sabato 22 dicembre 2012

Il Papa: ci realizziamo donandoci


 «Solo aprendosi agli altri si scopre l’ampiezza dell’essere persona umana»
il discorso pronunciato ieri da Benedetto XVI in occasione della presen­tazione degli auguri natalizi alla Curia Ro­mana. 

 S
ignori cardinali, venerati fratelli nell’e­piscopato e nel presbiterato, cari fra­telli e sorelle! Con grande gioia vi incontro oggi, cari membri del Collegio cardinalizio, rappre­sentanti della Curia Romana e del Gover­natorato, per questo tradizionale momen­to prima del Santo Natale. Rivolgo a cia­scuno un cordiale saluto, iniziando dal car­dinale Angelo Sodano, che ringrazio per le belle parole e per i fervidi auguri che mi ha indirizzato anche a nome vostro. Il cardi­nale decano ci ha ricordato un’espressione che ritorna spesso in questi giorni nella li­turgia latina: Prope est iam Dominus, veni­te, adoremus ! Il Signore è ormai vicino, ve­nite adoriamolo! Anche noi, come un’uni­ca famiglia ci disponiamo ad adorare, nel­la grotta di Betlemme, quel Bambino che è Dio stesso fattosi così vicino da diventare uomo come noi. Ricambio volentieri gli au­guri e ringrazio di cuore tutti, compresi i rappresentanti pontifici sparsi per il mon­do, per la generosa e qualificata collabora­zione che ognuno di voi presta al mio mi­nistero.
 
 Ci troviamo alla fine di un anno che nuo­vamente, nella Chiesa e nel mondo, è stato caratterizzato da molteplici situazioni tra­vagliate, da grandi questioni e sfide, ma an­che da segni di speranza. Menziono soltanto alcuni momenti salienti nell’ambito della vita della Chiesa e del mio ministero petri­no. Ci sono stati - come menzionato dal car­dinale decano - anzitutto i viaggi in Messi­co e a Cuba – incontri indimenticabili con la forza della fede, profondamente radica­ta nei cuori degli uomini, e con la gioia per la vita che scaturisce dalla fede. Ricordo che, dopo l’arrivo in Messico, ai bordi della lun­ga strada da percorrere, c’erano intermina­bili schiere di persone che salutavano, svento­lando fazzoletti e ban­diere. Ricordo che du­rante il tragitto verso Guanajuato, pittoresca capitale dello Stato o­monimo, c’erano giova­ni devotamente ingi­nocchiati ai margini del­la strada per ricevere la benedizione del succes­sore di Pietro; ricordo come la grande litur­gia nelle vicinanze della statua di Cristo Re sia diventata un atto che ha reso presente la regalità di Cristo – la sua pace, la sua giu­stizia, la sua verità. Tutto ciò sullo sfondo dei problemi di un Paese che soffre per mol­teplici forme di violenza e per le difficoltà di dipendenze economiche. Sono problemi che, certo, non possono essere risolti sem­plicemente mediante la religiosità, ma lo possono ancor meno senza quella purifi­cazione interiore dei cuori che proviene dal­la forza della fede, dall’incontro con Gesù Cristo. E c’è stata poi l’esperienza di Cuba – anche qui le grandi liturgie, nei cui canti, preghiere e silenzi si è resa percepibile la presenza di Colui al quale, per molto tem­po, si era voluto rifiuta­re un posto nel Paese. La ricerca, in quel Paese, di una giusta impostazio­ne del rapporto tra vin­coli e libertà, sicura­mente non può riuscire senza un riferimento a quei criteri di fondo che si sono manifestati all’u­manità nell’incontro con il Dio di Gesù Cristo. Quali ulteriori tappe dell’anno che volge al termine, vorrei menzionare la grande Festa della Famiglia a Milano, come anche la vi­sita in Libano con la consegna dell’Esorta­zione apostolica postsinodale, che ora do­vrà costituire, nella vita delle Chiese e della società in Medio Oriente, un orientamento sulle difficili vie dell’unità e della pace. L’ avvenimento importante di questo an­no che sta tramontando è stato il Sinodo sulla Nuova evangelizzazione che è stato contemporaneamente un inizio comunita­rio dell’Anno della fede, con cui comme­moriamo l’inaugurazione del Concilio Va­ticano II, cinquant’anni orsono, per com­prenderlo e assimilarlo nuovamente nella mutata situazione.
  Con tutte queste occasioni si sono toccati temi fondamentali del nostro momento sto­rico: la famiglia (Milano), il servizio alla pa­ce nel mondo e il dialogo interreligioso (Li­bano), come anche l’annuncio del messag­gio di Gesù Cristo nel nostro tempo a colo­ro che ancora non l’hanno incontrato e ai tanti che lo conoscono soltanto dall’ester­no e, proprio per questo, non lo ri-cono­scono. Tra queste grandi tematiche vorrei ri­flettere un po’ più dettagliatamente soprat­tutto sul tema della famiglia e sulla natura del dialogo, per aggiungere poi ancora una breve annotazione sul tema della Nuova e­vangelizzazione.
  La grande gioia con cui a Milano si sono in­contrate famiglie provenienti da tutto il mondo ha mostrato che, nonostante tutte le impressioni contrarie, la famiglia è forte e viva anche oggi. È incontestabile, però,
 anche la crisi che – particolarmente nel mondo occidentale – la minaccia fino nel­le basi. Mi ha colpito che nel Sinodo si sia ripetutamente sottolineata l’importanza della famiglia per la trasmissione della fede come luogo autentico in cui si trasmettono le forme fondamentali dell’essere persona umana. Le si impara vivendole e anche sof­frendole insieme. Così si è reso evidente che nella questione della fa­miglia non si tratta sol­tanto di una determina­ta forma sociale, ma del­la questione dell’uomo stesso – della questione di che cosa sia l’uomo e di che cosa occorra fare per essere uomini in modo giusto. Le sfide in questo contesto sono complesse. C’è anzitut­to la questione della capacità dell’uomo di legarsi oppure della sua mancanza di lega­mi. Può l’uomo legarsi per tutta una vita? Corrisponde alla sua natura? Non è forse in contrasto con la sua libertà e con l’ampiez­za della sua autorealizzazione? L’uomo di­venta se stesso rimanendo autonomo e en­trando in contatto con l’altro solo median­te relazioni che può interrompere in ogni momento? Un legame per tutta la vita è in contrasto con la libertà? Il legame merita anche che se ne soffra? Il rifiuto del legame umano, che si diffonde sempre più a causa di un’errata comprensione della libertà e dell’autorealizzazione, come anche a mo­tivo della fuga davanti alla paziente sop­portazione della sofferenza, significa che l’uomo rimane chiuso in se stesso e, in ultima a­nalisi, conserva il pro­prio “io” per se stesso, non lo supera veramen­te. Ma solo nel dono di sé l’uomo raggiunge se stesso, e solo aprendosi all’altro, agli altri, ai figli, alla famiglia, solo la­sciandosi plasmare nel­la sofferenza, egli scopre l’ampiezza dell’essere persona umana. Con il rifiuto di questo legame scompaiono an­che le figure fondamentali dell’esistenza u­mana: il padre, la madre, il figlio; cadono dimensioni essenziali dell’esperienza del­l’essere persona umana. 
 Il gran rabbino di Francia, Gilles Bernheim, in un trattato accuratamen­te documentato e profondamente toc­cante, ha mostrato che l’attentato, al quale oggi ci troviamo esposti, all’autentica forma della famiglia, costituita da padre, madre e figlio, giunge ad una dimensione ancora più profonda. Se finora avevamo visto come causa della crisi della famiglia un frainten­dimento dell’essenza della libertà umana, ora diventa chiaro che qui è in gioco la vi­sione dell’essere stesso, di ciò che in realtà significa l’essere uomini. Egli cita l’afferma­zione, diventata famosa, di Simone de Beau­voir: «Donna non si nasce, lo si diventa» (« On ne naît pas femme, on le devient »). In queste parole è dato il fondamento di ciò che oggi, sotto il lemma “gender ”, viene presentato co­me nuova filosofia della sessualità. Il sesso, secondo tale filosofia, non è più un dato o­riginario della natura che l’uomo deve ac­cettare e riempire personalmente di senso, bensì un ruolo sociale del quale si decide autonomamente, mentre finora era la so­cietà a decidervi. La profonda erroneità di questa teoria e della rivoluzione antropolo­gica in essa soggiacente è evidente. L’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeità, che caratterizza l’esse­re umano. Nega la propria natura e decide che essa non gli è data come fatto precosti­tuito, ma che è lui stesso a crearsela. Secon­do il racconto biblico della creazione, ap­partiene all’essenza della creatura umana di essere stata creata da Dio come maschio e come femmina. Questa dualità è essenziale per l’essere umano, così come Dio l’ha da­to. Proprio questa dualità come dato di par­tenza viene contestata. Non è più valido ciò che si legge nel racconto della creazione: «Maschio e femmina Egli li creò» ( Gen 1,27).
  No, adesso vale che non è stato Lui a crear­li maschio e femmina, ma finora è stata la so­cietà a determinarlo e adesso siamo noi stes­si a decidere su questo. Maschio e femmina come realtà della creazione, come natura della persona umana non esistono più. L’uo­mo contesta la propria natura. Egli è ormai solo spirito e volontà. La manipolazione del­la natura, che oggi deploriamo per quanto riguarda l’ambiente, diventa qui la scelta di fondo dell’uomo nei confronti di se stesso. Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che poi sceglie per sé autonomamente qualcosa co­me sua natura. Maschio e femmina vengono contestati nella loro esi­genza creazionale di for­me della persona uma­na che si integrano a vi­cenda. Se, però, non esi­ste la dualità di maschio e femmina come dato della creazione, allora non esiste neppure più la famiglia come realtà prestabilita dalla crea­zione. Ma in tal caso an­che la prole ha perso il luogo che finora le spettava e la particolare dignità che le è pro­pria. Bernheim mostra come essa, da sog­getto giuridico a sé stante, diventi ora ne­cessariamente un oggetto, a cui si ha diritto e che, come oggetto di un diritto, ci si può procurare. Dove la libertà del fare diventa li­bertà di farsi da sé, si giunge necessaria­mente a negare il Creatore stesso e con ciò, infine, anche l’uomo quale creatura di Dio, quale immagine di Dio viene avvilito nel­l’essenza del suo essere. Nella lotta per la fa­miglia è in gioco l’uomo stesso. E si rende e­vidente che là dove Dio viene negato, si dis­solve anche la dignità dell’uomo. Chi difen­de Dio, difende l’uomo. Con ciò vorrei giungere al secondo grande tema che, da Assisi fino al Sinodo sulla Nuo­va evangelizzazione, ha pervaso tutto l’an­no che volge al termine: la questione cioè del dialogo e dell’annuncio. Parliamo anzi­tutto del dialogo. Vedo per la Chiesa nel no­stro tempo soprattutto tre campi di dialogo nei quali essa deve essere presente, nella lot­ta per l’uomo e per che cosa significhi esse­re persona umana: il dialogo con gli Stati, il dialogo con la società – in esso incluso il dia­logo con le culture e con la scienza – e, infi­ne, il dialogo con le religioni. In tutti questi dialoghi, la Chiesa parla a partire da quella luce che le offre la fede. Essa, però, incarna al tempo stesso la memoria dell’umanità che, fin dagli inizi e attraverso i tempi, è me­moria delle esperienze e delle sofferenze del- l’umanità, in cui la Chiesa ha imparato ciò che significa essere uomini, sperimentan­done il limite e la grandezza, le possibilità e le limitazioni. La cultura dell’umano, di cui essa si fa garante, è nata e si è sviluppata dal­l’incontro tra la rivelazione di Dio e l’esi­stenza umana. La Chiesa rappresenta la me­moria dell’essere uomini di fronte a una ci­viltà dell’oblio, che or­mai conosce soltanto se stessa e il proprio crite­rio di misure. Ma come una persona senza me­moria ha perso la pro­pria identità, così anche un’umanità senza me­moria perderebbe la propria identità. Ciò che, nell’incontro tra rivela­zione ed esperienza u­mana, è stato mostrato alla Chiesa va, certo, al di là dell’ambito della ragione, ma non costi­tuisce un mondo particolare che per il non credente sarebbe senza alcun interesse. Se l’uomo con il proprio pensiero entra nella ri­flessione e nella comprensione di quelle co­noscenze, esse allargano l’orizzonte della ra­gione e ciò riguarda anche coloro che non riescono a condividere la fede della Chiesa. Nel dialogo con lo Stato e con la società, la Chiesa certamente non ha soluzioni pron­te per le singole questioni. Insieme con le altre forze sociali, essa lotterà per le risposte che maggiormente corrispondano alla giu­sta misura dell’essere umano. Ciò che essa ha individuato come valori fondamentali, costitutivi e non negoziabili dell’esistenza umana, lo deve difendere con la massima chiarezza. Deve fare tutto il possibile per creare una convinzione che poi possa tra­dursi in azione politica. Nella situazione attuale dell’umanità, il dia­logo delle religioni è una condizione neces­saria per la pace nel mondo, e pertanto è un dovere per i cristiani come pure per le altre comunità religiose. Questo dialogo delle re­ligioni ha diverse dimensioni. Esso sarà in­nanzi tutto semplicemente un dialogo del­la vita, un dialogo della condivisione prati­ca. In esso non si parlerà dei grandi temi del­la fede – se Dio sia trinitario o come sia da intendere l’ispirazione delle Sacre Scritture ecc. Si tratta dei problemi concreti della con­vivenza e della responsabilità comune per la società, per lo Stato, per l’umanità. In ciò bi­sogna imparare ad accettare l’altro nel suo essere e pensare in modo diverso. A questo scopo è necessario fare della responsabilità comune per la giustizia e per la pace il cri­terio di fondo del colloquio. Un dialogo in cui si tratta di pace e di giustizia diventa da sé, al di là di ciò che è semplicemente pragma­tico, una lotta etica circa la verità e circa l’es­sere umano; un dialogo circa le valutazioni che sono presupposte al tutto. Così il dialo­go, in un primo momento meramente pra­tico, diventa tuttavia anche una lotta per il giusto modo di essere persona umana. An­che se le scelte di fondo non sono come ta­li in discussione, gli sforzi intorno a una que­stione concreta diventano un processo in cui, mediante l’ascolto dell’altro, ambedue le parti possono trovare purificazione e ar­ricchimento. Così questi sforzi possono a­vere anche il significato di passi comuni ver­so l’unica verità, senza che le scelte di fon­do vengano cambiate. Se ambedue le parti muovono da un’ermeneutica di giustizia e di pace, la differenza di fondo non scompa­rirà, crescerà tuttavia anche una vicinanza più profonda tra loro.
  Per l’essenza del dialogo interreligioso, oggi in genere si considerano fondamentali due
 regole: 1. Il dialogo non ha di mira la conversione, bensì la comprensione. In questo si distin­gue dall’evangelizzazione, dalla missione.
  2. Conformemente a ciò, in questo dialogo ambedue le parti restano consapevolmen­te nella loro identità, che, nel dialogo, non mettono in questione né per sé né per gli
 altri.
  Queste regole sono giu­ste. Penso, tuttavia, che in questa forma siano formulate troppo super­ficialmente. Sì, il dialogo non ha di mira la con­versione, ma una mi­gliore comprensione re­ciproca: ciò è corretto. La ricerca di conoscenza e di comprensione, però, vuole sempre essere an­che un avvicinamento
 alla verità. Così, ambedue le parti, avvici­nandosi passo passo alla verità, vanno in a­vanti e sono in cammino verso una più gran­de condivisione, che si fonda sull’unità del­la verità. Per quanto riguarda il restare fede­li alla propria identità: sarebbe troppo poco se il cristiano con la sua decisione per la pro­pria identità interrompesse, per così dire, in base alla sua volontà, la via verso la verità. Allora il suo essere cristiano diventerebbe qualcosa di arbitrario, una scelta semplice­mente fattuale. Allora egli, evidentemente, non metterebbe in conto che nella religio­ne si ha a che fare con la verità. Rispetto a questo direi che il cristiano ha la grande fi­ducia di fondo, anzi, la grande certezza di fondo di poter prendere tranquillamente il largo nel vasto mare della verità, senza do­ver temere per la sua identità di cristiano. Certo, non siamo noi a possedere la verità, ma è essa a possedere noi: Cristo, che è la Ve­rità, ci ha presi per mano, e sulla via della nostra ricerca appassionata di conoscenza sappiamo che la sua mano ci tiene salda­mente. L’essere interiormente sostenuti dal­la mano di Cristo ci rende liberi e al tempo stesso sicuri. Liberi: se siamo sostenuti da Lui, possiamo entrare in qualsiasi dialogo a­pertamente e senza paura. Sicuri, perché E­gli non ci lascia, se non siamo noi stessi a staccarci da Lui. Uniti a Lui, siamo nella lu­ce della verità. Alla fine, è doverosa ancora una breve an­notazione sull’annuncio, sull’evangelizza­zione, di cui infatti, a seguito delle propo­ste dei Padri sinodali, parlerà ampiamente il documento postsinodale. Trovo che gli e­lementi essenziali del processo di evange­lizzazione appaiano in modo molto elo­quente nel racconto di san Giovanni sulla chiamata di due discepoli del Battista, che diventano discepoli di Cristo (cfr Gv 1,35­39). C’è anzitutto il semplice atto dell’an­nuncio. Giovanni Battista addita Gesù e di­ce: «Ecco l’agnello di Dio!» Un po’ più avanti l’evangelista racconta un evento simile. Questa volta è Andrea che dice a suo fratel­lo Simone: «Abbiamo trovato il Messia» (1,41). Il primo e fondamentale elemento è il semplice annuncio, ilkerigma , che attin­ge la sua forza dalla convinzione interiore dell’annunciatore. Nel racconto dei due di­scepoli segue poi l’ascolto, l’andare dietro i passi di Gesù, un seguire che non è ancora sequela, ma piuttosto una santa curiosità, un movimento di ricerca. Sono, infatti, am­bedue persone alla ricerca, persone che, al di là del quotidiano, vivono nell’attesa di Dio – nell’attesa perché Egli c’è e quindi si mostrerà. Toccata dall’annuncio, la loro ri­cerca diventa concreta. Vogliono conosce­re meglio Colui che il Battista ha qualifica­to come Agnello di Dio. Il terzo atto poi prende avvio per il fatto che Ge­sù si volge indietro, si volge verso di essi e do­manda loro: «Che cosa cercate?». La risposta dei due è, nuovamente, una domanda che indica l’a­pertura della loro attesa, la disponibilità a fare nuovi passi. Domanda­no: «Rabbì, dove dimo­ri? » La risposta di Gesù: «Venite e vedrete!» è un invito ad accompa­gnarlo e, camminando con Lui, a diventa­re vedenti. La parola dell’annuncio diventa efficace là dove nell’uomo esiste la disponibilità doci­le per la vicinanza di Dio; dove l’uomo è in­teriormente in ricerca e così in cammino verso il Signore. Allora, l’attenzione di Gesù per lui lo colpisce al cuore e poi l’impatto con l’annuncio suscita la santa curiosità di conoscere Gesù più da vicino. Questo an­dare con Lui conduce al luogo dove Gesù a­bita, nella comunità della Chiesa, che è il suo Corpo. Significa entrare nella comunio­ne itinerante dei catecumeni, che è una co­munione di approfondimento e, insieme, di vita, in cui il camminare con Gesù ci fa di­ventare vedenti. «Venite e vedrete!». Questa parola che Gesù rivolge ai due discepoli in ricerca, la rivolge anche alle persone di oggi che sono in ri­cerca. Alla fine dell’anno vogliamo pregare il Signore, affinché la Chiesa, nonostante le proprie povertà, diventi sempre più ricono­scibile come sua dimora. Lo preghiamo per­ché, nel cammino verso la sua casa, renda anche noi sempre più vedenti, affinché pos­siamo dire sempre meglio e in modo sem­pre più convincente: Abbiamo trovato Co­lui, del quale è in attesa tutto il mondo, Ge­sù Cristo, vero Figlio di Dio e vero uomo. In questo spirito auguro di cuore a tutti voi un Santo Natale e un felice Anno nuovo. Grazie. 
 Benedetto XVI
 

Nessun commento: