nella mostra sul rock’n’roll del Meeting di quest’anno, per esempio
in questo brano del gruppo inglese Coldplay: «Non so da che parte sto andando,
non so per quale strada sono arrivato, racchiudi la mia testa dentro le
tue mani, ho bisogno di qualcuno che capisca, ho bisogno di qualcuno,
qualcuno che ascolti. Per tutti questi anni ho atteso te, per te aspetterei
fino alla venuta del regno, fino a che il mio giorno, il mio giorno arrivi.
E dì che arriverai e mi libererai. Dì solo che attenderai, attenderai me».
Domina l’attesa, come nel canto che abbiamo fatto all’inizio.
Questa attesa ci è testimoniata dalle persone più diverse, che ci aiutano
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in un modo o in un altro a sentire qualcosa che tocca la fibra del nostro
essere, che ci definisce. Ascoltiamo questa poesia di Rebora: «Dall’immagine
tesa / Vigilo l’istante / Con imminenza di attesa». L’istante. Ma che cos’è
l’istante? Basta che ci fermiamo un attimo per renderci conto di quanto
questa attesa definisca il nostro istante. «E non aspetto nessuno: /
Nell’ombra accesa / Spio il campanello / Che impercettibile spande / Un
polline di suono – / E non aspetto nessuno: / Fra quattro mura / Stupefatte
di spazio / Più che un deserto / Non aspetto nessuno [non aspetto niente
di concreto, perché niente mi basta]: / Ma deve venire, / Verrà, se resisto /
A sbocciare non visto, / Verrà all’improvviso, / Quando meno lo avverto: /
Verrà quasi perdono / Di quanto fa morire, / Verrà a farmi certo / Del suo
e mio tesoro, / Verrà come ristoro / Delle mie e sue pene, / Verrà, forse già
viene / Il suo bisbiglio».Verrà.
Per essere pronti a questo arrivo, in questi giorni cominciamo domandando l’attesa.
Domandiamo questa attesa, chiediamo di riconoscere questa attesa, per essere
noi stessi, per coincidere con noi stessi, per renderci
disponibili alla risposta, aiutandoci con le parole che abbiamo cantato:
«Ascoltami, rimani ancora qui, ripeti ancora a me la tua parola. Ripetimi
quella parola che un giorno hai detto a me e che mi liberò».Possiamo
essere certi che arrivi perché, come ci dice il Papa, «Dio [...] non si stanca
di cercarci, è fedele all’uomo che ha creato e redento, rimane vicino alla
nostra vita, perché ci ama. È questa certezza che ci deve accompagnare
ogni giorno».
Come dice questa nostra amica: «La prima volta che ho sentito il titolo
di questi Esercizi sono rimasta quasi senza parole. Mi faceva quasi paura
tanto aveva colpito il mio cuore. Ho fatto finta di niente, accontentandomi
di iscrivermi a questi Esercizi, certa che le tue parole mi avrebbero
in qualche modo illuminata. Ma ogni volta che risentivo il titolo, il mio
cuore sobbalzava, e ho capito il perché: di fronte alla domanda di Pavese
non posso e non voglio far finta di niente, ho bisogno di rispondere: ma
io perché attendo? La radicalità di questa domanda è stata la stessa radicalità
che ha caratterizzato i miei ultimi mesi. Un paio di mesi fa mi sono
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ritrovata inchiodata al muro, sola con le mie paure e i miei continui fallimenti.
Non sapevo volermi bene, non mi interessava quello che studiavo,
facevo fatica a stare in università, non sapevo voler bene al mio moroso e
ai miei amici. In più ero completamente schiacciata dall’ansia. A un certo
punto, però, un amico ha cominciato a guardarmi in modo diverso, mi
voleva bene così com’ero e allo stesso tempo mi sfidava, con una libertà,
una passione per il mio destino mai vista prima. Ero voluta. È stato questo
sguardo che lentamente ha cominciato a cambiarmi. Prima, tutte le
ragioni per credere che la mia vita aveva senso, che Dio mi aveva fatto
e mi aveva fatto bene, erano ragioni sparse in aria e più le ripetevo, più
diventavano vecchie, stantie; ma quando quel mio amico ha cominciato a
guardarmi in quel modo così vero tutto è cambiato, perché le ragioni non
erano più un pensiero, erano diventate carne, non potevo più pensarmi
a prescindere da quello sguardo, non potevo più studiare senza almeno
desiderare di avere la sua stessa passione, non potevo più guardare al mio
moroso senza desiderare di amarlo così come è, perché c’è, e quella croce
tanto pesante è diventata la mia arma migliore. Mentirei se ti dicessi che
preferirei essere diversa, tranquilla, come sembra essere tutto il resto del
mondo, ma non mento se ti dico che oggi posso affermare con certezza
che Dio non mi ha fatta sbagliata. Tutto il lavoro, tutti i passi di questi mesi li
ho potuti fare perché ho cominciato a guardarmi tutta intera.
[Questa è la questione: guardarci tutti interi.] La mia conversione quotidiana
è entrare ogni giorno in ogni cosa partendo da quello che sono io,
tutta. Non posso più permettermi di guardare le cose e affrontare le giornate
senza partire da me. Io sono il primo luogo dove il Mistero accade e
solo perché il Mistero accade io posso guardarmi così. La vita è diventata
un vero dramma perché ho scoperto fino a che punto ho bisogno che il
Mistero accada svelando la verità, svelando me a me stessa. Solo di questo
ho bisogno e solo questo mi salva. Il Mistero che accade è la ragione della
mia speranza, e niente altro».
Chiediamo che questo Mistero accada in questi giorni.
Lezione/ Julián Carrón
8 dicembre, mattina
«Il titolo degli Esercizi di quest’anno mi ha sfidato molto – scrive una
di voi –. Rischiavo di dare per scontata la mia adesione a questo gesto,
anzi, la stavo mettendo in discussione nella routine di cui è fatta la mia
vita, che mi costringeva a saltare una lezione a frequenza obbligatoria
per esserci. Ma appena ho sentito quale sarebbe stato il titolo non ho
avuto più dubbi: dove vado e a cosa mi serve quello che faccio se non ha
un orizzonte? Rischio, come mi accade spesso, di fare tutto e niente. La
bellezza di questo titolo mi è stata riconfermata da un’assemblea in cui
è stato detto come la frase di Pavese c’entrasse con l’affezione a sé, ed io
questa cosa la voglio proprio capire». A che cosa serve quello che faccio,
se non ha un orizzonte? Che cosa c’entra questo con l’affezione a sé?
Questo è il primo punto: l’affezione a sé.
1. l’affezione a sé
L’affezione a sé – dice don Giussani – è un «attaccamento pieno di
stima e di compassione, di pietà, verso se stessi [...]. È come l’avere
verso di sé un po’ di quell’attaccamento che tua madre aveva verso di te,
specialmente quando eri piccolo». Immaginiamo la tenerezza con cui
una mamma tiene tra le braccia il suo bambino appena nato, tutta commossa
che quel bambino ci sia, consapevole di tutto il desiderio di felicità che si
scatenerà in lui per il destino grande a cui è chiamato. Se
non c’è in noi un po’ di questa tenerezza, di questa affezione verso noi
stessi – continua don Giussani –, «è come se mancasse il terreno su cui
costruire».
Tutti sappiamo che avere questa affezione a sé è tutt’altro che immediato,
tanto è vero che spesso, invece di essere teneri, siamo violenti,
duri, feroci con noi stessi; invece dell’affezione prevale la recriminazione,
il lamento. Una tenerezza verso se stessi è tutto tranne che scontata.
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Basta che ognuno pensi a quando si è guardato con un po’ di questa
tenerezza negli ultimi tempi e a quante volte, invece, ha guardato se stesso
con quella durezza, con quell’accanimento, con quella mancanza di
pietà che ci rendono quasi insopportabile osservarci.
Per aiutarci a scoprire come sorge questa tenerezza don Giussani ci
ha invitato a porre attenzione al fenomeno della nostra evoluzione,
sorprendendo in atto come accade: «Nella storia psicologica di una
persona, sorgente della capacità affettiva è una persona così riconosciuta
da essere accolta e ospitata».
La tua affettività si attua ospitando e riconoscendo una persona che hai
davanti. Pensiamo a un bambino: la
sorgente affettiva, ciò che fa sorgere in lui tutta la sua affezione, è la
presenza della mamma. La sua capacità affettiva emerge rispondendo al
sorriso della mamma, alla cura, all’amore e alla presenza della mamma.
È così decisiva per il bambino questa presenza che, se manca, la sorgente
affettiva rimane arida, poiché non è qualcosa che il bambino possa dare
a se stesso; esso non si può dare questa capacità di affezione; per questo
il bambino non si attacca innanzitutto a sé, ma alla mamma. Tutta la
sua affettività si sviluppa davanti a quella presenza buona, positiva. Per
farci capire le cose il Mistero non ce le spiega – non fa al bambino una
lezione sull’affezione a sé –, ma le fa accadere. Il bambino, perciò, prima
vive l’affezione, sente l’affezione della mamma, si attacca alla mamma, e
poi, pian piano, attraverso questo, comincia ad attaccarsi a se stesso, ad
attuare la sua capacità affettiva.
Don Giussani ci ricorda che, a un certo punto – tutti lo sappiamo
bene, per esperienza –, «questo segno naturale» che è la mamma «non
basta più», e non perché la mamma abbia cambiato atteggiamento verso
di noi o non ci sia più.È tutto come prima, ma, a un certo punto, la
sua presenza non basta più. Perché? Perché ciascuno di noi si è evoluto
verso la giovinezza, si è come dilatato il nostro essere, comincia a emergere
il nostro volto, tutta la potenza del nostro destino, tutta la grandezza del
nostro desiderio, e quella presenza si rivela piccola rispetto a tutto
quello che noi desideriamo, si vede che non ci basta più. Come ci ren-
diamo conto di questo? Non, di nuovo, perché qualcuno ce lo spieghi.
Uno se ne rende conto perché – come dice don Giussani – «si arruffa»,
comincia a sentire un’assenza di affezione, come se quella affezione, che
fino a un certo punto era bastata, non bastasse più; e allora uno si sente
confuso, smarrito, scomposto.
Tanto era decisiva quella affezione fino
a qualche tempo prima quanto la mancanza di una affezione paragonabile
per il suo bisogno ora lascia il giovane smarrito, e allora egli si dice:
ma se tutti i fattori sono gli stessi, se la mamma e il papà sono ancora
presenti, e non hanno cambiato atteggiamento verso di me, perché ora
mi sento smarrito, confuso e non mi va più bene niente?
Se noi non capiamo quello che qui succede, prevale la confusione, lo
smarrimento, e in questa confusione cominciamo la grande corsa per
cercare di riempire questo vuoto in tutti i modi, cerchiamo di correre
ai ripari, come mi diceva una liceale: «Ultimamente mi capita spesso di
percepire come una sproporzione rispetto a tutte le cose che faccio. Ogni
volta che faccio qualcosa che magari mi piace (come una serata con gli
amici o giocare a pallavolo) sento che fino in fondo non mi soddisfa,
non mi basta, e quindi mi immergo in un turbine di cose da fare, che
però non fanno che aumentare questo grido, e volevo chiedere un aiuto
a giudicare questa cosa, a starci di fronte». Se noi non capiamo che cosa
è successo a un certo momento della nostra vita, in questa evoluzione,
pensiamo di correre ai ripari entrando nel turbine delle cose da fare, e
che cosa accade? Che invece di risolvere il problema, lo aggraviamo; e
siccome quello che facciamo ci sembra sempre poco, allora facciamo di
più, fino all’esaurimento, ma l’unico esito è che questo, invece di risolvere,
fa solo crescere il grido, il senso di vuoto. Quella ragazza si è resa
conto che gettarsi nel turbine delle cose da fare non risponde: occorre
comprendere che cosa si è svelato a un certo momento della nostra vita,
prendere veramente coscienza di noi, capire fino in fondo che cosa ci
sta capitando. Altrimenti, non risolviamo il problema, semplicemente
lo riproduciamo in altri modi. Per questo ci siamo detti che si tratta di
prendere coscienza di sé. È un problema di autocoscienza.
Che cosa è questa autocoscienza? L’autocoscienza è «una percezione
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chiara ed amorosa di sé, carica della consapevolezza del proprio destino
e dunque capace di affezione a sé vera».Solo se ci accorgiamo di chi
siamo, possiamo avere una vera affezione verso noi stessi. Dunque, che
cosa è accaduto? A un certo momento del nostro sviluppo, è emersa la
struttura ultima del nostro io. Il desiderio e l’attesa di cui siamo fatti
sono diventati coscienti in tutta la loro portata. Perché quella ragazza
si rende conto che nulla le basta? Perché si è dilatata in lei in modo
definitivo tutta l’attesa del cuore, tutta la capacità di compimento per
cui siamo stati creati, si è resa palese la grandezza del nostro destino.
E allora uno capisce che è «il momento dell’Altro [con la A maiuscola],
vero, permanente, di cui si è costituiti, della presenza inesorabile e
senza volto, ineffabile».Se non ci rendiamo conto di questo, finiamo
col sostituire i genitori con altro, non avendo compreso che in quella
evoluzione si è reso evidente chi sono io, che io sono fatto per questo
Altro. Se ciò non accade, non superiamo l’adolescenza, non compiamo
il passo verso il riconoscimento dell’Altro, ineffabile, un Altro che non
conosco ancora, senza volto, del quale non so identificare i tratti, ma
verso il quale sono costantemente lanciato, verso cui tende tutto il mio
io. Senza questo passo l’adolescenza sembra non finire mai.
Don Giussani ci è amico perché ci aiuta a leggere, capire e giudicare
questo: «La giovinezza è il tempo del Tu [con la T maiuscola] in cui il
cuore affonda [...], come in un abisso, è il tempo di Dio».Senza
riconoscere il Tu, questo Altro per cui la vita è fatta, è impossibile avere
tenerezza verso se stessi, affezione a sé, si finisce per ingarbugliarsi, ci si
arruffa e ci si confonde sempre di più. Nella giovinezza il vibrare di tutto
il nostro desiderio dovrebbe farci capire che dentro la nostra vita urge
un Mistero, che siamo fatti per un destino grande, misterioso:
«Ti percepisci con una dinamica, con una spinta irreversibile verso
un destino illimitato che non riesci mai a raggiungere definitivamente,
ma che è un ideale di felicità, di verità, di giustizia, di bello, di buono,
di cui non si sanno toccare le sponde, un potente dinamismo che non mi
lascia tregua e che mi spinge verso un termine ignoto, verso una sponda che
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sta aldilà di tutto quello che vedo, che sta aldilà di tutto quello che tocco,
aldilà di tutto quel che faccio».Se noi non diveniamo consapevoli di
questo, non capiamo noi stessi e non capiamo perché nulla ci soddisfa,
perché buttarsi in un turbine di cose da fare non risponde: crescendo, il
nostro io si è svelato secondo tutta la sua vera natura, si è scoperto più
grande, è emerso quello per cui siamo fatti.
Possiamo riassumere questa esperienza – il rendersi palese ai nostri
occhi, a un certo momento della nostra vita, di ciò per cui siamo fatti –
con una frase di Gesù, che coglie la radice di quello che sta succedendo
in noi: «Ma che ti importa, che ti importa se prendi tutto quello che vuoi
e perdi te stesso?».È la domanda che ogni uomo, di qualsiasi latitudine
ed epoca della storia, deve ammettere in sé, perché descrive più di ogni
altra la vibrazione del nostro essere. Che importa se guadagno il mondo
intero, se mi immetto nel turbinio delle cose da fare, e questo non
mi soddisfa, anzi, mi fa perdere me stesso? Che violenza contro tutto
e contro tutti si genera nella vita, se non si capisce questo! Se non lo si
comprende, è difficile una vera affezione a sé. Così, come prima me la
prendevo con la mamma perché non mi bastava più la sua presenza e mi
“arruffavo”, ora me la prendo con gli amici, con la morosa, con me stesso
e infine con tutto e tutti. Invece di affezione a sé, dice don Giussani, vi
è risentimento: «L’adolescenza non ha affezione a sé, ha “risentimento”
di sé».Dovete ammettere che vivere con un risentimento verso tutto e
tutti, a cominciare da sé, non è il massimo della vita.
Ma dal momento che la mia umanità affiora con tutta la sua potenza,
l’affezione a me non può lasciar fuori le mie esigenze, i miei bisogni così
come essi sono emersi. Per questo don Giussani insiste: «Questa
affezione a sé si traduce normalmente nella serietà dei propri bisogni,
nella serietà dello sguardo ai propri bisogni»,nella lealtà con il desiderio
così come è esploso davanti ai nostri occhi.
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2. la natura del desiderio
A un certo punto della nostra evoluzione, dunque, emerge potente-
mente in ciascuno di noi la natura del nostro desiderio: esso è smisurato,
senza confini. Ci rendiamo conto del destino per cui siamo fatti, che sia-
mo fatti per l’infinito, per l’Altro (con la A maiuscola), e che la giovinezza
è il tempo dell’Altro, del Tu. Ma tutto questo non lo capiamo d’un colpo.
Tutta la dinamica della realtà, così come noi la sorprendiamo nell’espe-
rienza, ci educa al senso del Mistero, al senso dell’Altro, del Tu. Fermarci
un istante a vedere come tutto quello che viviamo ripropone questa esperienza
e ci educa costantemente al senso del Mistero è decisivo per noi.
Nel cammino che ci sta aiutando a compiere sul tema della fede,
Benedetto XVI si è soffermato sul desiderio dell’uomo e sulla dinamica
con cui esso si svolge nella vita, come passo, come strada per affrontare
la questione: «Il cammino di riflessione che stiamo facendo insieme in
quest’Anno della fede ci conduce a meditare oggi su un aspetto affasci-
nante dell’esperienza umana e cristiana: l’uomo porta in sé un misterioso
desiderio di Dio», come afferma anche il Catechismo della Chiesa catto-
lica: «Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo
è stato creato da Dio e per Dio, e Dio non cessa di attirare a sé l’uomo e
soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa».
Continua il Papa: «Molti nostri contemporanei potrebbero infatti obiettare
di non avvertire per nulla un tale desiderio di Dio. Per larghi settori
della società Egli non è più l’atteso, il desiderato [lo vedete con i vostri
compagni in università: tanti potrebbero dire: “Ma io questo desiderio
non lo rintraccio in me”, sembrano indifferenti, ma il Papa dice:]. In realtà,
quello che abbiamo definito come “desiderio di Dio” non è del tutto
scomparso e si affaccia ancora oggi, in molti modi, al cuore dell’uomo».
È importante allora capire come si affaccia, perché non è parlando in
astratto del desiderio di Dio che uno scopre di averlo addosso. Tante volte
anche voi dite: «È astratto», quasi come i vostri compagni. Il Papa ci guida
a leggere come, nell’esperienza, questo Dio, questo Altro, si affaccia alla
nostra vita nel modo più concreto. «Il desiderio umano – spiega – tende
sempre a determinati beni concreti, spesso tutt’altro che spirituali, e tut-
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tavia si trova di fronte all’interrogativo su che cosa sia davvero “il” bene».
Infatti, se quello che io desidero fosse solo questo bene concreto, dovrebbe
bastare, e invece non basta; così è spinto all’«interrogativo su che cosa sia
davvero “il” bene, e quindi a confrontarsi con qualcosa che è altro da sé,
che l’uomo non può costruire, ma è chiamato a riconoscere».Altro che
astratto! Perché, se «il» bene è astratto, non mi accontento di un bene
concreto e desidero un’altra cosa? Perché non mi fermo a ciò che è
concreto e che è apparentemente quello che desidero? Per questo sorge
nell’uomo la domanda che pone il Papa: «Che cosa può davvero saziare
il desiderio dell’uomo?». Perché mi faccio questa domanda?
Perché tante volte vi fate questa domanda? È forse astratto questo
desiderio che va oltre? No, è la cosa più concreta, più provocante
che ci troviamo addosso! Non apriamo bocca, non possiamo dire e fare
nulla, senza che questo desiderio sia palesemente presente: “grida” in
ogni cosa che diciamo, in ogni esperienza che facciamo. È ciò che si
rende evidente, per esempio, nell’amore, come osserva il Papa.
«Tale dinamismo si realizza nell’esperienza dell’amore umano, esperienza
che nella nostra epoca è più facilmente percepita come momento di estasi,
di uscita da sé, come luogo in cui l’uomo avverte di essere attraversato
da un desiderio che lo supera». Perché desideri di più?
Perché, non quando non hai ancora incontrato il ragazzo o la ragazza che
attendevi, ma quando l’hai lì, quando c’è, desideri di più? Scopri che il tuo
desiderio supera anche questo.
«Volevo raccontarti un fatto che sta cambiando la mia vita, soprattutto
la concezione che ho di me. Un pomeriggio di qualche settimana fa, dopo
giorni di aridità assoluta incontro il mio moroso in università e vado a
bere un caffè con lui, tutta desiderosa di sapere come stava, di passare un
po’ di tempo con lui, se non magari di scaricargli addosso qualche mia
preoccupazione. Non facciamo neanche in tempo ad entrare nel bar che
subito partiamo a litigare perché nulla dell’altro ci va bene [i caratteri non
sono compatibili, si dice spesso: ma sono tutte sciocchezze le cose che si
dicono sui caratteri compatibili o incompatibili, perché il problema non
è quello; si può stare insieme con temperamenti diversissimi, a patto di
cogliere il punto]. Insomma, due completi estranei. Incominciamo a di-
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scutere per una stupidaggine e io cerco, come mio solito, di predicare
parole buone per cercare di convertire quello che a volte etichetto come
“quel ribelle del mio moroso”. Fino a che quando avevamo finito di urlarci
addosso vedo nei suoi occhi e sul suo viso una tristezza tanto strana
quanto familiare, ma cerco di sviare e torno a studiare. La sera, dopo una
festa per la laurea di due nostri amici, mi accompagna a casa in macchina
e a un certo punto, con i lacrimoni agli occhi, mi dice: “A me non basta
più niente: lo studio, i miei amici, tu. Siete troppo poco per me”. Io, un po’
ribellandomi e un po’ commuovendomi, lo abbraccio. Mai come quella
volta ho capito che lui non è mio e che io non posso farlo felice, che posso
dire tutto quello che voglio, posso infarcirlo di tutte le cose belle che vivo e
tentare anche in buona fede di risolvergli la vita, ma il suo cuore chiede di
più. Chi è che negli occhi e nel cuore gli mette tutta questa tristezza? Chi
può compierlo? E queste domande hanno suscitato un distacco buono
tra noi: lui è diventato qualcosa di sacro, sacro perché segno del buon Dio
che lo sta chiamando e che sta chiamando anche me ora. E lo è diventato
non dicendomi le cose giuste, non essendo il moroso ideale, ma avendo
negli occhi una tristezza divina. Io mi sono resa conto che respiro solo se
Lui prende e invade tutta la mia vita, perché neanche al mio moroso, che
è la persona a me più cara, riesco a voler bene. Riconoscere questo per me
non è una cosa pacifica, perché la terra inizia a tremare sotto i miei piedi
e ogni giorno è una lotta tra il possesso morboso ed egoistico delle cose
e la coscienza che tutto è di un Altro. Non è una cosa facile, ma è l’unica
cosa che mi corrisponde, perché mai sono me stessa come quando Cristo
mi accade e mi invade con la Sua presenza».
Allora, amici, amare un altro è amare quel destino, è amare quel desiderio,
è abbracciare quella tristezza divina. E se voi riducete tutto a possesso,
in realtà non possedete l’altro: possedete il suo aspetto più effimero, più
apparente, ma non lo amate, perché l’altro è fatto di quella tristezza, di
quel desiderio che lo rende consapevole che siete troppo poco per lui.
Perciò, dice il Papa, attraverso l’esperienza amorosa potrà «progressiva-
mente approfondirsi per l’uomo la conoscenza di quell’amore che aveva
inizialmente sperimentato. E andrà sempre più profilandosi anche il mistero
che esso rappresenta». Infatti, «nemmeno la persona amata [...] è in
grado di saziare il desiderio che alberga nel cuore umano, anzi, tanto più
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autentico è l’amore per l’altro, tanto maggiormente esso lascia dischiudere
l’interrogativo sulla sua origine e sul suo destino, sulla possibilità che
esso ha di durare per sempre. Dunque, l’esperienza umana dell’amore ha
in sé un dinamismo che rimanda oltre se stessi, è esperienza di un bene
che porta a uscire da sé e a trovarsi di fronte al mistero che avvolge l’intera
esistenza». Esperienze simili a questa fondamentale dell’amore ce ne sono
altre, il Papa le enumera: «Considerazioni analoghe si potrebbero fare
anche a proposito di altre esperienze umane, quali l’amicizia, l’esperienza
del bello, l’amore per la conoscenza: ogni bene sperimentato dall’uomo
protende verso il mistero che avvolge l’uomo stesso; ogni desiderio che si
affaccia al cuore umano si fa eco di un desiderio fondamentale che non è
mai pienamente saziato».
Niente ci basta, mai nulla colma il nostro cuore. Questa esperienza è la
stessa degli idoli musicali che a volte noi invidiamo, come descrive John
Waters nella sua mostra sul rock: «Molte volte, solamente quando una
popstar muore abbiamo la possibilità di osservare quanto ordinaria o
piena di sofferenza sia stata la vita di qualcuno che pensavamo avesse
tutto quello che noi volevamo, vivendo in una bolla libera dalle umane
preoccupazioni. In quel fotogramma cristallizzato in cui viene scoperto il
corpo, ci permettiamo uno sguardo in una vita che abbiamo immaginato
fosse completa, e abbiamo scoperto essere tutto tranne che questo. “Che
cosa succede quando hai tutto?” Quando un’altra popstar è stroncata da
quello che è chiamato “eccesso”, siamo in ascolto e ricerca di indizi. In
poco tempo arriviamo al solito straccio di conclusione: “Ah le popstar,
stile di vita eccessivo, inclini all’abuso di alcool e droghe” e raramente
andiamo più a fondo di quest’analisi superficiale. Forse a un livello più
profondo e oscuro, avvertiamo un sentimento di vendetta: c’è qualcosa
da dire per essere “normali”. Ma in realtà queste spiegazioni non ci rendo-
no per niente capaci di capire la vita di una persona che è morta. Quello
che la storia della “tragica Amy” o della “Whitney solitaria” omettono è
la misura in cui la vita personale di una stella assomiglia alla vita personale
del resto di noi. Interpreti come Amy o Whitney sono benedette da un
enorme talento, che porta loro fama, ricchezza e un’opportunità che la
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grande maggioranza delle persone può arrivare solo a sognare. Sono loro
imposte vite in cui bellissime case, macchine costose e suite di hotel sono
all’ordine del giorno. Vivono vite iperprotette, circondate da guardie del
corpo, alti muri e cancelli elettrificati. Le vite di tali persone, una volta lasciato
il palcoscenico e tornate alle loro esistenze blindate, possono essere
abbastanza diverse da quello che le persone del pubblico immaginano
sull’autobus che le riporta a casa dopo la serata. Hanno tutto quello che
hanno sempre voluto, ma si accorgono che ora, che hanno tutto, questo
tutto non soddisfa un certo bisogno che rimane ostinatamente presente
[un bisogno che noi spesso accusiamo d’essere astratto: diciamo che è
astratto, e ci sembra in ciò di esser geniali!] anche quando il mondo li
guarda con venerazione e invidia. Spesso, si ritrovano isolati, con una
distanza tra loro e chiunque altro attorno a loro. Nessuno fra quelli che loro
incontrano sembra indifferente alla loro ricchezza e fama, quindi cominciano
a non fidarsi delle persone, pensando di non piacere a nessuno e di
non essere amati per quello che sono [ma solo per quello che hanno o per
la fama che possiedono]. Si perdono in una falsa versione della realtà,
costruita dall’industria per proteggere il suo investimento. Quindi il talento,
mancando di qualsiasi vero sostegno cui appoggiarsi, cerca al di fuori
aiuto chimico. Come ha detto Céline Dion, “prendere pillole per esibirsi
e altre per svegliarsi e altre ancora per andare a dormire”. [...] Ma l’unico
momento reale nella vita di tale persona, gli unici momenti in cui percepisce
una qualsiasi realtà che sfida la vita [...], è quando canta sul palco.
Dentro di sé, la star è definita non dai simboli della celebrità o dai frutti
del successo, ma dalle stesse forze emozionali che affliggono tutti noi».
«Indubbiamente – dice il Papa – da tale desiderio profondo, che nasconde
anche qualcosa di enigmatico, non si può arrivare direttamente
alla fede. L’uomo [...] conosce bene ciò che non lo sazia, ma non può
immaginare o definire ciò che gli farebbe sperimentare quella felicità di
cui porta nel cuore la nostalgia. [...] Da questo punto di vista rimane il
mistero: l’uomo è cercatore dell’Assoluto, un cercatore a passi piccoli e
incerti. E tuttavia già l’esperienza del desiderio, del “cuore inquieto” come
lo chiamava sant’Agostino, è assai significativa. Essa ci attesta che l’uomo
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è, nel profondo, un essere religioso [...]. Possiamo dire con le parole di
Pascal: “L’uomo supera infinitamente l’uomo”».
Il Papa ci invita dunque a una «pedagogia del desiderio», a fare un cammino,
a usare tutte le cose che ci capitano al fine di spalancarci a questo
mistero, dalle gioie autentiche della vita, che fanno emergere il desiderio
di Dio, all’esperienza del fatto che niente ci soddisfa, affinché possiamo
imparare ad attendere disarmati quel bene che non possiamo costruire
o procurarci e a non lasciarci scoraggiare dalla fatica e dagli ostacoli che
vengono dal nostro male, dal nostro peccato.
Dice ancora una di voi: «Mentre studiavo per un esame mi è successo
che a pochi giorni di distanza sono morte due persone che conoscevo,
anche se solo tangenzialmente. Questi due fatti non mi hanno permesso
di stare tranquilla e mi hanno posto due possibilità: o pensare che il mio
studio fosse inutile (perché tanto finisce tutto nel nulla), o domandare
di poter vivere tutto, anche il mio esame, in un modo che fosse all’altezza
della vita e della morte. La prima possibilità che mi si rappresentava
tutte le mattine eliminava la promessa di bene che io ho intuito sulla mia
vita. Sembrava che questa promessa non fosse abbastanza forte per darle
credito, e l’esito di questa posizione era che vivevo tutto con sufficienza e
disinteresse, non aspettandomi più niente. Aiutata soprattutto dal lavoro
sulla Giornata d’inizio ho cominciato a dare spazio all’ipotesi che la realtà
tutta sia per me, che ogni esperienza che faccio [dell’amore, dell’amicizia,
della bellezza, di tutte queste cose che enumera il Papa] sia per me, per la
mia maturazione, cioè per la mia autocoscienza, perché io mi renda conto
di che cosa sono e di che cosa veramente desidero, e mi sono accorta che
io desidero molto di più che passare un esame, che quello che voglio dalla
mia vita non sono tanti piccoli successi, ma il compimento».Ma tante volte,
come già accennava il Papa, uno si blocca per i propri sbagli. «In questo
periodo – mi dice un altro di voi – vedo crescere in me un cinismo, derivante
non dal fatto di non incontrare nulla, ma dal fatto di tradire ciò che ho
incontrato, e dopo aver fatto alcuni errori mi accorgo di come la concezione
che io ho di me sia determinata da tali sbagli e incoerenze».
Conoscendo questo, il Papa ci dice: non lasciatevi scoraggiare dalla fa-
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tica e dagli ostacoli che vengono dal nostro peccato, perché «anche dopo
il peccato – come scriveva nel messaggio al Meeting di Rimini – rimane
nell’uomo il desiderio struggente di un dialogo con il Mistero, rimane
tutto il desiderio: “O Dio, Tu sei il mio Dio, dall’aurora Ti cerco, di Te ha
sete l’anima mia, desidera Te la mia carne, in terra arida, assetata, senz’acqua”».
Nessun male, nessuno sbaglio può cancellare questo; «non solo la
mia anima, ma ogni fibra della mia carne è fatta per trovare la sua pace,
la sua realizzazione in Dio. E questa tensione è incancellabile nel cuore
dell’uomo, anche quando si rifiuta o si nega Dio, non scompare la sete
di infinito che abita l’uomo. [...] La sete dell’anima e l’anelito della carne
di cui parla il Salmista non si possono eliminare».Questo è il segno di
come il desiderio di Dio non sia definito dal nostro male e di come il
Mistero tenga ancora a noi, altrimenti Dio ci avrebbe già cancellato dalla
faccia della terra.
Il desiderio rimane. «Non si tratta, dunque, di soffocare il desiderio che
è nel cuore dell’uomo, ma di liberarlo, affinché possa raggiungere la sua
vera altezza. Quando nel desiderio si apre la finestra verso Dio, questo
è già segno della presenza della fede nell’animo, fede che è una grazia
di Dio. Sempre sant’Agostino affermava: “Con l’attesa, Dio allarga il nostro
desiderio, col desiderio allarga l’animo e dilatandolo lo rende più
capace”».Qui si capisce fino a che punto è falso quello che spesso diciamo,
cioè che sia astratto affermare che noi siamo rapporto con l’infinito.
«Questa sera mi sono accorta che a discorsi vado forte, teoricamente ho
capito tutto, ma poi nella quotidianità non lascio mai che quello che ho
incontrato diventi criterio delle giornate, delle scelte che compio, e così,
anziché stare più serena nel farmi i fatti miei, cresce in me una sorta di
scetticismo. Ad esempio, quando tu hai detto che siamo fatti per l’infinito
ho provato un certo fastidio perché mi sembrava molto astratto. Pensavo
all’appartamento, dove faccio fatica con una mia compagna e dicevo:
mi spiace, ma davanti a lei il fatto che noi siamo rapporto con l’infinito
non regge, è astratto». Ma il fatto che sei arrabbiata con la tua compagna
dimostra che il nostro essere “rapporto con l’infinito” è astratto oppure
dimostra, all’opposto, che è il vero concreto? Perché non ti basta qualsi-
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asi tipo di rapporto con la tua compagna di appartamento? Perché ti fa
arrabbiare? Soltanto per il temperamento o perché tu desideri qualcosa
d’altro anche nel rapporto con lei? Continua la nostra amica: «Ho pensato
che l’altro giorno ho esattamente messo in pratica questo mio ragionamento
quando ho detto che ero molto arrabbiata e me ne sono andata via
dall’appartamento, a prendere un po’ d’aria. Subito però mi sono accorta
che, anche dopo essere fuggita e aver fatto di testa mia, non ero contenta».
Allora il problema non sono gli altri, perché anche quando fuggiamo via
non siamo contenti. «Il fatto di aver pensato che lei stava sbagliando e
basta e l’essere scappata non mi aveva resa più libera, ma solo più alienata.
Poi nei giorni successivi ho parlato con una mia compagna e davanti a lei
non è che la mia ragionevole arrabbiatura fosse svanita, ma ho pensato:
“Ma chi sono io per ridurre l’altro ai suoi errori quando nessuno guarda
me così? Se Gesù non ci guarda per i nostri errori, perché dovremmo
farlo noi?”. E ti devo confessare che non è stato astratto o intellettuale
riconoscere che noi siamo più grandi delle riduzioni che facciamo, e che
questo non vuol dire che gli errori non ci riguardino, ma che ci si può
stare davanti senza scappare. Io sono più contenta a vivere così. Mi sono
accorta che non sono fatta per scappare, ma per essere tutta in tutta la
mia vita».
Quando vediamo tutta la portata del nostro desidero, davanti a tale
grandezza sterminata, la domanda che ci viene è: ma questo è un vantaggio
o una condanna? Non è forse una condanna desiderare così tanto?
Proprio a questa obiezione che si erge in noi, a questa sorta di ribellione
che ci viene, ha fatto riferimento il Papa: «A questo punto però sorge una
domanda. Non è forse strutturalmente impossibile all’uomo vivere all’altezza
della propria natura? E non è forse una condanna questo anelito verso
l’infinito che egli avverte senza mai poterlo soddisfare totalmente?».
Quante volte ci è venuta l’obiezione: non sarebbe meglio accontentarsi?
Non sarebbe stato meglio che io non avessi incontrato niente o nessuno
che mi avesse ridestato questo desiderio di infinito? A volte ci piacerebbe
che non ci fosse stato quell’evento che ce lo ha risvegliato, preferiremmo
tornare alle cipolle dell’Egitto, come il popolo d’Israele (erano schiavi, ma
almeno avevano le cipolle!). Perché desiderare tanto?
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«Questo interrogativo ci porta direttamente», quanto più potentemente e
drammaticamente si avverte l’attesa – dice il Papa –, «al cuore del
cristianesimo».È l’ultimo punto del nostro percorso, che prendo da
Péguy: «Per sperare occorre aver ricevuto una grande grazia».
3. la Presenza Che mi Consente di amarmi ora
«L’Infinito stesso, infatti, – dice il Papa – per farsi risposta che l’uomo
possa sperimentare, ha assunto una forma finita. Dall’Incarnazione, dal
momento in cui il Verbo si è fatto carne, è cancellata l’incolmabile distanza
tra finito e infinito: il Dio eterno e infinito ha lasciato il suo Cielo ed è
entrato nel tempo, si è immerso nella finitezza umana»per dare risposta
al nostro desiderio dell’infinito.
Davanti a una simile notizia, come possiamo noi essere certi, come
possiamo sapere con certezza che quello che annuncia il cristianesimo è
successo? Coloro che hanno incontrato Cristo lo hanno riconosciuto per
la Sua capacità di conoscere il cuore umano. «Solo il divino può “salvare”
l’uomo, cioè le dimensioni vere ed essenziali dell’umana figura e del suo
destino solo da Colui che ne è il senso ultimo possono essere “conservate”,
vale a dire riconosciute, conclamate, difese». Infatti Gesù, il divino fatto
carne, l’infinito diventato finito, «dimostra nella sua esistenza una passione
per il singolo, un impeto per la felicità dell’individuo che ci porta a
considerare il valore della persona come qualcosa d’incommensurabile,
irriducibile». Per Lui il «problema dell’esistenza del mondo è la felicità del
singolo uomo»,di me e di te. È quello che sorprendiamo in ogni pagina
del Vangelo.
«Mentre Gesù si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto lungo la strada
a mendicare. Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. Gli
annunciarono: “Passa Gesù, il Nazareno!”. Allora gridò dicendo: “Gesù,
figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Quelli che camminavano avanti lo
rimproveravano perché tacesse [tutto cospira a far tacere quel grido]; ma
egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!” [questa
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è la lotta che si scatena in ciascuno di noi, tra quelli che ci dicono: “Taci,
non disturbare più!” e il nostro grido: il cieco nato gridava più forte; e
questa lotta nessuno la può sostenere al nostro posto: che cosa corrisponde
di più, tacere o gridare? Soltanto a chi ha il coraggio di gridare può succedere
quello che è successo a quel cieco]. Gesù allora si fermò e ordinò
che lo conducessero da lui [con questo gesto Gesù esprime tutta la passione
per il singolo uomo; tutti se ne fregano, vogliono farlo tacere – e spesso
sono gli “amici” quelli che dicono: “Non disturbare!” –, ma c’è Uno che si
prende cura di tutto il suo desiderio: si ferma e ordina che lo conducano
da Lui]. Quando fu vicino, gli domandò: “Che cosa vuoi che io faccia per
te?”. Gli rispose: “Signore, che io veda di nuovo!”. E Gesù gli disse: “Abbi
di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato”».Sono passati duemila anni
da quando questo è successo, ma non lo possiamo più cancellare dalla
faccia della terra: certo, possiamo fregarcene, ignorarlo, oppure possiamo
aprirci alla sua possibilità. Occorre una passione a se stessi per cogliere
nel gesto di Gesù tutta la promessa che Egli rappresenta per la vita di un
uomo che desidera tutto, come quel cieco. Infatti, «il miracolo più grande,
da cui i discepoli erano colpiti tutti i giorni, non era quello delle gambe
raddrizzate, della pelle mondata, della vista riacquistata. Il miracolo più
grande era quello già accennato: era uno sguardo rivelatore dell’umano
cui non ci si poteva sottrarre. Non c’è nulla che convinca l’uomo come
uno sguardo che afferri e riconosca ciò che esso è, che scopra l’uomo a se
stesso».Come è accaduto a quella donna di Samaria, e solo a leggerlo vengono
i brividi: «Giunse così a una città della Samaria chiamata Sicar, vicino al
terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo
di Giacobbe. Gesù, dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il
pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere
acqua. Le dice Gesù: “Dammi da bere”. I suoi discepoli erano andati in
città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: “Come mai
tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”.
I Giudei, infatti, non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde:
“Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: ‘Dammi da bere!’,
26
«Qualcuno ci ha mai promesso Qualcosa? e allora, perché attendiamo?»
tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua”. [Gesù avrebbe
potuto continuare con questi giochi: giudeo, non giudeo, samaritano;
ma taglia corto: “Se tu conoscessi colui che ti dice: dammi da bere...”;
si può cominciare da qualsiasi spunto e lì si vede la diversità; parlando
di quello di cui parlano tutti, Gesù arriva subito al cuore della vicenda;
e quella donna, come se non avesse sentito, gli dice:] “Signore, non hai
un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua
viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il
pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?”. Gesù le risponde:
[la sfida ancora, non si ritira] “Chiunque beve di quest’acqua avrà di
nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in
eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua
che zampilla per la vita eterna”. [Allora la donna smette di giocare,
è così presa nell’intimo del suo essere, quel fatto è così corrispondente a
quello che desidera, che muta la sua arroganza in domanda:] “Signore,
dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire
qui ad attingere acqua”. Le dice [dandole un segno]: “Va’ a chiamare
tuo marito e ritorna qui”. Gli dice la donna: “Io non ho marito”. Le
risponde Gesù: “Hai detto bene [...]. Infatti hai avuto cinque mariti e
quello che hai ora non è tuo marito” [neanche cinque mariti avevano
colmato la sete di quella donna; potete aggiungere quel che volete, ma
quella donna aveva più sete di prima]. Gli risponde la donna: “Signore,
vedo che tu sei un profeta! [...] So che deve venire il Messia, chiamato
Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa”. Le dice Gesù: “Sono
io, che parlo con te”. In quel momento giunsero i suoi discepoli e si
meravigliavano che parlasse con una donna. [...] La donna, intanto, lasciò
la sua anfora e andò in città e disse alla gente: “Venite a vedere un uomo
che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?”. Uscirono
dalla città e andavano da Lui. Molti samaritani di quella città, dopo aver
trascorso qualche giorno con Lui, credettero in Lui per la parola della
donna che testimoniava “Mi ha detto tutto quello che ho fatto”, ma
quando i samaritani giunsero da Lui lo pregavano di rimanere da loro
ed Egli rimase là due giorni e molti credettero per la Sua parola e
dicevano alla donna: “Adesso, dopo che abbiamo visto noi, non è più per
i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e
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sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”».
Commentando questo testo, il Papa osserva: «Non c’è uomo o donna
che, nella sua vita, non si ritrovi, come la donna di Samaria, accanto a un
pozzo con un’anfora vuota, nella speranza di trovare l’esaudimento del
desiderio più profondo del cuore, quello che solo può dare significato
pieno all’esistenza. Molti sono oggi i pozzi che si offrono alla sete dell’uomo,
ma occorre discernere per evitare acque inquinate. Urge orientare
bene la ricerca, per non cadere preda di delusioni, che possono essere
rovinose. Come Gesù al pozzo di Sicar, anche la Chiesa sente di doversi
sedere accanto agli uomini e alle donne di questo tempo, per rendere
presente il Signore nella loro vita, così che possano incontrarlo, perché solo
il suo Spirito è l’acqua che dà la vita vera ed eterna. Solo Gesù è capace
di leggere nel fondo del nostro cuore e di svelarci la nostra verità: “Mi ha
detto tutto quello che ho fatto”. [...] E questa parola di annuncio – cui si
unisce la domanda che apre alla fede: “Che sia lui il Cristo?” – mostra
come chi ha ricevuto la vita nuova dall’incontro con Gesù, a sua volta non
può fare a meno di diventare annunciatore».
Questo è bello, ma accade oggi? Era la domanda che mi facevano i miei
studenti: «È bellissimo, anche noi restiamo commossi soltanto a leggere
le pagine del Vangelo. Immaginiamoci a essere stati lì! È molto bello, ma
accade oggi?».
Ascoltiamo questo racconto di una di voi: «Circa un mese fa la mia vita
ha avuto una svolta finalmente. Finalmente dopo giorni e mesi di totale
apatia ho incontrato qualcosa di così bello e grande che non potevo più
rimanere al punto in cui ero prima. Ma prima dov’ero? Vivevo i giorni
sperando che passassero in fretta, senza avere la minima cognizione
di quello che stesse capitando attorno a me, ma soprattutto dentro di
me. Ho vissuto settembre con ansie e angosce, terrorizzata dall’arrivo in
università, non sapendo che mi avrebbe atteso la scoperta più grande, la
riscoperta di me, la vera me, che si era assopita e che avevo dimenticato.
Grazie a una compagna del liceo, a settembre sono arrivata in università
e Qualcuno, ne sono certa, ha voluto farmi un dono, il regalo inaspettato
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di cui sono grata e che mi ha cambiato la vita: il fatto di aver assistito alla
presentazione del mio Corso di Laurea fatta da alcuni universitari il 20
settembre, mi ricordo perfino la data con certezza, e di aver conosciuto
subito dopo, nell’atrio, quelle persone mi ha lasciato una sensazione che
ancora mi commuove. Quelle persone mi avevano già colpito senza sapere
nulla di loro, del movimento, di don Giussani, di Carrón, si capiva
però che c’era qualcosa di diverso, che quella familiarità fra loro non era
scontata. Sono tornata a casa contenta dell’esperienza fatta e un po’ più
convinta della scelta universitaria. Durante la prima settimana di corsi le
mie compagne mi hanno detto: “Noi andiamo alla Scuola di comunità.
Vieni con noi?”. Io istintivamente sono andata con loro, spinta dalla curiosità.
Per la prima volta ho visto cosa significa vivere qualcosa di così
profondo e vero insieme. Ho ricordi vivi della Scuola di comunità, ma
soprattutto di come mi sono sentita quando è finita: le uniche parole che
potevo pronunciare erano “ma che bello! Una cosa così non l’ho mai vista
e vissuta!”. La sera mi sono domandata: perché tra tutte le persone che ci
sono in università ho incontrato proprio loro del movimento? È solo un
caso oppure Qualcuno vuole qualcosa da me? Ho riempito tutti di domande,
alcune delle quali a volte banali, elementari. Ho letto gli appunti
della Giornata d’inizio, ho iniziato il percorso da zero, da principiante. I
miei genitori da quando mi vedono andare all’università sono contenti di
vedermi così felice, pur non essendo del movimento. Mi hanno guardata
negli occhi e semplicemente mi hanno chiesto di raccontare cosa mi fosse
successo. A tutti quelli che criticano, agli amici con cui mi sono dovuta
confrontare e che all’inizio non capivano (molti tuttora sono scettici)
posso dire solo: grazie; grazie, perché se loro non mi avessero opposto
le loro ragioni io non avrei trovato le mie, non sarei andata a fondo. La
contesa dialettica mi ha costretta a ragionare, a confrontarmi, spiegando
a me e a loro quello che ho trovato. Alla fine ciò di cui non posso davvero
più fare a meno sono le persone che ho incontrato, gli sguardi che tutti i
giorni mi rivolgono, le infinite attenzioni che quotidianamente hanno nei
miei confronti e che non riesco a spiegarmi. Perché, con tutta la gente che
c’è, con tutti i problemi che ciascuno di noi ha, loro hanno anche del tempo
da dedicare a me? Come è possibile? Questo, a mio avviso, è il segno
più tangibile della presenza di Cristo. Non sono tanto le discussioni che si
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possono fare in merito, ma la bellezza che traspare da tutte le persone che
ho incontrato in questo mese».
«Il senso della nostra vita – dice don Giussani – si è rivelato a noi e
si rivela a noi, colpisce la nostra esistenza, accompagna e aiuta la nostra
esistenza dentro un tempo e uno spazio, cioè dentro una realtà umana
fisicamente percepibile», come quella che questa amica ha incontrato. Il
senso della nostra vita ci raggiunge dentro una realtà umana, «e questa
realtà umana fisicamente percepibile, come compagnia alla maturità nella
nostra ricerca del destino, nella nostra adesione e nella nostra attesa che
si riveli totalmente il significato della nostra vita, questa forma, questo
pezzo di tempo e di spazio viene non scelto da noi, ma viene trovato,
viene riconosciuto (non scelto, ma riconosciuto): è quel pezzo di tempo
e di spazio che ci percuote, è l’incontro, è quell’incontro e, quindi, quella
percussione della nostra coscienza che non ha avuto l’uguale [come scrive
la ragazza: “Una cosa così non l’ho mai vista e vissuta”]. Anche se è confuso,
baluginante, appena appena accennato, ma ha dentro un accento
inconfondibile di promessa, di speranza e di prospettiva».
È quello che racconta anche un altro: «Ho incontrato due nuovi amici,
abbiamo condiviso la vita in università, e subito nei primi giorni ho
presentato loro una persona che è stata per me molto significativa, un
testimone molto importante. E tornando in macchina uno dei due mi ha
detto: “Nessuno mi aveva trattato mai così”».
«La fede – afferma don Giussani – è riconoscere il divino presente.
Come duemila anni fa Simone, la Maddalena, la Samaritana, Zaccheo,
magari secondo una formalità apparentemente più fragile e tangenziale,
anche tu sei stato colpito dal presentimento di questa Presenza, o da questa
Presenza come un presentimento di vita diversa, come il presentimento di
una promessa di vita. Altrimenti non saresti qui! Prendere coscienza
di questo, guardare in faccia questo, dire: “Tu” a questo, come fa abbrac-
ciare diversamente e con una verità, come fa guardare con verità, come fa
portare con verità ogni cosa!».Il presentimento di una promessa di vita.
Perché Gesù non solo promette, ma compie.
«Caro Julián, la scorsa settimana una mia cara amica mi ha detto che da
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un anno ha iniziato il noviziato dei Memores Domini e che fra poco andrà
a vivere in una casa del Gruppo adulto. Avresti dovuto vedere la sua faccia
innamorata. Raccontava di come è nata e si è approfondita questa decisione
in lei, con gli occhi pieni di un amore, un’affezione a Cristo, come se
fosse stato compagno alla sua vita in carne ed ossa in questi ultimi anni.
L’ho guardata tutta la sera stupendomi di come potesse essere cambiata
e di come potesse essere così felice. Veramente in quel momento mi sono
trovato a pensare: o è pazza, oppure: chi può corrispondere talmente tanto
al desiderio del cuore di una persona, tanto da farle decidere di donare
tutta la vita, se non Cristo presente ora? Durante quella cena eravamo
una quindicina di amici. Mentre lei raccontava, più volte ci sono stati
lunghi momenti di silenzio, non un silenzio imbarazzante, in cui non si
sa che cosa dire perché tutto sembra inadeguato, ma un silenzio carico di
commozione, carico di una Presenza imponente, una Presenza talmente
imponente e reale da aver cambiato e conquistato la vita della mia amica
e che in quel momento, attraverso il suo cambiamento, stava tornando
a riconquistare anche me. Nulla fa vibrare talmente tanto il mio cuore,
a volte fino a commuovermi, come il riconoscimento di Cristo presente
ora attraverso una umanità cambiata. Per me questo è stato sempre più
chiaro perché mi è capitata la stessa esperienza, anche sentendoti parlare
all’ultima Scuola di comunità o leggendo la lettera dei genitori di Bizzo
a un anno dalla sua morte, oppure quella di Francesca. Quando questo
accade mi scopro libero innanzitutto di poter guardare a me stesso senza
scandalo per il mio limite e libero di proporre agli altri quello che ho
incontrato. Di fronte a questo, però, non riesco ad essere tranquillo e in
questi giorni sono ancora più inquieto di prima, inizio la mia giornata e
non desidero altro che poter tornare a rintracciare i tratti del Suo volto
nella realtà delle cose che ho di fronte, negli incontri che faccio, perché
se questo non accade arrivo a fine giornata avendo fatto tantissime cose
(reparto, lezioni, studio, incontri, appuntamenti del movimento), eppure
con una nostalgia infinita in fondo al cuore che mi fa chiedere: ma a cosa
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è servito tutto quello che ho fatto oggi se non ho potuto incontrarti? Per
questo sono a questi Esercizi grato di essere stato preferito e desideroso di
continuare a camminare per essere educato alla semplicità di riconoscere
ogni giorno che “mi protendo nella corsa per afferrarlo, io che sono già
stato afferrato da Cristo”».
Per questo, quanta ragione ha Péguy quando dice che «per sperare occorre
aver ricevuto una grande grazia»?! E la grazia che cosa è? La grazia è
Lui, la Sua presenza, non prima di tutto i Suoi doni, ma Lui, perché senza
di Lui io non mi posso amare ora, non posso avere questa affezione a me
ora. «Non si può rimanere nell’amore a se stessi – ci ricorda ancora don
Giussani – senza che Cristo sia una presenza come è una presenza una
madre per il bambino che non sa come fare, che frigna perché se l’è fatta
addosso. Senza che Cristo sia presenza ora – ora! –, io non posso amarmi
ora e non posso amare te ora. Se Cristo non è risorto, io sono finito, anche se
ho tutte le Sue parole, anche se ho tutti i Suoi vangeli. Coi testi dei
vangeli, al limite, potrei anche suicidarmi, ma con la presenza di Cristo
no, con la presenza riconosciuta di Cristo no!».
Cristo è risorto, cioè è contemporaneo al tempo e alla storia attraverso
quei volti in cui adesso mi si ripropone la Sua promessa. Come dite in
diversi, raccontando degli incontri tra di voi: «Quando giro per i corridoi e
incontro con lo sguardo qualcuno di loro mi sento felice e mi sento a casa;
quando non li vedo voglio cercarli perché desidero stare con loro. Ma loro
mi hanno mai promesso qualcosa? Mi sono accorta che nessuno di loro
mi ha mai promesso niente, ma in verità mi hanno promesso tutto. Sono
loro la promessa, con il loro modo di vivere, di stare insieme, di guardare le
persone affinché si sentano amate, affinché non manchi loro nulla.
Sono loro la promessa». «Qualcuno ti ha promesso qualcosa oggi? – dice
ancora un altro – Devo riconoscere che una promessa c’è: le vostre facce».
«La comunità – scrive don Giussani – è il luogo della continuità dell’avveni-
mento, letteralmente della continuità dell’avvenimento di Cristo di
duemila anni fa, quello dell’incontro con la Samaritana [...]. La comunità è
il luogo della continuità del tocco, di quel tocco, di quell’accento,
che ti ha dato un presentimento di vita nuova, una promessa accennata,
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l’accenno a una promessa di vita più vera, di vita, che t’ha fatto mettere
insieme a noi. La comunità è il luogo della continuità di Cristo, la continuità
dell’avvenimento di Cristo, e dell’avvenimento del Cristo che ti ha
toccato. Perché è attraverso una contingenza, attraverso una casualità di
circostanze, la casualità di circostanziati rapporti, che Cristo, che l’avveni-
mento che Cristo è stato per Simone o per la Samaritana, è diventato
avvenimento per te. Cristo è diventato l’avvenimento della vita per te
attraverso una casualità di rapporti. Se tu ti strappi da questa apparente
casualità di rapporti, di circostanze, di rapporti circostanziali, perdi, non
quei rapporti, ma ciò che ti ha colpito in quei rapporti».
E che cosa ti ha colpito in quei rapporti? Lui, il Mistero fatto carne,
Cristo. Lo diceva, come dandogli la parola, san Giovanni Crisostomo:
«Non solo con tutto questo io testimonio il mio amore. [...] Io ho lasciato
il Padre mio e sono venuto a te, tu che mi odiavi, mi fuggivi e non volevi
nemmeno udire il mio nome; ti ho inseguito, ho corso sulle tue tracce,
per impossessarmi di te; ti ho unito, legato a me, ti ho tenuto stretto, ti ho
abbracciato. “Mangiami”, ho detto, “bevimi”. E io ti ho con me nel cielo e
mi lego a te su questa terra. Non mi basta che io possegga nel cielo le tue
primizie, questo non sazia il mio amore. Sono disceso nuovamente sulla
terra, non solo per mescolarmi tra quelli della tua gente, ma per abbracciare stretto proprio te»,
perché potessi avere affezione a te stesso.
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ASSEMBLEA/ Julián Carrón
8 dicembre, pomeriggio
Julián Carrón: Sono arrivate tantissime domande e come sempre, pernon ripetere, abbiamo scelto fra quelle più ricorrenti la formulazione
che ci è sembrata più facile da capire, più comprensibile. Allora, incominciamo.
Intervento: Mi accorgo che dire che le cose non mi bastano porta dentro
il rischio del disinteresse e del disimpegno con la realtà. Per esempio: è
vero che fare bene un canto (io partecipo al coro) non riempie il desiderio
di infinito del mio cuore, ma, nello stesso tempo, ho bisogno di farlo
bene per riconoscere i tratti inconfondibili di Colui che, invece, mi può
riempire il cuore. Per cui volevo chiederti: davanti alla realtà nulla basta
fino in fondo, ma come sta insieme questo riscontro del cuore con il fatto
che la realtà è una strada? Perché devo avere bisogno di una cosa che
ultimamente non mi basta?
Carrón: Ti sono molto grato di questa domanda perché, come sempre,
il primo a imparare sono io. Infatti, riflettendo su di essa mi sono reso
ancora più conto di qual è stata la genialità del Mistero, perché veramente
questo metodo è geniale. Immaginate il Mistero: è così contento, così felice,
che, come succede quando due persone sono felici (immaginate due
persone sposate, vogliono diffondere la loro pienezza, e così da quella letizia
viene fuori il desiderio di comunicarla a un figlio), vuole comunicarlo.
La creazione è nata così, da questa esplosione di felicità che Dio viveva, in
quel rapporto unico, misterioso, tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo;
così ha voluto creare gli uomini per poter condividere con loro questa
Sua felicità. E quale metodo ha utilizzato per portarli a questa felicità? Noi
subito pensiamo: se ha voluto condividere con noi questa felicità, perché
non ci ha creati già direttamente in Cielo? Perché non ci ha dato tutto subito e
non ci ha risparmiato il percorso? Ma se uno incomincia a guardare
le cose con un po’ di calma, si domanda: se il Mistero avesse fatto così, che
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cosa avrebbe eliminato? La libertà, perché saremmo stati costretti a vivere
così dall’inizio, senza la possibilità di aderire liberamente; ma una salvezza
che non fosse libera sarebbe umana? Ho già raccontato il dialogo che
ho avuto con un taxista “teologo” a Milano: era come stupito – diciamo
di più –, quasi scandalizzato dal fatto che Dio lasciasse accadere certe cose
nella storia senza intervenire; era, in fondo in fondo, scandalizzato dalla
libertà (perché alla fine è questo il punto: lo scandalo della libertà). Per
farmi capire gli ho domandato: «Ma a lei piacerebbe che sua moglie le
volesse bene per un meccanismo che non le consentisse di sbagliare o
preferirebbe che sua moglie le volesse bene liberamente?». E il taxista, subito:
«Io preferirei che mi volesse bene liberamente». «Vede? Il Mistero, che
non ha certo meno gusto di lei – invece di creare altre stelle che brillassero
meccanicamente, altri esseri che ruotassero puntualmente secondo una
legge fissa – ha preferito, ha voluto correre il rischio della libertà».
Quando incominciamo a guardare le cose più attentamente, vediamo
che l’unica possibilità che il disegno di Dio si compisse era altro rispetto
alla nostra immaginazione, allora cominciamo a capire perché il Mistero
ci ha fatto con un desiderio sconfinato, con un desiderio illimitato: per
condividere con noi la Sua pienezza. Ma questo desiderio doveva essere
costantemente ridestato, doveva essere costantemente educato. E come
poteva il Mistero rispalancare di continuo il nostro desiderio, educarci a
venir fuori con tutta la nostra urgenza di pienezza? L’unica modalità era
quella di servirsi delle realtà concrete; non bastava un discorso, perché un
discorso non ci prende abbastanza, non ci dilata, non ci spalanca. Ci ha
messo davanti delle cose concrete che ci attirassero, che ci aprissero, che
spalancassero tutta la nostra capacità: della ragione, dell’affezione, tutto il
desiderio sconfinato che abbiamo, e che occorre continuamente ridestare.
E questo poteva accadere soltanto attraverso qualcosa di concreto che,
allo stesso tempo, non ci soddisfacesse pienamente. Solo questo metodo
così reale, così concreto, così preciso, che ci prende e allarga la nostra
ragione, poteva allo stesso tempo rispettare la nostra libertà, perché noi,
di fronte al concreto che accade, possiamo spalancarci, possiamo aprirci
a qualcosa che va oltre o possiamo rifiutarci di farlo, come quando uno
riceve dei fiori (è l’esempio che facciamo spesso): i fiori sono qualcosa di
concreto – possono marcire –, ma sono qualcosa di concreto che rimanda
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oltre, sono un segno, come diciamo. Possiamo decidere: ce li godiamo
fino a quando marciscono, come facciamo tante volte con le cose e con le
persone (le possediamo fino a quando si esauriscono e poi rimaniamo da
soli come cani), o seguiamo quello a cui rimandano, come segno, e allora
questo ci apre. Questo è un metodo consono alla natura della ragione,
che si spalanca davanti al reale, ed è un metodo rispettoso della libertà.
Tanto è vero (tanto è vero!) che il metodo sacramentale, questo metodo
del segno, per cui qualcosa ci provoca, ci apre, ci allarga, è quello che ha
seguito anche Gesù. Infatti, Gesù, legando le persone a Sé, le apriva a un
dialogo ancora più misterioso con il Padre, le educava costantemente al
Mistero. Don Giussani dice che la cosa fondamentale che Cristo fa, dal
punto di vista educativo, è educare il nostro senso religioso; tutta la lotta
accanita che Gesù ingaggia con i discepoli, quando lo vogliono ridurre a
una loro misura, è per aprirli al Mistero. I discepoli, o la gente, vogliono
attaccarsi a Lui e basta, lo vogliono fare re: «Che cosa vuoi di più? Ti
riconosciamo, hai moltiplicato i pani; ti riconosciamo, da che cosa si vede?
Che vogliamo farti re; riconosciamo la tua grandezza». Ma Gesù non cede
mai, è così consapevole di come siamo fatti, di qual è la nostra fattura, di
qual è la stoffa del nostro essere, e d’altra parte di qual è la sua natura,
la sua missione, che dice: «No, no, no, questo – l’essere fatto re – riduce
quello che io sono e non vi basterebbe», e allarga la misura, fino al punto
quasi di scandalizzarci: «Se non bevete il mio sangue e non mangiate la
mia carne non potete essere contenti». Gesù agisce allargando sempre di
più il desiderio. Perché? Perché non ci vuole bene? È solo per uno sguardo superficiale che uno può dire che non ci vuole bene. In realtà ci vuole
così bene che desidera riempirci sempre di più. Questa insoddisfazione
che resta, in ogni cosa o rapporto, è la modalità con cui Egli ci dice: «Ma
non ti manco Io?». Per questo mi ha sempre colpito una frase che, da
quando l’ho letta in un libro di don Giussani, ho ripetuto tante volte: in
ogni insoddisfazione che ci lascia qualsiasi esperienza del reale, è come
se il Mistero ci dicesse: «Sono Io che ti manco in ogni cosa che tu gusti,
sono Io!». E qui, di nuovo, c’è di mezzo la libertà. Posso dire: «Bah!», o
posso cedere alla attrattiva da cui mi sento investito. È una alternativa
drammatica perché è sempre libera: non è mai deciso questo dramma,
si ripropone in continuazione. Occorre volersi veramente bene, occorre
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un’affezione a sé vera, che non si accontenti con qualcosa di meno di ciò
che il cuore desidera, per essere disponibili, per non essere scandalizzati
da questo metodo che Dio usa per educarci, per attrarci sempre di più,
per riempirci sempre di più, per allargare costantemente il nostro cuore
e poterlo riempire ancora, e ancora, e ancora. Altro che l’immagine che
abbiamo di una «felicità borghese»! Ma su questo ritorneremo dopo.
Intervento: Come può il solo riconoscimento del mio cuore inquieto
essere segno evidente della presenza della risposta? Capisco che il mio
cuore inquieto sia come una porta aperta, ma non vedo come il solo riconoscimento di esso possa essere già segno evidente della presenza della
risposta.
Carrón: Posso farti una domanda? Se intervieni, devi essere aperto
all’imprevisto. Tu ti sei innamorato qualche volta?
Intervento: Sì.
Carrón: E hai vissuto qualche volta l’esperienza della nostalgia della
persona amata?
Intervento: Sì.
Carrón: E questa nostalgia che tu sentivi di lei, perché la sentivi? Perché
ti mancava?
Intervento: Perché l’avevo vista prima e quindi dopo mi mancava.
Carrón: Ti mancava; se fosse stata presente, non ti sarebbe mancata. E
questa mancanza è segno del fatto che tu l’avevi incontrata, o no?
Intervento: Sì.
Carrón: È chiaro?
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Intervento: Sì, abbastanza.
Carrón: Tante volte è proprio questo che non capiamo: uno ha nostalgia perché gli manca qualcuno. Voi domandate: ma perché se ho il
desiderio, se ho la nostalgia, perché questo è segno inequivocabile che
c’è l’altro di cui ho la nostalgia? Proprio perché altrimenti non avresti la
nostalgia. Ma questo ragionamento, che applichiamo così palesemente
rispetto alla nostalgia della persona amata, perché senza averla incontrata
non avresti la nostalgia, non lo facciamo valere rispetto al desiderio che ci
troviamo addosso. Invece il ragionamento vale ugualmente, perché io mi
trovo addosso questo desiderio, questa attesa, come dice Pavese, proprio
per la promessa che contiene. Per questo ieri sera, riprendendo la frase
di Pavese, ho insistito sulla domanda: perché attendo? Se nessuno ci ha
promesso qualcosa, perché attendiamo? Noi facciamo fatica a capire proprio questo: sembra che l’attendere sia scontato. Invece tutti i geni, come
Pavese, riconoscono che in questo attendere c’è qualcosa di misterioso, c’è
già il segno della risposta, e capiscono che occorre qualcuno che ci ridesti
costantemente questo desiderio. Noi non ci rendiamo conto che il fatto di
avere il desiderio non è affatto scontato. Per questo Ungaretti, lo abbiamo
citato ieri, diceva: ma perché io, che sono sempre tra i mortali e tra cose
mortali, che decadono, perché io, che mi trovo sempre tra cose finite, ho
questo desiderio dell’infinito? «Perché bramo Dio?». A noi queste frasi,
che dicono chi siamo meglio di ogni altra, con tutta la carica poetica che
hanno dentro, sembrano domande vuote, perché per capire la portata
della domanda occorre l’esperienza della vita, occorre avere capito ciò
che si è vissuto. Perché comincio parlando della nostalgia? Perché è l’esperienza che voi avete a portata di mano per capire quello che dicono i
poeti e che abbiamo detto questa mattina in un altro modo. L’esperienza
della nostalgia vi consente di capire: se vi manca qualcuno, già questo è il
segno che c’è; non che non c’è, ma che c’è! Se non ci fosse, non ci sarebbe neanche la nostalgia. Immaginate che cambiamento dello sguardo se
ciascuno, ogni volta che è triste, ogni volta che è da solo, ogni volta che
è insoddisfatto, si comportasse come quando sente la nostalgia: non la
prende infatti a pretesto per introdurre il dubbio che ci sia la morosa, ma
la riconosce come il richiamo più potente alla memoria di quella ragazza,
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al riconoscimento che c’è. Se per noi è il contrario, è perché ci manca una
familiarità con l’umano, con la stoffa dell’umano, e allora interpretiamo
tutto alla rovescia. Questo rende la vita veramente pesante: uno ti fa un
regalo e pensi che ti stia prendendo in giro; sta facendo un gesto positivo
nei tuoi confronti e tu lo percepisci come una negazione. È come se non
riuscissimo a trovare la chiave per capire il reale, per capire quello che
succede nella vita, e questo ci confonde. Il fatto che esista la domanda è
già il segno più palese che c’è la risposta, perché altrimenti non ci sarebbe
neanche la domanda (la domanda vera, la domanda che ci costituisce):
perché, essendo sempre tra le cose finite, io ho il desiderio dell’infinito?
Perché? Se nessuno ci ha promesso qualcosa, perché attendiamo? Perché,
vivendo tra le cose mortali, io bramo Dio? È soltanto se cominciamo a
guardare queste frasi senza darle per scontate, che, pian piano, convivendo con esse, si apre il varco, cominciamo a capire e ci interessa capire.
Immaginate che ciascuno di noi leggesse ogni realtà, ogni esperienza
umana secondo quanto dice don Giussani: «Sono io che ti manco in ogni
cosa che tu gusti». La mancanza che tu senti è il segno più palese che ti
manco Io – che ti manca la Presenza per cui sei fatto –. È come se la tua
ragazza ti dicesse: «Ma non ti rendi conto che sono io che ti manco?». E
questo lo capiamo benissimo. Invece, quando si tratta delle esperienze
fondamentali della vita, ci confondiamo.
Intervento: Perché per te l’attesa diventa letizia? Per me, invece, rimane
sempre inquietudine. E poi la seconda domanda che volevo farti è...
Carrón: Hai capito già qualcosa di quello che ho detto fino adesso?
Intervento: Sì.
Carrón: Perché quello che per voi è soltanto inquietudine, per me può
essere letizia? Perché se uno comincia a guardare la nostalgia... qualche
volta ti piacerebbe, a te che vuoi bene al tuo ragazzo, non sentirne la nostalgia, ti piacerebbe superare questa fase?
Intervento: No.
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Carrón: No. Capisci perché è una letizia avere nostalgia?
Intervento: Però è proprio nel rapporto con lui che io vivo questa cosa
più drammaticamente, perché proprio con lui viene sempre più fuori che
io sono bisogno di un Altro, ed è drammatico. Questa cosa mi rende inquieta.
Carrón: Proprio questo, cioè il fatto che tutti e due siete rilanciati, nel
rapporto dell’uno con l’altra, all’Unico che vi può compiere, rende drammatica la vita. Perché? Per quello che dicevamo prima, per la genialità del
Mistero di aprirci e di dilatarci il cuore, di spalancarci il cuore attraverso
qualcosa di reale, presente, concreto. E che cosa prende il nostro cuore più
di tutto il resto, spalancandolo al massimo? Il rapporto affettivo, perché
le altre cose ti possono prendere, ma non ti afferrano in ogni fibra dell’essere. E più ti afferra, più ti spalanca. Questo è altamente drammatico,
perché uno pensa che l’altro lo dovrebbe compiere. Ma se l’altro bastasse,
allora la vita sarebbe finita. Infatti, cosa sarebbe poi la vita? È in gioco qui
una immagine che noi ci facciamo del nostro compimento. Ma, proprio a
partire dall’esempio della nostalgia, noi siamo chiamati a renderci conto
che quanto più una persona ti afferra, quanto più ti prende, tanto più ti
rimanda altrove, proprio perché tu sei fatta per qualcosa d’altro, perché
tutti e due siete fatti per una grandezza che è infinitamente più grande.
Mentre, come abbiamo ascoltato questa mattina, quando un ragazzo dice
alla sua ragazza che lei non è in grado di compierlo, davanti a questo è
come se ci si scoraggiasse: «Allora, se non sono io che ti compio...». Invece
quello è il momento più cruciale, perché ti puoi rendere veramente conto
di che cosa è la persona a cui vuoi bene e di che cosa sei tu; nessun’altra
esperienza umana ti fa cogliere di più che cosa è l’altro e che cosa sei tu. È
drammatico, perché noi sogniamo che il rapporto affettivo sia il culmine
del nostro compimento, mentre esso è grande perché ci apre. Addirittura
il Papa dice – nella Deus caritas est – che è la cosa più vicina al divino. Ma
se non capisci che il rapporto è tale perché apre a qualcosa d’altro, allora
il fatto che tu desti tutto il desiderio nell’altro ti sembra un’ingiustizia,
perché tu glielo ridesti e poi non lo puoi compiere. Ti verrebbe da dire:
se io gli ridesto il desiderio e poi non glielo posso compiere, meglio non
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ridestarglielo perché lo rendo solo più infelice. Invece, che tu glielo ridesti
e che tu sia certa che c’è un Altro che lo compie, questa è la felicità. Tu sei
decisiva per la persona che ami, perché l’altro, solo per il fatto che tu ci sei
può scoprire per che cosa è fatto lui. Allo stesso modo, solo perché l’altro
c’è tu puoi scoprire per cosa sei fatta tu, cioè che tutti e due camminate
insieme verso l’Unico che compie la vita. È questo che rende la vocazione al
matrimonio strada al Mistero. Perché vale la pena sposarsi, se non
per questo? Altrimenti sarebbe un inganno, sarebbe qualcosa che distrae;
invece di essere parte della strada al destino diventerebbe un inciampo.
Se è vissuto per quello che è, il rapporto è ciò che più rilancia al destino,
perché niente come la presenza della persona amata rilancia a quello per
cui siamo fatti. Se non lo capiamo, il rapporto diventa la tomba, come
purtroppo capita tante volte nella nostra cultura: avendo ridotto l’altro a
colui che può compiermi, quando non mi compie, siccome arrivo presto
a rendermi conto che non mi compie, finisco nella tomba; spesso, adesso,
arriviamo subito alla tomba, perché la nostra cultura ci ha già aperto la
porta a essa attraverso il divorzio. Ma, più o meno in fretta, arriviamo
tutti alla tomba se non riconosciamo che l’altro è segno dell’Unico che
può compierci e non il compimento. Quando si cercano altre strade per
uscire dal soffocamento, non si fa che riprodurre lo stesso meccanismo
indefinitamente, fino a che, invece di sposarsi, non ci si compra un cane,
che non protesta, e così il cerchio si chiude.
Intervento: Stamattina hai definito la fede come il riconoscimento del
divino presente. Sempre nel terzo punto hai individuato nella comunità
cristiana lo spazio, ma anche lo strumento per la verifica della pretesa cristiana.
La mia domanda è questa: quali sono i segni inconfondibili della
contemporaneità di Cristo oggi?
Carrón: Il segno più eclatante della contemporaneità di Cristo è l’esperienza
di una impossibile corrispondenza. Quando questa mattina
abbiamo letto la lettera della nostra amica che diceva: «Una cosa così io
non l’ho mai vista», quello che sembrava impossibile è successo davanti
ai suoi occhi. Vale per lei come per noi. Questo è stato il segno palese della
Sua presenza. Come fu per la Samaritana, come fu per Zaccheo, quando
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si imbatterono in Gesù: nell’incontro con quell’uomo si realizzava una
inimmaginabile, mai provata corrispondenza al cuore. Imbattersi nella
risposta alle esigenze del cuore dovrebbe essere la cosa più normale e, invece,
poiché niente corrisponde mai veramente, è una cosa assolutamente
eccezionale. Così, quando si sono trovati davanti quell’uomo, hanno
sperimentato una corrispondenza talmente impossibile da generare da sé,
che hanno detto: «È Lui, è proprio Lui». E di nuovo qui il Mistero si piega
(si piega!) alla nostra esperienza umana. Tu come riconosci che è lui o che
è lei la persona amata? Per quel contraccolpo unico di corrispondenza,
di una certa corrispondenza, che trovi imbattendoti in lui o in lei. Don
Giussani ci dice che questa è l’esperienza del vangelo: loro Lo hanno
riconosciuto perché Lui era l’unico che salvava tutte le dimensioni dell’umano;
solo il divino salva tutte le dimensioni dell’umano. Allora, il segno più
palese, il tratto più inconfondibile della contemporaneità di Cristo è che
io sperimento una corrispondenza: mi imbatto in una realtà attraverso
cui faccio un’esperienza di corrispondenza alle esigenze del cuore che mi
sembrava impossibile, una realtà diversa – eccezionale – proprio perché
mi corrisponde. Questo è il segno più inconfutabile, più indiscutibile di
tutti, perché è la cosa che meno possiamo creare noi; tanto è vero che
quando succede è, sì, la cosa che più desideravamo, ma è anche la cosa
più imprevista, come dicevano i discepoli: «Mai abbiamo visto una cosa
uguale, un’esperienza così non l’avevo mai percepita. Uno sguardo così
– potrebbe dire Matteo –, mai visto prima; una tenerezza così, mai vista
prima». Occorrerebbe leggere il vangelo per vedere, per sorprendere in
atto, in ogni passaggio, in ogni racconto questa esperienza. Il cieco nato si
è alzato quella mattina, come tante altre mattine, dicendo: «Non si è mai
visto che un cieco nato vedesse», e gli succede quello che sembrava impos-
sibile. E questa corrispondenza – primo tratto, primo segno della contempo-
raneità di Cristo – non accade nei miei pensieri, ma nell’imbattermi – secondo
tratto – in una realtà umana diversa, una realtà umana fuori
di me. E questo risponde alla nostre preoccupazioni: «Ma io la fede me
la invento?» Prova a inventartela, prova a generarla con il tuo pensiero! Il
cieco non se lo poteva inventare; si è scontrato, si è imbattuto in Uno che
gli ha donato la vista che non aveva. È l’imbattersi in qualcosa di diverso,
non in una generazione del mio pensiero. Provate a generare un istante di
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letizia con il vostro pensiero, e capirete che sciocchezza diciamo quando
affermiamo che la fede la generiamo noi. Pensate a quando vi innamorate;
pensate se siete in grado di darvi un istante di quella letizia, se siete
capaci di generarla con il vostro pensiero o con la vostra immaginazione
o con la vostra creatività anche geniale. Non potete generare da voi stessi
neanche un istante di letizia! Per questo smettiamola: possiamo continuare a
dire certe cose soltanto per una slealtà con l’esperienza, perché la
fede accade soltanto nell’imbattermi in una umanità diversa, fuori di me,
non generata da me. Per questo il Papa dice: «La fede non è una creazione,
è un riconoscimento». E questa realtà, una realtà umana, è inconfondibile, è
diversa; è fatta di persone come le altre, ma diverse da tutte le altre.
La nostra amica incontra dei compagni in università e dice: «Mi hanno
colpito, c’era in loro qualcosa di diverso». Non erano marziani coloro che
ha incontrato in università, non vestivano in un certo modo particolare;
no, erano come gli altri compagni, erano uomini, ma a lei non è sfuggito
che erano diversi. E siccome noi abbiamo il detector, il cuore, per cogliere
questa diversità, subito ha percepito la diversità nel modo con cui si rapporta
vano a lei. Questa diversità è un’amicizia, una letizia, una gratuità
impossibili all’uomo, tanto è vero che nasce la domanda: come mai sono
così? Ti imbatti in una diversità umana che fa sorgere la stessa domanda
di duemila anni fa adesso, adesso, non come ricordo del passato, non
leggendo il vangelo come una cosa passata; no, adesso, imbattendoti in una
realtà umana diversa ti fai la stessa domanda che i discepoli facevano a
Gesù: «Come mai sei così? Come fai a essere così?». Quante volte ci siamo
sentiti rivolgere queste domande da persone che vedevano come giocavamo,
come andavamo in gita, come facevamo silenzio o come cantavamo,
cioè si imbattevano in noi mentre facevamo delle cose semplici, umane,
perché noi non abbiamo bisogno d’altro per mostrare questa diversità.
Come dice don Giussani: non abbiamo bisogno d’altro che il mangiare,
il bere, il vivere e il morire, perché nel modo con cui mangiamo si dimostra
la diversità, nel modo con cui cantiamo si dimostra la diversità,
nel modo con cui siamo amici si vede la diversità, non abbiamo bisogno
d’altro. Cose umanissime, ma che hanno dentro i segni inconfondibili di
un Altro, che non sfuggono a chi ha il cuore semplice.
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Intervento: Oggi ci hai detto: «Il senso della nostra vita arriva dentro
una compagnia umana fisicamente percepibile». Ma come fare il passaggio
dal riconoscere una compagnia eccezionale al fatto che in essa ci sia
Cristo? E una lettera diceva: «La promessa c’è, sono le vostre facce»; mi
chiedo: se sono persone come me, neanche loro possono rispondere alla
mia esigenza di compimento.
Carrón: Ascoltiamo un’altra modalità per esprimere la stessa domanda.
Intervento: Tante volte nella comunità vedo come centro dell’amicizia
lo stare bene insieme invece che Cristo, ma il primo modo stufa; come
tornare al punto centrale con i miei amici?
Carrón: Cominciamo dalla prima. Come si fa a fare il passaggio da una
compagnia eccezionale al fatto che in essa ci sia Cristo? Mi sembra che
quello che abbiamo detto nella risposta precedente aiuti già a capire perché
la comunità cristiana è il segno della Sua contemporaneità. Perché
questa diversità, il riconoscimento di questa diversità in una realtà umana
come le altre, desta la domanda: «Ma come mai siete così? Da dove nasce
questa diversità?», che è la stessa domanda che si facevano davanti a Gesù:
«Ma non è questo il figlio del carpentiere? Come mai fa queste cose?».
Come mai, essendo come gli altri, succedono queste cose? Allora il punto
di partenza per rispondere a questa domanda è guardare lì, guardare,
guardare, guardare. Don Giussani ci aiuta in questo: «Nella nostra esperienza
[c’è] qualcosa che viene da oltre essa: imprevedibile, misterioso,
ma dentro la nostra esperienza».Allora, guardando questa esperienza,
dentro questa esperienza, noi rileviamo qualcosa di reale, misterioso, che
desta la nostra domanda, che sfida la nostra ragione: noi siamo chiamati
a dare ragione della diversità che rileviamo nella nostra esperienza, altrimenti
la censuriamo. «La fede è una forma di conoscenza che è oltre il
limite della ragione. Perché è oltre il limite della ragione? Perché coglie
una cosa che la ragione non può cogliere: “la presenza di Cristo tra noi”,
“Cristo è qui ora”, la ragione non può percepirlo come percepisce che sei .
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qui tu [...] [che c’è questo bicchiere d’acqua]. Però non posso non ammettere che c’è. Perché? Perché c’è un fattore qua dentro, c’è un fattore
che decide di questa compagnia, di certi risultati di questa compagnia,
di certe risonanze in questa compagnia, così sorprendente che se non
affermo qualcosa d’altro [se non riconosco qualcosa d’altro] non do
ragione dell’esperienza, perché la ragione è affermare la realtà sperimentabile
secondo tutti i fattori che la compongono, tutti i fattori. Ci può essere
un fattore che la compone di cui si sente l’eco, di cui si sente il frutto, di
cui si vede anche la conseguenza, ma non si riesce a vedere direttamente;
se io dico: [siccome non lo vedo] “Allora non c’è”, sbaglio, perché [per
dire che non c’è] elimino qualcosa dell’esperienza, [e questo] non è più
ragionevole».È un tipo di conoscenza che è in gioco in tante occasioni
della vita. Tu vedi certi risultati, certi segni del rapporto che tua mamma
ha con te e che non ha con altre persone: se tu non ti dai ragione di essi,
non ti domandi perché ci sono, che cosa significano quei gesti, quei segni,
se davanti a uno che ti dice: «Quei segni ci sono perché tua mamma ti
vuole bene», tu replichi: «Ma io questo non lo vedo perché vedo soltanto i
segni», sei irrazionale. I segni testimoniano infatti qualcosa d’altro, tanto
è vero che la persona che non ti vuol bene non li compie, non mostra un
certo atteggiamento verso di te, non fa certe cose per te. Tu devi cancellare
dalla tua esperienza certe cose per non accettare che lì dentro ci sia qualcosa
d’altro, che tu devi riconoscere, che è l’amore della tua mamma; devi
essere irrazionale per dire che non lo vedi, che vedi solo i segni. Così noi
vediamo i segni di una certa modalità della nostra compagnia: una certa
amicizia, una certa diversità. Ma è proprio questa diversità che grida un
Altro. Provate a dare un’altra ragione adeguata che non sia Cristo. Gesù
sfidava i discepoli: «E voi chi dite che io sia?», sfidava la loro ragione. E che
cosa avevano in mano per rispondere a quella domanda? L’esperienza più
simile era quella dei profeti, però subito dicevano: «Ma questo è più che
un profeta». E non riuscivano a dare ragione adeguata di quella diversità.
E quando Gesù ha detto loro (tutti avete letto nella Scuola di comunità la
storia del re del Portogallo):«Sono io, sono io il Mistero che voi attendete»,
«Ah!», questo spiegava tutti i segni che avevano visto meglio di qual-
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siasi altra risposta. Ma è un’offerta – di nuovo – alla nostra ragione e alla
nostra libertà. Vedete se trovate una spiegazione più adeguata per dare
ragione di quella diversità che sorprendete tra di voi, una spiegazione che
non sia dire che questa diversità, che questi segni, che rendono diversa la
vostra compagnia, sono la documentazione più palese della contemporaneità
di Cristo, tanto è impossibile a noi generarli. Vedete se quello che la
gente può scoprire in noi e che porta gli altri a farci la domanda: «Ma voi
chi siete?», dipende solo dal fatto che noi siamo più geniali o più coerenti
o più bravi degli altri. Provate. È palese che tutti i nostri limiti messi insieme
non producono quello che stupisce gli altri: l’unica ragione adeguata
per darne spiegazione è Cristo, è Lui che rende possibile tutte queste cose
tra di noi, che ci rende capaci di un’amicizia diversa, che ci rende capaci di
cantare diversamente, che ci rende capaci di vivere diversamente
lo studio, secondo quella diversità che Lui ha introdotto nella storia. E
quando vediamo questo e lo riconosciamo, capiamo che c’è una modalità
di vivere tra di noi che ci aiuta a riconoscere Cristo. Diceva la seconda
domanda: «Ma a volte noi riduciamo questa amicizia a stare bene insieme,
invece di riconoscere Cristo». Vi chiedo: quando ci accontentiamo
di stare bene insieme, a noi manca qualcosa? Qual è il primo segno che
ci accontentiamo di stare bene insieme? L’hai detto tu stesso: «Mi stufa».
Sembra niente, e invece è il segnale che ci siamo dimenticati di Lui. Senza
riconoscere Cristo, ci stufiamo, come nel rapporto con la morosa o con il
moroso, secondo quello che voi stessi avete detto: «Neanche tu mi basti».
Perché vi stufate, se è così astratto Cristo? Se è una cosa così astratta, come
mi dite sempre, perché se lo togliete e vi limitate a “stare bene insieme”,
poi vi stufate? Non dite che Gesù è astratto? Il primo segno che noi abbiamo
ridotto il nostro stare insieme è che ci stufiamo. Il primo segno
che noi abbiamo eliminato Cristo dal nostro rapporto con il moroso o
con la morosa è proprio il fatto che ci stufiamo. Per questo, così come ci
sono i tratti inconfondibili della Sua presenza, ci sono segni altrettanto
inconfondibili della Sua assenza; occorre metterselo bene in testa. Non è
un nominalismo la Sua presenza o la Sua assenza: noi troviamo riscontro
nell’esperienza! Quando Lo riconosciamo, non ce lo stiamo inventando: è
il riconoscimento di qualcosa che è presente; e quando non Lo rileviamo,
non è perché non ci sia. E il primo segno della eliminazione di Cristo è
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che tutto ci stufa: siamo stati bene insieme, non è che la cena sia andata
male, non è che non fossimo tutti lì, ma ci siamo stufati! Mentre la stessa
cena, un’altra volta, è riempita di una presenza tale che torniamo a casa
commossi. Se Lo riconosciamo! Altro che astratto, ragazzi! Mi domandi:
«Come tornare al punto centrale?». Ditemi anzitutto: perché dovete tornare
al punto centrale? Se vi manca qualcosa, tornate; e se non vi manca,
perché dovremmo porci il problema? Brancolate nella vostra noia. Perché
dobbiamo farci dei problemi con Cristo e con la fede, se stiamo benissimo
anche senza di Lui? Se torniamo a Lui è perché senza di Lui ci stufiamo,
capite? Quello che ritenete astratto – Cristo – è così concreto che quando
non c’è ci stufiamo; e quando c’è ci rende talmente lieti che aumenta il
desiderio. A noi manca qualcosa quando non c’è Lui? Ci manca qualcosa
quando ci accontentiamo di stare bene insieme? Ci manca Lui o no?
Questo è tante volte il punto: che non ci manca! Per questo il nostro peccato
non riguarda solo le cose che facciamo male, le cose che facciamo in
modo sbagliato, i nostri sbagli non sarebbero niente: il problema è che
non ci manca Cristo.
Intervento: Nella lezione di stamattina mi hai descritto completamente,
soprattutto questi ultimi sei mesi, finché...
Carrón: Non me l’aveva detto nessuno.
Intervento: Finché non hai citato il Papa rispondendo alla domanda: ma
questo desiderio in fondo è un fregatura o no? E il Papa diceva: «L’infinito
ha assunto una forma finita». A quel punto mi sono proprio arrabbiata
perché di questo io non ho esempi.
Carrón: Invece di rallegrarci, ci arrabbiamo per le buone notizie. Ci fanno
un regalo e ci arrabbiamo.
Intervento: E mi sono arrabbiata ancora di più quando hai detto che
Gesù non solo promette, ma compie, perché se penso a me dico: succedono cose grandi, ma io sono sempre triste e allora mi dico: cosa vuol dire
che Cristo mi compie oggi
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Carrón: Che cosa vuol dire «compiere»? La confusione che noi tante
volte ci troviamo addosso è questa: per noi compimento vuol dire annullamento del desiderio, che io non desideri più; se infatti non desiderassi
non sarei triste, perché la tristezza – diceva san Tommaso – è la percezione
di un bene assente. Per questo sono triste, perché mi manca qualcosa. E
allora come immaginiamo il compimento? Come uno stato in cui non ci
manchi niente. Questo sarebbe per noi il “top” del compimento, una sorta
di compimento “buddista” (usando in senso lato l’espressione): annullare
il desiderio. Dall’altra parte c’è il “compimento borghese”: io mi riempio
a tal punto da non desiderare più niente. Immagina che tu, per un momento, fossi così piena da non desiderare più niente; che cosa sarebbe la
vita? Una noia senza fine. Per questo don Giussani dice una cosa molto
bella sul compimento finale: «Non è come chi ha sete e va a bere e, dopo
aver bevuto, non ha più sete [questa è la nostra immagine: bevo, così non
ho più sete]; piuttosto è come uno che ha sete e tuffa la faccia nell’acqua
sorgiva e beve, e quanto più beve tanto più ha sete, dove bere significa,
dunque, soddisfare continuamente una sete continua».
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A te piacerebbe non sentire più la nostalgia del tuo moroso? O non avere più sete? È
quello che desideri? Sarebbe la tomba del tuo amore. Il giorno in cui non
hai “sete” di vedere il tuo moroso, vuol dire che non ti interessa più. Tante
volte pensiamo il compimento come l’annullamento del desiderio: che
io non senta più il bisogno, la nostalgia, la tristezza. Ma questo sarebbe
inumano. Quello che tu vuoi è desiderare sempre di più il tuo moroso,
vederlo sempre di più e che la sua presenza continuamente riempia la tua
sete, costantemente ridestandola. È questo che desideri, non che non ci
sia più la sete. Se non capiamo questo, lasciamo sussistere un’immagine
del compimento come annullamento del desiderio. Perciò don Giussani
descrive il Paradiso come: un soddisfare continuamente una sete continua.
Se non fosse così, che cosa sarebbe? Una noia infinita. Immagina tutta
l’eternità senza desiderare niente. Terribile solo a pensarci. Meno male
che non è come noi pensiamo. Invece, che io sia davanti alla Sua presenza
e che desideri sempre di più stare davanti ad essa, questo è il Paradiso: più
sono in rapporto con Cristo più mi si desta la nostalgia di Lui e il desi-
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derio di stare con Lui! La Sua presenza mi ridesta costantemente la sete.
Senza questo sarebbe la noia infinita. È questo che Cristo ha introdotto.
Cristo non è venuto a cancellare il dramma, così che tu, a un certo punto,
non abbia più bisogno del rapporto con Lui. Cristo è venuto a esaltare il
dramma. È come con il tuo moroso. Infatti, da quando ti sei innamorata,
si è esaltato il dramma: eri più tranquilla prima di innamorarti, sì o no?
Allora preferisci non innamorarti? È questo che preferisci? È per questo
che ti sei arrabbiata questa mattina? Adesso, se parliamo del moroso, tu
trovi un esempio nella tua vita che ti fa capire quello che non ti convinceva
questa mattina: il compimento che noi veramente desideriamo è il
contrario di ciò che era implicato nella tua reazione di questa mattina,
che è stata – possiamo dire – “intellettuale”, frutto di un modo di usare la
ragione staccata dalla tua esperienza, perché nella tua esperienza succede
il contrario di quello che hai detto. Se per capire le cose non partite dalla
vostra esperienza, sbagliate, vi complicate la vita e incominciate a essere...
come dicevi?
Intervento: Arrabbiata.
Carrón: Arrabbiati. Non dovete arrabbiarvi! Con Colui che viene a salvarvi ci arrabbiamo: siamo messi bene! Per questo è importantissimo che
noi, come ci ha insegnato sempre don Giussani, incominciamo a parlare
delle cose a partire dall’esperienza, non a partire dalle nostre immagini,
da quello che sarebbe apparentemente logico secondo un certo modo di
pensare – che è il contrario di quello che dice l’esperienza –: la realtà si
fa trasparente nell’esperienza, è nell’esperienza che tu impari che cos’è
la realtà, non nei tuoi pensieri. Ma noi, siccome siamo staccati dall’esperienza,
cominciamo ad arrabbiarci. Cristo è venuto a esaltare il dramma,
non a concluderlo. La «creatura nuova» è una esaltazione della ragione e
dell’affezione, non è l’annullamento né dell’una né dell’altra: se fosse un
annullamento, Cristo non ci salverebbe, ci affosserebbe, non sarebbe il
compimento, ma la tomba.
Intervento: Come è possibile guardarsi con tenerezza? Di fronte al mio
peccato, la prima volta dico: «Non mi devo scoraggiare», la seconda: «È
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il mio limite, non mi deve spaventare»; la terza: «Sono fatta male». E
quando mi accorgo che Cristo è presente finisco col dire: «Tu sei molto
buono con me, io però continuo a peccare», e sono sempre al punto di
partenza...
Carrón: È come se tu dicessi a Gesù: «Tu sei molto buono con me, ma
sei un po’ sprovveduto, non mi capisci bene, perché io sono fatta male». È
come se nel rapporto tra Cristo e te fosse accaduto un disguido.
Intervento: Il fatto è che mi chiedo...
Carrón: Insomma, Gesù sarebbe buono, ma sprovveduto.
Intervento: No, però... be’, in parte sì, perché mi chiedo a questo punto:
perché mi hai scelta? Che disegno hai su di me? Perché io sono sempre
qui, continuo a peccare, non ci arrivo e quindi mi ridico: come si fa ad
amarsi, come il cammino non diventa un’ansia di perfezione e l’intuizione
diventa consistenza?
Carrón: Grazie per questa domanda, perché ci aiuta a capire anche altre
cose decisive. Noi identifichiamo – come dicevamo prima – il compimento
con l’annullamento del desiderio, concepiamo l’essere felici come
un essere senza limiti; e quando Gesù non cancella subito i nostri limiti,
andiamo in tilt, pensiamo che sia buono, misericordioso, ma in fondo
non capisca che «siamo fatti male». Noi pensiamo che essere cristiani
significhi non peccare più, non sbagliare più. Certo, Gesù vuole arrivare a
questo, ma secondo un cammino, secondo un disegno che non è il nostro.
Per questo Cristo non si spaventava e non si stupiva di quante volte Pietro
(per fare un esempio che ti aiuti) non capiva, di quanto Pietro sbagliava.
Avrebbe potuto “asfaltarlo”, mandarlo via. Ma come si fa a scegliere gente
che non capisce e che continua a sbagliare? Gesù era un po’ sprovveduto,
e perciò ha scelto dei poveri uomini come Pietro, o aveva un’immagine
di quello che Lui voleva fare con loro diversa da quella che abbiamo noi?
Ha scelto te così piena di limiti, come ha scelto me così pieno di limiti – il
che non significa che siamo fatti male –, perché vuole introdurci a una
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esperienza diversa. Qual è il primo segno che, per Lui, il fatto che noi
sbagliamo non è così decisivo come tu pensi? Che continua a darti la vita.
Questo potrebbe darti una prima spia del fatto che Lui tiene a te più di
quanto faccia pesare il tuo male.
Come fa con Pietro: non gli dice che ha fatto bene; no, lo corregge,
lo sgrida, gliene dice di tutti i colori, ma continua a essere suo amico.
E così crea un rapporto con Pietro che pian piano lo sposta. Leggiamo
come don Giussani descrive il dialogo con Pietro dopo che ha fatto il
più grande errore: lo ha rinnegato davanti a tutti la vigilia della Passione.
Incontra Pietro dopo la resurrezione, sulla riva del lago. Erano a pescare
e vedono uno sulla riva. E Giovanni dice: «È il Signore». Pietro avrebbe
potuto pensare: «No! Adesso mi nascondo, come se non ci fossi»; e invece
no, Pietro subito si è buttato in mare per arrivare primo. Poi arrivano
gli altri. Immagina che cosa avrà pensato Simone: «Simone, che i molti
errori avevano reso il più umile di tutti, steso pure lui a terra davanti
al cibo preparato dal Maestro, guarda chi ha vicino e con stupore e tremore
vede che è Gesù. Allora volge via lo sguardo da Lui e resta così,
impacciato. Ma Gesù gli parla. Pietro pensa in cuor suo: “Dio mio, [...]
quanto rimprovero merito! Adesso mi dirà: ‘Perché mi hai tradito?’”. Il
tradimento era stato l’ultimo grosso errore fatto [da Pietro], ma tutta la
sua vita, anche nella familiarità con il Maestro, era stata tribolata, per via
del suo carattere impetuoso, della sua imponenza istintiva, del suo farsi
avanti senza calcoli. Tutto di sé egli vedeva alla luce dei suoi difetti [come
te: quando vedi il tuo ultimo sbaglio è come se ritornasse il film della vita
con la sequenza di tutti gli errori fatti]. Quel tradimento aveva fatto emergere
con chiarezza in lui il resto dei suoi errori, quanto lui non valesse
niente, quanto fosse debole, debole da far compassione [come te e come
me: deboli da far compassione]. “Simone...” – chissà che brivido mentre
quella parola si scandiva dentro il suo orecchio toccandogli il cuore –,
“Simone [...], mi ami tu?”. Chi si sarebbe mai aspettato quella domanda?
Chi si sarebbe atteso quella parola? [...] “Simone, mi ami tu?” “Sì, Signore,
io Ti amo”. Come faceva a dire così dopo tutto quello che aveva fatto?
Quel “sì” era l’affermazione del riconoscimento di una eccellenza suprema,
di una eccellenza innegabile, di una simpatia che travolgeva tutte le
altre. Tutto restava inscritto in quello sguardo, coerenza e incoerenza era
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come se passassero finalmente in secondo ordine, dietro alla fedeltà che
sentiva carne della sua carne, dietro alla forma di vita che quell’incontro
aveva plasmato». «Sì, io ti amo». Quando dice così, Simone che cosa sta
dicendo? Ascolta come lo esprime don Giussani: «Per Te è tutta la mia
preferenza d’uomo, tutta la preferenza dell’animo mio, tutta la preferenza
del mio cuore [è per te, Cristo]. Tu sei l’estrema preferenza della vita,
l’eccellenza suprema delle cose. Io, non lo so, non so come, non so neanche
come dirlo e non so come sia, ma nonostante tutto quello che ho fatto,
nonostante quello che posso fare ancora, io Ti amo»,cioè tutta la mia
simpatia umana è per te, Cristo. La vera questione è se questo rapporto
prevale, se tutta la mia simpatia umana, anche dentro il mio errore è per
te, o Cristo. Se prevale questo, carissima amica, se nella nostra vita pian
piano prevale questo, pur con tutti i nostri limiti, il nostro sarà un cammino
pieno di tenerezza e di misericordia; un cammino in cui l’affezione
a Gesù attraversa tutto il nostro errore, il nostro male, la nostra umanità,
e ogni fibra del nostro essere si attacca a Gesù. Allora comincerai a capire
che sei stata fatta bene, ma che per compierti occorre una strada, lungo la
quale Gesù non si spaventa dei tuoi errori. Se tu vuoi essere voluta bene
come è voluto bene Pietro, allora prende il sopravvento la Sua attrattiva e
la simpatia umana per Lui.
Intervento: Rispetto alla lettera della ragazza che, parlando del rapporto
con il suo moroso, è arrivata a rendersi conto che neanche lui è suo, ma è
di un Altro, paragonandolo alla mia esperienza, non capisco il mio ruolo;
nel momento in cui ti rendi conto che l’amico o il moroso non è tuo, tu
che cosa sei per lui?
Carrón: Brava. Vedi? O noi siamo tutto per l’altro, e così ci prepariamo
tutti e due al disastro, o il giorno in cui ci rendiamo conto che noi non
siamo tutto, perché il destino dell’altro è più grande, non sappiamo più
qual è il nostro ruolo in quel rapporto. Quando dicevo a quelli che si
volevano sposare: «Ma non penserai che tu la renderai felice?», mi rispon-
devano: «Allora perché mi devo sposare?». E io: «È una bella domanda,
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meglio che tu te la faccia quanto prima, meglio!». Qual è il nostro ruolo?
Non siamo l’uno il compimento dell’altro, ma siamo una compagnia al
destino, e il destino di tutti e due è Cristo. Il tuo ruolo è ridestare nell’altro
tutto il suo desiderio, tutto il desiderio dell’infinito, il desiderio di Cristo,
e il ruolo dell’altro è ridestare lo stesso desiderio in te. Allora tu vuoi bene
a questa persona perché è quella che il Mistero ti ha dato per ridestare
in te, e viceversa, tutto il desiderio e tutta la nostalgia di Gesù. E questo
è un ruolo decisivo. Tu sei colei che di più lo rimanda oltre, che più gli
ridesta tutto il desiderio dell’infinito, ma allo stesso tempo tu non lo puoi
compiere, e dovresti piangere il giorno in cui ti rendessi conto che non
lo puoi compiere. Invece, avendo incontrato Gesù, noi sappiamo perché
ci ha fatto incontrare: per rimandarci, per aiutarci l’un l’altro a camminare
verso l’Unico che compie, Cristo. Questo è il nostro ruolo: diventare
una compagnia vera al destino. E questo risolverebbe tante delle vostre
arrabbiature, tanta violenza tra di voi, proprio perché non può essere l’altro
che compie la nostra vita: il desiderio di cui siamo fatti è molto più
grande di ciò che l’altro può compiere. Scoprire il nostro ruolo è quindi
fondamentale per capire perché vi sposerete, perché il Mistero ci ha dato
l’altro, questo altro così decisivo per camminare al destino.
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SINTESI Julián Carrón
9 dicembre, mattina
Julián Carrón: «Mentre cammino sotto il cielo mi stupisco che Gesù siavenuto a morire per la povera gente affamata come me e come te».«Dio
è l’inizio sempre», ci ha detto il Papa al Sinodo. «Solo il precedere di Dio
rende possibile il camminare nostro [la strada]. L’iniziativa vera, l’attività
vera viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina, solo implorando
questa iniziativa divina, possiamo anche noi divenire – con Lui
e in Lui – evangelizzatori [creature nuove]. Dio è l’inizio sempre».E solo
chi si lascia afferrare da Dio, che è diventato vicino in Cristo, può rispondere
alle sfide che abbiamo davanti. Quello che adesso vogliamo guardare
insieme è la strada, per cercare di inserirci in questa iniziativa di Dio.
Nella lettera dopo il Sinodo ho ricordato una frase di don Giussani che
parla proprio di questa iniziativa di Dio: «Il Movimento è nato da una
presenza che si imponeva e portava alla vita la provocazione di una promessa
da seguire». Questa presenza che si impone sarà sempre l’inizio,
come testimoniate voi stessi. «In questo ultimo periodo mi trovo a vivere
tutto in un modo che, fino a poco tempo fa, pensavo impossibile per me.
Appena sono arrivato in università ho conosciuto ragazzi del CLU e mi
sono subito affezionato. Mi colpiva il loro modo di stare insieme, il loro
impegno nello studio e in università e vedevo quanto fosse bello vivere
così. E ho quindi cominciato a desiderare di essere come loro. Ho scoperto
che non è una questione di capacità, quel modo di vivere e di fare non
l’ho imparato come una lezione, ma seguendoli, ho cominciato a non
desiderare meno di quello che in realtà desidero e ad accorgermi quando
non è così [una presenza che si impone mette in moto il nostro desiderio,
per una promessa]». Un’altra di voi scrive: «Alcuni fatti che mi capitano
ogni giorno hanno esattamente la stessa portata di quel primo incontro
con il movimento [e cita:] “portano alla vita la provocazione di una pro-
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messa da seguire”, come dicevi nella lettera. Promettono la vita, quella
vera. È per questa convenienza che desidero seguire queste persone». È la
stessa cosa che è capitata in questi giorni, come diceva Nick ieri a cena, e
che ha portato tanti di voi a seguire l’esperienza.
Nick: Ieri sono rimasto colpitissimo dall’assemblea e mentre uscivo mi
dicevo: ho ricapito perché sono del movimento, perché sono qui e perché
voglio stare qui; mentre tu parlavi, e rispondendo alle domande raccontavi di
come Gesù sfidava i suoi discepoli e la gente che incontrava, io mi
sono detto: ecco, adesso, in questo istante, stiamo assistendo alla stessa
cosa, cioè siamo davanti allo stesso spettacolo. E se guardo a tutti questi anni,
come penso sia per tanti di noi, non posso non dire che quello
sguardo rivelatore dell’umano l’ho visto, lo abbiamo visto, che quell’impos-
sibile corrispondenza è un’esperienza che ho fatto, che essere sfidato
così, come Gesù sfidava i suoi discepoli, fino a trovarmi di fronte a uno
che ama di più la mia libertà che la mia adesione formale, questo l’ho
visto, l’abbiamo visto. Per cui sono uscito dall’assemblea grato di questa
storia più che mai e con davanti agli occhi questa evidenza: che è proprio
vero quello che tu ci dici, cioè che la distanza di tutti questi anni di storia
che ci separano da quel fatto è annullata dal risuccedere adesso della
stessa cosa; e quando succede uno lo sa.
Carrón: Lo sa perché corrisponde, non ce lo deve spiegare nessuno. È
«un fatto di vita», dice don Giussani, un fatto di vita che ci prende oggi.
E proprio perché è un fatto di vita, è impossibile rimanere indifferenti,
come dice un altro di voi: «In questo periodo mi sono successe moltissime cose, dalle più belle e immediate da capire e da accettare a quelle
difficili e meno immediate. Dentro tutto questo, però, quello di cui mi
sto rendendo conto è che mi è impossibile rimanere indifferente a una
pienezza di vita che, dentro un lavoro quotidiano, nasce in tutto ciò che
accade e che ha come punto di origine il grido del mio cuore. Il fatto sempre più evidente è che questo grido si compie in ogni istante nel rapporto
con Cristo e si esprime dentro la sequela alla compagnia del movimento».
È decisivo renderci conto di questo. Don Giussani ci è così amico che ci
ha detto di stare attenti, perché di fronte a quello che è stato all’origine
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– una presenza che si imponeva e portava alla vita la provocazione di
una promessa da seguire, tanto che uno ha desiderato quella pienezza,
non ha voluto rimanere indifferente – corriamo il rischio di cambiare il
metodo. «Ma poi – dice don Giussani – abbiamo affidato la continuità di
questo inizio ai discorsi e alle iniziative, alle riunioni e alle cose da fare.
Non l’abbiamo affidato alla nostra vita, così che l’inizio ha cessato molto
presto di essere verità offerta alla nostra persona ed è divenuto spunto
di una associazione, di una realtà su cui scaricare la responsabilità del
proprio lavoro e dalla quale pretendere la risoluzione delle cose. Quello
che doveva essere l’accoglienza di una provocazione e quindi un seguire
vivo è diventato obbedienza all’organizzazione».Come scrive una di voi,
questa tentazione è sempre in agguato: «Dopo la lettera che hai scritto a
Repubblica mi sono trovata a dover rigiudicare da capo tutta l’esperienza
che ho vissuto in questi anni del CLU. È stato molto doloroso riconoscere
come tantissime volte ho ridotto l’incontro che ho fatto a un insieme di
iniziative, pur bellissime, e di cose da fare e da dire in cui però, in fondo,
mancavo io [scarichiamo la nostra responsabilità su un’organizzazione
da cui ci si aspetta la risoluzione delle cose: “Mancavo io!”]. Infatti ho
dovuto constatare che mi trovavo ad avere paura della mia libertà e del
mio desiderio di fronte alle cose per cui tante volte mi facevo bastare il
giudizio di un altro. Quando me ne sono resa conto ho provato prima
una grande rabbia e poi un dolore enorme. E l’unica ragione per cui ho
potuto guardare fino in fondo al mio male e non crollare è stato il rico-
noscere che nonostante tutto io ci sono e sono voluta. E questo giudizio
ha portato una liberazione impensabile che ha avuto come conseguenza
una disponibilità e un desiderio di riguardare tutto, cercando di capire
cosa c’era per me, tentando di non rimanere legata a tutti i miei schemi e
a una posizione da difendere, ed è diventato un lavoro veramente gustoso,
anche se molto faticoso, in cui lentamente sto recuperando e scoprendo
me stessa [vi interessa questo? Altrimenti cercate qualche altra associa-
zione, ce ne sono tante nel mondo, dove pagate il pedaggio e appartenete
al club]. Tutto questo mi sarebbe impossibile senza una sequela al movi-
mento, a te e a tutti quelli che mi sono dati da seguire nella vita quotidia-
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na». La tentazione di ridurre tutto a un meccanicismo è sempre in agguato,
come dice un’altra lettera; sono tutte testimonianze di come possiamo
incastrarci un istante dopo l’inizio; non è che non ci sia successo niente,
altrimenti non staremmo qui a parlare, non rimarremmo qui ad ascoltare,
ma la tentazione di ridurre è continua: sul «ma poi...», il «ma poi» che
cambia il metodo, è fondamentale avere le idee chiare per aiutarci a non
perdere il fascino, la freschezza dell’inizio. «A settembre ho iniziato la
laurea specialistica in un’altra università. L’arrivo e l’impatto con una realtà
molto diversa e tante altre difficoltà hanno fatto sorgere in me la paura
di non farcela. Non so bene spiegare come. A un certo punto è come se si
fosse innescato un meccanicismo per sopravvivere: “Devo concentrarmi
su di me, cercare di autogestirmi”, ma mi sono ritrovata sempre più sola.
Nel momento in cui ho deciso di farmi da me ho perso me stessa, perché
ho perso la verità di me». A un certo momento, uno pensa di cavarsela da
solo: ho già capito, ho in mano le cose che ho imparato, non ho bisogno
di seguire, posso autogestirmi, e allora «ho perso la verità di me». «Poi il
rincontro con un’amica mi ha fatto capire un’altra volta come Cristo si
piegava di nuovo su di me e mi chiamava per nome, non lasciandomi alla
mia inconsistenza e al mio dolore. Quel giorno ho capito davvero, dopo
anni di vita nel movimento, che cosa è davvero il movimento». Il movimento
non è un’associazione, non è un’organizzazione, non è un club, si
chiama «Chiesa»: è il luogo dove Cristo rimane presente per continuare a
salvarci. E se noi non capiamo questo, non abbiamo la ragione adeguata
per stare qui. Subito – subito! – vediamo che cosa succede quando pensiamo
di cavarcela da soli, come se il movimento fosse valido soltanto per
adolescenti che poi, una volta cresciuti, ne possono fare a meno; va bene,
ma solo per una certa fase della vita. Così hanno immaginato la Chiesa
i razionalisti: essa ha contribuito all’educazione dell’umanità, la quale,
una volta arrivata all’età adulta, deve farne a meno. Oggi vediamo dove
siamo finiti. Questa tentazione è sempre in agguato, come vediamo tra di
noi, è la tentazione di una nostra autonomia. Ma io perché ho bisogno
di dipendere? Siamo così poveracci che abbiamo bisogno di un altro per
essere noi stessi, l’appartenere è per non perdere noi stessi. Noi dipendiamo.
Continua la lettera: «Questo è il luogo dove vengo continuamente
chiamata per nome. Allora seguire comincia a essere capito nella sua vera
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profondità, non è una schiavitù, non ci toglie qualcosa, non è il pegno da
pagare all’associazione, è – come dice don Giussani – un seguire vivo che
mi restituisce volta dopo volta me stessa e la mia vita. Per questo il mio
unico desiderio in questo momento è avere sempre la lealtà di seguire».
Don Giussani – che grazia ci è capitata! – ci aiuta a capire che cos’è vera-
mente la sequela. Tanti, infatti, anche coloro che riducono il movimento alle
iniziative, a un’organizzazione, a un meccanicismo, possono usare
la parola «seguire», dire: «Io sto seguendo», proprio mentre realizzano ciò
da cui don Giussani ci mette in guardia: «Ma poi abbiamo affidato la conti-
nuità [...] alle iniziative [...] e alle cose da fare». Anche se dicessero: «Sto
seguendo», Giussani dice: «No!». E perché Giussani ha ragione? Ciò che
dice Giussani è vero non perché lo dica lui – altrimenti lo tratteremmo
come un guru –, ma perché quel seguire ridotto non corrisponde alle esi-
genze del cuore, noi constatiamo che qualcosa si interrompe in noi, che ci
perdiamo per la strada. Noi abbiamo nella nostra esperienza la conferma
della verità di quello che ci dice don Giussani.
Dobbiamo dunque andare via da questi giorni con una chiarezza più
grande di che cosa sia la sequela. L’ho ripreso già nella lettera dopo il
Sinodo: «La sequela è il desiderio di rivivere l’esperienza della persona
che ti ha provocato e ti provoca con la sua presenza nella vita della comu-
nità, è il desiderio di partecipare alla vita di quella persona nella quale ti
è portato qualcosa d’Altro, ed è a questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui
aspiri, ciò cui vuoi aderire, dentro questo cammino».Don Giussani ci
ha lasciato questa descrizione di che cos’è la sequela perché noi possiamo
fare il paragone con quello che viviamo ogni giorno. Noi infatti possiamo
chiamare sequela tante cose che non lo sono, che sono delle riduzioni
di essa. Spesso pensiamo di seguire perché ripetiamo il discorso giusto,
quello che abbiamo imparato; ma se noi facciamo il paragone, subito
vediamo la differenza: don Giussani non dice che seguire è ripetere il già
saputo, ma che è rivivere l’esperienza della persona che ti ha colpito. Si
tratta di rivivere una esperienza e non di ripetere un discorso, pur giusto.
È molto diverso! Seguire non è nemmeno soltanto partecipare a certe
iniziative, pur giuste, ma – appunto – rivivere l’esperienza di colui che ti
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ha colpito. Seguire non è attaccarti sentimentalmente e personalistica-
mente a uno o all’altro, al capo di turno, perché ti puoi attaccare e non
fare la sua esperienza. Seguire è rivivere l’esperienza della persona che ti
ha provocato, che è quello che uno desidera dall’inizio; uno trova qualcosa
e dice: «Ho cominciato a desiderare di essere come loro, di partecipare a
quell’esperienza». Giussani dà voce a quello che uno desidera, egli è uno
che aderisce più di chiunque di noi a quello che capita a tutti, è leale con
quello che emerge in noi, non si stacca dalla realtà. Che cosa vuol dire
partecipare all’esperienza dell’altro? Cosa vuol dire l’esperienza dell’altro
non ridotta? Guardate come Giussani risponde: «È il desiderio di parteci-
pare alla vita di quella persona nella quale ti è portato qualcosa d’Altro».
Se non arriviamo a questo Altro, se restiamo attaccati alla persona senza
seguirla fino a questo Altro, noi non facciamo l’esperienza di colui che ci
ha colpito. Egli infatti ci ha colpito non perché sia necessariamente un genio,
non perché sia bravo, non perché sia particolarmente arguto, ma per
questo Altro, perché porta questo Altro alla nostra vita. Quello che colpisce
gli altri quando ci vedono è questo Altro che portiamo nelle fragilità
delle nostre facce. E se non ci lasciamo introdurre al rapporto con questo
Altro, noi non facciamo la stessa esperienza, noi non stiamo seguendo
l’esperienza dell’altro. Diceva Giussani con riferimento a sé: «Possono
essere centinaia e centinaia legati alla mia persona [lo diceva lui!], tra
di loro non avviene nulla»,perché non fanno la sua stessa esperienza, perché
quello che unisce è che ognuno impari, cioè faccia la sua stessa esperienza.
Don Giussani non si accontentava – questa è la sua amicizia con noi – che
ci fossero tanti individui legati alla sua persona come tale, perché questo
non bastava. Gesù non si accontenta del fatto che la gente si leghi alla Sua
persona; egli moltiplica i pani, tutti si legano alla sua persona fino al punto
che vogliono farlo re, ma Gesù sfugge. «Non è di questo che si tratta». E
rilancia. «Se voi non capite che dovete mangiare il mio corpo e bere il mio
sangue, voi non potete avere vita in voi». E quando li invita a fare la sua
stessa esperienza, loro si arrabbiano e se ne vanno. Sembrava che volessero
seguirlo, si erano legati alla Sua persona (volevano farlo re!), ma non erano
disponibili a fare la Sua stessa esperienza, e allora l’hanno abbandonato.
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Tutto il Vangelo lo possiamo leggere in questa chiave: «Pietro, chi dice
la gente che sono io?». «Tu? Il Messia». «Bravo, Pietro»; è legato, ma
Gesù continua: «Adesso andiamo a Gerusalemme perché devo morire»;
«No, per carità!». Pietro è legato a Gesù, ma non vuole fare la sua
esperienza e allora introduce la sua misura: «No, no, no, neanche per
sogno!», ma Gesù non molla: «Allora allontanati da me, Satana, perché
tu la pensi come gli uomini, non come Dio»; cioè Pietro non vuole fare
l’esperienza di Dio che fa Gesù! Capite la differenza tra la sequela che
ha in testa Pietro e la concezione della sequela propria di Gesù? Egli
li spiazza costantemente, come abbiamo visto nella Scuola di comunità.
Arrivano all’Orto degli ulivi, vengono a prenderlo, e Pietro, che non
aveva capito il rimprovero che gli aveva fatto prima, ritorna alla carica,
estrae la spada e taglia un orecchio al soldato romano. «Pietro, ma non
capisci? Ma sei così ottuso da non capire che mio Padre ha legioni di
angeli? O pensi che si sia addormentato o distratto? Non capisci che
quello che ora accade è il Suo disegno, che io mi piego al disegno di un
Altro? E se tu vuoi essere con me, se tu vuoi fare la mia esperienza, devi
entrare anche tu nel disegno di un Altro, perché se tu non vi entri, quando
le cose non andranno come vorrai, ne resterai sempre vittima. Ma io
voglio introdurti al rapporto col Padre mio che è nei cieli, farti vedere
che cos’è la vita, farti sperimentare la vittoria che è il tuo stesso legame
col Padre: quando vedrai questa vittoria in me, potrai capire che questo
legame è più potente della morte, più potente di qualsiasi sconfitta. Io
voglio portarti a capire che la vera questione è il legame con il Mistero
che ci fa. Seguire è seguirmi fin qui, perché è quel legame che dà alla vita
una consistenza tale che può capitare qualsiasi cosa, ma tu ci sei. Questo
legame si rivela più potente di qualsiasi male, di qualsiasi ferita, di qualsiasi
sconfitta, di qualsiasi circostanza. A te interessa questo o no? Perché
altrimenti abbiamo già perso la battaglia».
Capite quale passione ha Gesù per la nostra vita? Capisco allora che
chiunque, davanti a un uomo così, possa desiderare di seguirlo, di vivere
la sua stessa esperienza: «Mentre rileggevo il tuo intervento alla
Giornata d’inizio anno mi è saltata all’occhio questa frase: “Anzi, c’è
la battaglia che è tutta la vita. Che nel vivere io tenga presente Gesù!
Questo l’amicizia nostra ci promette: un aiuto a incrementare, ad avan-
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zare, a camminare dentro questa memoria” in qualsiasi battaglia. Con
l’inizio dell’anno, che per me è stato e continua ad essere molto faticoso,
ho scoperto in me più di prima l’esigenza di una persona da seguire, con
cui potermi confrontare con verità. Il primo giorno di università vado a
Messa e incontro un mio amico più grande e subito mi invita a pranzo.
Si accende immediatamente un dialogo serrato con un’altra nostra amica
che racconta delle difficoltà sul lavoro e nella vita in appartamento, in
fondo un po’ scoraggiata. Di fronte a tutti i suoi problemi il mio amico
le chiede: “Ma in tutto questo c’è stato almeno un momento in cui hai
fatto esperienza di libertà?”. Così la discussione ha cambiato totalmente
piega perché con questa semplice domanda si è centrato di nuovo il
punto. “In tutto ciò che ti accade riconosci qualcosa che ti rende libera,
che non ti fa crollare, anche se tutto intorno a te sembra contro di te?”.
Questa domanda è stata la prima delle continue provocazioni nate dal
rapporto con questo mio amico e mi sono accorta di desiderare anche
io la sua stessa libertà e letizia e ho deciso di seguirlo. Nel fare questo mi
sono accorta che lui è così perché a sua volta segue senza sconti questa
compagnia, andando sempre all’origine. E nel farlo provoca anche me
a questo riconoscimento. Ogni volta infatti che gli racconto qualcosa è
impossibile rimanere nella parzialità perché mi chiede ragioni di tutto.
E questo ha provocato l’inizio di un lavoro: ma chi sei Tu che attrai a tal
punto un uomo da renderlo così vivo e così libero? [Questo altro che hai
davanti ti porta un Altro; ma chi sei Tu, Cristo, che attrai a tal punto un
uomo da renderlo così vivo e così libero? È per questo che ti colpisce, per
questo Altro]. E mi sono trovata a chiedere e poi a domandare: “Fa che
Ti riconosca anch’io, rendi anche me come lui”, e ha cominciato a farsi
strada in me il desiderio di essere anch’io in rapporto cosciente e certo
con quella Presenza che lui ha sempre in mente. Ho desiderato rifare la
sua stessa esperienza, che a me, a volte, sembra così lontana e astratta,
per una mancanza di autocoscienza, per un lavoro mancato prima. Non
sono più scandalizzata da questo come prima, ma anzitutto sono grata
di questo incontro. Ti chiedo di aiutarmi in questo lavoro di riconoscimento
e di sequela».
Perché arrivare a questo Altro è decisivo? Perché soltanto se uno ti
porta a questo Altro, ti porta a ciò cui tu aspiri, di cui sei attesa. Per 60
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questo don Giussani dice: «È questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui
aspiri, cui vuoi aderire, dentro questo cammino».Se non arriviamo a
questo Altro, noi non troviamo quello che il nostro cuore attende. Perciò
Gesù non si accontentava: «Guardate che se non mangiate la mia carne
e bevete il mio sangue, non potete avere vita. Se non vi porto all’origine
della mia vita, voi non potete essere veramente devoti, non potete essere
presi, non potete fare questa esperienza di corrispondenza, che è l’aspira-
zione di ogni uomo». Mi raccontava qualche tempo fa un amico che a
un certo punto, avendo incominciato a fare esperienza di questo Altro, si
è sorpreso di un canto ascoltato tante volte: «L’anima mia ha sete del Dio
vivente: quando vedrò il Suo volto?», e ha sentito tutto lo struggimento e
il desiderio di vedere il Suo volto. A un certo momento, stando su questa
strada, se non riduciamo la sequela alla nostra misura, ci sorprendiamo
a desiderare qualcosa che, soltanto qualche anno fa – come lui mi diceva
–, non ci saremmo mai sognati. Non è che lui non avesse mai sentito
questo canto, ma l’ha potuto riscoprire nel suo valore per quello che stava
vivendo. Se non facciamo un cammino, ci perdiamo il meglio. Invece,
quando facciamo un cammino, le cose cominciano a parlarci, cominciano
ad avere un’intensità, un calore, un di più, che è quello che rende la
vita diversa, e non perché succedano cose spettacolari: no, un canto, che
ho sentito migliaia di volte, a un certo punto acquista un peso, un calore,
una intensità mai percepita prima; o il vedere la faccia di un amico o il
mangiare insieme o il giocare a pallone. Per sperimentare la novità pro-
messa da Cristo non abbiamo bisogno d’altro che del mangiare, del bere,
dello stare insieme, dello studiare.
Scrive Lewis: «Quello che mi piace dell’esperienza [cioè di questa espe-
rienza di corrispondenza che io mi trovo addosso] è che si tratta di una
cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate; ma tenete gli
occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima
che appaia il cartello giusto. Potete avere ingannato voi stessi [per anni],
ma l’esperienza non sta cercando di ingannarvi. L’universo risponde il
vero quando lo interrogate onestamente».La vera questione è se noi
vogliamo seguire, se siamo disponibili a seguire un maestro così come
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ci viene proposto. Quello che ci propone don Giussani non è altro che
quello che vediamo testimoniato nel vangelo del rapporto di Gesù con
i discepoli: non cedeva mai a un altro tipo di sequela che non fosse il
seguire il disegno di un Altro. Gesù sapeva meglio di tutti i suoi discepoli
di che cosa era fatto il cuore dell’uomo; l’aveva fatto Lui, l’aveva fatto
Lui per l’infinito, sapeva che se non fossero arrivati a questo Altro, non
sarebbero stati presi. Molti potranno proporvi altre modalità di sequela.
Se vi accontentate con meno di quello che abbiamo detto, andate pure,
ma non sarà mai lo stesso, perché non decidiamo noi, né decidete voi, né
decidono loro che cosa ci corrisponde: l’esperienza è onesta; qui non è
un problema di opinioni, non è un problema di schieramenti, non è un
problema di interpretazioni, come pensano tanti, non è di niente di tutto
questo, è un problema di corrispondenza. E voi dovete decidere se volete
crescere, crescere fino al punto di seguire la corrispondenza, o se volete
sentire una o l’altra delle opinioni in circolazione. È il tempo della persona
e ciascuno di voi ha il detector per scoprire se è vero o non è vero ciò
che vi viene proposto: si chiama «corrispondenza».
Solo se seguiamo possiamo contribuire a quello che il Papa ci chiede
per la Giornata Mondiale della Gioventù prossima: «Cari amici, non
dimenticate mai che il primo atto di amore che potete fare verso il prossimo
è quello di condividere la sorgente della nostra speranza: chi non dà Dio,
dà troppo poco!».Noi possiamo offrire ai nostri amici in università, ai
nostri compagni, la grazia che ci è capitata: ci è capitata, è capitata a noi
per il mondo, per la missione, per poter condividere con tutti quello che a
noi è stato dato. Lo abbiamo visto: poiché qualcuno ha detto di sì, tanti di
coloro di cui abbiamo letto le lettere, quando sono arrivati in università,
hanno potuto trovare un fatto di vita che ha ridestato in loro la speranza.
Qualsiasi altra cosa sarebbe stata troppo poco. Dobbiamo condurre
le persone a incontrare il Dio vivente: «Siate voi il cuore e le braccia di
Gesù! [dice il Papa]. Andate a testimoniare il suo amore, siate i nuovi
missionari animati dall’amore e dall’accoglienza!».Siate voi il cuore e le
braccia di Gesù. Ma per poter «offrire ai nostri fratelli uomini – abbiamo
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detto dopo il Sinodo nella lettera – un fatto di vita, occorre che maturi in
ciascuno di noi una autocoscienza tale della nostra dipendenza originale
da farci rinascere in qualsiasi buio; ed è necessario essere talmente presi
dall’avvenimento di Cristo che la Sua memoria domini le nostre giornate,
perché mai sono di più me stesso come quando Tu, Cristo, mi accadi e mi
invadi con la Tua presenza».Dice una nostra amica: «Noi del CLU non
siamo in molti [vive in una cittadina], ma quello di cui mi sono accorta
è che quando tu dici che è “il tempo della persona” la mossa è veramente
personale. Provo a spiegarmi. Scrivevi nella lettera alla Fraternità: “Il nostro
contributo si può inserire solo nel dinamismo messo in moto da Dio
stesso attraverso il suo Spirito”. È proprio vero, accade così. Ti racconto
due piccoli fatti. Durante una Scuola di comunità entra un ragazzo nella
stanza e chiede: “Questa è CL?” e una di noi [erano quattro gatti]: “Sì,
CL è questa”. E lui: “Posso fermarmi con voi?” [Un fatto di vita non è un
problema di dimensioni, ma di diversità]. Io ho avuto la certezza che non
mi devo preoccupare di nulla se non seguire chi abbraccia la mia vita così
permettendomi in ogni istante di ritornare all’origine. Ma chi è così attento
alla mia vita e ha la carità di riaprirmi in continuazione a quel rapporto miste-
rioso che mi genera? Soltanto chi segue perché è questo che
cambia la storia». «Quello che può cambiare la storia [dice un altro] non
è tanto quello che uno riesce a fare, ma è solo un io che comincia a cambiare.
E mi viene spesso in mente la risposta data da Gesù alla domanda:
ma che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio? Gesù risponde:
“Questa è l’opera di Dio: credere in Colui che Egli ha mandato”».
Il nostro contributo al mondo e ai nostri fratelli uomini è la fede, è il rico-
noscimento di Cristo che prende noi e per questo può far brillare la Sua
presenza sulle nostre facce. È quello che ci dice il Papa – e finiamo –: «Così
sono i nuovi evangelizzatori [i nuovi testimoni]: persone che hanno fatto
l’esperienza di essere risanati da Dio, mediante Gesù Cristo.
E la loro caratteristica è una gioia del cuore».Sembra pochissimo come segno, ma
è tutto lì: la gioia del cuore, stampata sulle nostre facce.
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