LA CRISI E LA PERSONA
Bernhard Scholz( presidente Compagnia delle Opere) . Questi tempi sono caratterizzati da una difficoltà per chi fa opere e impresa. Tutto sembra venire giù come durante un terremoto. Nell’assemblea scorsa, abbiamo riscoperto come essere liberi e non schiavi delle circostanze e come vivere con una capacità costruttiva che tanti ci hanno testimoniato. Oggi ci troviamo a navigare “controvento”, che cosa ci può aiutare ad avere audacia e realismo?
Julián Carrón (presidente Fraternità Comunione e Liberazione). È solo con tremore che accetto l’invito dei miei amici di rivolgermi a voi che siete i veri protagonisti in questo terremoto. La ragione per cui può essere utile parlarvi è aiutarvi a rendervi più consapevoli che ciascuno di voi, imprenditori o coinvolti a vario titolo nella azienda, siete persone. Può sembrare la scoperta dell’acqua calda, ma non mi sembra che sia così banale. È proprio questo che tutti danno per scontato, riducendo la persona alle proprie capacità. Ma la persona è una. Dire che l’imprenditore è una persona vuol dire che prima di qualsiasi altra cosa ha bisogno di una consistenza personale senza la quale tutto il resto, a cominciare dalle sue capacità, risulta insufficiente. È fin troppo evidente oggi che il terremoto colpisce il centro del proprio io, la sua consistenza. In questo senso la crisi può essere una occasione preziosa per scoprire la verità di sé, dove è la propria consistenza, e così porre un fondamento adeguato per affrontare la situazione, la sfida che abbiamo davanti e che non è mai slegata dall’esercizio della propria professione.
Ma che cos’è l’io di ciascuno di noi? Il genio di Dante viene in nostro aiuto: «Ciascun confusamente un bene apprende / nel qual si queti l’animo, e disira: / per che di giugner lui ciascun contende» (Purgatorio, XVII, vv. 127-129). Dove un io così costituito, con questo desiderio di bene che ci costituisce, può trovare la propria consistenza per potere resistere in mezzo a un terremoto? È proprio qui la sfida più vera delle circostanze che ci troviamo ad affrontare. Per trovare una risposta non bastano opinioni, interpretazioni, chiacchiere, che lasciano il tempo che trovano. Occorre che ciascuno guardi nella propria esperienza (o nell’esperienza altrui) che cosa ha la consistenza di tenerlo in piedi. San Tommaso ci fornisce il criterio della consistenza: «La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione» (S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIa, IIae, q. 179, a.1 co). Per avere consistenza, dunque, occorre trovare quell’affetto in grado di sostenere la vita, proprio perché poggia tutto sulla propria soddisfazione.
È a questo livello che come cristiani possiamo offrire il nostro semplice contributo: se noi per primi accettiamo la verifica della fede nelle odierne circostanze. Solo chi ha fatto questa verifica, infatti, può fornire la conferma che solo Cristo, presente nella Chiesa, corrisponde alle esigenze costitutive del cuore dell’uomo. Come ha ricordato mercoledì scorso Benedetto XVI, «Cristo, Lui solo appaga i desideri di verità e di bene [di cui parla Dante] radicati nell’anima di ogni uomo» (Udienza generale, 21 novembre 2012). Solo Cristo, quindi, assicura una soddisfazione tale da generare un affetto capace di sostenere la vita in qualsiasi eventualità, rivelandosi un’ancora sicura in mezzo al terremoto. È qui dove si vede se la sfida delle circostanze ha maturato in noi una certezza che ci consente di offrire ai nostri fratelli uomini un punto d’appoggio sicuro. Solo Lui può essere il fondamento adeguato di un’amicizia operativa come la vostra. Infatti, solo nella compagnia di amici veri sarete in grado di guardare la realtà della vostra azienda con verità, senza essere vinti dalla paura che vi impedisce di riconoscere come stanno le cose, unica condizione per poterle affrontare con qualche possibilità di successo. Una compagnia di amici che vi sorregga a guardare tutti i segni della situazione in cui ciascuno si trova senza censurarne nessuno, che vi incoraggi e vi sostenga nella disponibilità a riconoscere e obbedire all’indicazione di tutto quello che occorre cambiare, che vi suggerisca e vi aiuti ad avere l’audacia di prendere delle decisioni anche rischiose che siano più adeguate per affrontare le sfide che avete davanti.
Tutto, se confermato nell’esperienza, vi farà scoprire il valore più prezioso della vostra amicizia: quello di essere sostegno a uno sguardo più vero sul reale. Paragonato a questo, qualsiasi altro tornaconto o vantaggio di qualunque tipo è troppo poco, per tempi di terremoto e non.
San Tommaso ha colto bene la natura della sfida: «Dalla natura scaturisce il terrore della morte, dalla grazia scaturisce l’audacia [parola che avete scelto come titolo di questo incontro]» (cfr. S. Tommaso d’Aquino, Super Secundam ad Corinthios, 5, 2). «“Dalla grazia scaturisce l’audacia” vuol dire allora: da una Presenza diversa da noi scaturisce in noi l’audacia» (L. Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, Edit-Il Sabato, Roma 1993, p. 308). Potrò avere l’audacia di cui ho bisogno solo se sono disponibile a poggiare tutto quanto su quella presenza, su quella compagnia vera che mi offre il punto d’appoggio per rischiare. Perciò, diceva don Giussani, «emblematica dell’audacia è La navigazione di Andrea Pisano (una piccola scultura […]). Vi si stagliano due discepoli sulla barca che, fendendo le acque del lago, remano, tanto tesi quanto calmi e sicuri, verso l’altra riva: dietro di loro, sulla barca, c’è Gesù. Il cammino, il passaggio, la traversata verso il destino, diventa infatti possibile solo quando c’è una presenza (se uno fosse da solo a remare, gli si annebbierebbe la vista, subito si fermerebbe). Il cammino diventa semplice se c’è una presenza, cioè, diciamo subito la parola: se c’è una compagnia» (Ivi).
L’ORIGINE E L’OPERA
Scholz. Tante opere e imprese associate alla CdO nascono da persone appartenenti all’esperienza cristiana, spesso vissuta nel movimento di Comunione e Liberazione. Come questa origine si riverbera nell’opera? Come si riverbera nell’impresa?
Carrón. Ti ringrazio di questa domanda perché in questi tempi è particolarmente urgente chiarire qual è il rapporto tra il movimento di Comunione e Liberazione e le opere fatte da persone educate nel movimento.
1) Lo scopo del movimento di Comunione e Liberazione è educativo: educare persone che possano poi, assumendosi la propria responsabilità, prendere l’iniziativa di generare opere; e questa è una responsabilità affidata totalmente all’adulto. Il movimento non entra nella gestione dell’opera, perché sarebbe come ammettere che il movimento non è capace di generare adulti che si prendano la propria responsabilità; e questo sarebbe il fallimento totale dell’esperienza di un movimento come il nostro. Non è che il movimento si disinteressi delle opere. No. Il movimento si interessa, è presente svolgendo il compito suo proprio, cioè attraverso la generazione dell’adulto. Don Giussani era talmente convinto che il movimento poteva generare soggetti adulti che ha lasciato totalmente nelle mani delle persone la responsabilità dell’opera che creano; non ha sentito il bisogno di mettere un «guardiano» per tenere sotto osservazione le persone. Ha scommesso e “rischiato” tutto sulla consapevolezza della responsabilità degli adulti.
2) L’opera è interamente di chi la fa, quindi non c’è un’opera “del” movimento. Il movimento non ha opere, tranne l’Istituto Sacro Cuore che don Giussani ha voluto come un esempio per tutti nell’ambito educativo. Per questo, nessun’altra opera è sotto la responsabilità diretta del movimento. Il movimento non fa parte del Consiglio di amministrazione di questa o quell’opera, e quindi, non facendone parte, non si assume la responsabilità delle decisioni che prende un Consiglio di amministrazione. Mi sembra che la questione sia semplice.
Tutte le persone che come adulti decidono di dare vita a un’opera, devono avere la consapevolezza della loro responsabilità totale dell’opera. Questo è particolarmente importante perché a volte si nota proprio una mancanza di questa consapevolezza. E così può capitare che si lascino andare le cose su cui occorrerebbe intervenire, invece di assumersene la responsabilità come adulti. Se tutti fossero veramente consapevoli della loro responsabilità, certe cose non accadrebbero.
Questa è una chiamata alla responsabilità personale in quanto adulti, e quindi è una sfida a crescere in questa autocoscienza nel modo di gestire le opere in cui siete coinvolti. Questa assunzione di responsabilità è una parte di questa crescita del soggetto che tutti ci auguriamo. È questa la responsabilità del laico che la Chiesa vuole che ciascuno si assuma, affinché nel fare le cose possa testimoniare tutta la novità della vita cristiana, tutta la novità che nasce dalla creatura nuova. Per questo mi sembra che ci sia tanta strada da fare, e non perché non ci siano tante esperienze stupende tra di voi, ma perché occorre imparare da quello che accade, o dalle possibili deficienze che si possono rilevare nelle opere, per prendere consapevolezza ed evitare sbagli o rischi che ci si trova tante volte ad affrontare.
La capacità di un adulto - che partecipa dell’esperienza di Comunione e Liberazione - di generare opere è un segno della vivacità del movimento, della sua energia educativa di generare persone sensibili ai bisogni degli altri e in grado di mettersi insieme per realizzare iniziative, opere, che costituiscano risposte adeguate ai bisogni. A questo non rinunceremo mai. Quante volte resto senza parole davanti a tanta creatività, iniziativa e generosità! Questo è il frutto dell’educazione ricevuta nel movimento di Comunione e Liberazione. È una cosa bellissima, che testimonia la capacità che ha la fede di generare soggetti in grado di diventare protagonisti attraverso la realizzazione di opere. Una tale ricchezza di iniziative è un fatto, un dato evidente a tutti, e non può essere messa in discussione a causa dei limiti di ciascuno o degli sbagli che chiunque può commettere. Anzi, riconoscerli, chiedere scusa e correggersi rappresenta la possibilità di riprendere coscienza della propria responsabilità nelle opere in cui ci si impegna. Non si può mettere a rischio tale ricchezza per una mancanza di responsabilità personale.
Fa parte di questa responsabilità, oltre al realismo e alla prudenza nel realizzare le opere che Dio permette di fare, il far risplendere in esse la loro diversità, per esempio, nel modo di trattare il personale così come nel modo di rapportarsi ai clienti e ai fornitori. Sembrano segni quasi banali, ma tutti sappiamo che “gridano” la diversità di un’opera.
Ma prima di finire questo punto, vorrei approfittare di questa occasione per dire una cosa a riguardo della CdO, spesso presentata dai giornali come il «braccio economico» di Cl e che porta taluni a pensare che Cl dipenda economicamente dalla CdO. Niente di più lontano dalla realtà.
Fin dall’inizio il movimento è vissuto esclusivamente grazie ai sacrifici economici delle persone che vi aderiscono. Chi appartiene al movimento, si impegna a versare mensilmente una quota di denaro liberamente stabilita, il cosiddetto «fondo comune», che don Giussani ha sempre indicato come gesto educativo a una concezione comunionale di ciò che si possiede, alla coscienza della povertà come virtù evangelica e come gesto di gratitudine per quello che si vive nel movimento. Proprio per la ragione educativa detta, non è rilevante l’entità della quota che ciascuno versa, ma la serietà con la quale si rimane fedeli all’impegno preso. Per sostenere la vita delle nostre comunità in Italia e nel mondo e le iniziative caritatevoli, missionarie e culturali, il movimento di Comunione e Liberazione non ha bisogno d’altro; e per questo siamo liberi da tutto e da tutti nello svolgere il nostro compito come movimento.
LA RESPONSABILITÀ
Scholz. Spesso l’appartenenza alla Chiesa o a un movimento ecclesiale viene vista come un limite alla responsabilità personale, mentre tu insisti sul fatto che proprio una tale appartenenza favorisce l’assunzione di responsabilità. In che cosa consiste questo potenziamento della responsabilità attraverso un’appartenenza?
Carrón. Tutto dipende da come si concepisce il nesso tra appartenenza e responsabilità. Ci sono tipi di appartenenza che, invece di aiutarlo a maturare, a crescere nella sua responsabilità, si sostituiscono al soggetto che appartiene. Quasi che l’appartenenza a un certo gruppo potesse risparmiare il rischio di una responsabilità personale e giustificasse come un a priori il proprio comportamento. C’è, invece, una appartenenza che genera la persona nella sua responsabilità, nella sua libertà, nella sua iniziativa. Appunto, risveglia tutte le energie nascoste del soggetto.
«La dimensione comunitaria - diceva don Giussani - rappresenta non la sostituzione della libertà, non la sostituzione della energia e della decisione personale, ma la condizione dell’affermarsi di essa. Se io metto un seme di faggio sul tavolo, anche dopo mille anni (posto che tutto rimanga tale e quale) non si svilupperà niente. Se io prendo questo seme e lo metto dentro la terra, esso diventa pianta. Non è l’humus che sostituisce l’energia irriducibile, la “personalità” incomunicabile del seme: l’humus è la condizione perché il seme cresca.
La comunità è la dimensione e la condizione perché il seme umano dia il suo frutto. Per questo la vera persecuzione, la più intelligente, è quella che ha usato il mondo moderno, non quella che ha usato Nerone con il suo anfiteatro. La vera persecuzione non sono le fiere, non sono neanche i lager. La persecuzione più accanita è l’impedimento che lo Stato cerca di realizzare all’esprimersi della dimensione comunitaria del fenomeno religioso.
Così per lo Stato moderno l’uomo può credere tutto quello che vuole, in coscienza: ma fino a quando questa fede non implichi come suo contenuto che tutti i credenti siano una cosa sola e che perciò abbiano il diritto di vivere e di esprimere questa realtà. Impedire l’espressione comunitaria è come tagliare alle radici la alimentazione della pianta; la pianta poco dopo muore» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, pp. 182-183). Mi sembra che abbiamo davanti tanti esempi di che cosa accade quando si impedisce questa possibilità, questa espressione comunitaria decisiva per il crescere delle persone.
Il test dell’appartenenza è la sua capacità di far fruttificare il seme, cioè di generare adulti con una capacità di stare nel reale, di giudicare, di capire la realtà, di essere disponibili all’ascolto di essa. A questo livello non bastano affermazioni di principio. Occorrono testimonianze che documentino che le persone fioriscono nell’appartenenza e che l’appartenenza genera le persone.
Scholz. Ci sono persone che con il loro talento e temperamento hanno avuto il dono di creare opere e imprese. Si sono messe in gioco personalmente, si sono assunte una propria responsabilità. Ma in alcuni casi questo impegno personale diventa un personalismo, un accentramento su di sé, con una relativizzazione dei criteri oggettivi. Questo personalismo si evidenzia, poi, anche nella difficoltà del passaggio generazionale. Da dove nasce questo personalismo e quale sarebbe la strada per una reale valorizzazione della persona responsabile?
Carrón. Il personalismo è un tentativo sbagliato di risolvere il problema della vita, di raggiungere quel compimento per cui valga la pena vivere. Peccato che quel tentativo nasca dall’incapacità di capire la natura dell’io e dal non aver trovato risposta adeguata alle sue esigenze. «La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito», abbiamo ricordato al Meeting scorso. Se non ci rendiamo conto che siamo «fatti per l’infinito», cerchiamo consapevolmente o inconsapevolmente di rispondere al nostro bisogno umano - dicevi - con un «accentramento su di sé» che non potrà mai soddisfare il desiderio d’infinito che ci costituisce. Oltre che sbagliato, il personalismo è inutile per rispondere all’esigenza per cui si fa.
Ma questo personalismo è possibile soltanto grazie alla connivenza di tutti coloro che pensano di risolvere il problema della loro vita scaricando la loro responsabilità su chi esercita tale personalismo, il cosiddetto «responsabile» (tutti possiamo essere conniventi con questo personalismo). Allora «il rapporto con il responsabile, quando è seguito perché è il capo dell’organizzazione sulla quale si sono scaricate tutte le speranze e dalla quale si pretende l’attuazione del proprio progetto, tende ad essere assolutamente chiuso in una dipendenza individualistica.
L’obbedienza che si instaura è obbedienza all’organizzazione, di cui il responsabile è il punto cruciale e il guardiano, e questo elimina la creatività delle nostre persone, perché tutto è stabilito e definito dalla struttura a cui si aderisce, tutto diventa schema» (L. Giussani, Il rischio educativo, SEI, Torino 1995, p. 63).
Come si esce dal personalismo?
Dal personalismo si esce come si esce da qualsiasi idolatria: trovando una presenza talmente vera che provoca per la promessa di compimento che la sua stessa esistenza pone davanti a noi. Solo chi si rende bene conto della vera natura del proprio bisogno umano può capire che quello che risponde ad esso è soltanto la sequela di quella presenza che ci provoca per la promessa che contiene. Ma la chiave sta nella concezione stessa della sequela. La sequela non può essere concepita come un eseguire ordini di uno sul quale si ha scaricato la propria responsabilità con la speranza che l’altro risolva il problema della propria vita.
«La sequela è il desiderio - diceva don Giussani - di rivivere l’esperienza della persona che ti ha provocato e ti provoca con la sua presenza nella vita della comunità, è la tensione a diventare non come quella persona nella sua concretezza piena di limiti, ma come quella persona nel valore a cui si dà e che redime in fondo anche la sua faccia di povero uomo; è il desiderio di partecipare alla vita di quella persona nella quale ti è portato qualcosa d’Altro, ed è questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui aspiri, cui vuoi aderire, dentro questo cammino» (Ibidem, p. 64).
Solo uno impegnato nel rivivere l’esperienza della persona che l’ha provocato, può arrivare all’Altro, a Colui in cui trova ciò a cui aspira: non avendo più bisogno di accentrare tutto e tutti su di sé, può finalmente liberarsi da ogni personalismo.
Solo un uomo così può suscitare nell’altro il desiderio di seguire, di implicarsi e, così facendo, aiuta i suoi collaboratori a diventare se stessi, mettendoli in condizione di offrire il proprio contributo all’opera comune. In questo modo, tutte le risorse umane sono messe al servizio dell’opera.
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