È da.
È davvero così rilevante che l’assassino di Niguarda fosse un nero irregolare? In queste settimane le cronache sono state costellate di esplosioni di una follia altrettanto improvvisa e annichilente. Pensiamo solo alla famiglia pugliese sterminata da un padre fino a quel giorno ritenuto normalissimo. O alla madre ventenne brutalizzata nel Casertano da un convivente geloso. È riduttivo catalogare la tragedia di Milano come legata al cosiddetto fattore 'clandestinità': abbiamo sotto gli occhi le storie di italiani doc caduti in una distruttività o autodistruttività totale sotto agli occhi di parenti e amici, che non si erano accorti di niente. Ciò che forse facciamo fatica a ammettere è che l’assassino di Niguarda è, semplicemente, un uomo; e nemmeno tanto diverso da noi da poterlo chiamare 'mostro'.
Guardando la sua foto segnaletica colpiscono gli occhi, colmi insieme di aggressività e di paura. Gli occhi di un uomo che è scappato dal suo Paese, chissà in che modo è riuscito a arrivare in Italia, e da anni vive tra espedienti e violenza e carcere; e in questa vita da cani è stato emarginato perfino dagli irregolari suoi connazionali. Un lupo solitario in cui una miseria umana totale è stata il detonatore di una malattia probabilmente già latente. Il che non giustifica, e tantomeno consola, della terribile morte di un uomo, e, ieri, di un ragazzo di 21 anni. Però dire che Mada Kabobo è semplicemente un uomo ci sembra più realistico che addebitare a un 'altro da noi', magari con la pelle diversa, il male che ci atterrisce. È un 'topos' costante della cronaca nera, questo istinto di spiegare il male dicendo che non è nostro, che viene da fuori.
Anni fa davanti alla casa della strage di Erba, nei primi giorni, si percepiva bene questa ostilità per lo 'straniero' che, certamente, aveva massacrato anche un bambino. Quando si seppe che erano stati il netturbino e la donna delle pulizie che tutti conoscevano e tanti stimavano, su Erba piombò il gelo – e nessuno aveva più voglia di dichiarare niente ai cronisti. Il fatto è che il male esiste, e non riguarda un’etnia, ma proprio l’uomo. È una possibilità che abbiamo scritta dentro, e che scegliamo o non scegliamo (anche se in certe condizioni di disperazione a volte sembra che la nostra libertà sia spinta, e quasi trascinata verso il male). Negare che il male riguardi l’uomo in quanto tale è la dimenticanza di uomini drammaticamente distratti, o, a volte, interessati a creare capri espiatori. E se guardiamo all’alba di sabato in quella periferia di Milano, possiamo immaginare nell’uomo che si è svegliato e ha preso un piccone, dentro alla sua follia, due stati d’animo che purtroppo non sono necessariamente esclusivi dei folli. Uno è la perdita totale del desiderio di vivere, e l’altro una assoluta, spaventevole solitudine.
Elementi che potremmo ritrovare anche in molte delle tragedie delle case italiane. E se la perdita del senso a volte può ascriversi a depressione o pazzia, la solitudine invece è un’esperienza profondamente umana. Si può essere soli in una casa affollata, se non si è più in grado di dirsi davvero, o se nessuno ascolta. Si può essere soli in una famiglia in cui non sembra mancare niente, e della quale i vicini il giorno dopo diranno: mai avremmo immaginato. Il punto è non credersi radicalmente diversi, e salvi, dal male che è tracimato in Mada Kabobo, l’altra mattina, trasformandolo in una macchina cieca di morte. Se quell’uomo non è un alieno sceso fra noi, se il suo male arriva a lambire, e in questi tempi ci arriva spesso, le vite 'normali', bisognerà pure riconoscerselo addosso, e aiutarsi a cercare di arginarlo. E il primo aiuto è fra noi, è per ciascuno nella faccia dell’altro; è nel non stancarsi di guardare e ascoltare chi abbiamo davanti, e se ci è possibile allungare all’altro una mano. La possibilità di quella che l’arcivescovo di Milano Angelo Scola chiama «la vita buona», è solo in un quotidiano, ostinato, paziente essere con l’altro.
Chissà se altre tragedie non sono state evitate dal modesto gesto di qualcuno, che ha teso una mano. Chissà se ignote solidarietà non hanno fermato altre disperazioni. E certo non lo immaginano, gli autori di quei gesti, di avere, con poco magari, salvato un uomo.
Guardando la sua foto segnaletica colpiscono gli occhi, colmi insieme di aggressività e di paura. Gli occhi di un uomo che è scappato dal suo Paese, chissà in che modo è riuscito a arrivare in Italia, e da anni vive tra espedienti e violenza e carcere; e in questa vita da cani è stato emarginato perfino dagli irregolari suoi connazionali. Un lupo solitario in cui una miseria umana totale è stata il detonatore di una malattia probabilmente già latente. Il che non giustifica, e tantomeno consola, della terribile morte di un uomo, e, ieri, di un ragazzo di 21 anni. Però dire che Mada Kabobo è semplicemente un uomo ci sembra più realistico che addebitare a un 'altro da noi', magari con la pelle diversa, il male che ci atterrisce. È un 'topos' costante della cronaca nera, questo istinto di spiegare il male dicendo che non è nostro, che viene da fuori.
Anni fa davanti alla casa della strage di Erba, nei primi giorni, si percepiva bene questa ostilità per lo 'straniero' che, certamente, aveva massacrato anche un bambino. Quando si seppe che erano stati il netturbino e la donna delle pulizie che tutti conoscevano e tanti stimavano, su Erba piombò il gelo – e nessuno aveva più voglia di dichiarare niente ai cronisti. Il fatto è che il male esiste, e non riguarda un’etnia, ma proprio l’uomo. È una possibilità che abbiamo scritta dentro, e che scegliamo o non scegliamo (anche se in certe condizioni di disperazione a volte sembra che la nostra libertà sia spinta, e quasi trascinata verso il male). Negare che il male riguardi l’uomo in quanto tale è la dimenticanza di uomini drammaticamente distratti, o, a volte, interessati a creare capri espiatori. E se guardiamo all’alba di sabato in quella periferia di Milano, possiamo immaginare nell’uomo che si è svegliato e ha preso un piccone, dentro alla sua follia, due stati d’animo che purtroppo non sono necessariamente esclusivi dei folli. Uno è la perdita totale del desiderio di vivere, e l’altro una assoluta, spaventevole solitudine.
Elementi che potremmo ritrovare anche in molte delle tragedie delle case italiane. E se la perdita del senso a volte può ascriversi a depressione o pazzia, la solitudine invece è un’esperienza profondamente umana. Si può essere soli in una casa affollata, se non si è più in grado di dirsi davvero, o se nessuno ascolta. Si può essere soli in una famiglia in cui non sembra mancare niente, e della quale i vicini il giorno dopo diranno: mai avremmo immaginato. Il punto è non credersi radicalmente diversi, e salvi, dal male che è tracimato in Mada Kabobo, l’altra mattina, trasformandolo in una macchina cieca di morte. Se quell’uomo non è un alieno sceso fra noi, se il suo male arriva a lambire, e in questi tempi ci arriva spesso, le vite 'normali', bisognerà pure riconoscerselo addosso, e aiutarsi a cercare di arginarlo. E il primo aiuto è fra noi, è per ciascuno nella faccia dell’altro; è nel non stancarsi di guardare e ascoltare chi abbiamo davanti, e se ci è possibile allungare all’altro una mano. La possibilità di quella che l’arcivescovo di Milano Angelo Scola chiama «la vita buona», è solo in un quotidiano, ostinato, paziente essere con l’altro.
Chissà se altre tragedie non sono state evitate dal modesto gesto di qualcuno, che ha teso una mano. Chissà se ignote solidarietà non hanno fermato altre disperazioni. E certo non lo immaginano, gli autori di quei gesti, di avere, con poco magari, salvato un uomo.
MARINA CORRADI
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