Gli appunti dalle lezioni di Julián Carrón agli Esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione. Rimini, 19-21 aprile 2013
Città del Vaticano, 16 aprile 2013
Don Julián Carrón
Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione
Reverendo Signore,
In occasione dell’annuale corso di Esercizi Spirituali della Fraternità di Comunione e
Liberazione, che si terrà a Rimini sul tema
«Chi ci separerà dall’amore di Cristo?»,
nel contesto dell’Anno della fede, Sua Santità papa Francesco desidera rivolgere agli
organizzatori e ai numerosi partecipanti il suo cordiale e beneaugurante
saluto. Esprimendo compiacimento per la provvida iniziativa pastorale, il Santo Padre
auspica che essa susciti rinnovata adesione al
Divino Maestro e crescente
consapevolezza che il Signore è vivo e
cammina con noi e, mentre invoca abbondanti
grazie celesti, domanda un ricordo nella preghiera ed invia di cuore, per intercessione
della Vergine Maria, l’implorata benedizione apostolica, propiziatrice di sempre fecondo
cammino ecclesiale.
Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di Sua Santità
Venerdì 19 aprile, sera
All’ingresso e all’uscita:
Wolfgang Amadeus Mozart, Concerto per pianoforte e orchestra n. 23 in la maggiore,
K 488
Wilhelm Kempff, pianoforte
Ferdinand Leitner – Bamberger Symphoniker
Deutsche Grammophon
n inTRODUZiOnE
Julián Carrón
Non siamo noi che costruiamo la Chiesa, «la Chiesa non comincia
con il “fare” nostro»,1
ci ha ricordato Benedetto XVI. Non è il nostro
fare che riesce a ridestare la nostra vita. Per questo, come per i discepoli, anche per noi,
qui radunati per cominciare i nostri Esercizi spirituali,
la cosa più adeguata alla nostra povertà, alla nostra incapacità è il domandare: domandare
lo Spirito affinché sia Lui a ridestarci, a ridestare
tutto il nostro desiderio, tutta la nostra attesa di Cristo.
Discendi Santo Spirito
Saluto ciascuno di voi qui presente, tutti gli amici che sono collegati con
noi da ventuno Paesi e tutti coloro che parteciperanno agli Esercizi nelle
prossime settimane.
Inizio dando lettura del telegramma del Santo Padre: «In occasione
dell’annuale corso di Esercizi Spirituali della Fraternità di Comunione
e Liberazione, che si terrà a Rimini sul tema “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”,
nel contesto dell’Anno della fede, Sua Santità papa Francesco desidera
rivolgere agli organizzatori e ai numerosi partecipanti il
suo cordiale e beneaugurante saluto. Esprimendo compiacimento per
la provvida iniziativa pastorale, il Santo Padre auspica che essa susciti
rinnovata adesione al Divino Maestro e crescente consapevolezza che
il Signore è vivo e cammina con noi e, mentre invoca abbondanti grazie
suo cordiale e beneaugurante saluto. Esprimendo compiacimento per
la provvida iniziativa pastorale, il Santo Padre auspica che essa susciti
rinnovata adesione al Divino Maestro e crescente consapevolezza che
il Signore è vivo e cammina con noi e, mentre invoca abbondanti grazie
celesti, domanda un ricordo nella preghiera ed invia di cuore, per
intercessione della Vergine Maria, l’implorata benedizione apostolica,
1
Benedetto XVI, Meditazione nel corso della prima Congregazione
intercessione della Vergine Maria, l’implorata benedizione apostolica,
1
Benedetto XVI, Meditazione nel corso della prima Congregazione
Generale della XIII Assemblea
Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 8 ottobre 2012.
4Venerdì sera
5
propiziatrice di sempre fecondo cammino ecclesiale. Cardinale Tarcisio
Bertone, Segretario di Stato di Sua Santità».
«Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?»2
Mi sembra che questa frase esprima meglio di qualsiasi altra la vera
questione davanti alla quale si trova ciascuno di noi, in questi tempi in
modo particolare. E siccome l’abbiamo sentita tante volte, il rischio è
che soprassediamo subito, considerandola un po’ esagerata, una frase
di Gesù che, tutto sommato, non ci riguarda, come a dire: «Ma cosa
c’entra propriamente con noi? Potrà valere per gli altri, miscredenti o
agnostici. Ma per noi?». E in questo modo archiviamo la questione prima
Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 8 ottobre 2012.
4Venerdì sera
5
propiziatrice di sempre fecondo cammino ecclesiale. Cardinale Tarcisio
Bertone, Segretario di Stato di Sua Santità».
«Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?»2
Mi sembra che questa frase esprima meglio di qualsiasi altra la vera
questione davanti alla quale si trova ciascuno di noi, in questi tempi in
modo particolare. E siccome l’abbiamo sentita tante volte, il rischio è
che soprassediamo subito, considerandola un po’ esagerata, una frase
di Gesù che, tutto sommato, non ci riguarda, come a dire: «Ma cosa
c’entra propriamente con noi? Potrà valere per gli altri, miscredenti o
agnostici. Ma per noi?». E in questo modo archiviamo la questione prima
ancora di cominciare.
Ma due richiami ci indicano che non ci conviene compiere una mossa come
Ma due richiami ci indicano che non ci conviene compiere una mossa come
questa. Il primo è stato il gesto compiuto da Benedetto XVI
di indire l’Anno della fede: «Capita ormai non di rado che i cristiani
si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali
e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un
presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non
solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era
di indire l’Anno della fede: «Capita ormai non di rado che i cristiani
si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali
e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un
presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non
solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era
possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, [...] oggi non
sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una
profonda crisi di fede che ha toccato molte persone».3
Questa crisi sta
provocando effetti sempre più palesi anche in terre feconde – diceva
sempre Benedetto XVI ai vescovi italiani – che rischiano così di diventare
sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una
profonda crisi di fede che ha toccato molte persone».3
Questa crisi sta
provocando effetti sempre più palesi anche in terre feconde – diceva
sempre Benedetto XVI ai vescovi italiani – che rischiano così di diventare
«deserto inospitale».4
Per noi tutto questo dovrebbe essere familiare, perché il movimento è
nato esattamente per rispondere a questa sfida lanciata alla fede, quando
il deserto cominciava a mostrare i primi segni. Quanti di noi sono arrivati qui
Per noi tutto questo dovrebbe essere familiare, perché il movimento è
nato esattamente per rispondere a questa sfida lanciata alla fede, quando
il deserto cominciava a mostrare i primi segni. Quanti di noi sono arrivati qui
dal deserto e hanno scoperto di nuovo il valore del cristianesimo,
proprio mentre erano nel nulla!
Tuttavia questo non può farci confondere, come se la questione fosse
ormai alle nostre spalle. Ce lo testimonia questa lettera: «Il lavoro che
ci stai proponendo in questi tempi mi provoca a farmi una domanda che
mai avrei pensato di dovermi fare dopo quasi quaranta anni di movimento:
proprio mentre erano nel nulla!
Tuttavia questo non può farci confondere, come se la questione fosse
ormai alle nostre spalle. Ce lo testimonia questa lettera: «Il lavoro che
ci stai proponendo in questi tempi mi provoca a farmi una domanda che
mai avrei pensato di dovermi fare dopo quasi quaranta anni di movimento:
ma io ci credo o no? Eh sì, se si trattasse di una teoria da ripetere o
di principi da affermare non ce ne sarebbe bisogno, basterebbe imparare
6
di principi da affermare non ce ne sarebbe bisogno, basterebbe imparare
6
il discorso una volta per tutte e poi adattarlo alle diverse situazioni, e
molte volte è così. Mentre per il mondo di oggi la fede non è più un presupposto
molte volte è così. Mentre per il mondo di oggi la fede non è più un presupposto
ovvio, per me tante volte rischia di essere solo un presupposto
ovvio, già saputo, dato per scontato. Per una fede così [ridotta a questo]
la domanda è: ma ci credo o no? Questa domanda ha dentro tante volte
una vena di scetticismo o di moralismo, che nel tempo diventano insopportabili.
ovvio, già saputo, dato per scontato. Per una fede così [ridotta a questo]
la domanda è: ma ci credo o no? Questa domanda ha dentro tante volte
una vena di scetticismo o di moralismo, che nel tempo diventano insopportabili.
È come se, non bastando o non avendo coscienza di quello che
mi è accaduto e continua a riaccadere, il credere fosse l’esito di qualcosa
che devo aggiungere o applicare io. È una fatica che ti logora».
O ancora, quest’altra lettera: «Caro don Carrón, durante il nostro
gruppetto di Scuola di comunità alcuni di noi hanno raccontato la loro
esperienza. Tutti gli interventi raccontavano di un certo atteggiamento di
fronte alla vita: chi raccontava di come si sta prendendo cura dei propri
genitori, chi di un atteggiamento diverso sul lavoro che lo faceva essere
più contento, chi dava un giudizio su un certo tipo di esperienza. Tutte
cose belle e interessanti, ma che potrebbero anche essere frutto di uno
sforzo intellettuale o morale. Cosa c’entra dunque l’esperienza cristiana?
mi è accaduto e continua a riaccadere, il credere fosse l’esito di qualcosa
che devo aggiungere o applicare io. È una fatica che ti logora».
O ancora, quest’altra lettera: «Caro don Carrón, durante il nostro
gruppetto di Scuola di comunità alcuni di noi hanno raccontato la loro
esperienza. Tutti gli interventi raccontavano di un certo atteggiamento di
fronte alla vita: chi raccontava di come si sta prendendo cura dei propri
genitori, chi di un atteggiamento diverso sul lavoro che lo faceva essere
più contento, chi dava un giudizio su un certo tipo di esperienza. Tutte
cose belle e interessanti, ma che potrebbero anche essere frutto di uno
sforzo intellettuale o morale. Cosa c’entra dunque l’esperienza cristiana?
Nessuno di noi mette in dubbio l’esistenza di Dio, ma dove sta la
differenza? Chiunque si prenderebbe cura dei propri genitori, chiunque
può riuscire bene nel proprio lavoro, tutti hanno il desiderio e provano
a trattare bene il proprio fidanzato o marito o i propri figli. Mi sembra
a volte che si salti subito al dopo, alle conseguenze. Ma del fascino del
cristianesimo, di cui tante volte parliamo, che cosa rimane? Del fascino
per Cristo che cosa resta? In questo periodo sono rimasta colpita dalle
letture della Pasqua, che raccontano lo stupore degli apostoli di fronte
a Gesù risorto e la frase che si ripete in continuazione: “Credettero in
Lui”. E allora che differenza c’è tra l’essere delle brave persone e un
cristianesimo in carne e ossa?».
Se la fede diventa solo un presupposto ovvio o è ridotta a delle conseguenze
differenza? Chiunque si prenderebbe cura dei propri genitori, chiunque
può riuscire bene nel proprio lavoro, tutti hanno il desiderio e provano
a trattare bene il proprio fidanzato o marito o i propri figli. Mi sembra
a volte che si salti subito al dopo, alle conseguenze. Ma del fascino del
cristianesimo, di cui tante volte parliamo, che cosa rimane? Del fascino
per Cristo che cosa resta? In questo periodo sono rimasta colpita dalle
letture della Pasqua, che raccontano lo stupore degli apostoli di fronte
a Gesù risorto e la frase che si ripete in continuazione: “Credettero in
Lui”. E allora che differenza c’è tra l’essere delle brave persone e un
cristianesimo in carne e ossa?».
Se la fede diventa solo un presupposto ovvio o è ridotta a delle conseguenze
etiche, del fascino per Cristo cosa rimane?
Dovremmo tutti essere grati a chi, come questa amica, ci pone tale
domanda, ci costringe a guardare questa domanda, non si accontenta
delle conseguenze, ma ci sbatte in faccia questa domanda.
Il secondo richiamo arriva proprio da don Giussani, che non ha mai
smesso di sollecitarci a non dare per scontata la fede. Il motivo è semplice:
Dovremmo tutti essere grati a chi, come questa amica, ci pone tale
domanda, ci costringe a guardare questa domanda, non si accontenta
delle conseguenze, ma ci sbatte in faccia questa domanda.
Il secondo richiamo arriva proprio da don Giussani, che non ha mai
smesso di sollecitarci a non dare per scontata la fede. Il motivo è semplice:
si può appartenere al movimento – dice – senza avere una fede
reale: «Il vero problema di CL oggi è la verità della sua esperienza e,
quindi, la sua coerenza con l’origine. Tra noi esiste un atteggiamento per
cui l’urgenza principale è il come vanno le cose, come va la comunità,
mentre l’urgenza deve diventare quella di ridare vita ad una sensibili
reale: «Il vero problema di CL oggi è la verità della sua esperienza e,
quindi, la sua coerenza con l’origine. Tra noi esiste un atteggiamento per
cui l’urgenza principale è il come vanno le cose, come va la comunità,
mentre l’urgenza deve diventare quella di ridare vita ad una sensibili
7
per la verità della esperienza del movimento. Bisogna che CL sia vita e
non rimanga solo schema. [...] Si può appartenere al movimento, oggi,
senza che questo implichi una fede reale, senza che la vita delle persone
e delle comunità venga contestata, senza conversione».5
Papa Francesco affermava di recente che, a volte «per superficialità,
a volte per indifferenza, [siamo] occupati da mille cose che si ritengono
più importanti della fede».6
Ma questo non accade senza conseguenze
per la vita. E per facilitare ciascuno di noi a renderci conto di questo,
don Giussani ci offre, come al solito, l’indizio più clamoroso di questa
situazione: «[Il] sintomo [più impressionante] del prevalere dello schema
sulla vita è lo smarrimento che coglie l’adulto quando viene posto
di fronte ai problemi del vivere. Come tono generale, l’adulto evita la
fatica di una incarnazione della fede nella vita e non si fa mettere in crisi
[...] da essa; oppure nel rapporto con la moglie, nella educazione dei
figli, nel problema politico o nel lavoro, opera a prescindere da ciò che
conclama nella vita di comunità; al massimo si fa portatore di iniziative
lanciate dalla comunità».7
Lo smarrimento di noi adulti di fronte ai problemi del vivere è quindi,
secondo don Giussani, strettamente legato alla fatica dell’incarnazione
della fede nella vita. Se la fede non è una risorsa per vivere le
difficoltà che siamo costretti ad affrontare, a che cosa serve credere?
Che cosa vuol dire avere la fede? Don Giussani ha un giudizio preciso
sulla situazione in cui viviamo: «Il grande problema del mondo di oggi
non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale.
Non: “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”. Il mondo di oggi è
riportato a livello della miseria evangelica; al tempo di Gesù il problema
era come fare a vivere e non chi avesse ragione; questo era il problema
degli scribi e dei farisei. Questa osservazione cambia anche l’assetto
della nostra preoccupazione: dobbiamo passare da una posizione
intellettualmente criticistica alla passione per ciò che caratterizza l’uomo
oggi: il dubbio sull’esistenza, la paura dell’esistere, la fragilità del vivere,
l’inconsistenza di se stessi, il terrore dell’impossibilità; l’orrore della
sproporzione tra sé e l’ideale. Questo è il fondo della questione e da qui
si riparte per una cultura nuova, per una criticità nuova».8
8
Queste parole hanno oggi un peso ancora più grande di quando
per la verità della esperienza del movimento. Bisogna che CL sia vita e
non rimanga solo schema. [...] Si può appartenere al movimento, oggi,
senza che questo implichi una fede reale, senza che la vita delle persone
e delle comunità venga contestata, senza conversione».5
Papa Francesco affermava di recente che, a volte «per superficialità,
a volte per indifferenza, [siamo] occupati da mille cose che si ritengono
più importanti della fede».6
Ma questo non accade senza conseguenze
per la vita. E per facilitare ciascuno di noi a renderci conto di questo,
don Giussani ci offre, come al solito, l’indizio più clamoroso di questa
situazione: «[Il] sintomo [più impressionante] del prevalere dello schema
sulla vita è lo smarrimento che coglie l’adulto quando viene posto
di fronte ai problemi del vivere. Come tono generale, l’adulto evita la
fatica di una incarnazione della fede nella vita e non si fa mettere in crisi
[...] da essa; oppure nel rapporto con la moglie, nella educazione dei
figli, nel problema politico o nel lavoro, opera a prescindere da ciò che
conclama nella vita di comunità; al massimo si fa portatore di iniziative
lanciate dalla comunità».7
Lo smarrimento di noi adulti di fronte ai problemi del vivere è quindi,
secondo don Giussani, strettamente legato alla fatica dell’incarnazione
della fede nella vita. Se la fede non è una risorsa per vivere le
difficoltà che siamo costretti ad affrontare, a che cosa serve credere?
Che cosa vuol dire avere la fede? Don Giussani ha un giudizio preciso
sulla situazione in cui viviamo: «Il grande problema del mondo di oggi
non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale.
Non: “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”. Il mondo di oggi è
riportato a livello della miseria evangelica; al tempo di Gesù il problema
era come fare a vivere e non chi avesse ragione; questo era il problema
degli scribi e dei farisei. Questa osservazione cambia anche l’assetto
della nostra preoccupazione: dobbiamo passare da una posizione
intellettualmente criticistica alla passione per ciò che caratterizza l’uomo
oggi: il dubbio sull’esistenza, la paura dell’esistere, la fragilità del vivere,
l’inconsistenza di se stessi, il terrore dell’impossibilità; l’orrore della
sproporzione tra sé e l’ideale. Questo è il fondo della questione e da qui
si riparte per una cultura nuova, per una criticità nuova».8
8
Queste parole hanno oggi un peso ancora più grande di quando
furono pronunciate nel lontano 1991. Questo giudizio di don Giussani
identifica, infatti, molto bene a quale livello si colloca la fatica del vivere,
quella fatica che Pavese descrive con la sua solita genialità: «La vita
dell’uomo si svolge laggiù tra le case, nei campi. Davanti al fuoco e
in un letto. E ogni giorno che spunta ti mette davanti la stessa fatica e
le stesse mancanze. È un fastidio alla fine [...]. C’è una burrasca che
rinnova le campagne – né la morte né i grossi dolori scoraggiano. Ma
la fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del
male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate –
quest’è il vivere che taglia le gambe».9
È difficile descrivere il dramma
del vivere quotidiano in un modo più acuto e più pertinente di questo.
Ogni giorno la stessa fatica e la stessa mancanza. Una fatica interminabile,
quella fatica che Pavese descrive con la sua solita genialità: «La vita
dell’uomo si svolge laggiù tra le case, nei campi. Davanti al fuoco e
in un letto. E ogni giorno che spunta ti mette davanti la stessa fatica e
le stesse mancanze. È un fastidio alla fine [...]. C’è una burrasca che
rinnova le campagne – né la morte né i grossi dolori scoraggiano. Ma
la fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del
male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate –
quest’è il vivere che taglia le gambe».9
È difficile descrivere il dramma
del vivere quotidiano in un modo più acuto e più pertinente di questo.
Ogni giorno la stessa fatica e la stessa mancanza. Una fatica interminabile,
fastidiosa, come le mosche d’estate. Questo quotidiano è il «vivere
che taglia le gambe». I grossi dolori o la morte non ci scoraggiano, alla
fine, ma questo quotidiano che taglia le gambe è ciò che rende la vita
veramente drammatica.
È allora davanti al vivere che taglia le gambe (non nei nostri pensieri,
nelle nostre intenzioni, nei nostri sentimenti, nelle nostre discussioni),
che noi dobbiamo compiere la verifica della fede: è davanti alle sfide
del reale! Don Giussani non molla mai la presa; mettendoci di fronte
alla questione in termini esistenziali, ci impedisce di barare su di noi e
sulla fede. Egli ci sfida dicendo che proprio davanti alle prove del vivere
si vede l’autenticità o meno della nostra fede: «È questo [...] il sintomo
della verità, della autenticità o meno della nostra fede: se in primo piano
è veramente la fede o in primo piano è un altro tipo di preoccupazione,
se ci aspettiamo veramente tutto dal fatto di Cristo, oppure se dal fatto
di Cristo ci aspettiamo quello che decidiamo di aspettarci, ultimamente
rendendolo spunto e sostegno a nostri progetti o a nostri programmi [che
divengono, quindi, ciò da cui ci aspettiamo veramente tutto!]. La legge
dello sviluppo spirituale, questa legge dinamica della vita della nostra
fede [...] è realmente d’estrema importanza per gli individui, come per
le collettività; per le collettività, come per gli individui. Resta sempre
vero che, per chi capisce Dio e vuole Dio, tutto coopera al bene; e resta
sempre vero che, nella difficoltà, viene a galla il fatto se tu voglia Dio
o no. [...] Ciò che l’uomo ama viene a galla di fronte all’interrogativo,
al problema, alla domanda, alla difficoltà. [...] Se quello che cerchiamo
è Cristo oppure è il nostro amor proprio, è l’affermazione di noi, sotto
9
qualunque flessione, secondo qualunque versante, lo si vede, viene a
galla, nel momento esatto della prova e della difficoltà».10
Quest’anno non sono mancate le difficoltà, anzi. Tutti le abbiamo
ben presenti, da quelle generali per una crisi che incombe sempre di più
e riguarda sempre di più ciascuno di noi, i nostri amici, i nostri concittadini,
che taglia le gambe». I grossi dolori o la morte non ci scoraggiano, alla
fine, ma questo quotidiano che taglia le gambe è ciò che rende la vita
veramente drammatica.
È allora davanti al vivere che taglia le gambe (non nei nostri pensieri,
nelle nostre intenzioni, nei nostri sentimenti, nelle nostre discussioni),
che noi dobbiamo compiere la verifica della fede: è davanti alle sfide
del reale! Don Giussani non molla mai la presa; mettendoci di fronte
alla questione in termini esistenziali, ci impedisce di barare su di noi e
sulla fede. Egli ci sfida dicendo che proprio davanti alle prove del vivere
si vede l’autenticità o meno della nostra fede: «È questo [...] il sintomo
della verità, della autenticità o meno della nostra fede: se in primo piano
è veramente la fede o in primo piano è un altro tipo di preoccupazione,
se ci aspettiamo veramente tutto dal fatto di Cristo, oppure se dal fatto
di Cristo ci aspettiamo quello che decidiamo di aspettarci, ultimamente
rendendolo spunto e sostegno a nostri progetti o a nostri programmi [che
divengono, quindi, ciò da cui ci aspettiamo veramente tutto!]. La legge
dello sviluppo spirituale, questa legge dinamica della vita della nostra
fede [...] è realmente d’estrema importanza per gli individui, come per
le collettività; per le collettività, come per gli individui. Resta sempre
vero che, per chi capisce Dio e vuole Dio, tutto coopera al bene; e resta
sempre vero che, nella difficoltà, viene a galla il fatto se tu voglia Dio
o no. [...] Ciò che l’uomo ama viene a galla di fronte all’interrogativo,
al problema, alla domanda, alla difficoltà. [...] Se quello che cerchiamo
è Cristo oppure è il nostro amor proprio, è l’affermazione di noi, sotto
9
qualunque flessione, secondo qualunque versante, lo si vede, viene a
galla, nel momento esatto della prova e della difficoltà».10
Quest’anno non sono mancate le difficoltà, anzi. Tutti le abbiamo
ben presenti, da quelle generali per una crisi che incombe sempre di più
e riguarda sempre di più ciascuno di noi, i nostri amici, i nostri concittadini,
alle difficoltà che ci hanno riguardato come movimento.
Che cosa è venuto a galla affrontando tutte queste difficoltà? Alla
Giornata d’inizio anno ci siamo dati una ipotesi di lavoro per fare i conti
con esse: «Nella vita di chi Egli chiama, Dio non permette che accada
qualche cosa, se non per la maturità, se non per una maturazione di coloro
Che cosa è venuto a galla affrontando tutte queste difficoltà? Alla
Giornata d’inizio anno ci siamo dati una ipotesi di lavoro per fare i conti
con esse: «Nella vita di chi Egli chiama, Dio non permette che accada
qualche cosa, se non per la maturità, se non per una maturazione di coloro
che Egli ha chiamati».11 Il test, cioè, che Giussani propone per verificare
se stiamo diventando più maturi nella fede è proprio la capacità che
ognuno di noi ha di rendere ciò che appare come obiezione, persecuzione
ognuno di noi ha di rendere ciò che appare come obiezione, persecuzione
o comunque come difficoltà, strumento o momento di maturazione.
È questo che dimostra la verità della nostra fede.
Che cosa abbiamo fatto di questa ipotesi di lavoro? L’abbiamo utilizzata?
È questo che dimostra la verità della nostra fede.
Che cosa abbiamo fatto di questa ipotesi di lavoro? L’abbiamo utilizzata?
Abbiamo provato a verificarla? Che cosa è successo, qualsiasi
sia stata la risposta che ciascuno di noi ha dato alla proposta fatta? Se
l’abbiamo usata, che cosa è successo? Se non l’abbiamo usata, che cosa
è successo? Che esperienza abbiamo fatto? Che cosa abbiamo imparato?
Negli ultimi tempi abbiamo ripetuto spesso che «una fede che non
potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da
essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe [...] una fede in
grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, [...] dice l’opposto».12
Allora, dopo questo anno, siamo più entusiasti della nostra fede e del
cammino fatto, oppure siamo più scoraggiati, più abbattuti, più schiacciati?
sia stata la risposta che ciascuno di noi ha dato alla proposta fatta? Se
l’abbiamo usata, che cosa è successo? Se non l’abbiamo usata, che cosa
è successo? Che esperienza abbiamo fatto? Che cosa abbiamo imparato?
Negli ultimi tempi abbiamo ripetuto spesso che «una fede che non
potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da
essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe [...] una fede in
grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, [...] dice l’opposto».12
Allora, dopo questo anno, siamo più entusiasti della nostra fede e del
cammino fatto, oppure siamo più scoraggiati, più abbattuti, più schiacciati?
Dopo tutte le sfide che abbiamo dovuto affrontare, siamo più certi
o più incerti? Più consistenti o più distrutti? Le circostanze ci hanno
costretto a un lavoro. Possiamo dire, con più coscienza che mai, dopo le
sfide affrontate: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?». Non è che san
Paolo non abbia dovuto affrontare difficoltà enormi, ma queste lo hanno
portato a una certezza: «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo?
Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il
pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: “Per causa tua siamo messi
a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello”. Ma in
o più incerti? Più consistenti o più distrutti? Le circostanze ci hanno
costretto a un lavoro. Possiamo dire, con più coscienza che mai, dopo le
sfide affrontate: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?». Non è che san
Paolo non abbia dovuto affrontare difficoltà enormi, ma queste lo hanno
portato a una certezza: «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo?
Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il
pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: “Per causa tua siamo messi
a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello”. Ma in
tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha
amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati,
amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati,
né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità,
né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo
Gesù, nostro Signore».13 Questa, per noi, è una bella frase con cui siamo
d’accordo, oppure è una certezza frutto dell’esperienza vissuta? Tutti,
infatti, sappiamo benissimo la differenza che c’è tra ripetere delle frasi
o esprimere l’esperienza fatta, piena di carne, documentata dalla vita.
Alcuni possono rispondere così: «Caro don Carrón, ho letto la sintesi
dell’Assemblea responsabili avvenuta a Pacengo. Alla domanda: “Ma
io da tutto questo periodo, in cui siamo stati sfidati senza tregua, sono
venuto fuori con più certezza su Cristo?”, rispondo di sì. Mi sembra di
essere presuntuosa e invece no, perché è Cristo che mi fa».
Ascoltate anche quest’altra lettera: «Sento il desiderio di scriverti
tutta la mia gratitudine e la mia riconoscenza per le ultime parole che tu
hai detto e scritto. Mi riferisco alla sintesi che hai fatto alla Tre giorni
dei responsabili del movimento e alle lettere che tu hai mandato alla
stampa in occasione di circostanze che hanno toccato la nostra vita. Nel
contempo ho la necessità di comunicarti come, vivendo il mio quotidiano,
né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo
Gesù, nostro Signore».13 Questa, per noi, è una bella frase con cui siamo
d’accordo, oppure è una certezza frutto dell’esperienza vissuta? Tutti,
infatti, sappiamo benissimo la differenza che c’è tra ripetere delle frasi
o esprimere l’esperienza fatta, piena di carne, documentata dalla vita.
Alcuni possono rispondere così: «Caro don Carrón, ho letto la sintesi
dell’Assemblea responsabili avvenuta a Pacengo. Alla domanda: “Ma
io da tutto questo periodo, in cui siamo stati sfidati senza tregua, sono
venuto fuori con più certezza su Cristo?”, rispondo di sì. Mi sembra di
essere presuntuosa e invece no, perché è Cristo che mi fa».
Ascoltate anche quest’altra lettera: «Sento il desiderio di scriverti
tutta la mia gratitudine e la mia riconoscenza per le ultime parole che tu
hai detto e scritto. Mi riferisco alla sintesi che hai fatto alla Tre giorni
dei responsabili del movimento e alle lettere che tu hai mandato alla
stampa in occasione di circostanze che hanno toccato la nostra vita. Nel
contempo ho la necessità di comunicarti come, vivendo il mio quotidiano,
la sequela sta diventando un fattore fondamentale per la mia crescita
personale nella fede, che genera sicurezza nell’affrontare le difficoltà
del quotidiano. Quel che sta avvenendo in me è qualcosa di
personale nella fede, che genera sicurezza nell’affrontare le difficoltà
del quotidiano. Quel che sta avvenendo in me è qualcosa di
sorprendentemente nuovo e, nel contempo, di antico, cioè la rinascita
della novità che l’esperienza cristiana porta dentro la mia mentalità.
È un cammino molto lento, ma inesorabile, al quale non desidero
porre resistenza».
O ancora: «Carissimo Julián, non riesco a trattenere quel che voglio
dirti. Da diversi giorni sono emozionata, persino la notte mi agito! A
quarantotto anni mi sorprende di vivere questa emozione pensando che
tra qualche giorno verrò agli Esercizi. Anche mio marito si è accorto di
questo, e ieri sera mi ha detto: “La cosa più bella di questi Esercizi, per
me, è questa tua emozione, questa tua attesa. Chi può essere emozionata
come te!”. [Non è che non le sia capitato nulla...] In questi anni, dopo la
morte di mio padre, il desiderio di non perderlo è stato l’unico motore
della mia vita. Mi ha fatto tornare una domanda essenziale: o accasciarmi
O ancora: «Carissimo Julián, non riesco a trattenere quel che voglio
dirti. Da diversi giorni sono emozionata, persino la notte mi agito! A
quarantotto anni mi sorprende di vivere questa emozione pensando che
tra qualche giorno verrò agli Esercizi. Anche mio marito si è accorto di
questo, e ieri sera mi ha detto: “La cosa più bella di questi Esercizi, per
me, è questa tua emozione, questa tua attesa. Chi può essere emozionata
come te!”. [Non è che non le sia capitato nulla...] In questi anni, dopo la
morte di mio padre, il desiderio di non perderlo è stato l’unico motore
della mia vita. Mi ha fatto tornare una domanda essenziale: o accasciarmi
negli angoli delle circostanze, oppure ricominciare dall’unica cosa
vera accaduta nella mia vita. La tua amicizia, nella vicinanza dei collegamenti
vera accaduta nella mia vita. La tua amicizia, nella vicinanza dei collegamenti
della Scuola di comunità, ha riacceso questa sfida! Nel tempo è
come se si fosse squarciato un velo, e tutto intorno a me ha incominciato
13 Rm 8,35-39.Venerdì sera
11
a essere più chiaro. Mentre io ho iniziato a vedere più chiaramente, tutta
la realtà peggiorava, crollava, si demoliva ogni sicurezza (il lavoro di
mio marito, la situazione economica sempre peggiore, con quattro figli
che studiano, di cui la prima all’università), con tanti rischi connessi. La
cosa per me assurda è che io sono più contenta di prima, ma di una gioia
quasi inesprimibile. Ora mi accorgo che ciò che sorprende me inizia a
sorprendere anche gli altri, che mi dicono: “Tu sei diversa!”, oppure:
“Sei così appassionata alle cose che mi piacerebbe confrontarmi con
te!”. Ma la cosa che mi ha stupita di più è che in questo periodo, dopo
le dimissioni di papa Benedetto e l’arrivo di papa Francesco, mi ritrovo
a parlare con la gente di Cristo in maniera esplicita e semplice, come
se fosse il segno più evidente di quello che è successo, e una persona
mi ha detto: “Sai, ora che tu me lo dici, mi accorgo anch’io di questo!”.
Le persone rimangono lì ad ascoltarmi, sorprese da una descrizione dei
fatti più corrispondente. E poi qualcuno ha espresso la paura di perdere
papa Francesco, come di una cosa bella che potesse finire! E io ho risposto,
come se si fosse squarciato un velo, e tutto intorno a me ha incominciato
13 Rm 8,35-39.Venerdì sera
11
a essere più chiaro. Mentre io ho iniziato a vedere più chiaramente, tutta
la realtà peggiorava, crollava, si demoliva ogni sicurezza (il lavoro di
mio marito, la situazione economica sempre peggiore, con quattro figli
che studiano, di cui la prima all’università), con tanti rischi connessi. La
cosa per me assurda è che io sono più contenta di prima, ma di una gioia
quasi inesprimibile. Ora mi accorgo che ciò che sorprende me inizia a
sorprendere anche gli altri, che mi dicono: “Tu sei diversa!”, oppure:
“Sei così appassionata alle cose che mi piacerebbe confrontarmi con
te!”. Ma la cosa che mi ha stupita di più è che in questo periodo, dopo
le dimissioni di papa Benedetto e l’arrivo di papa Francesco, mi ritrovo
a parlare con la gente di Cristo in maniera esplicita e semplice, come
se fosse il segno più evidente di quello che è successo, e una persona
mi ha detto: “Sai, ora che tu me lo dici, mi accorgo anch’io di questo!”.
Le persone rimangono lì ad ascoltarmi, sorprese da una descrizione dei
fatti più corrispondente. E poi qualcuno ha espresso la paura di perdere
papa Francesco, come di una cosa bella che potesse finire! E io ho risposto,
prima ancora a me stessa, con una frase del Miguel Mañara che ho
riascoltato poco fa dalla voce del Gius (in cd) e che mi aveva colpito:
“Perché temi di perdere ciò che ha saputo trovarti?”. Tutto quello che è
accaduto non è stato ideato da noi! Questo ha sorpreso me, ma anche gli
altri! P.S. Grazie per la testimonianza che rappresenti per la mia vita».
Che cosa resiste quando siamo spogliati di ogni sicurezza? Chi siamo?
riascoltato poco fa dalla voce del Gius (in cd) e che mi aveva colpito:
“Perché temi di perdere ciò che ha saputo trovarti?”. Tutto quello che è
accaduto non è stato ideato da noi! Questo ha sorpreso me, ma anche gli
altri! P.S. Grazie per la testimonianza che rappresenti per la mia vita».
Che cosa resiste quando siamo spogliati di ogni sicurezza? Chi siamo?
A chi apparteniamo? Che cosa permane dopo che tanti dei nostri
progetti sono falliti? Che cosa resta quando le nostre pretese sono azzerate?
progetti sono falliti? Che cosa resta quando le nostre pretese sono azzerate?
Resta ciò che ci è capitato, perché nessuno ce lo può strappare di
dosso, neanche noi stessi con le nostre delusioni, arrabbiature o ribellioni.
dosso, neanche noi stessi con le nostre delusioni, arrabbiature o ribellioni.
Resta un fatto che ci è accaduto.
Ma non basta che rimanga. Ciascuno deve decidere, meglio: decide e
ha già deciso. L’alternativa è chiara: riconoscere il Fatto, che comunque
rimane, perché niente riesce a strapparlo via da noi, oppure non riconoscere
Ma non basta che rimanga. Ciascuno deve decidere, meglio: decide e
ha già deciso. L’alternativa è chiara: riconoscere il Fatto, che comunque
rimane, perché niente riesce a strapparlo via da noi, oppure non riconoscere
il Fatto, lasciando prevalere le nostre misure, i risentimenti e gli
scetticismi. Ciascuno, nella risposta che darà, potrà scoprire, osservando se
scetticismi. Ciascuno, nella risposta che darà, potrà scoprire, osservando se
stesso, che cosa ha di più caro, a cosa veramente aderisce, cosa
prevale nella sua vita. Nella modalità con cui rispondiamo grideremo a
tutti (a cominciare da noi stessi) che cosa abbiamo di più caro. Non è un
problema moralistico: è una questione di giudizio, di valore e di stima.
È a questo punto che possiamo capire la portata della domanda iniziale:
prevale nella sua vita. Nella modalità con cui rispondiamo grideremo a
tutti (a cominciare da noi stessi) che cosa abbiamo di più caro. Non è un
problema moralistico: è una questione di giudizio, di valore e di stima.
È a questo punto che possiamo capire la portata della domanda iniziale:
«Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».14
14 Lc 18,8.Esercizi della Fraternità
12
Forse siamo più aiutati a non darla per scontata se la formuliamo in un
altro modo: ma noi crediamo ancora che Cristo possa riempire la vita?
Ci aspettiamo – come ci sfida don Giussani – veramente tutto dal fatto
di Cristo, o in fondo non siamo più così «ingenui» (ci diciamo) come
all’inizio, e Cristo è ormai solo una tra le tante cose, uno spunto per i
nostri progetti? Crediamo che Cristo sia la risposta adeguata per noi ora,
nelle circostanze che viviamo, all’età che abbiamo? È, quella in Cristo,
una fede che riguarda la vita o solo un elenco di affermazioni astratte
o di iniziative da fare? Perché è vero quel che dice don Giussani: «Si
può appartenere al movimento, oggi, senza che questo implichi una fede
reale, senza che la vita delle persone e delle comunità venga contestata,
senza conversione».15
Questa frase dell’Apocalisse – che sento rivolta innanzitutto a me, e
che per questo propongo anche a voi, amici – mi sembra ci riguardi tutti:
«Sei costante [tant’è vero che sei qui] e hai molto sopportato per il mio
nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il
tuo amore di prima».16
Il nostro primo amore dov’è?
Un gesto di queste dimensioni non lo possiamo “tenere in piedi”
senza il contributo e il sacrificio di ciascuno di noi, nell’attenzione agli
avvisi, al silenzio e alle indicazioni che ci sono date. Ognuna di queste
cose è una modalità attraverso cui possiamo domandare a Cristo che
abbia pietà del nostro niente, che ci doni quella conversione che ci rende
veramente noi stessi. Tutti sappiamo quanto bisogno abbiamo di questo
silenzio, che consente di lasciare penetrare fino al midollo ogni cosa che
ci viene detta, e di fare diventare questo silenzio grido, domanda a Cristo
che abbia pietà di noi.
15 «Il vero problema di CL è la verità della sua esperienza», op. cit., p. 8.
SANTA MESSA
Liturgia della Santa Messa: At 9,1-20; Sal 116 (117); Gv 6,52-59
OmELiA Di DOn STEFAnO ALBERTO
«Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne
del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la
vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io
lo risusciterò nell’ultimo giorno”.»17 Tra pochi istanti questa promessa,
questo giudizio di Cristo diventerà realtà fisica. La Sua presenza di risorto
14 Lc 18,8.Esercizi della Fraternità
12
Forse siamo più aiutati a non darla per scontata se la formuliamo in un
altro modo: ma noi crediamo ancora che Cristo possa riempire la vita?
Ci aspettiamo – come ci sfida don Giussani – veramente tutto dal fatto
di Cristo, o in fondo non siamo più così «ingenui» (ci diciamo) come
all’inizio, e Cristo è ormai solo una tra le tante cose, uno spunto per i
nostri progetti? Crediamo che Cristo sia la risposta adeguata per noi ora,
nelle circostanze che viviamo, all’età che abbiamo? È, quella in Cristo,
una fede che riguarda la vita o solo un elenco di affermazioni astratte
o di iniziative da fare? Perché è vero quel che dice don Giussani: «Si
può appartenere al movimento, oggi, senza che questo implichi una fede
reale, senza che la vita delle persone e delle comunità venga contestata,
senza conversione».15
Questa frase dell’Apocalisse – che sento rivolta innanzitutto a me, e
che per questo propongo anche a voi, amici – mi sembra ci riguardi tutti:
«Sei costante [tant’è vero che sei qui] e hai molto sopportato per il mio
nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il
tuo amore di prima».16
Il nostro primo amore dov’è?
Un gesto di queste dimensioni non lo possiamo “tenere in piedi”
senza il contributo e il sacrificio di ciascuno di noi, nell’attenzione agli
avvisi, al silenzio e alle indicazioni che ci sono date. Ognuna di queste
cose è una modalità attraverso cui possiamo domandare a Cristo che
abbia pietà del nostro niente, che ci doni quella conversione che ci rende
veramente noi stessi. Tutti sappiamo quanto bisogno abbiamo di questo
silenzio, che consente di lasciare penetrare fino al midollo ogni cosa che
ci viene detta, e di fare diventare questo silenzio grido, domanda a Cristo
che abbia pietà di noi.
15 «Il vero problema di CL è la verità della sua esperienza», op. cit., p. 8.
SANTA MESSA
Liturgia della Santa Messa: At 9,1-20; Sal 116 (117); Gv 6,52-59
OmELiA Di DOn STEFAnO ALBERTO
«Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne
del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la
vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io
lo risusciterò nell’ultimo giorno”.»17 Tra pochi istanti questa promessa,
questo giudizio di Cristo diventerà realtà fisica. La Sua presenza di risorto
attraversa i ventun secoli che ci separano da queste parole e lo spazio:
Cafarnao, Damasco, Rimini. Nessuna genialità umana, pur grande, può
immaginare una familiarità, una tenerezza, una passione così per la vita
del singolo uomo: «La Mia carne è il tuo cibo, il Mio sangue è la tua
bevanda per la vita», per la vita-vita, perché tu viva di Me, con Me, per
Me. Quando Gesù ha pronunciato queste parole se ne sono andati via
tutti, tranne quei dodici.
È il momento che don Giussani descrive come l’inizio della fede,
quando, con il suo temperamento generoso e impetuoso, Pietro gli dice:
«Non capiamo come ciò possa accadere, ma via da Te dove andiamo?».
Cristo ha afferrato quella gente semplice, è entrato nella radice del loro
essere non con violenza, ma con tenerezza, prendendo continuamente
l’iniziativa con loro, finché il loro cuore non è stato pieno di Lui, tutto
di Lui. Ha afferrato Pietro, il rude pescatore; ha afferrato Paolo, il raffinato
Cafarnao, Damasco, Rimini. Nessuna genialità umana, pur grande, può
immaginare una familiarità, una tenerezza, una passione così per la vita
del singolo uomo: «La Mia carne è il tuo cibo, il Mio sangue è la tua
bevanda per la vita», per la vita-vita, perché tu viva di Me, con Me, per
Me. Quando Gesù ha pronunciato queste parole se ne sono andati via
tutti, tranne quei dodici.
È il momento che don Giussani descrive come l’inizio della fede,
quando, con il suo temperamento generoso e impetuoso, Pietro gli dice:
«Non capiamo come ciò possa accadere, ma via da Te dove andiamo?».
Cristo ha afferrato quella gente semplice, è entrato nella radice del loro
essere non con violenza, ma con tenerezza, prendendo continuamente
l’iniziativa con loro, finché il loro cuore non è stato pieno di Lui, tutto
di Lui. Ha afferrato Pietro, il rude pescatore; ha afferrato Paolo, il raffinato
intellettuale, il fariseo, il persecutore, trasformandolo nel grande
innamorato di Lui. Se ha afferrato Pietro, se ha afferrato Paolo e poi
una lunghissima catena fino a don Giussani, perché non può afferrare,
riacciuffare anche me e te adesso, in questo gesto che è pieno della
innamorato di Lui. Se ha afferrato Pietro, se ha afferrato Paolo e poi
una lunghissima catena fino a don Giussani, perché non può afferrare,
riacciuffare anche me e te adesso, in questo gesto che è pieno della
tenerezza, della passione per la vita di ciascuno di noi? Perché resistere? Che
cos’hai da opporre? C’è qualcosa di più semplice che lasciare entrare la
Sua vita nella mia, che ci rende uno in Lui?
17 Gv 6,53-54.
cos’hai da opporre? C’è qualcosa di più semplice che lasciare entrare la
Sua vita nella mia, che ci rende uno in Lui?
17 Gv 6,53-54.
Sabato 20 aprile, mattina
All’ingresso e all’uscita:
Franz Schubert, Trio con pianoforte n. 2 in mi bemolle maggiore, op. 100 D 929
Eugene Istomin, pianoforte – Isaac Stern, violino – Leonard Rose, violoncello
“Spirto Gentil” n. 14, Sony Classical
Angelus
Lodi
n PRimA mEDiTAZiOnE
Julián Carrón
«L’angelo del Signore portò l’annuncio a Maria»
L’Anno della fede ha come scopo di farci riscoprire la bellezza e la
gioia della fede, che inizia con l’irruzione del Mistero nella storia, come
ricordiamo ogni mattina: «L’angelo del Signore portò l’annuncio a Maria».
All’ingresso e all’uscita:
Franz Schubert, Trio con pianoforte n. 2 in mi bemolle maggiore, op. 100 D 929
Eugene Istomin, pianoforte – Isaac Stern, violino – Leonard Rose, violoncello
“Spirto Gentil” n. 14, Sony Classical
Angelus
Lodi
n PRimA mEDiTAZiOnE
Julián Carrón
«L’angelo del Signore portò l’annuncio a Maria»
L’Anno della fede ha come scopo di farci riscoprire la bellezza e la
gioia della fede, che inizia con l’irruzione del Mistero nella storia, come
ricordiamo ogni mattina: «L’angelo del Signore portò l’annuncio a Maria».
Questo è l’inizio. Affrontiamo, dunque, in questa prima lezione
l’avvenimento cristiano, questa irruzione del Mistero, per cogliere la sua
vera natura, lasciando alla lezione di questo pomeriggio il tema della
risposta dell’uomo a questa irruzione.
1. Il cristianesimo è un avvenimento: «Era pieno di quello sguardo»
«Il cristianesimo è un avvenimento»:18 è un’espressione a noi molto
familiare. Ma tutti sappiamo bene che non basta possedere la definizione
giusta per vivere il cristianesimo secondo la sua natura. Che cosa vuol
dire che il cristianesimo è un avvenimento? Qual è il contenuto di esperienza di esso?
l’avvenimento cristiano, questa irruzione del Mistero, per cogliere la sua
vera natura, lasciando alla lezione di questo pomeriggio il tema della
risposta dell’uomo a questa irruzione.
1. Il cristianesimo è un avvenimento: «Era pieno di quello sguardo»
«Il cristianesimo è un avvenimento»:18 è un’espressione a noi molto
familiare. Ma tutti sappiamo bene che non basta possedere la definizione
giusta per vivere il cristianesimo secondo la sua natura. Che cosa vuol
dire che il cristianesimo è un avvenimento? Qual è il contenuto di esperienza di esso?
Il cristianesimo si rivela nella sua natura come risposta a
un bisogno presente. E quindi ci interesserà oggi se risponde al bisogno
che caratterizza l’uomo che siamo, se risponde a quella «fatica interminabile»
un bisogno presente. E quindi ci interesserà oggi se risponde al bisogno
che caratterizza l’uomo che siamo, se risponde a quella «fatica interminabile»
del «vivere che taglia le gambe».19
«Carissimo don Julián, sto passando da un periodo “eroico” di una
guerra fondamentale (il terremoto della malattia) a una battaglia di tutti i
18 L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 1999, p. 136.
19 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, op. cit., p. 166.
14giorni, a una comprensione che tutto si deve giocare e si gioca momento
per momento. Tutti i giorni (quando la nausea, la debolezza fisica, gli
sbalzi di umore che i medicinali antidolorifici provocano, le parole che
mi vengono a mancare quando parlo) mi fanno capire che ho bisogno di
una presenza presente ora, momento per momento, che vinca qualsiasi
riduzione che l’abitudine mette in campo.» Come questo nostro amico,
tutti noi abbiamo bisogno di un avvenimento ora, perché la salvezza
del nostro io e della storia è un avvenimento, non un pensiero. E chi lo
capisce di più? I malati, gli uomini feriti, i peccatori, i bisognosi, cioè le
persone coscienti della propria condizione umana, coloro che non
«Carissimo don Julián, sto passando da un periodo “eroico” di una
guerra fondamentale (il terremoto della malattia) a una battaglia di tutti i
18 L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 1999, p. 136.
19 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, op. cit., p. 166.
14giorni, a una comprensione che tutto si deve giocare e si gioca momento
per momento. Tutti i giorni (quando la nausea, la debolezza fisica, gli
sbalzi di umore che i medicinali antidolorifici provocano, le parole che
mi vengono a mancare quando parlo) mi fanno capire che ho bisogno di
una presenza presente ora, momento per momento, che vinca qualsiasi
riduzione che l’abitudine mette in campo.» Come questo nostro amico,
tutti noi abbiamo bisogno di un avvenimento ora, perché la salvezza
del nostro io e della storia è un avvenimento, non un pensiero. E chi lo
capisce di più? I malati, gli uomini feriti, i peccatori, i bisognosi, cioè le
persone coscienti della propria condizione umana, coloro che non
calpestano la propria umanità con le sue esigenze di pienezza, di
compimento.
I vangeli lo documentano continuamente; colpisce come fossero i
I vangeli lo documentano continuamente; colpisce come fossero i
bisognosi coloro che cercavano Gesù. Il prototipo sono i pubblicani.
Stupisce – ma noi quasi non ce ne rendiamo conto, passa quasi inosservato
nella sua semplicità – leggere nel vangelo: «Si avvicinavano a lui tutti
i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano
nella sua semplicità – leggere nel vangelo: «Si avvicinavano a lui tutti
i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano
[dando così ragione del motivo per cui gli altri si avvicinavano a
Gesù]: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”».20 Questa frase è
una generalizzazione di quel che doveva essere accaduto tante altre volte.
«Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte,
chiamato Matteo, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre
Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori
Gesù]: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”».20 Questa frase è
una generalizzazione di quel che doveva essere accaduto tante altre volte.
«Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte,
chiamato Matteo, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre
Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori
e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei
[di nuovo pieni di ira e sorpresa] dicevano ai suoi discepoli: “Perché il
vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”. Gesù li udì
e disse: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”.»21
Come mai proprio coloro che sembrerebbero i più lontani, i meno
interessati a stare con Lui, sono quelli che più Lo cercano? Che cosa
vedevano in Lui che non trovavano altrove? Solo con Lui riuscivano a
guardare se stessi. Questo è un esempio solare che l’altro è un bene. La
presenza di Gesù era percepita come un bene prezioso, stare con Lui
faceva loro bene; e per Gesù quelle persone erano un bene, tanto da
trattenersi con loro a mangiare. Che grande consolazione per ciascuno
di noi – se si immedesima con la semplicità di questi racconti – l’essere
[di nuovo pieni di ira e sorpresa] dicevano ai suoi discepoli: “Perché il
vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”. Gesù li udì
e disse: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”.»21
Come mai proprio coloro che sembrerebbero i più lontani, i meno
interessati a stare con Lui, sono quelli che più Lo cercano? Che cosa
vedevano in Lui che non trovavano altrove? Solo con Lui riuscivano a
guardare se stessi. Questo è un esempio solare che l’altro è un bene. La
presenza di Gesù era percepita come un bene prezioso, stare con Lui
faceva loro bene; e per Gesù quelle persone erano un bene, tanto da
trattenersi con loro a mangiare. Che grande consolazione per ciascuno
di noi – se si immedesima con la semplicità di questi racconti – l’essere
raggiunto da una Presenza così (qualsiasi sia la situazione in cui si
trova, la difficoltà che sta attraversando, le sfide che deve affrontare)!
Chi può sentirsi escluso? «Che impressione deve essere stata sentirsi
15
trova, la difficoltà che sta attraversando, le sfide che deve affrontare)!
Chi può sentirsi escluso? «Che impressione deve essere stata sentirsi
15
guardare così da un altro, assolutamente estraneo, e sentirsi colti così
nel profondo di sé.»
Poter stare davanti a Lui senza dover dimenticare o nascondere niente di sé.
nel profondo di sé.»
Poter stare davanti a Lui senza dover dimenticare o nascondere niente di sé.
Non perché Gesù fingesse di non conoscere tutti i loro sbagli o
perché li giustificasse. Questo non avrebbe dato loro la pace. Di gente
che giustificava i loro sbagli ne avevano già abbastanza tra coloro con
cui stavano di solito. Perché allora Lo cercavano? Lo cercavano appunto
perché con Lui non erano costretti a nascondere niente, tanto ogni cosa
era palese al Suo sguardo. Altri invece Lo consideravano un ingenuo,
incapace di rendersi conto di come stavano veramente le cose. «Uno dei
farisei [chiamato Simone] lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella
casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di
quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un
vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai
piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi
capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. A quella vista il fariseo
perché li giustificasse. Questo non avrebbe dato loro la pace. Di gente
che giustificava i loro sbagli ne avevano già abbastanza tra coloro con
cui stavano di solito. Perché allora Lo cercavano? Lo cercavano appunto
perché con Lui non erano costretti a nascondere niente, tanto ogni cosa
era palese al Suo sguardo. Altri invece Lo consideravano un ingenuo,
incapace di rendersi conto di come stavano veramente le cose. «Uno dei
farisei [chiamato Simone] lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella
casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di
quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un
vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai
piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi
capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. A quella vista il fariseo
che l’aveva invitato pensò tra sé. “Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e
che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice”.»23
Immediatamente, per far capire a quel fariseo che non era così ingenuo e
che conosceva bene quella donna, Gesù racconta la parabola dei due debitori:
Immediatamente, per far capire a quel fariseo che non era così ingenuo e
che conosceva bene quella donna, Gesù racconta la parabola dei due debitori:
«“Un creditore aveva due debitori: l’uno gli doveva cinquecento
denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi da restituire, condonò il debito
a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?”. Simone rispose:
denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi da restituire, condonò il debito
a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?”. Simone rispose:
“Suppongo quello a cui ha condonato di più”. Gli disse Gesù: “Hai giudicato
bene”. E volgendosi verso la donna, disse a Simone: “Vedi questa donna?
bene”. E volgendosi verso la donna, disse a Simone: “Vedi questa donna?
Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi;
lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi
capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato
non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio
profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico:
le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece
quello a cui si perdona poco, ama poco”».24
Coloro che si avvicinavano a Lui, come la donna di Samaria, sapevano bene
lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi
capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato
non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio
profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico:
le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece
quello a cui si perdona poco, ama poco”».24
Coloro che si avvicinavano a Lui, come la donna di Samaria, sapevano bene
che a quel Profeta niente era nascosto: «Mi ha detto tutto quello
che ho fatto».25 Perfino la sua sete di felicità era a Lui palese. Quindi
che ho fatto».25 Perfino la sua sete di felicità era a Lui palese. Quindi
nessuno sbaglio, nessuna malattia, nessun dolore, nessuna situazione,
nessun dramma, nessuna circostanza poteva impedire l’accadere di
qualcosa di assolutamente imprevedibile, come testimonia il racconto, a
noi così familiare, di Zaccheo, il capo dei gabellieri di Gerico.
Facciamo attenzione a come don Giussani ci invita a guardare, per poter
capire. Che cosa ci perdiamo per non avere mai tempo di guardare come
ci insegna don Giussani! Che guadagno sarebbe per il nostro vivere, per il
nostro guardare a noi stessi, se ci comportassimo come don Giussani,
nessun dramma, nessuna circostanza poteva impedire l’accadere di
qualcosa di assolutamente imprevedibile, come testimonia il racconto, a
noi così familiare, di Zaccheo, il capo dei gabellieri di Gerico.
Facciamo attenzione a come don Giussani ci invita a guardare, per poter
capire. Che cosa ci perdiamo per non avere mai tempo di guardare come
ci insegna don Giussani! Che guadagno sarebbe per il nostro vivere, per il
nostro guardare a noi stessi, se ci comportassimo come don Giussani,
cercando di immedesimarci con Cristo affinché anche la nostra vita sia piena
di quello sguardo, dello sguardo che Cristo rivolge a Zaccheo!
Ecco, dunque, come don Giussani racconta l’episodio di Zaccheo:
«Era il capo dell’esattoria, il capomafia di Gerico e della zona circostante,
di quello sguardo, dello sguardo che Cristo rivolge a Zaccheo!
Ecco, dunque, come don Giussani racconta l’episodio di Zaccheo:
«Era il capo dell’esattoria, il capomafia di Gerico e della zona circostante,
il capo dei gabellieri, di quelli che erano considerati nemici del
popolo e peccatori pubblici da cui bisognava stare lontano dieci metri
per non contaminarsi con l’aria, venduto ai Romani. Sentì dire che c’era
Gesù in paese, perché tutti ne parlavano in quelle zone. Passò davanti
alla folla e si arrampicò su un sicomoro, una pianta non tanto alta, per
poterlo vedere passare, per curiosità, per vederlo meglio negli occhi
popolo e peccatori pubblici da cui bisognava stare lontano dieci metri
per non contaminarsi con l’aria, venduto ai Romani. Sentì dire che c’era
Gesù in paese, perché tutti ne parlavano in quelle zone. Passò davanti
alla folla e si arrampicò su un sicomoro, una pianta non tanto alta, per
poterlo vedere passare, per curiosità, per vederlo meglio negli occhi
perché lui era troppo piccolo. La folla si avvicina, Gesù sta parlando, passa,
è lì sotto, si ferma, alza la testa e dice: “Zaccheo, vieni giù, ché vengo
a casa tua”. E Zaccheo: “Vengo”. Immaginiamo quell’uomo che senza
parlare scivola giù dalla pianta e corre a casa. Pensate a quel silenzio
pieno, con l’orecchio e il cuore pieni della parola udita, del suo nome:
finalmente era stato pronunciato il suo nome! Possiamo ben immaginare
come quella chiamata si echeggiasse poi in tutto quel che faceva, anche
quando era in silenzio, anche quando lavorava in silenzio. Per Zaccheo
quell’incontro fu un miracolo, qualcosa cioè che trasformò radicalmente
la sua vita. Zaccheo non ha avuto alcuna paura di perdere niente; quando
è lì sotto, si ferma, alza la testa e dice: “Zaccheo, vieni giù, ché vengo
a casa tua”. E Zaccheo: “Vengo”. Immaginiamo quell’uomo che senza
parlare scivola giù dalla pianta e corre a casa. Pensate a quel silenzio
pieno, con l’orecchio e il cuore pieni della parola udita, del suo nome:
finalmente era stato pronunciato il suo nome! Possiamo ben immaginare
come quella chiamata si echeggiasse poi in tutto quel che faceva, anche
quando era in silenzio, anche quando lavorava in silenzio. Per Zaccheo
quell’incontro fu un miracolo, qualcosa cioè che trasformò radicalmente
la sua vita. Zaccheo non ha avuto alcuna paura di perdere niente; quando
si è sentito dire: “Zaccheo vengo a casa tua”, ha perso tutto ciò che
aveva davanti agli occhi, è stato riempito da quel nome».
L’invito di don Giussani è chiaro: «Noi dobbiamo immedesimarci
con le persone di cui il vangelo parla. Ma non le comprendiamo e non
riusciamo ad immedesimarci con quel che erano, se non ci immedesimiamo
aveva davanti agli occhi, è stato riempito da quel nome».
L’invito di don Giussani è chiaro: «Noi dobbiamo immedesimarci
con le persone di cui il vangelo parla. Ma non le comprendiamo e non
riusciamo ad immedesimarci con quel che erano, se non ci immedesimiamo
con Cristo che dice: “Zaccheo”. Quando scoppia la parola “Zaccheo”, allora
comprendiamo Zaccheo. Quando Cristo dice: “Zaccheo,
scendi ché vengo a casa tua”, che cosa era Zaccheo lo comprendiamo in
quel momento lì. Pensa che cosa ha sentito Zaccheo, come ha misurato
di botto tutti gli errori fatti senza neanche misurarli, come ha sentito
cos’era lui e chi era quello che lo chiamava. Cos’era Zaccheo, è proprio
Sabato mattina
17immedesimandoci con Cristo che lo vediamo».26 Altrove don Giussani
scendi ché vengo a casa tua”, che cosa era Zaccheo lo comprendiamo in
quel momento lì. Pensa che cosa ha sentito Zaccheo, come ha misurato
di botto tutti gli errori fatti senza neanche misurarli, come ha sentito
cos’era lui e chi era quello che lo chiamava. Cos’era Zaccheo, è proprio
Sabato mattina
17immedesimandoci con Cristo che lo vediamo».26 Altrove don Giussani
osserva: «È questa vicinanza, è questa presenza − presenza non di
uno che guarda dall’altra parte, ma presenza di uno che guarda te −, è
questa vicinanza che sconvolge, per cui la vita è trasfigurata; insomma
Zaccheo non ha detto mentre andava a casa: “Adesso questo qui mi dirà
che ho rubato cento di qui, trentaquattro di là, adesso...”. Era pieno di
quello sguardo, è andato a casa per preparare il pranzo per quell’uomo,
per quello lì che l’aveva guardato; e dopo, come conseguenza, pensa:
“Ecco, io do via tutto quello che ho preso”. Ma è una conseguenza che
è durata tutta la vita, perché non è automatico; ognuno di noi conosce
l’impeto con cui si dà, e sa anche che poi si ritira, perciò è la lotta della
uno che guarda dall’altra parte, ma presenza di uno che guarda te −, è
questa vicinanza che sconvolge, per cui la vita è trasfigurata; insomma
Zaccheo non ha detto mentre andava a casa: “Adesso questo qui mi dirà
che ho rubato cento di qui, trentaquattro di là, adesso...”. Era pieno di
quello sguardo, è andato a casa per preparare il pranzo per quell’uomo,
per quello lì che l’aveva guardato; e dopo, come conseguenza, pensa:
“Ecco, io do via tutto quello che ho preso”. Ma è una conseguenza che
è durata tutta la vita, perché non è automatico; ognuno di noi conosce
l’impeto con cui si dà, e sa anche che poi si ritira, perciò è la lotta della
vita. Ma quello che rende ormai trasfigurabile la vita è diventato un
fatto. Matteo era trasfigurato, la donna, quel gruppetto di donne, erano
trasfigurate. Provate a pensare a quello che avranno detto i mariti e i figli
di quelle donne: “Ma siete matte?”. Erano un’altra cosa, Zaccheo era
un’altra cosa, la loro vita era trasfigurata; loro capivano di voler più bene
ai loro mariti e ai loro figli, e Zaccheo capiva di essere più ricco di prima,
fatto. Matteo era trasfigurato, la donna, quel gruppetto di donne, erano
trasfigurate. Provate a pensare a quello che avranno detto i mariti e i figli
di quelle donne: “Ma siete matte?”. Erano un’altra cosa, Zaccheo era
un’altra cosa, la loro vita era trasfigurata; loro capivano di voler più bene
ai loro mariti e ai loro figli, e Zaccheo capiva di essere più ricco di prima,
trasfigurato, perché era vicino a quello lì. È il contrario dell’episodio
del giovane ricco, uno a cui Cristo dice: “Vieni con me”, cioè: “Voglio
stare vicino a te”. E il vangelo dice: “E quello se ne andò triste”, il giovane
del giovane ricco, uno a cui Cristo dice: “Vieni con me”, cioè: “Voglio
stare vicino a te”. E il vangelo dice: “E quello se ne andò triste”, il giovane
ricco, triste. O trasfigurati o tristi, perché non si può rimanere fermi
dove si era prima dopo che Cristo ha chiamato, quando Cristo ha dato
una vocazione, quando Cristo è venuto vicino alla nostra vita, quando
ha chiesto alla nostra vita di essere la Sua testimonianza nel mondo;
non si può essere come prima: o si diventa più tristi, ci si intristisce di
più, anche se sembra di prendere respiro, perché si ritorna a fare i propri
comodi, ci si immeschinisce in un modo umanamente anche penoso,
oppure ci si trasfigura».27
Che il cristianesimo sia un avvenimento, nell’esperienza, significa
la prevalenza di una presenza: non una presenza qualsiasi, ma quella
Presenza in grado di rispondere al bisogno del vivere. «Per farsi
dove si era prima dopo che Cristo ha chiamato, quando Cristo ha dato
una vocazione, quando Cristo è venuto vicino alla nostra vita, quando
ha chiesto alla nostra vita di essere la Sua testimonianza nel mondo;
non si può essere come prima: o si diventa più tristi, ci si intristisce di
più, anche se sembra di prendere respiro, perché si ritorna a fare i propri
comodi, ci si immeschinisce in un modo umanamente anche penoso,
oppure ci si trasfigura».27
Che il cristianesimo sia un avvenimento, nell’esperienza, significa
la prevalenza di una presenza: non una presenza qualsiasi, ma quella
Presenza in grado di rispondere al bisogno del vivere. «Per farsi
riconoscere, Dio è entrato nella vita dell’uomo come uomo, secondo una forma
umana, così che il pensiero, l’immaginatività e l’affettività dell’uomo
sono stati come “bloccati”, calamitati da Lui.»28 Perché sono stati calamitati
umana, così che il pensiero, l’immaginatività e l’affettività dell’uomo
sono stati come “bloccati”, calamitati da Lui.»28 Perché sono stati calamitati
da Lui, dalla Sua presenza? Perché era l’unica in grado di rispon-
18
dere al bisogno del vivere, all’esigenza di compimento. Il cristianesimo
come avvenimento è la preponderanza della Presenza, senza la quale la
vita sarebbe cupa, triste, priva di un vero interesse. Non si può vivere
senza di essa. Questo è il motivo vero per cui la si cerca in continuazione.
come avvenimento è la preponderanza della Presenza, senza la quale la
vita sarebbe cupa, triste, priva di un vero interesse. Non si può vivere
senza di essa. Questo è il motivo vero per cui la si cerca in continuazione.
Non prima di tutto per essere “buoni”, ma per vivere, per poter stare
davanti a se stessi, per poter avere affezione a sé.
«La tua grazia vale più della vita.»29 Cosa è questa «grazia» che vale
più della vita? Per noi la grazia ha un nome: Gesù. La Sua persona è
tutta la grazia.
Perché questa Presenza riesce a prevalere così potentemente anche
davanti a tutti i problemi del vivere in cui tante volte ci incastriamo?
Come mai s’impone con questa potenza semplice, senza che possiamo
fare niente per evitarlo? Come mai neanche il nostro male, la nostra
incoerenza (e quella dei pubblicani era tanta!), riesce a impedirle di
davanti a se stessi, per poter avere affezione a sé.
«La tua grazia vale più della vita.»29 Cosa è questa «grazia» che vale
più della vita? Per noi la grazia ha un nome: Gesù. La Sua persona è
tutta la grazia.
Perché questa Presenza riesce a prevalere così potentemente anche
davanti a tutti i problemi del vivere in cui tante volte ci incastriamo?
Come mai s’impone con questa potenza semplice, senza che possiamo
fare niente per evitarlo? Come mai neanche il nostro male, la nostra
incoerenza (e quella dei pubblicani era tanta!), riesce a impedirle di
imporsi nella vita? Per la corrispondenza che trova – realizza – nel cuore
dell’uomo. Che può essere distratto, ridotto quanto si vuole, ma niente
può impedire, almeno per un attimo, che quella presenza s’imponga. Il
primo istante è incontrollabile dall’uomo. Nessuno può impedire di essere
dell’uomo. Che può essere distratto, ridotto quanto si vuole, ma niente
può impedire, almeno per un attimo, che quella presenza s’imponga. Il
primo istante è incontrollabile dall’uomo. Nessuno può impedire di essere
colpito da una presenza, qualunque sia la situazione in cui si trova.
Nessuno può controllare la realtà fino al punto di impedire la sorpresa di
un avvenimento. È talmente imprevisto che ci sorprende senza difese,
almeno per un istante.
Ma, allora, che cosa c’entra il bisogno? Perché Gesù dice di essere
venuto per i malati? Perché solo coloro che hanno la ferita sono, di solito,
Nessuno può controllare la realtà fino al punto di impedire la sorpresa di
un avvenimento. È talmente imprevisto che ci sorprende senza difese,
almeno per un istante.
Ma, allora, che cosa c’entra il bisogno? Perché Gesù dice di essere
venuto per i malati? Perché solo coloro che hanno la ferita sono, di solito,
ultimamente aperti a un imprevisto. Senza bisogno, senza ferita, uno
chiude subito qualsiasi possibilità a questo imprevisto, cerca di sistemare
chiude subito qualsiasi possibilità a questo imprevisto, cerca di sistemare
le cose. Il bisogno è condizione necessaria, non del porsi dell’avvenimento,
ma del suo riconoscimento. Un avvenimento irrompe, accade,
irriducibilmente, qui e ora, non è conseguenza di antecedenti. Il bisogno
permette di vedere l’avvenimento, di accorgersi di esso. Come ha detto
papa Francesco incontrando i cardinali: «La verità cristiana è attraente
e persuasiva perché risponde al bisogno profondo dell’esistenza umana,
annunciando in maniera convincente che Cristo è l’unico Salvatore di
tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Questo annuncio resta valido oggi
come lo fu all’inizio del cristianesimo, quando si operò la prima grande
espansione missionaria del Vangelo».30
Chi si lascia colpire da quella Presenza non può evitare di percepir-
29 Sal 63 (62),4.
30 Francesco, Udienza con i Cardinali, 15 marzo 2013.
Sabato mattina
19La come un bene da non perdere. È così corrispondente all’attesa che
nessun’altra cosa è in grado di portare una soddisfazione tanto sconvolgente.
irriducibilmente, qui e ora, non è conseguenza di antecedenti. Il bisogno
permette di vedere l’avvenimento, di accorgersi di esso. Come ha detto
papa Francesco incontrando i cardinali: «La verità cristiana è attraente
e persuasiva perché risponde al bisogno profondo dell’esistenza umana,
annunciando in maniera convincente che Cristo è l’unico Salvatore di
tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Questo annuncio resta valido oggi
come lo fu all’inizio del cristianesimo, quando si operò la prima grande
espansione missionaria del Vangelo».30
Chi si lascia colpire da quella Presenza non può evitare di percepir-
29 Sal 63 (62),4.
30 Francesco, Udienza con i Cardinali, 15 marzo 2013.
Sabato mattina
19La come un bene da non perdere. È così corrispondente all’attesa che
nessun’altra cosa è in grado di portare una soddisfazione tanto sconvolgente.
Perciò con Lui l’uomo, anche il più miserabile, fa un’esperienza
di soddisfazione così grande da essere reso libero. Questa corrispondenza
di soddisfazione così grande da essere reso libero. Questa corrispondenza
grida, più di qualunque formula in cui vogliamo incasellarne l’esperienza,
il valore di tale Presenza: la Sua eccezionalità, la Sua divinità.
Se prevale in noi la presenza di quello sguardo, se esso investe la
vita, lo si vede dal modo con cui entriamo in rapporto con tutto. «Il suo
rapporto con Dio – don Giussani sta parlando del paralitico guarito da
Gesù –, il modo con cui quella sera ha pregato, il modo con cui si è
recato poi nel tempio tutti i giorni, il sentimento della vita che aveva
quando vedeva il sole tramontare o il sole nascere, e quando poi andava
a lavorare tutte le mattine con l’animo pieno di gratitudine e con l’anima
colma di timore misterioso, di timore e tremore verso questo mistero di
Dio che era arrivato fino a lui in quell’uomo che lo aveva guarito; insomma,
Se prevale in noi la presenza di quello sguardo, se esso investe la
vita, lo si vede dal modo con cui entriamo in rapporto con tutto. «Il suo
rapporto con Dio – don Giussani sta parlando del paralitico guarito da
Gesù –, il modo con cui quella sera ha pregato, il modo con cui si è
recato poi nel tempio tutti i giorni, il sentimento della vita che aveva
quando vedeva il sole tramontare o il sole nascere, e quando poi andava
a lavorare tutte le mattine con l’animo pieno di gratitudine e con l’anima
colma di timore misterioso, di timore e tremore verso questo mistero di
Dio che era arrivato fino a lui in quell’uomo che lo aveva guarito; insomma,
il sentimento verso Gesù, il modo con cui diceva che Gesù era il
Messia – e l’ha detto anche ad altri, perché poi si è accodato, è diventato
un suo discepolo –, il modo con cui andava insieme ad altri nei villaggi
ad annunciare che il Regno di Dio era già tra loro (perché c’era Gesù), il
modo con cui faceva, il modo con cui pensava al suo passato (a tutto il
marasma a cui si era lasciato andare: le bassezze, gli scoraggiamenti, le
bestemmie), il modo con cui aveva trattato i familiari, il modo con cui li
trattava adesso, erano tutte azioni che partivano da una coscienza di sé,
da un senso della sua persona, la cui fisionomia era plasmata, nata dal
ricordo di come Gesù l’aveva afferrato, da come Gesù l’aveva investito,
da come Gesù l’aveva trattato, da come lui aveva conosciuto Gesù.»31
È una presenza così irriducibile da generare una novità talmente grande
Messia – e l’ha detto anche ad altri, perché poi si è accodato, è diventato
un suo discepolo –, il modo con cui andava insieme ad altri nei villaggi
ad annunciare che il Regno di Dio era già tra loro (perché c’era Gesù), il
modo con cui faceva, il modo con cui pensava al suo passato (a tutto il
marasma a cui si era lasciato andare: le bassezze, gli scoraggiamenti, le
bestemmie), il modo con cui aveva trattato i familiari, il modo con cui li
trattava adesso, erano tutte azioni che partivano da una coscienza di sé,
da un senso della sua persona, la cui fisionomia era plasmata, nata dal
ricordo di come Gesù l’aveva afferrato, da come Gesù l’aveva investito,
da come Gesù l’aveva trattato, da come lui aveva conosciuto Gesù.»31
È una presenza così irriducibile da generare una novità talmente grande
che permette di guardare tutto sotto una luce diversa, meno confusa,
più vera. Questa esperienza di novità nel rapporto con tutto introduce alla
vera conoscenza di Cristo. Consente di cogliere il Suo valore per la vita.
Permette di conoscere Gesù, non come una definizione astratta, ma come
esperienza. È lì che l’uomo può capire il valore di quella presenza. Chi
Lo scopre si riconosce dal giudizio di stima che si genera in lui.
Nessun altro l’ha saputo esprimere come san Paolo: «Se alcuno ritiene
più vera. Questa esperienza di novità nel rapporto con tutto introduce alla
vera conoscenza di Cristo. Consente di cogliere il Suo valore per la vita.
Permette di conoscere Gesù, non come una definizione astratta, ma come
esperienza. È lì che l’uomo può capire il valore di quella presenza. Chi
Lo scopre si riconosce dal giudizio di stima che si genera in lui.
Nessun altro l’ha saputo esprimere come san Paolo: «Se alcuno ritiene
di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno,
della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo
quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile
quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello
31 L. Giussani, Dal temperamento un metodo, Bur, Milano 2002, p. 5.
Esercizi della Fraternità
20che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a
motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla
sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho
lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine
di guadagnare Cristo».32
Gesù era ben consapevole di che cosa stava portando nel mondo: «Il
regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo
trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi
averi e compra quel campo».33 Qual è il valore di quella Presenza, così
grande che si fa un grosso affare preferendoLa a qualsiasi altra cosa?
È quanto hanno testimoniato i discepoli. L’attrattiva di quella Presenza
della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo
quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile
quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello
31 L. Giussani, Dal temperamento un metodo, Bur, Milano 2002, p. 5.
Esercizi della Fraternità
20che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a
motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla
sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho
lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine
di guadagnare Cristo».32
Gesù era ben consapevole di che cosa stava portando nel mondo: «Il
regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo
trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi
averi e compra quel campo».33 Qual è il valore di quella Presenza, così
grande che si fa un grosso affare preferendoLa a qualsiasi altra cosa?
È quanto hanno testimoniato i discepoli. L’attrattiva di quella Presenza
era così grande che hanno lasciato tutto per seguirla. Come mai? La
Sua presenza investiva talmente la loro vita – rispondeva talmente alla
loro fame e alla loro sete di significato e di affezione – che Lui bastava.
La soddisfazione che procurava era così imponente che la sequela
Sua presenza investiva talmente la loro vita – rispondeva talmente alla
loro fame e alla loro sete di significato e di affezione – che Lui bastava.
La soddisfazione che procurava era così imponente che la sequela
costituiva l’unica possibilità di non perderla. La moralità aveva la stessa
origine dello stupore: la Sua presenza. La moralità sorge, infatti, dalla
Presenza, non da uno sforzo volontaristico. Il moralismo ha un’origine
diversa dalla sequela (che è sempre stupore per una presenza).
È quella stessa Presenza che hanno incontrato i pubblicani. Si capisce
origine dello stupore: la Sua presenza. La moralità sorge, infatti, dalla
Presenza, non da uno sforzo volontaristico. Il moralismo ha un’origine
diversa dalla sequela (che è sempre stupore per una presenza).
È quella stessa Presenza che hanno incontrato i pubblicani. Si capisce
perché andavano a cercarLo in continuazione, perché Lo seguivano:
non per moralismo, ma per quella simpatia profonda che la Sua persona
destava in loro. Erano attratti da Lui. Volevano stare con Lui. Così come
il fariseo Paolo o il pescatore Pietro. «Questo incontro è ciò che
non per moralismo, ma per quella simpatia profonda che la Sua persona
destava in loro. Erano attratti da Lui. Volevano stare con Lui. Così come
il fariseo Paolo o il pescatore Pietro. «Questo incontro è ciò che
continuamente polarizza il nostro vivere, dà significato e sintesi alla nostra
esistenza. Fuori di esso non c’è nessuna sorgente di coscienza di novità
nella vita. In esso l’avvenimento del Mistero presente tocca la nostra
vita e la rende parte di un flusso continuo di novità.»34
Si capisce che chi Lo incontra, come scrive Dostoevskij, non riesca a
prescindere più da Lui: «Non so come succeda agli altri, ma io non posso
esistenza. Fuori di esso non c’è nessuna sorgente di coscienza di novità
nella vita. In esso l’avvenimento del Mistero presente tocca la nostra
vita e la rende parte di un flusso continuo di novità.»34
Si capisce che chi Lo incontra, come scrive Dostoevskij, non riesca a
prescindere più da Lui: «Non so come succeda agli altri, ma io non posso
fare come tutti. Ognuno pensa, e subito pensa un’altra cosa. Io non
posso pensare altro. Io penso tutta la vita a quello che mi è accaduto».35
Parole dello stesso tenore sono quelle, a noi familiari, di Möhler: «Io
penso che non potrei più vivere, se non Lo sentissi più parlare».3621
posso pensare altro. Io penso tutta la vita a quello che mi è accaduto».35
Parole dello stesso tenore sono quelle, a noi familiari, di Möhler: «Io
penso che non potrei più vivere, se non Lo sentissi più parlare».3621
La modalità con cui don Giussani ci ha insegnato a guardare Giovanni
e Andrea resterà sempre per noi il criterio per verificare se il
cristianesimo ci sta accadendo ora, se è il prevalere di una presenza
o se è già ridotto a categoria, a definizione astratta. Altrimenti diciamo che
il cristianesimo è un avvenimento, ma come si espone una definizione,
non come qualcosa che sta succedendo ora.
«Il cristianesimo è “avvenimento”: qualcosa che prima non c’era e
ad un certo punto è sorto. Non che Andrea e Giovanni abbiano detto:
“È un avvenimento ciò che ci è accaduto”. Non era evidentemente
il cristianesimo è un avvenimento, ma come si espone una definizione,
non come qualcosa che sta succedendo ora.
«Il cristianesimo è “avvenimento”: qualcosa che prima non c’era e
ad un certo punto è sorto. Non che Andrea e Giovanni abbiano detto:
“È un avvenimento ciò che ci è accaduto”. Non era evidentemente
necessario che esplicitassero già in una definizione quello che stava loro
accadendo: stava appunto accadendo! Il cristianesimo è un avvenimento.
accadendo: stava appunto accadendo! Il cristianesimo è un avvenimento.
Non esiste altra parola per indicarne la natura: non la parola legge,
né le parole ideologia, concezione o progetto. Il cristianesimo non è una
dottrina religiosa, un seguito di leggi morali, un complesso di riti. Il
cristianesimo è un fatto, un avvenimento: tutto il resto è conseguenza».37
I discepoli potevano riconoscerLo nel guardarLo parlare, nel sentirsi
guardati, nel sentirsi colti così nel profondo di se stessi. Essi hanno percepito
né le parole ideologia, concezione o progetto. Il cristianesimo non è una
dottrina religiosa, un seguito di leggi morali, un complesso di riti. Il
cristianesimo è un fatto, un avvenimento: tutto il resto è conseguenza».37
I discepoli potevano riconoscerLo nel guardarLo parlare, nel sentirsi
guardati, nel sentirsi colti così nel profondo di se stessi. Essi hanno percepito
che la Sua presenza era riuscita a prevalere su tutto per il fatto che
erano stati subito conquistati, presi, per il fatto che avevano riconosciuto
quell’uomo nel Suo valore unico, imparagonabile, divino, e che era stato
facile rendersene conto. Quando prevale in noi l’attenzione alle conseguenze,
erano stati subito conquistati, presi, per il fatto che avevano riconosciuto
quell’uomo nel Suo valore unico, imparagonabile, divino, e che era stato
facile rendersene conto. Quando prevale in noi l’attenzione alle conseguenze,
vuol dire allora che ci siamo già spostati dal fatto!
«Dio è diventato un avvenimento nella nostra esistenza quotidiana,
affinché il nostro io si riconosca con chiarezza nei suoi fattori originali
e raggiunga il suo destino, si salvi. Fu così per Maria e per Giuseppe.
Fu così per Giovanni e Andrea, che andarono dietro a Gesù per il cenno
«Dio è diventato un avvenimento nella nostra esistenza quotidiana,
affinché il nostro io si riconosca con chiarezza nei suoi fattori originali
e raggiunga il suo destino, si salvi. Fu così per Maria e per Giuseppe.
Fu così per Giovanni e Andrea, che andarono dietro a Gesù per il cenno
di Giovanni Battista. Dio entrava come avvenimento nella loro vita.
Che l’abbiano sempre tenuto presente o l’abbiano a tratti dimenticato,
specialmente nei primi giorni o nei primi mesi, tutta la loro vita dipese
da quell’avvenimento: nella misura della sua importanza, da un
Che l’abbiano sempre tenuto presente o l’abbiano a tratti dimenticato,
specialmente nei primi giorni o nei primi mesi, tutta la loro vita dipese
da quell’avvenimento: nella misura della sua importanza, da un
avvenimento non si può più tornare indietro. Fu così per loro. È così oggi
per noi: un avvenimento può segnare un inizio e un cammino.
per noi: un avvenimento può segnare un inizio e un cammino.
L’avvenimento può segnalare un metodo di vita. Si tratta comunque di
un’esperienza da fare. Tale cammino richiede l’impegno dell’uomo, colpito
dall’avvenimento, fino a sorprendere il significato vero di quanto egli ha
incominciato a intravedere: è un cammino dello sguardo.»38
Dice Nicola Cabasilas: «Conoscere per esperienza [...] vuol dire rag-
37 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op.cit., p. 12.
38 Ibidem, p. 15.
Esercizi della Fraternità
22giungere la cosa stessa: qui perciò la forma si imprime nell’anima e
suscita il desiderio come un vestigio proporzionato alla sua bellezza».39
La bellezza di quella Presenza, impressa nell’anima, suscita il desiderio.
Per questo segna un inizio, un cammino.
Se è vero che da un avvenimento non si può tornare indietro, allo
stesso modo è vero che noi possiamo assecondare questo desiderio
dall’avvenimento, fino a sorprendere il significato vero di quanto egli ha
incominciato a intravedere: è un cammino dello sguardo.»38
Dice Nicola Cabasilas: «Conoscere per esperienza [...] vuol dire rag-
37 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op.cit., p. 12.
38 Ibidem, p. 15.
Esercizi della Fraternità
22giungere la cosa stessa: qui perciò la forma si imprime nell’anima e
suscita il desiderio come un vestigio proporzionato alla sua bellezza».39
La bellezza di quella Presenza, impressa nell’anima, suscita il desiderio.
Per questo segna un inizio, un cammino.
Se è vero che da un avvenimento non si può tornare indietro, allo
stesso modo è vero che noi possiamo assecondare questo desiderio
oppure no. Dal seguire la curiosità, dall’impegnarsi con essa, dipende che
quell’avvenimento segni un inizio e un cammino oppure che si blocchi
il cammino dello sguardo.
E qui incomincia veramente il dramma, perché tante volte quel che
accade davanti ai nostri occhi non è altro che l’avvenimento di Cristo
presente. Lo si vede nella diversità con cui viviamo le cose di tutti,
come spesso ci raccontiamo. Può essere la modalità di vivere una festa
di matrimonio o di celebrare un funerale, tant’è vero che gli altri ci
guardano, stupiti da questa diversità: «Se è così, è quasi bello morire»,
ha detto una persona al funerale di un nostro amico. Ma se noi restiamo
fermi, se blocchiamo il desiderio che quella diversità suscita, diventiamo
quell’avvenimento segni un inizio e un cammino oppure che si blocchi
il cammino dello sguardo.
E qui incomincia veramente il dramma, perché tante volte quel che
accade davanti ai nostri occhi non è altro che l’avvenimento di Cristo
presente. Lo si vede nella diversità con cui viviamo le cose di tutti,
come spesso ci raccontiamo. Può essere la modalità di vivere una festa
di matrimonio o di celebrare un funerale, tant’è vero che gli altri ci
guardano, stupiti da questa diversità: «Se è così, è quasi bello morire»,
ha detto una persona al funerale di un nostro amico. Ma se noi restiamo
fermi, se blocchiamo il desiderio che quella diversità suscita, diventiamo
schiavi dell’esito, così che ci arrabbiamo al primo contrattempo.
Perciò don Giussani ci tiene, con una carità sterminata, a renderci
Perciò don Giussani ci tiene, con una carità sterminata, a renderci
consapevoli che se noi rimaniamo fermi al contraccolpo sentimentale,
senza assecondare l’attrattiva potente della bellezza che abbiamo davanti,
questo non ci basta per vivere.
Mi ha sempre colpito il seguente episodio, perché ci dice veramente
qual è il problema davanti al quale noi tante volte ci blocchiamo. Dopo
una bella canzone eseguita con cura, in un clima umano invidiabile,
questo non ci basta per vivere.
Mi ha sempre colpito il seguente episodio, perché ci dice veramente
qual è il problema davanti al quale noi tante volte ci blocchiamo. Dopo
una bella canzone eseguita con cura, in un clima umano invidiabile,
unico, in una casa del Gruppo adulto, Giussani si ferma un istante e
nota: «È proprio molto bella sia come musica, sia com’è cantata, sia
come sentimento umano di amicizia e di fraternità e di compagnia in
una avventura. Eppure, se le cose si potessero elencare così come
le ho elencate io adesso e basta [tutto bellissimo, ma “basta”, ci si
ferma qui], e fosse dato per scontato qualcosa d’altro – accettato e
riconosciuto (intendiamoci!), ma dato per scontato –, e non fosse il
Suo nome prodotto da un’enfasi di dialogo, di voglia di farsi sentire,
di voglia di sentirlo; se non avesse personalità a un certo punto
autonoma, se non avesse una faccia ultimamente singolare, dei tratti
inconfondibili anche con quelli che Lui stesso ha creati come segno
di sé»,40 tutto questo non basterebbe: non basterebbe alla nostra
attesa di felicità, non basterebbe alla nostra sete di destino,
23
come non basterebbe nemmeno avere un lavoro eccezionale o
riuscire nella vita. Non basterebbe!
È per questo che insiste, amici: «Stiamo attenti che Gesù tra noi può
essere l’origine di tutto il mondo di umanità, pieno di letizia e di
È per questo che insiste, amici: «Stiamo attenti che Gesù tra noi può
essere l’origine di tutto il mondo di umanità, pieno di letizia e di
amicizie, di ragioni formalmente ineccepibili e di aiuto formalmente,
ma
anche materialmente concreto [...], però Gesù [questa Presenza]
anche materialmente concreto [...], però Gesù [questa Presenza]
potrebbe essere ridotto al “ritratto di una bella donna scolpito nel
monumento sepolcrale della medesima”».41 Se non vi viene da
piangere al pensiero che Gesù possa essere ridotto al ritratto di
una bella donna scolpito sul monumento sepolcrale della medesima...
Cristo «non può essere dilapidato o dilavato dall’affacciarsi bello e
lieto della compagnia di volti che di Lui dovrebbe essere accennato
Cristo «non può essere dilapidato o dilavato dall’affacciarsi bello e
lieto della compagnia di volti che di Lui dovrebbe essere accennato
segno!». Questa riduzione si evita solo «quando gli si dice “Tu” realmente,
con tutta la coscienza dell’io: quanto più si ha coscienza di sé, tanto
più potente, grande, vera, semplice e pura è la devozione a Lui [...].
La presenza di Cristo nel mondo è il miracolo della nostra compagnia.
Ma questo è la punta emergente di un segno che “s’inabissa ove è più
vero” o, meglio, è la punta di un segno che in tutto il resto naufraga nel
significato comune, in tutto il resto naufraga nella naturalità comune.
Per questo, quanto più si vuole intensamente bene, preferenzialmente
– insomma, là dove il bene è dire “io” con un impeto che gli altri non
conoscono, o dire “tu” con un impeto che gli altri non conoscono –, non
si tratta di ammortizzare il peso dell’amicizia nostra, di rendere nebulosa
l’efficacia carica d’occhi, di labbra e di viso, di parola, di canto, di cuore
di una compagnia bella come questa, ma è come una specie di esasperata
tensione – di tutto quello che ho nominato e che forma la nostra compagnia –
con tutta la coscienza dell’io: quanto più si ha coscienza di sé, tanto
più potente, grande, vera, semplice e pura è la devozione a Lui [...].
La presenza di Cristo nel mondo è il miracolo della nostra compagnia.
Ma questo è la punta emergente di un segno che “s’inabissa ove è più
vero” o, meglio, è la punta di un segno che in tutto il resto naufraga nel
significato comune, in tutto il resto naufraga nella naturalità comune.
Per questo, quanto più si vuole intensamente bene, preferenzialmente
– insomma, là dove il bene è dire “io” con un impeto che gli altri non
conoscono, o dire “tu” con un impeto che gli altri non conoscono –, non
si tratta di ammortizzare il peso dell’amicizia nostra, di rendere nebulosa
l’efficacia carica d’occhi, di labbra e di viso, di parola, di canto, di cuore
di una compagnia bella come questa, ma è come una specie di esasperata
tensione – di tutto quello che ho nominato e che forma la nostra compagnia –
a gridare il tuo nome, o Cristo: “Grazie che Ti sei fatto vedere e
Ti sei seduto qui”».42
Dunque, se non c’è questa esasperata tensione a gridare il Tuo nome,
Cristo, niente basta!
Perciò la questione di un impegno totale con la realtà – di cui abbiamo
discusso in una occasione recente – è una questione di stima, come diceva
Ti sei seduto qui”».42
Dunque, se non c’è questa esasperata tensione a gridare il Tuo nome,
Cristo, niente basta!
Perciò la questione di un impegno totale con la realtà – di cui abbiamo
discusso in una occasione recente – è una questione di stima, come diceva
un amico durante un’assemblea: «Uno non è impegnato totalmente
con la realtà perché non ha stima fino in fondo di quello che ha incontrato.
con la realtà perché non ha stima fino in fondo di quello che ha incontrato.
Uno, infatti, dà sempre stima a qualcosa che ha per lui valore assoluto,
dà stima a una cosa rispetto alle altre. Ecco, è come se per noi la stima di
Gesù fosse una delle tante cose e non invece “la” stima: io non ti stimo
41 Ibidem, pp. 150-151.
42 Ibidem, p. 152-153.
Esercizi della Fraternità
24fino in fondo, o Cristo, per cui il mio impegno con la realtà è parziale.
Lo vedo su di me e sulla gente: questa stima di Gesù totale, se tu ce l’hai
allora la realtà la affronti, cerchi il significato. Gesù è tutto».
Allora la nostra speranza è che questo Avvenimento continui ad accadere
dà stima a una cosa rispetto alle altre. Ecco, è come se per noi la stima di
Gesù fosse una delle tante cose e non invece “la” stima: io non ti stimo
41 Ibidem, pp. 150-151.
42 Ibidem, p. 152-153.
Esercizi della Fraternità
24fino in fondo, o Cristo, per cui il mio impegno con la realtà è parziale.
Lo vedo su di me e sulla gente: questa stima di Gesù totale, se tu ce l’hai
allora la realtà la affronti, cerchi il significato. Gesù è tutto».
Allora la nostra speranza è che questo Avvenimento continui ad accadere
e ci attiri talmente da ridestare in noi il desiderio di impegnarci, così che
possiamo coglierLo nel suo accadere. Se infatti noi non percepiamo la Sua
presenza, inevitabilmente il centro affettivo si sposta, anche se non ce ne
rendiamo conto. Dalla Sua presenza può scaturire anche tutto un mondo di
umanità, ma Cristo non prevale. Qui è in gioco la fede.
Come ci rendiamo conto che Cristo non prevale? L’esperienza ci offre
possiamo coglierLo nel suo accadere. Se infatti noi non percepiamo la Sua
presenza, inevitabilmente il centro affettivo si sposta, anche se non ce ne
rendiamo conto. Dalla Sua presenza può scaturire anche tutto un mondo di
umanità, ma Cristo non prevale. Qui è in gioco la fede.
Come ci rendiamo conto che Cristo non prevale? L’esperienza ci offre
tutte le “spie” necessarie: il lavoro o la bella compagnia non ci bastano.
Eppure non ci rendiamo conto di come questa riduzione avvenga,
per «uno strano oscuramento del pensiero»,43 come dice Benedetto XVI.
Se il metodo della conoscenza è l’Avvenimento, se ci rendiamo conto di
per «uno strano oscuramento del pensiero»,43 come dice Benedetto XVI.
Se il metodo della conoscenza è l’Avvenimento, se ci rendiamo conto di
noi stessi solo attraverso l’Avvenimento presente, allora solamente
uno in cui la natura dell’Avvenimento non si è oscurata può renderci
consapevoli del nostro smarrimento, della nostra riduzione. Questo è il
dono di don Giussani per noi. Egli non solo ha descritto come nessun
altro il cristianesimo come avvenimento, ma ce lo ha testimoniato. Che
in lui accadesse di continuo l’Avvenimento si evince dal fatto che poteva
uno in cui la natura dell’Avvenimento non si è oscurata può renderci
consapevoli del nostro smarrimento, della nostra riduzione. Questo è il
dono di don Giussani per noi. Egli non solo ha descritto come nessun
altro il cristianesimo come avvenimento, ma ce lo ha testimoniato. Che
in lui accadesse di continuo l’Avvenimento si evince dal fatto che poteva
rendersi conto di ognuna delle riduzioni da noi operate. In lui stava
accadendo l’Avvenimento – perché chi vede il deserto non appartiene al
deserto –: per questo non si accontentava di nulla che fosse meno della
sua Presenza, come documenta la sua esasperata tensione a dire il Suo
nome. Noi, intanto, l’avevamo già persa per strada!
2. «All’inizio non fu così»
Per comprendere un avvenimento noi di solito partiamo dalla nostra
esperienza. Qualcosa succede in un momento del tempo e dello spazio,
ma poi si passa a un’altra cosa. Ciò che ci accade può lasciare più o
meno traccia, dipende dalla portata dell’avvenimento, ma subito resta
alle spalle. Siamo talmente convinti che le cose vadano necessariamente
così, che spesso commentiamo: «Non è certo possibile rimanere stupiti
come all’inizio!». Addirittura, lo teorizziamo.
Ma Giussani sfida la nostra concezione dicendo che questo modo
accadendo l’Avvenimento – perché chi vede il deserto non appartiene al
deserto –: per questo non si accontentava di nulla che fosse meno della
sua Presenza, come documenta la sua esasperata tensione a dire il Suo
nome. Noi, intanto, l’avevamo già persa per strada!
2. «All’inizio non fu così»
Per comprendere un avvenimento noi di solito partiamo dalla nostra
esperienza. Qualcosa succede in un momento del tempo e dello spazio,
ma poi si passa a un’altra cosa. Ciò che ci accade può lasciare più o
meno traccia, dipende dalla portata dell’avvenimento, ma subito resta
alle spalle. Siamo talmente convinti che le cose vadano necessariamente
così, che spesso commentiamo: «Non è certo possibile rimanere stupiti
come all’inizio!». Addirittura, lo teorizziamo.
Ma Giussani sfida la nostra concezione dicendo che questo modo
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di ragionare non vale nei confronti dell’avvenimento cristiano:
«Il cristianesimo infatti è “un avvenimento”, è una realtà nuova di vita che è
entrata nel mondo e perciò, quando mi afferra, è una esperienza di vita
nuova, non nuova solo agli inizi, ma sempre nuova».44 Il cristianesimo
non è quel che rimane di un avvenimento, ma è sempre un avvenimento;
altrimenti documenterebbe la sua inattendibilità. Infatti, qualcosa che
non è in qualche modo presente, non è. O sta accadendo ora oppure non
è. A questo punto, possiamo comprendere ancora di più che cosa
entrata nel mondo e perciò, quando mi afferra, è una esperienza di vita
nuova, non nuova solo agli inizi, ma sempre nuova».44 Il cristianesimo
non è quel che rimane di un avvenimento, ma è sempre un avvenimento;
altrimenti documenterebbe la sua inattendibilità. Infatti, qualcosa che
non è in qualche modo presente, non è. O sta accadendo ora oppure non
è. A questo punto, possiamo comprendere ancora di più che cosa
significhi l’affermazione che il cristianesimo è un avvenimento.
Dice don Giussani: «L’imbattersi in una presenza di umanità diversa
viene prima non solo all’inizio, ma in ogni momento che segue l’inizio:
un anno o vent’anni dopo. Il fenomeno iniziale – l’impatto con una
Dice don Giussani: «L’imbattersi in una presenza di umanità diversa
viene prima non solo all’inizio, ma in ogni momento che segue l’inizio:
un anno o vent’anni dopo. Il fenomeno iniziale – l’impatto con una
diversità umana, lo stupore che ne nasce – è destinato a essere il
fenomeno iniziale e originale di ogni momento dello sviluppo.
Perché non vi è alcuno sviluppo se quell’impatto iniziale non si
ripete, se l’avvenimento non resta cioè contemporaneo. O si rinnova,
oppure nulla procede, e subito si teorizza l’avvenimento accaduto,
e si brancica alla ricerca di appoggi sostitutivi di Ciò che è
veramente all’origine della diversità. Il fattore originante è,
permanentemente, l’impatto con una realtà umana diversa.
Se dunque non riaccade e si rinnova quello che è avvenuto in principio,
non si realizza vera continuità: se uno non vive ora l’impatto con una realtà
umana nuova, non capisce ciò che gli è accaduto allora.
umana nuova, non capisce ciò che gli è accaduto allora.
Solo se l’avvenimento riaccade ora, si illumina e si approfondisce
l’avvenimento iniziale e si stabilisce così una continuità, uno sviluppo».45
Con la sua genialità, don Giussani ha una percezione talmente
Con la sua genialità, don Giussani ha una percezione talmente
consapevole della natura del cristianesimo che in questo testo non soltanto
ci ricorda i requisiti permanenti del cristianesimo come avvenimento
– la contemporaneità e la irriducibile diversità –, ma ci offre anche gli
indizi che ci consentono di renderci conto di quando il cristianesimo
cessa di essere sperimentato come avvenimento presente.
ci ricorda i requisiti permanenti del cristianesimo come avvenimento
– la contemporaneità e la irriducibile diversità –, ma ci offre anche gli
indizi che ci consentono di renderci conto di quando il cristianesimo
cessa di essere sperimentato come avvenimento presente.
Lo si riconosce da due segni.
Primo: si teorizza l’avvenimento accaduto. In mancanza del fascino
Primo: si teorizza l’avvenimento accaduto. In mancanza del fascino
dell’avvenimento, ci accontentiamo della teoria, del discorso, di una
categoria astratta. E lo ripetiamo in continuazione. Addirittura lo
categoria astratta. E lo ripetiamo in continuazione. Addirittura lo
giustifichiamo, come ci ricorda Dostoevskij: «L’uomo è talmente attaccato al
sistema e alla deduzione astratta che sarebbe pronto ad alterare premedi-
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sistema e alla deduzione astratta che sarebbe pronto ad alterare premedi-
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tatamente la verità, è pronto a non vedere vedendo e a non udire udendo,
pur di giustificare la propria logica».46 Infatti, avendo perso per strada
l’attrattiva della Presenza, nella teorizzazione (riduzione a categoria o
discorso) domina quel che già sappiamo, quel che abbiamo stabilito noi,
il nostro schema, il nostro parere.
Ma siccome siamo fatti per il compimento, il vuoto lasciato dalla
mancata presenza deve essere riempito. E perciò – questo è il secondo
segno – si cercano, dice don Giussani, appoggi sostitutivi, che documentano
pur di giustificare la propria logica».46 Infatti, avendo perso per strada
l’attrattiva della Presenza, nella teorizzazione (riduzione a categoria o
discorso) domina quel che già sappiamo, quel che abbiamo stabilito noi,
il nostro schema, il nostro parere.
Ma siccome siamo fatti per il compimento, il vuoto lasciato dalla
mancata presenza deve essere riempito. E perciò – questo è il secondo
segno – si cercano, dice don Giussani, appoggi sostitutivi, che documentano
lo spostamento affettivo. Quando i discepoli non si rendono
conto della portata della Presenza che hanno incontrato, incominciano a
cercare il tornaconto: «Allora Pietro prendendo la parola disse: “Ecco,
noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne
otterremo?”».47 Ma la Sua presenza non è tutto? Neanche lui, Pietro, se
ne rende conto.
Oppure prevale la ricerca della riuscita: «I settantadue tornarono
pieni di gioia dicendo: “Signore, anche i demòni si sottomettono a noi
nel tuo nome”. Egli disse: “Io vedevo satana cadere dal cielo come la
folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli
scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare.
Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi
piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli”».48 Ai settantadue non
basta più la Sua presenza per rallegrare la vita. Non è che non debbano
valorizzare il bene fatto, ma questo bene non può oscurare la distanza
abissale che c’è tra i miracoli da essi compiuti e il fatto di essere Suoi!
Ma ciò non passa neanche per l’anticamera del loro cervello, proprio
come accade a noi.
Oppure si cerca di riempire il vuoto con il potere: «E gli si avvicinarono
conto della portata della Presenza che hanno incontrato, incominciano a
cercare il tornaconto: «Allora Pietro prendendo la parola disse: “Ecco,
noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne
otterremo?”».47 Ma la Sua presenza non è tutto? Neanche lui, Pietro, se
ne rende conto.
Oppure prevale la ricerca della riuscita: «I settantadue tornarono
pieni di gioia dicendo: “Signore, anche i demòni si sottomettono a noi
nel tuo nome”. Egli disse: “Io vedevo satana cadere dal cielo come la
folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli
scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare.
Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi
piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli”».48 Ai settantadue non
basta più la Sua presenza per rallegrare la vita. Non è che non debbano
valorizzare il bene fatto, ma questo bene non può oscurare la distanza
abissale che c’è tra i miracoli da essi compiuti e il fatto di essere Suoi!
Ma ciò non passa neanche per l’anticamera del loro cervello, proprio
come accade a noi.
Oppure si cerca di riempire il vuoto con il potere: «E gli si avvicinarono
Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: “Maestro,
noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo”. Egli disse loro:
“Cosa volete che io faccia per voi?”. Gli risposero: “Concedici di sedere
nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. Gesù disse
loro: “Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io
bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. Gli risposero:
“Lo possiamo”. E Gesù disse: “Il calice che io bevo anche voi lo berrete,
e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla mia
destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali
46 F.M. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, Einaudi, Torino 1988, p. 24.
47 Mt 19,27.
48 Lc 10,17-20.
Sabato mattina
27è stato preparato”. All’udire questo, gli altri dieci [che non erano diversi]
si sdegnarono con Giacomo e Giovanni».49
Quali sono i nostri appoggi sostitutivi? Non sono molto diversi da
quelli degli apostoli appena richiamati. Guardiamoli insieme, così come
ce li ha segnalati don Giussani.
a) Cristianesimo ridotto a valori
«L’altra sera, in un raduno a Milano, osservavo che, in questi anni,
da una quindicina circa a questa parte, in tutti gli anni del nostro cammino,
noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo”. Egli disse loro:
“Cosa volete che io faccia per voi?”. Gli risposero: “Concedici di sedere
nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. Gesù disse
loro: “Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io
bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. Gli risposero:
“Lo possiamo”. E Gesù disse: “Il calice che io bevo anche voi lo berrete,
e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla mia
destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali
46 F.M. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, Einaudi, Torino 1988, p. 24.
47 Mt 19,27.
48 Lc 10,17-20.
Sabato mattina
27è stato preparato”. All’udire questo, gli altri dieci [che non erano diversi]
si sdegnarono con Giacomo e Giovanni».49
Quali sono i nostri appoggi sostitutivi? Non sono molto diversi da
quelli degli apostoli appena richiamati. Guardiamoli insieme, così come
ce li ha segnalati don Giussani.
a) Cristianesimo ridotto a valori
«L’altra sera, in un raduno a Milano, osservavo che, in questi anni,
da una quindicina circa a questa parte, in tutti gli anni del nostro cammino,
è come se [...] il movimento avesse costruito sui valori che Cristo ci ha portati.
Così, tutto lo sforzo di attività associativa, operativa,
caritativa, culturale, sociale, politica, ha certamente avuto come scopo
quello di mobilitare noi stessi e le cose secondo [...] gli spunti di valore
che Cristo ci ha resi noti. Ma, all’inizio del movimento, non fu così.
Come ho accennato ieri, all’inizio del movimento, nei primi anni, non si
costruì sui valori che Cristo ci aveva portati, ma si costruì su Cristo,
caritativa, culturale, sociale, politica, ha certamente avuto come scopo
quello di mobilitare noi stessi e le cose secondo [...] gli spunti di valore
che Cristo ci ha resi noti. Ma, all’inizio del movimento, non fu così.
Come ho accennato ieri, all’inizio del movimento, nei primi anni, non si
costruì sui valori che Cristo ci aveva portati, ma si costruì su Cristo,
ingenuamente fin quando volete, ma il tema del cuore, il movente
persuasivo era il fatto di Cristo, e perciò il fatto del Suo corpo nel mondo, della
Chiesa. All’inizio si costruiva, si cercava di costruire su qualcosa che
stava accadendo, non sui valori portati, e quindi sulla inevitabile nostra
interpretazione di essi: si cercava di costruire su qualcosa che stava
Chiesa. All’inizio si costruiva, si cercava di costruire su qualcosa che
stava accadendo, non sui valori portati, e quindi sulla inevitabile nostra
interpretazione di essi: si cercava di costruire su qualcosa che stava
accadendo e che ci aveva investiti. Per quanto ingenua e smaccatamente
sproporzionata fosse, questa era una posizione pura. Per questo, per
averla come abbandonata, essendoci attestati su una posizione che è
stata innanzitutto, starei per dire, una “traduzione culturale” piuttosto
che l’entusiasmo per una Presenza, noi non conosciamo – nel senso
sproporzionata fosse, questa era una posizione pura. Per questo, per
averla come abbandonata, essendoci attestati su una posizione che è
stata innanzitutto, starei per dire, una “traduzione culturale” piuttosto
che l’entusiasmo per una Presenza, noi non conosciamo – nel senso
biblico del termine – Cristo, noi non conosciamo il mistero di Dio, perché
non ci è familiare.»50 Dobbiamo recuperare la purità originale.
Che cosa occorreva a don Giussani per rendersi conto di tale riduzione
non ci è familiare.»50 Dobbiamo recuperare la purità originale.
Che cosa occorreva a don Giussani per rendersi conto di tale riduzione
el cristianesimo a valori? Occorreva che lui vivesse il cristianesimo
come qualcosa che gli stava accadendo.
Pensiamo a come una persona innamorata si accorga facilmente
quando in altri il rapporto con l’uomo o la donna che hanno sposato ha
cessato di essere qualcosa che sta accadendo ed è diventato una cosa
diversa dall’entusiasmo per una presenza.
28
Esercizi della Fraternitàb) Da una presenza che si imponeva a organizzazione
da seguire«Il movimento è nato da una presenza che si imponeva e portava
alla vita la provocazione di una promessa da seguire. Ma poi abbiamo
affidato la continuità di questo inizio ai discorsi e alle iniziative, alle
riunioni e alle cose da fare. Non l’abbiamo affidato alla nostra vita, così
che l’inizio ha cessato molto presto di essere verità offerta alla nostra
persona ed è divenuto spunto di una associazione, di una realtà su cui
scaricare la responsabilità del proprio lavoro e dalla quale pretendere la
risoluzione delle cose.»51 Non è che si neghi Cristo, semplicemente
Pensiamo a come una persona innamorata si accorga facilmente
quando in altri il rapporto con l’uomo o la donna che hanno sposato ha
cessato di essere qualcosa che sta accadendo ed è diventato una cosa
diversa dall’entusiasmo per una presenza.
28
Esercizi della Fraternitàb) Da una presenza che si imponeva a organizzazione
da seguire«Il movimento è nato da una presenza che si imponeva e portava
alla vita la provocazione di una promessa da seguire. Ma poi abbiamo
affidato la continuità di questo inizio ai discorsi e alle iniziative, alle
riunioni e alle cose da fare. Non l’abbiamo affidato alla nostra vita, così
che l’inizio ha cessato molto presto di essere verità offerta alla nostra
persona ed è divenuto spunto di una associazione, di una realtà su cui
scaricare la responsabilità del proprio lavoro e dalla quale pretendere la
risoluzione delle cose.»51 Non è che si neghi Cristo, semplicemente
Cristo è diventato un «richiamo spirituale», e quel che prevale è altro: «Per
molti di noi che la salvezza sia Gesù Cristo e che la liberazione della vita
e dell’uomo, qui e nell’aldilà, sia legata continuamente all’incontro con
lui è diventato un richiamo “spirituale”. Il concreto sarebbe altro: è
molti di noi che la salvezza sia Gesù Cristo e che la liberazione della vita
e dell’uomo, qui e nell’aldilà, sia legata continuamente all’incontro con
lui è diventato un richiamo “spirituale”. Il concreto sarebbe altro: è
l’impegno sindacale, è far passare certi diritti, è la organizzazione, le unità di
lavoro e perciò le riunioni, ma non come espressioni di una esigenza di
vita, piuttosto come mortificazione della vita, peso e pedaggio da pagare
ad una appartenenza che ci trova ancora inspiegabilmente in fila».52
Lo diceva in modo solare l’allora cardinale Bergoglio: «Quando il fedele si
lavoro e perciò le riunioni, ma non come espressioni di una esigenza di
vita, piuttosto come mortificazione della vita, peso e pedaggio da pagare
ad una appartenenza che ci trova ancora inspiegabilmente in fila».52
Lo diceva in modo solare l’allora cardinale Bergoglio: «Quando il fedele si
rende conto di aver perso lo slancio e l’entusiasmo di un tempo, tende a
assumere atteggiamenti che non gli sono propri. [...] La perdita del fervore
iniziale porta alcuni [...] a rifugiarsi in quelli che possiamo chiamare
assumere atteggiamenti che non gli sono propri. [...] La perdita del fervore
iniziale porta alcuni [...] a rifugiarsi in quelli che possiamo chiamare
“compiti secondari”. [...] La fuga si manifesta come fuga verso le virtù
“secondarie”: alcuni si dedicano al sociale [...]. Altri, al contrario,
si concentrano sui riti. In entrambi i casi ciò non basta per affrontare
la vera sfida».53 c) Da vortice a discorso corretto e pulito
Quando il cristianesimo non accade più come avvenimento di una
Presenza che invade la vita e la fa ribollire, allora si finisce per teorizzare
l’avvenimento accaduto: «Si tramanda un discorso corretto e pulito,
la vera sfida».53 c) Da vortice a discorso corretto e pulito
Quando il cristianesimo non accade più come avvenimento di una
Presenza che invade la vita e la fa ribollire, allora si finisce per teorizzare
l’avvenimento accaduto: «Si tramanda un discorso corretto e pulito,
alcune regole su come essere cristiani e uomini. Ma senza amore, senza il
riconoscimento del Mistero vivificante, il singolo si spegne e muore. La
nostra speranza, la salvezza di Cristo non può essere qualcosa che
riconoscimento del Mistero vivificante, il singolo si spegne e muore. La
nostra speranza, la salvezza di Cristo non può essere qualcosa che
abbiamo letto e sappiamo ripetere bene. Un discorso più o meno
edificante o moralistico, ecco, a questo viene ridotto spesso l’annuncio.
Bisognerebbe ribollire... [...] Non si è ancora comunicata l’esaltazione del singolo,
29
29
la vittoria del Mistero, la gloria di Cristo di fronte a quello che accade.
Ma questo avviene se c’è questa esperienza».54
Cristo non è, e non può essere, qualcosa di cui abbiamo letto o un
Ma questo avviene se c’è questa esperienza».54
Cristo non è, e non può essere, qualcosa di cui abbiamo letto o un
discorso che sappiamo ripetere bene. Già nel 1962 don Giussani avvertiva
i giessini (allora al culmine della diffusione di Gioventù studentesca a
Milano) di questa riduzione: «Si è come fossilizzata l’esperienza originale
i giessini (allora al culmine della diffusione di Gioventù studentesca a
Milano) di questa riduzione: «Si è come fossilizzata l’esperienza originale
che ci ha fatto entrare, si è cristallizzata. [...] Alle origini qualcosa
ha agito per voi, in voi, su di voi; è una reazione di semplicità a questo
dono che vi ha portato con noi». Ma poi è subentrato un formalismo,
cioè «la stasi della novità».55 Sono subentrati il formalismo e la stasi.
d) L’avvenimento diventa un fenomeno del passato
Il cristianesimo è talmente avvenimento che, quando diventa fenomeno
ha agito per voi, in voi, su di voi; è una reazione di semplicità a questo
dono che vi ha portato con noi». Ma poi è subentrato un formalismo,
cioè «la stasi della novità».55 Sono subentrati il formalismo e la stasi.
d) L’avvenimento diventa un fenomeno del passato
Il cristianesimo è talmente avvenimento che, quando diventa fenomeno
del passato, non lo si può far riaccadere con un altro metodo,
ci dice don Giussani, che non sia quello dell’avvenimento stesso. Il
cristianesimo è un avvenimento al punto tale che deve riaccadere. Se
ci siamo sganciati da esso, se si è prodotta una discontinuità (per cui è
diventato un devoto ricordo quello che è successo nel passato), quando
cerchiamo di farlo riaccadere con le nostre iniziative, non ci riusciamo.
«Formuliamo l’ipotesi che si riuniscano oggi alcuni che abbiano già
vissuto l’esperienza di cui abbiamo parlato e avendo il ricordo
ci dice don Giussani, che non sia quello dell’avvenimento stesso. Il
cristianesimo è un avvenimento al punto tale che deve riaccadere. Se
ci siamo sganciati da esso, se si è prodotta una discontinuità (per cui è
diventato un devoto ricordo quello che è successo nel passato), quando
cerchiamo di farlo riaccadere con le nostre iniziative, non ci riusciamo.
«Formuliamo l’ipotesi che si riuniscano oggi alcuni che abbiano già
vissuto l’esperienza di cui abbiamo parlato e avendo il ricordo
impressionante di un avvenimento da cui sono stati colpiti – che ha fatto loro
del bene, che ha addirittura qualificato la loro vita –, vogliono riprenderlo,
del bene, che ha addirittura qualificato la loro vita –, vogliono riprenderlo,
colmando una “discontinuità” che si è venuta a creare nel corso
degli anni. Ciò per cui essi ancora si sentono amici è un’esperienza
passata, un fatto accaduto, che nel presente è diventato però
degli anni. Ciò per cui essi ancora si sentono amici è un’esperienza
passata, un fatto accaduto, che nel presente è diventato però
– come dicevamo – un “devoto ricordo”. Ora, come è possibile per loro
riprendere una continuità con l’avvenimento iniziale che li ha investiti?
Se per esempio dicessero: “Mettiamoci insieme a fare un gruppo di catechesi,
oppure a sviluppare una nuova iniziativa politica, o, ancora, a sostenere
una attività caritativa, a creare un’opera, eccetera”, nessuna di queste
risposte sarebbe adeguata a coprire la discontinuità. Occorre “qualcosa
che viene prima”, di cui tutto questo non è che strumento di sviluppo.
Occorre che riaccada cioè quello che è accaduto loro in principio: non
“come” è accaduto in principio, ma “quello che” è accaduto in principio:
oppure a sviluppare una nuova iniziativa politica, o, ancora, a sostenere
una attività caritativa, a creare un’opera, eccetera”, nessuna di queste
risposte sarebbe adeguata a coprire la discontinuità. Occorre “qualcosa
che viene prima”, di cui tutto questo non è che strumento di sviluppo.
Occorre che riaccada cioè quello che è accaduto loro in principio: non
“come” è accaduto in principio, ma “quello che” è accaduto in principio:
l’impatto con una diversità umana in cui lo stesso avvenimento che
li ha mossi all’origine si rinnova. Lì ci si coagula e, seguendo qualcu-
54 L. Giussani, Un caffè in compagnia, Rizzoli, Milano 2004, pp. 173-175.
55 «Scuola incaricati 1962», Archivio CL.
Esercizi della Fraternità
30no, ci si raccorda con quello che è avvenuto all’inizio. E tutti i fattori
principali dell’esperienza passata riemergono più maturi e più chiari.»56
Qualsiasi nostro tentativo non può colmare la discontinuità, non riesce a
li ha mossi all’origine si rinnova. Lì ci si coagula e, seguendo qualcu-
54 L. Giussani, Un caffè in compagnia, Rizzoli, Milano 2004, pp. 173-175.
55 «Scuola incaricati 1962», Archivio CL.
Esercizi della Fraternità
30no, ci si raccorda con quello che è avvenuto all’inizio. E tutti i fattori
principali dell’esperienza passata riemergono più maturi e più chiari.»56
Qualsiasi nostro tentativo non può colmare la discontinuità, non riesce a
fare del devoto ricordo un avvenimento presente. Accade così
quello che ha detto papa Francesco il Giovedì Santo: «Da qui deriva
precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi,
[...] trasformati in una sorta di collezionisti di antichità».57
Cominciamo a vedere come, dal prevalere di una Presenza che investiva
quello che ha detto papa Francesco il Giovedì Santo: «Da qui deriva
precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi,
[...] trasformati in una sorta di collezionisti di antichità».57
Cominciamo a vedere come, dal prevalere di una Presenza che investiva
ogni gesto, per cui ogni azione era espressione della Sua imponenza,
abbiamo finito col perderla per strada. Perché succede questo? Perché
tante volte – dice don Giussani – il «nostro impegno di vita su problemi
sociali, culturali e politici» è vissuto «in modo divaricante e divaricato
rispetto ad una esperienza cristiana viva, autentica. Mentre l’impegno
nei problemi sociali, culturali e politici dovrebbe essere l’espressione di
questa esperienza appassionata di vita. È molto facile invece che questo
impegno generi un clima che logora l’attenzione a quella esperienza e si
affermi in contrasto con essa, quasi emarginandola, quasi soffocandola.
Oppure spesso chi desidera vivere un’esperienza di vita cristiana autentica
tante volte – dice don Giussani – il «nostro impegno di vita su problemi
sociali, culturali e politici» è vissuto «in modo divaricante e divaricato
rispetto ad una esperienza cristiana viva, autentica. Mentre l’impegno
nei problemi sociali, culturali e politici dovrebbe essere l’espressione di
questa esperienza appassionata di vita. È molto facile invece che questo
impegno generi un clima che logora l’attenzione a quella esperienza e si
affermi in contrasto con essa, quasi emarginandola, quasi soffocandola.
Oppure spesso chi desidera vivere un’esperienza di vita cristiana autentica
afferma questa volontà [...] in contraddizione con l’impegno di quei
problemi. L’un caso e l’altro sono la doppia faccia di uno stesso grave
errore».58 Attivismo o intimismo: a dominare non è più l’Avvenimento
che si impone e cambia la percezione di noi stessi, generando uno sguardo
problemi. L’un caso e l’altro sono la doppia faccia di uno stesso grave
errore».58 Attivismo o intimismo: a dominare non è più l’Avvenimento
che si impone e cambia la percezione di noi stessi, generando uno sguardo
nuovo e una passione nuova verso tutto.
Vediamo come Giussani ha instancabilmente smascherato la tentazione
Vediamo come Giussani ha instancabilmente smascherato la tentazione
di ridurre la natura del cristianesimo: «L’analisi del disagio della
situazione in cui versiamo [storicamente era il 1976, ma è anche il 2013,
il nostro “oggi”] che voglio compiere è puramente metodologica e non
recriminatoria, è un aspetto del giudizio che ci fa ripartire».59 Siamo
sempre esposti a questa riduzione, perciò don Giussani ha continuamente
giudicato, corretto, richiamato; implacabilmente, senza tregua.
Tutto quanto abbiamo descritto ci fa capire le dimensioni del nostro
bisogno. Siamo veramente bisognosi! Che liberazione riconoscerlo e
poterlo guardare insieme! Da questo riconoscimento non può che scaturire
una domanda, come quella che scaturisce dalle labbra della Chiesa:
«Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza morta
31
le, e fa’ che riprenda vita per la passione del Tuo unico Figlio».60
Come Cristo ha risposto alla debolezza degli apostoli, alla loro umanità
situazione in cui versiamo [storicamente era il 1976, ma è anche il 2013,
il nostro “oggi”] che voglio compiere è puramente metodologica e non
recriminatoria, è un aspetto del giudizio che ci fa ripartire».59 Siamo
sempre esposti a questa riduzione, perciò don Giussani ha continuamente
giudicato, corretto, richiamato; implacabilmente, senza tregua.
Tutto quanto abbiamo descritto ci fa capire le dimensioni del nostro
bisogno. Siamo veramente bisognosi! Che liberazione riconoscerlo e
poterlo guardare insieme! Da questo riconoscimento non può che scaturire
una domanda, come quella che scaturisce dalle labbra della Chiesa:
«Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza morta
31
le, e fa’ che riprenda vita per la passione del Tuo unico Figlio».60
Come Cristo ha risposto alla debolezza degli apostoli, alla loro umanità
sfinita che li portava alla ricerca di appoggi sostitutivi? Non con
una strategia o con un richiamo moralistico. Non sarebbe bastato loro,
così come non basterebbe a noi. La portata del bisogno è tale che solo
la Sua morte e la Sua risurrezione potevano e possono sanare alla radice
il nostro male. Possiamo riprendere vita solo per la Passione del suo
Figlio, dice la liturgia. Ma spesso per noi, non essendo coscienti del nostro
una strategia o con un richiamo moralistico. Non sarebbe bastato loro,
così come non basterebbe a noi. La portata del bisogno è tale che solo
la Sua morte e la Sua risurrezione potevano e possono sanare alla radice
il nostro male. Possiamo riprendere vita solo per la Passione del suo
Figlio, dice la liturgia. Ma spesso per noi, non essendo coscienti del nostro
dramma, il dire questo si riduce quasi a «devozione». Da che cosa
si vede? Dal modo con cui affrontiamo il bisogno, dalla presunzione e
dalla supponenza che abbiamo addosso. Invece, ciò di cui abbiamo
si vede? Dal modo con cui affrontiamo il bisogno, dalla presunzione e
dalla supponenza che abbiamo addosso. Invece, ciò di cui abbiamo
bisogno, per dirla con san Bernardo, è proprio «che [Cristo] ritorni, e mi
restituisca la mia salutare letizia, mi restituisca se stesso».61
3. Permanenza del cristianesimo come avvenimento nel presente:
Egli è qui Gesù è tornato. Vivente. Se c’è un momento in cui prevale di nuovo
la Sua presenza viva è la Risurrezione. Che impressione vedere i
restituisca la mia salutare letizia, mi restituisca se stesso».61
3. Permanenza del cristianesimo come avvenimento nel presente:
Egli è qui Gesù è tornato. Vivente. Se c’è un momento in cui prevale di nuovo
la Sua presenza viva è la Risurrezione. Che impressione vedere i
discepoli stupiti dell’imporsi della Sua presenza viva e inesorabile!
Ma vediamo anche Gesù lottare con la loro incapacità di vedere:
«I discepoli non si erano accorti che era Gesù».62 Provando una
volta dopo l’altra a farli uscire dalla propria misura, attraverso un
certo modo di dire: «Maria»,
oppure attraverso un miracolo: «Gettate la rete dalla parte destra della
barca e troverete»,63 Gesù vuole far venire fuori la fede, la certezza dei
suoi discepoli: «È il Signore».64 Si può ripartire sempre perché Lui è
vivo. Il Vivente. Per far loro riprendere vita non si accontenta di restare
una presenza inattiva. È una presenza che prende iniziativa per
oppure attraverso un miracolo: «Gettate la rete dalla parte destra della
barca e troverete»,63 Gesù vuole far venire fuori la fede, la certezza dei
suoi discepoli: «È il Signore».64 Si può ripartire sempre perché Lui è
vivo. Il Vivente. Per far loro riprendere vita non si accontenta di restare
una presenza inattiva. È una presenza che prende iniziativa per
rispondere al loro bisogno. Per rispondere allo sconcerto della Sua morte, spiega
loro la Scrittura: «“Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno
detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per
entrare nella sua gloria?”. E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti,
spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui».65 Per rispondere
32
loro la Scrittura: «“Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno
detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per
entrare nella sua gloria?”. E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti,
spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui».65 Per rispondere
32
al tradimento di Pietro, gli domanda: «Pietro, mi ami?».66 E poi: «Ricevete
lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi
non li rimetterete, resteranno non rimessi».67 Oppure si fa riconoscere da
loro nella frazione del pane, nell’Eucarestia.
Questo sarà sempre il punto di partenza. Solo la Sua iniziativa può
farci ripartire. Ce lo ha ricordato Benedetto XVI all’apertura del Sinodo
nell’ottobre scorso: «Noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo
far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa non comincia con il “fare”
nostro, ma con il “fare” e il “parlare” di Dio. Così gli Apostoli non hanno
non li rimetterete, resteranno non rimessi».67 Oppure si fa riconoscere da
loro nella frazione del pane, nell’Eucarestia.
Questo sarà sempre il punto di partenza. Solo la Sua iniziativa può
farci ripartire. Ce lo ha ricordato Benedetto XVI all’apertura del Sinodo
nell’ottobre scorso: «Noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo
far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa non comincia con il “fare”
nostro, ma con il “fare” e il “parlare” di Dio. Così gli Apostoli non hanno
detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa,
e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione.
No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato, perché sapevano che
solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, che Dio è il primo agente: se
Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti;
solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato. Pentecoste è
la condizione della nascita della Chiesa: solo perché Dio prima ha agito,
gli Apostoli possono agire con Lui e con la sua presenza e far presente
quanto fa Lui. Dio ha parlato e questo “ha parlato” è il perfetto della
fede, ma è sempre anche un presente: il perfetto di Dio non è solo un
passato, perché è un passato vero che porta sempre in sé il presente e il
futuro. Dio ha parlato vuol dire: “parla”. E come in quel tempo solo con
l’iniziativa di Dio poteva nascere la Chiesa, poteva essere conosciuto
il vangelo, il fatto che Dio ha parlato e parla, così anche oggi solo Dio
può cominciare, noi possiamo solo cooperare, ma l’inizio deve venire
da Dio. Perciò non è una mera formalità se cominciano ogni giorno la
nostra Assise con la preghiera: questo risponde alla realtà stessa. Solo il
precedere di Dio rende possibile il camminare nostro, il cooperare nostro,
e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione.
No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato, perché sapevano che
solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, che Dio è il primo agente: se
Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti;
solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato. Pentecoste è
la condizione della nascita della Chiesa: solo perché Dio prima ha agito,
gli Apostoli possono agire con Lui e con la sua presenza e far presente
quanto fa Lui. Dio ha parlato e questo “ha parlato” è il perfetto della
fede, ma è sempre anche un presente: il perfetto di Dio non è solo un
passato, perché è un passato vero che porta sempre in sé il presente e il
futuro. Dio ha parlato vuol dire: “parla”. E come in quel tempo solo con
l’iniziativa di Dio poteva nascere la Chiesa, poteva essere conosciuto
il vangelo, il fatto che Dio ha parlato e parla, così anche oggi solo Dio
può cominciare, noi possiamo solo cooperare, ma l’inizio deve venire
da Dio. Perciò non è una mera formalità se cominciano ogni giorno la
nostra Assise con la preghiera: questo risponde alla realtà stessa. Solo il
precedere di Dio rende possibile il camminare nostro, il cooperare nostro,
che è sempre un cooperare, non una nostra pura decisione. Perciò è
importante sempre sapere che la prima parola, l’iniziativa vera, l’attività
vera viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina, solo
implorando questa iniziativa divina, possiamo anche noi divenire – con
Lui e in Lui – evangelizzatori. Dio è l’inizio sempre».68
Solo chi accetta di inserirsi in questo inizio continuo può vedere
come la vita rinasca, come la nostra esistenza riprenda vigore.
In quale modo il cristianesimo permane nella storia come avveni-
33
mento presente? Attraverso coloro che da Lui sono afferrati, attraverso
coloro in cui la coscienza della Sua presenza è diventata predominante.
Stiamo attenti a non ridurre la densità e la ricchezza della compagnia
dei credenti ai nostri tentativi, perché risulterebbe insufficiente per
importante sempre sapere che la prima parola, l’iniziativa vera, l’attività
vera viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina, solo
implorando questa iniziativa divina, possiamo anche noi divenire – con
Lui e in Lui – evangelizzatori. Dio è l’inizio sempre».68
Solo chi accetta di inserirsi in questo inizio continuo può vedere
come la vita rinasca, come la nostra esistenza riprenda vigore.
In quale modo il cristianesimo permane nella storia come avveni-
33
mento presente? Attraverso coloro che da Lui sono afferrati, attraverso
coloro in cui la coscienza della Sua presenza è diventata predominante.
Stiamo attenti a non ridurre la densità e la ricchezza della compagnia
dei credenti ai nostri tentativi, perché risulterebbe insufficiente per
rispondere alla dimensione del nostro bisogno: «L’avvenimento di Cristo
permane nella storia attraverso la compagnia dei credenti, che è un segno,
permane nella storia attraverso la compagnia dei credenti, che è un segno,
come tenda nella quale sta il sancta sanctorum, il Mistero diventato
uomo. Questo Mistero permane nella vita di ogni uomo e del mondo,
personalmente, realmente, attraverso l’unità sensibilmente espressa dei
cristiani. La compagnia dei credenti è segno efficace della salvezza di
Cristo per gli uomini, è il sacramento della salvezza del mondo. Cristo
Risorto si stringe così attorno a noi: questa compagnia è proprio Cristo
presente. Essa è Cristo nella sua realtà umana, è il corpo di Cristo che si
rende presente, tanto che Lo si tocca, Lo si vede, Lo si sente. Il valore di
questa compagnia è più profondo di quello che si vede, perché quello che
si vede è l’emergenza del Mistero di Cristo che si rivela».69
Se per rispondere alla nostra umanità sfinita ha dovuto morire e risorgere,
uomo. Questo Mistero permane nella vita di ogni uomo e del mondo,
personalmente, realmente, attraverso l’unità sensibilmente espressa dei
cristiani. La compagnia dei credenti è segno efficace della salvezza di
Cristo per gli uomini, è il sacramento della salvezza del mondo. Cristo
Risorto si stringe così attorno a noi: questa compagnia è proprio Cristo
presente. Essa è Cristo nella sua realtà umana, è il corpo di Cristo che si
rende presente, tanto che Lo si tocca, Lo si vede, Lo si sente. Il valore di
questa compagnia è più profondo di quello che si vede, perché quello che
si vede è l’emergenza del Mistero di Cristo che si rivela».69
Se per rispondere alla nostra umanità sfinita ha dovuto morire e risorgere,
la questione è: come noi oggi possiamo partecipare della Sua
vittoria? E come Cristo prende iniziativa oggi per farci partecipare
della Sua vittoria? «Cristo si fa conoscere, si rende accessibile e
vittoria? E come Cristo prende iniziativa oggi per farci partecipare
della Sua vittoria? «Cristo si fa conoscere, si rende accessibile e
dunque ci dà il Suo Spirito nella Chiesa attraverso la Sacra Scrittura, i
Sacramenti, la successione apostolica, ma soprattutto il Suo Spirito ci
percuote e ci invade attraverso la vita intera della Chiesa. La Chiesa è
l’universo raggiunto, ricreato e posseduto da Cristo attraverso il Suo
Spirito. La Chiesa è cioè l’umanità in quanto resa vera, unificata dalla
Sacramenti, la successione apostolica, ma soprattutto il Suo Spirito ci
percuote e ci invade attraverso la vita intera della Chiesa. La Chiesa è
l’universo raggiunto, ricreato e posseduto da Cristo attraverso il Suo
Spirito. La Chiesa è cioè l’umanità in quanto resa vera, unificata dalla
presenza di Cristo attraverso quella energia ri-creativa che è il mistero
dello Spirito nella Pentecoste. Cristo sarebbe irrimediabilmente
lontano e perciò vittima della nostra interpretazione, se non fosse
presente nella Chiesa vivente. Se non si offrisse a noi nel mistero del
Suo Corpo che è la Chiesa, Cristo sarebbe, in ultima analisi, ridotto
soggettivisticamente, come contenuto e come metodo. La Chiesa è
perciò il metodo con cui Cristo si comunica nel tempo e nello spazio,
analogamente al fatto che Cristo è il metodo con cui Dio ha scelto di
comunicarsi agli uomini per la loro salvezza. Attraverso l’umanità
della Chiesa il divino ci raggiunge sia come “comunicazione di
lontano e perciò vittima della nostra interpretazione, se non fosse
presente nella Chiesa vivente. Se non si offrisse a noi nel mistero del
Suo Corpo che è la Chiesa, Cristo sarebbe, in ultima analisi, ridotto
soggettivisticamente, come contenuto e come metodo. La Chiesa è
perciò il metodo con cui Cristo si comunica nel tempo e nello spazio,
analogamente al fatto che Cristo è il metodo con cui Dio ha scelto di
comunicarsi agli uomini per la loro salvezza. Attraverso l’umanità
della Chiesa il divino ci raggiunge sia come “comunicazione di
verità” (Scrittura, Tradizione, Magistero), perciò come aiuto all’uomo a
raggiungere una obiettiva chiarezza e sicurezza nel percepire
raggiungere una obiettiva chiarezza e sicurezza nel percepire
i significati ultimi della propria esistenza, sia come “comunicazione della
34
realtà divina stessa” – Grazia – attraverso i Sacramenti.»70
La prima nostra attività è allora la passività di lasciarci coinvolgere
in questa iniziativa di Cristo presente nella Chiesa.
L’iniziativa di Cristo è cominciata nel Battesimo: «L’incontro di Cristo
34
realtà divina stessa” – Grazia – attraverso i Sacramenti.»70
La prima nostra attività è allora la passività di lasciarci coinvolgere
in questa iniziativa di Cristo presente nella Chiesa.
L’iniziativa di Cristo è cominciata nel Battesimo: «L’incontro di Cristo
con la nostra vita, per cui Egli ha iniziato a diventare un evento reale
per noi, l’impatto di Cristo con la nostra vita, a partire da cui Egli si è
mosso verso di noi e ha stabilito, come vir pugnator, una lotta per
per noi, l’impatto di Cristo con la nostra vita, a partire da cui Egli si è
mosso verso di noi e ha stabilito, come vir pugnator, una lotta per
l’“invasione” della nostra esistenza, si chiama Battesimo».71
Egli ci rinnova, ci fa diventare diversi inserendoci nella Sua morte
e risurrezione: «Per mezzo del battesimo siamo dunque stati
sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai
morti per mezzo della gloria del
Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti
siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo
saremo anche con la sua risurrezione».72
Questo inizio deve essere costantemente alimentato, nutrito, affinché
noi possiamo camminare in questa vita nuova: «La Comunione alla
Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti
siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo
saremo anche con la sua risurrezione».72
Questo inizio deve essere costantemente alimentato, nutrito, affinché
noi possiamo camminare in questa vita nuova: «La Comunione alla
Carne del Cristo risorto, “vivificata dallo Spirito Santo e vivificante”,
conserva, accresce e rinnova la vita di grazia ricevuta nel Battesimo.
La crescita della vita cristiana richiede di essere alimentata dalla
Comunione eucaristica, pane del nostro pellegrinaggio».73 Se
non vogliamo venire meno
al rapporto con Cristo che ci ha conquistato, abbiamo bisogno di andare
a ricevere costantemente i sacramenti come mendicanti: «La Comunione
accresce la nostra unione a Cristo. Ricevere l’Eucaristia nella
al rapporto con Cristo che ci ha conquistato, abbiamo bisogno di andare
a ricevere costantemente i sacramenti come mendicanti: «La Comunione
accresce la nostra unione a Cristo. Ricevere l’Eucaristia nella
Comunione reca come frutto principale l’unione intima con Cristo Gesù. Il Signore
infatti dice: “Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue dimora in me
e io in lui” (Gv 6,56). La vita in Cristo ha il suo fondamento nel banchetto
eucaristico: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per
il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (Gv 6,57)».74
È così che Lui ci cerca, come ci ricorda san Giovanni Crisostomo: «Per
te sono stato coperto di sputi e percosse, mi sono spogliato della mia
gloria, ho lasciato il Padre mio e sono venuto a te, tu che mi odiavi, mi
fuggivi e non volevi nemmeno udire il mio nome; ti ho inseguito, ho
corso sulle tue tracce, per impossessarmi di te; ti ho unito, legato a me,
ti ho tenuto stretto, ti ho abbracciato. “Mangiami”, ho detto, “bevimi”.
E io ti ho con me nel cielo e mi lego a te su questa terra. Non mi basta .
35
che io possegga nel cielo le tue primizie, questo non sazia il mio amore.
Sono disceso nuovamente sulla terra, non solo per mescolarmi tra quelli
della tua gente, ma per abbracciare stretto proprio te».75
Solo questa è la sorgente continua di una reale comunione tra di noi.
Solo la comunione eucaristica può trasformarci fino a generare un solo
corpo, investendo tutti i nostri rapporti della Sua presenza.
La nostra comunione con Cristo e con i fratelli ha bisogno di essere
ricostruita continuamente dalla misericordia, cioè dalla presenza di Cristo
infatti dice: “Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue dimora in me
e io in lui” (Gv 6,56). La vita in Cristo ha il suo fondamento nel banchetto
eucaristico: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per
il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (Gv 6,57)».74
È così che Lui ci cerca, come ci ricorda san Giovanni Crisostomo: «Per
te sono stato coperto di sputi e percosse, mi sono spogliato della mia
gloria, ho lasciato il Padre mio e sono venuto a te, tu che mi odiavi, mi
fuggivi e non volevi nemmeno udire il mio nome; ti ho inseguito, ho
corso sulle tue tracce, per impossessarmi di te; ti ho unito, legato a me,
ti ho tenuto stretto, ti ho abbracciato. “Mangiami”, ho detto, “bevimi”.
E io ti ho con me nel cielo e mi lego a te su questa terra. Non mi basta .
35
che io possegga nel cielo le tue primizie, questo non sazia il mio amore.
Sono disceso nuovamente sulla terra, non solo per mescolarmi tra quelli
della tua gente, ma per abbracciare stretto proprio te».75
Solo questa è la sorgente continua di una reale comunione tra di noi.
Solo la comunione eucaristica può trasformarci fino a generare un solo
corpo, investendo tutti i nostri rapporti della Sua presenza.
La nostra comunione con Cristo e con i fratelli ha bisogno di essere
ricostruita continuamente dalla misericordia, cioè dalla presenza di Cristo
che si rivolge a noi, come a Pietro dopo il tradimento. È solo questa
iniziativa piena di misericordia verso di noi che ricostruisce noi stessi
nel nostro rapporto con Cristo, con i fratelli e con noi stessi. Senza
iniziativa piena di misericordia verso di noi che ricostruisce noi stessi
nel nostro rapporto con Cristo, con i fratelli e con noi stessi. Senza
misericordia, non c’è cammino, non c’è comunione. Per questo, «Cristo ha
istituito il sacramento della Penitenza per tutti i membri peccatori della
sua Chiesa, in primo luogo per coloro che, dopo il Battesimo, sono caduti
istituito il sacramento della Penitenza per tutti i membri peccatori della
sua Chiesa, in primo luogo per coloro che, dopo il Battesimo, sono caduti
in peccato grave e hanno così perduto la grazia battesimale e inflitto
una ferita alla comunione ecclesiale».76
«La conversione a Cristo, la nuova nascita dal Battesimo, il dono dello
una ferita alla comunione ecclesiale».76
«La conversione a Cristo, la nuova nascita dal Battesimo, il dono dello
Spirito Santo, il Corpo e il Sangue di Cristo ricevuti in nutrimento, ci
hanno resi “santi e immacolati al suo cospetto” (Ef 1,4), come la Chiesa
stessa, Sposa di Cristo, è “santa e immacolata” (Ef 5,27) davanti a lui.
Tuttavia, la vita nuova ricevuta nell’iniziazione cristiana non ha soppresso
hanno resi “santi e immacolati al suo cospetto” (Ef 1,4), come la Chiesa
stessa, Sposa di Cristo, è “santa e immacolata” (Ef 5,27) davanti a lui.
Tuttavia, la vita nuova ricevuta nell’iniziazione cristiana non ha soppresso
la fragilità e la debolezza della natura umana, né l’inclinazione
al peccato che la tradizione chiama concupiscenza, la quale rimane nei
battezzati perché sostengano le loro prove nel combattimento della vita
cristiana, aiutati dalla grazia di Cristo. Si tratta del combattimento della
conversione in vista della santità e della vita eterna alla quale il Signore
non cessa di chiamarci.»77
È solo se noi accettiamo di partecipare, di accogliere questi gesti di
Cristo – attraverso i quali Lui ci attira dentro di sé, ci fa un solo corpo, ci
rinnova con il sacramento della penitenza, ci nutre con il Suo Corpo e il
Suo Sangue –, che possiamo ripartire: «Cristo – ha detto papa Francesco
il Lunedì dell’Angelo – ha vinto il male in modo pieno e definitivo, ma
spetta a noi, agli uomini di ogni tempo, accogliere questa vittoria nella
nostra vita e nelle realtà concrete della storia e della società. Per questo
mi sembra importante sottolineare quello che oggi domandiamo a Dio
nella liturgia: “O Padre, che fai crescere la tua Chiesa donandole sempre
36
nuovi figli, concedi ai tuoi fedeli di esprimere nella vita il sacramento
che hanno ricevuto nella fede” [...]. È vero, il Battesimo che ci fa figli di
Dio, l’Eucarestia che ci unisce a Cristo, devono diventare vita, tradursi
cioè in atteggiamenti, comportamenti, gesti, scelte. La grazia contenuta
nei Sacramenti pasquali è un potenziale di rinnovamento enorme per
l’esistenza personale, per la vita delle famiglie, per le relazioni sociali. Ma
tutto passa attraverso il cuore umano: se io mi lascio raggiungere dalla
grazia di Cristo risorto, se le permetto di cambiarmi in quel mio aspetto
che non è buono, che può far male a me e agli altri, io permetto alla
vittoria di Cristo di affermarsi nella mia vita, di allargare la sua azione
benefica. Questo è il potere della grazia! Senza la grazia non possiamo
nulla. Senza la grazia non possiamo nulla! E con la grazia del Battesimo
e della Comunione eucaristica posso diventare strumento della
misericordia di Dio, di quella bella misericordia di Dio. Esprimere nella vita il
sacramento che abbiamo ricevuto: ecco, cari fratelli e sorelle, il nostro
impegno quotidiano, ma direi anche la nostra gioia quotidiana! La gioia
di sentirsi strumenti della grazia di Cristo, come tralci della vite che è
Lui stesso, animati dalla linfa del suo Spirito!».78
La Sua capacità di trasformare la vita e di farci partecipare a questa
grazia si esprime, insieme ai sacramenti, attraverso i carismi: «Lo Spirito
Santo non si limita a santificare e a guidare il popolo di Dio per mezzo
dei sacramenti e dei ministeri, e ad adornarlo di virtù, ma “distribuendo
a ciascuno i propri doni come piace a lui” (1 Cor 12,11), dispensa pure
tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e
pronti ad assumersi vari incarichi e uffici utili al rinnovamento e alla
maggiore espansione della Chiesa».79
Ci ha detto Giovanni Paolo II in piazza san Pietro il 30 maggio 1998:
«I veri carismi non possono che tendere all’incontro con Cristo nei
Sacramenti. Le realtà ecclesiali cui aderite vi hanno aiutato a riscoprire la
vocazione battesimale, a valorizzare i doni dello Spirito ricevuti nella
Cresima, ad affidarvi alla misericordia di Dio nel Sacramento della
Riconciliazione ed a riconoscere nell’Eucaristia la fonte e il culmine di
tutta la vita cristiana».80
È questo il contributo storico che don Giussani ha dato a noi e a
tutta la Chiesa: «Il carisma rappresenta proprio la modalità di tempo, di
spazio, di carattere, di temperamento, la modalità psicologica, affettiva,
37
Sabato mattinaintellettuale, con cui il Signore diventa avvenimento per
me e, allo stesso modo, anche per altri».81 Dunque il carisma è fattore di
appartenenza a Cristo e alla Sua verità: «La questione del carisma è decisiva perché
è il fattore che esistenzialmente facilita l’appartenenza a Cristo, cioè è
l’evidenza dell’Avvenimento presente oggi, in quanto ci muove. In questo
senso il carisma introduce alla totalità del dogma. Se il carisma è la
modalità con cui lo Spirito di Cristo ci fa percepire la sua Presenza
eccezionale, ci dà il potere di aderirvi con semplicità e amorosità, è vivendo
il carisma che si illumina il contenuto oggettivo del dogma».82
Non dobbiamo dimenticare, però, che solo dalla grazia sacramentale
può nascere costantemente il carisma, la sua vitalità oggi. È la grazia
sacramentale che fa sorgere e mantiene vivo il corpo ecclesiale, come
Giovanni Paolo II ci ha detto in un discorso per noi memorabile: «Il
sorgere del corpo ecclesiale come istituzione, la sua forza persuasiva
e la sua energia aggregativa, hanno la loro radice nel dinamismo della
Grazia sacramentale. Essa trova però la sua forma espressiva, la sua
modalità operativa, la sua concreta incidenza storica mediante i diversi
carismi che caratterizzano un temperamento e una storia personale. [...]
Quando un movimento è riconosciuto dalla Chiesa, esso diventa uno
strumento privilegiato per una personale e sempre nuova adesione al
mistero di Cristo. Non permettete mai che nella vostra partecipazione
alberghi il tarlo dell’abitudine, della routine, della vecchiaia! Rinnovate
continuamente la scoperta del carisma che vi ha affascinati ed esso vi
condurrà più potentemente a rendervi servitori di quell’unica potestà che
è Cristo Signore!».83
Solo se ci lasciamo raggiungere dalla potenza di Cristo risorto, che
ci viene incontro costantemente attraverso i sacramenti e il carisma,
potremo vedere che il quotidiano «che taglia le gambe» diventa vivibile:
«Il miracolo è la realtà umana vissuta quotidianamente, senza enfasi
eccezionali, senza necessità di eccezioni, senza fortune particolari, è la
realtà del mangiare, del bere, del vegliare e del dormire investita dalla
coscienza di una Presenza che ha i suoi terminali in mani che si toccano,
in facce che si vedono, in un perdono da dare, in soldi da distribuire, in
una fatica da compiere, in un lavoro da accettare».84
«La presenza di Cristo, nella normalità del vivere, implica sempre di
38
più il battito del cuore: la commozione della Sua presenza diventa
commozione nella vita quotidiana e illumina, intenerisce, abbellisce, rende
dolce il tenore della vita quotidiana, sempre di più. Non c’è niente di
inutile, non c’è niente di estraneo, perché non c’è niente di estraneo al
tuo destino, e perciò non c’è niente a cui non ci si possa affezionare [...],
con le sue conseguenze magnifiche di rispetto della cosa che fai, di
precisione nella cosa che fai, di lealtà con la tua opera concreta, di tenacia
nel perseguire il suo fine; diventi più instancabile [...]. La stanchezza,
pur senza ombra, è per così dire riassorbita anche come stanchezza,
diventa una stanchezza puramente fisiologica.»85
È la verifica, nel quotidiano, della presenza vittoriosa di Cristo che
ci consentirà di attaccarci sempre di più a Lui, fino a poter dire con Ada
Negri: «Tutto / per me tu fosti e sei».86 Di tante persone forse qualcuno
potrebbe dire: «Tutto per me tu fosti». Ma dire di qualcuno non soltanto:
«Fosti» nel passato, nell’incontro iniziale, ma: «Sei» adesso, nel presente,
questa è un’altra cosa!
È soltanto coinvolgendoci nella Sua vittoria che potremo dire con
verità: «Cristo, tutto per me Tu fosti e sei».
85 Ibidem, pp. 103-104.
86 A. Negri, «Atto d’amore», Mia giovinezza, Bur, Milano 2010, p.
SANTA MESSA
Liturgia della Santa Messa: At 9,31-42; Sal 115 (116); Gv 6,60-69
OMELIA DI SUA EMINENZA CARDINALE JEAN-LOUIS TAURAN
PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO
Come sempre Gesù lascia gli uomini liberi di scegliere. I Dodici, anche loro, devono rinnovare la loro adesione a Cristo: «“Forse anche voi
volete andarvene?”. Simon Pietro risponde a loro nome: “Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna. Noi abbiamo creduto e conosciuto che
tu sei il santo di Dio”». Di fronte alle parole e ai gesti di Gesù, uno è
costretto a rispondere con un «sì» o con «no». Il grande dramma dell’uomo non è la malattia né la morte: è la sua libertà. L’uomo può dire «no»
a Dio, e Dio rispetta la sua libertà. Il famoso poeta Hölderlin, contemporaneo di Goethe, ha scritto: «Dio ha creato lʼuomo, come il mare fa i
continenti, ritirandosi».
Non si può evitare Gesù Cristo. Gesù disturba, perché è segno di contraddizione: «Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?» (Gv 6,60).
Noi siamo qui perché siamo discepoli di Gesù e perché siamo portatori di
un messaggio per il mondo, per l’Italia di oggi. Un messaggio che è una
contestazione radicale del «galateo politico e culturale». Pensate: diciamo ai nostri amici: «Siete – siamo – chiamati alla vita eterna». Per di più,
abbiamo da ricordare all’umanità di oggi e di domani un avvenimento
unico nella storia: Gesù è risorto! Mai una rivoluzione, mai un progresso
scientifico potranno offrire agli uomini una «cosa così importante» come
la risurrezione di Gesù. È il vangelo della vittoria inaudita sul dolore,
sul peccato, sulla morte che Cristo ha conseguito per sé e per noi. È un
avvenimento indescrivibile, che tutti ci riguarda e ci avvolge!
Allora vedete come credere non è semplicemente credere che Dio
esista. No, è credere che Dio interviene nell’esistenza umana. L’oggetto
della nostra fede – ho sentito stamattina don Carrón sottolineare questo –
è un avvenimento, o una serie di avvenimenti: credere che Dio ha parlato
ad Abramo, ha liberato il popolo dall’Egitto, si è incarnato nel seno della
Vergine Maria, è risuscitato dai morti. Per noi è credere anche che Dio
è presente in mezzo a noi nell’Eucaristia: ecco il «supremo paradosso».
In realtà gli uomini sono disposti, più o meno, a riconoscere una divinità
che «sta al di sopra di loro, che non disturba». Ma credere che Dio intervenga nella trama dell’esistenza umana, che ci siano delle opere divine
che si compiono oggi: questo è uno «scandalo» che la maggior parte dei
40nostri contemporanei rifiutano. Rifiutano il soprannaturale.
Questa assemblea numerosa, attenta, impegnata riscalda il cuore perché è un avvenimento divino. Qui, questa mattina, hic et nunc, Dio è in
mezzo a noi in questa Eucaristia. Per noi il Cristianesimo non è «una
certa visione del mondo». Non è un sistema che accettiamo perché ci
conviene. Siamo qui perché crediamo che qualcosa è capitato, che Cristo
è risuscitato, che Lui è la Verità e questo interessa noi e tutti gli uomini.
Lo sapete, noi cristiani siamo «osservati». Tutti cercano non le belle
cose che possiamo compiere, ma piuttosto le nostre mancanze. E questo
ci ricorda che la Chiesa è una realtà divina e umana, allo stesso tempo.
Non dobbiamo, però, avere complessi, perché lo Spirito guida la Chiesa
e riserva sempre sorprese. Basta ricordare ciò che è avvenuto a Roma il
mese scorso. Ho notato che nei discorsi del nuovo Papa vi è una parola
da lui spesso usata: è il verbo «uscire». Uscire da noi stessi per lasciarci
purificare da Dio; uscire dalle nostre chiese, dai nostri conventi, dalle
nostre sale di riunioni per raggiungere gli uomini dove questi vivono,
costruiscono, soffrono, muoiono.
La prima lettura ci ha presentato Pietro in «visita pastorale», diciamo. La pace e l’intesa fraterna vengono sottolineate. Sappiamo che a
questa pace e intesa fraterna si deve aggiungere l’ascolto della Parola, lo
spezzare del pane e la comunione dei beni. Sono le caratteristiche della
prima comunità cristiana e noi dobbiamo sempre riferirci a questa comunità. Ma il comportamento di Pietro che guarisce i malati ci ricorda che
anche noi dobbiamo rispondere alle domande dei nostri contemporanei.
Devono vederci pregare per potersi porre le domande fondamentali; hanno bisogno di una parola che «sollevi» le loro anime, hanno bisogno di
incontrare delle comunità dove essere accolti, ascoltati e rispettati. Sì,
tutti hanno bisogno di uscire da questo contesto di morte, di sfiducia, di
sospetto che, purtroppo, rovina la nostra vita e che segna la cultura di
oggi: il non-senso, l’isolamento, la non stima di se stessi. Pietro ha potuto
rispondere alle attese delle persone in difficoltà che incontrava perché lui
stesso aveva imparato da Gesù come pregare e quale missione compiere.
Durante questo ritiro vi siete domandati: «Chi ci separerà dall’amore
di Cristo?». Per poter rispondere: «Nessuno, niente», anche voi dovete
avere alle spalle una vita di intimità, di amicizia con Cristo.
Nel mondo di oggi, il grande pericolo è di organizzare la nostra vita,
la società secondo la misura dell’uomo. Noi cristiani proponiamo un Dio
Padre vicino a noi, che si fa servitore e cibo: ecco ciò che ci distingue
dai discepoli di Maometto o di Buddha. Ma, attenti: non dobbiamo mai
abituarci a questa incredibile prossimità di Dio. Chi dice di Dio: «Egli»,
41
Sabato mattinasenza mai dire: «Tu», sta a poco a poco dimenticando i tratti del volto
di Dio. E un bel giorno Dio non sarà niente di più che un’idea e, molto
presto, nient’altro che una parola.
Non più tardi di ieri mattina, papa Francesco ricordava che la vita
cristiana è un parlare con Dio a tu per tu, come si parla con una persona.
«Non con un Dio – diceva – indefinito e diffuso alla maniera di uno spray
sparso un po’ ovunque.»
Fratelli e sorelle, preghiamo perché ci siano date le energie spirituali
di cui abbiamo bisogno per essere cristiani coerenti, capaci di costruire
una società con delle finalità degne dell’uomo. Voglia Dio preservarci
dall’“abbassare la guardiaˮ, riducendo la carità a una semplice filantropia, trasformando lo spirito apostolico in una semplice propaganda o la
Chiesa in un club.
Rendiamo grazie a Dio per questo ritiro, che ci permette, ancora una
volta, di constatare quanti siano numerosi gli uomini e le donne che, nella
vita di ogni giorno, sono consapevoli della fedeltà di Dio, manifestata in
Gesù Cristo e nella sua Chiesa. Tutti insieme ci sentiamo più forti, per
amare e servire questo nostro mondo, il mondo che Dio ama e che Cristo
salva. Questo mondo dove l’uomo vuole addentrarsi nei segreti dell’atomo, ma che, nel contempo, rimane cieco sul senso dell’avventura umana.
Questo mondo ricco di progetti e di exploits tecnici, ma che, nello stesso
tempo, è angosciato per il futuro. Questo mondo dalle comunicazioni
sempre più rapide, ma che è anche il mondo della solitudine. Questo
mondo dove uomini e donne sono capaci di gesti di solidarietà ammirevoli, ma che è anche il mondo dove tanti vivono rinchiusi in se stessi.
Ebbene, è questo mondo che Dio ama, che noi dobbiamo amare e
servire. Dobbiamo mantenere aperta la porta del nostro cuore per accogliere, capire, dialogare, incoraggiare e permettere ad altri di crescere,
crescendo noi stessi, grazie alle loro domande.
Aveva ragione il grande papa Paolo VI quando affermava, il giorno di
Pasqua dell’anno 1969: «Il cristianesimo non è facile, ma è felice». Quindi, aiutiamoci gli uni gli altri a stabilire e ad approfondire una relazione
personale con Gesù! Gesù che si fa servitore, che questa mattina ancora
una volta apparecchia la tavola dove è, allo stesso tempo, Colui che serve
e Colui che si dà in cibo.
Conserviamo una fiducia assoluta verso questo Dio fedele, e così il
nostro amore alla persona di Gesù sarà così forte che niente potrà separarci da Lui.
E così sia!
Esercizi della Fraternità
42PRimA DELLA BEnEDiZiOnE
Julián Carrón. Eminenza reverendissima, a nome di tutti desidero
ringraziarLa innanzitutto per la sua partecipazione ai nostri Esercizi.
Mi consenta di ringraziarLa ancora per l’attenzione con cui segue la nostra esperienza, attenzione che nel tempo è maturata in paterna amicizia.
È significativo che proprio dalla sua voce abbiamo ascoltato la sera
del 13 marzo il primo annuncio dell’elezione del papa Francesco, il
grande dono che il Signore ha fatto alla Sua Chiesa.
La ringraziamo per la sua limpida testimonianza di servizio intelligente e discreto al Santo Padre, che ci aiuta nella nostra sequela quotidiana a Cristo.
Grazie, Eminenza!
Cardinale Tauran. Grazie! Quando sono stato fatto cardinale, ho distribuito ai miei amici un piccolo ricordino con questa espressione di san
Paolo, tratta dalla seconda lettera ai Corinzi: «Siamo i vostri servitori a
causa di Gesù». Questo è il programma di ogni sacerdote.
Grazie della fiducia!
Sabato 20 aprile, pomeriggio
All’ingresso e all’uscita:
Franz Schubert, Sonata per arpeggione e pianoforte, D 821
Mstislav Rostropovich, violoncello – Benjamin Britten, pianoforte
“Spirto Gentil” n. 18, Decca
n SEcOnDA mEDiTAZiOnE
Julián Carrón
«Mi accada secondo la tua parola»
Ha detto Benedetto XVI: «Tutta la vita cristiana è un rispondere
all’amore di Dio. La prima risposta è appunto la fede come accoglienza piena di stupore e gratitudine di un’inaudita iniziativa divina che ci
precede e ci sollecita. E il “sì” della fede segna l’inizio di una luminosa
storia di amicizia con il Signore, che riempie e dà senso pieno a tutta la
nostra esistenza».87
È di questa fede che parliamo adesso.
1. La fede è il riconoscimento di una Presenza
«La posizione in cui noi ci troviamo di fronte all’avvenimento di
Cristo è identica a quella di Zaccheo di fronte a quell’Uomo che si è fermato sotto la pianta su cui egli era salito e gli ha detto: “Scendi in fretta,
vengo a casa tua”. È la stessa posizione della vedova, il cui unico figlio
era morto, che si è sentita dire da Gesù, in un modo che a noi appare
così irrazionale: “Donna, non piangere!” – è assurdo, infatti, dire a una
madre cui è morto l’unico figlio: “Donna, non piangere!” –. È stata per
loro ed è anche per noi l’esperienza della presenza di qualcosa di radicalmente diverso dalle nostre immagini e al tempo stesso di totalmente
e originalmente corrispondente alle aspettative profonde della nostra
persona. Sperimentare una reale corrispondenza [come dicevamo questa mattina] al cuore nostro è una cosa assolutamente eccezionale [...].
Poiché il cuore nostro è fatto per questa corrispondenza, essa dovrebbe
87 Benedetto XVI, Credere nella carità suscita la carità, 1. Messaggio per la Quaresima 2013.
15 ottobre 2012.
44essere normale nella vita; e invece non capita mai; quando capita, ciò
costituisce un’esperienza eccezionale. Avere la sincerità di riconoscere,
la semplicità di accettare e l’affezione di attaccarsi a una tale Presenza,
questa è la fede.»88
Giussani prosegue: «Perché avvenga la fede nell’uomo e nel mondo
deve cioè accadere prima qualcosa che è grazia, pura grazia: l’avvenimento di Cristo, dell’incontro con Cristo, in cui si fa esperienza di una
eccezionalità che non può accadere da sola. La fede è essenzialmente
riconoscere la diversità di una Presenza, riconoscere una Presenza eccezionale, divina. [...] Chissà quante volte la Samaritana avrà avuto sete
dell’atteggiamento con cui Cristo l’ha trattata in quell’istante, senza mai
accorgersene prima; quando è accaduto, l’ha subito riconosciuto».89
Occorre rendersi conto che la fede cristiana ha la sua sorgente fuori
di noi. Non è qualcosa che possiamo creare noi. Quante volte ci piacerebbe essere noi a creare la corrispondenza che desideriamo possedere!
Ma se l’origine della fede è qualcosa fuori di noi, allora essa non ha
niente a che vedere con un’introspezione, con qualcosa che riusciamo
a ottenere scavando dentro di noi. La fede non è dunque un sentimento
o un’etica, perché non è nelle nostre mani, non è nelle nostre capacità
generare la presenza che ci corrisponde. La fede cristiana è talmente
determinata dall’oggetto, che senza questa Presenza semplicemente non
ci sarebbe. Come l’innamoramento: senza la presenza amata, semplicemente non ci sarebbe. È inutile pensare di poterlo generare con qualche
strategia, con qualche tentativo, con qualche sforzo, con qualche impeto
di sentimento, con qualche ragionamento (usate tutte le parole che volete): tutto questo è inutile per generare anche solo un istante di esperienza
di innamoramento. Insomma, fa parte dell’innamoramento una presenza
che lo faccia scattare, che lo faccia sorgere, che lo sostenga.
Perciò: «La fede è parte dell’avvenimento cristiano perché è parte della grazia che l’avvenimento rappresenta [...]. La fede appartiene
all’avvenimento perché, in quanto riconoscimento amoroso della presenza di qualcosa di eccezionale, è un dono, è una grazia. Come Cristo
si dà a me in un avvenimento presente, così vivifica in me la capacità di
afferrarlo e di riconoscerlo nella sua eccezionalità».90
Ma in che modo la Presenza eccezionale vivifica la capacità di afferrarLa? Perché, se la sua Presenza eccezionale non facilita l’arrivare fino
88 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., pp. 28-29.
89 Ibidem, pp. 30-31.
90 Ibidem, p. 31.
Sabato pomeriggio
45lì e se, come abbiamo visto questa mattina, non seguiamo il desiderio ridestato da quella Presenza, l’esasperata tensione a dire il Suo nome, noi
non La raggiungiamo, e il nostro cuore non trova quella soddisfazione
per cui è fatto. Per questo Giussani scrive: «Lo stesso gesto con cui Dio
si rende presente all’uomo nell’avvenimento cristiano esalta anche la capacità conoscitiva della coscienza, adegua l’acume dello sguardo umano
alla realtà eccezionale cui lo provoca. Si dice grazia della fede».91 Per
analogia, è la presenza della persona amata che esalta la nostra capacità
conoscitiva affinché noi possiamo coglierla nella sua verità profonda.
Come, allora, si esalta la nostra capacità conoscitiva in modo che
essa arrivi a cogliere tutta la portata della Presenza? Insiste don Giussani: «Per poter conoscere occorre [...] una posizione di apertura, cioè di
“amore”. Senza amore non si conosce. In fondo, questo amore è indicato
da quell’istinto originale per cui la natura – cioè Dio che ci crea – ci
getta nell’universale paragone con curiosità. [...] Ultimamente, soltanto
quell’apertura viva all’oggetto che diventa affezione fa sì che esso ci
tocchi per ciò che è (affici, esser-toccato-da). Come l’uomo cammina
con tutto se stesso, così vede con tutto se stesso [non si può rompere
l’unità dell’io, ci ha sempre insegnato don Giussani]: egli vede con gli
occhi della ragione in quanto il cuore è aperto-a, in quanto cioè l’affezione sostiene l’apertura degli occhi, altrimenti davanti all’oggetto l’occhio
si chiude, si “addormenta”, fugge via. L’occhio della ragione vede, dunque, in quanto sostenuto dall’affezione, che già esprime il gioco della
libertà».92
Occorre guardare bene questa descrizione che fa don Giussani per
poterla capire fino in fondo. Perché è necessaria la Presenza eccezionale? Che cosa c’entra con l’apertura degli occhi della ragione? La Presenza eccezionale calamita in tal modo la curiosità e l’affezione dell’uomo
– lo vediamo nei bambini – da sostenere l’apertura degli occhi della
ragione perché essa possa conoscere l’oggetto senza ridurlo. È in quanto sostenuta dall’affezione che la ragione può arrivare a cogliere tutti i
fattori implicati nella Presenza eccezionale. La presenza eccezionale di
Cristo spalanca, dunque, lo sguardo esaltando la capacità conoscitiva
dell’uomo, perché egli possa afferrarLo e riconoscerLo nella Sua eccezionalità. L’abbiamo ricordato con la frase di sant’Agostino su Zaccheo:
«Egli fu guardato, e allora vide».93 Continua don Giussani: «La fede
91 L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., pp. 130-131.
92 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., p. 30.
93 Sant’Agostino, Discorso 174, 4.4.
Esercizi della Fraternità
46rappresenta il compimento della ragione umana. Essa è l’intelligenza
della realtà nel suo orizzonte ultimo, il riconoscimento di ciò in cui tutto
consiste. L’intelligenza naturale [attenzione!] non riesce a toccare questo orizzonte ultimo. È soltanto per qualcosa che è accaduto, per l’avvenimento di Dio fatto uomo, per il suo dono [per la eccezionalità di questa
Presenza che abbiamo davanti], che la nostra intelligenza rinnovata può
riconoscerlo e toccarlo. La fede coglie così un culmine oltre la ragione;
senza di essa la ragione non si compie, mentre in essa la ragione diventa
scala della speranza».94
La fede è una forma di conoscenza che è oltre il limite della ragione.
Perché è oltre il limite della ragione? «Perché coglie una cosa che la
ragione non può cogliere: “la presenza di Gesù tra noi”, “Cristo è qui
ora”, la ragione non può percepirlo come percepisce che sei qui tu, è
chiaro? Però non posso non ammettere che c’è. Perché? Perché c’è un
fattore qua dentro, c’è un fattore che decide di questa compagnia, di certi
risultati di questa compagnia, di certe risonanze in questa compagnia,
così sorprendente che se non affermo qualcosa d’altro non do ragione
dell’esperienza, perché la ragione è affermare la realtà sperimentabile
secondo tutti i fattori che la compongono, tutti i fattori. Ci può essere un
fattore che la compone di cui si sente l’eco, di cui si sente il frutto [lo
dicevamo questa mattina: il frutto di un’umanità diversa], di cui si vede
anche la conseguenza, ma non si riesce a vedere direttamente; se io dico:
“Allora non c’è”, sbaglio, perché elimino qualcosa dell’esperienza, non
è più ragionevole.»95
Ma noi tante volte, siccome questo riconoscimento comporta una
fatica, implica una tensione esasperata – in quanti l’avete pensato già
soltanto ascoltandolo! Immaginate il farlo! –, restiamo all’apparenza,
ci fermiamo alla superficie di ciò che dovrebbe essere accennato segno,
sia negando o eliminando quel fattore di cui si sente l’eco, sia accontentandoci di quelle risonanze positive, fino a quando ci stanchiamo,
ci rendiamo conto che non bastano per vivere, che non sono in grado
di riempirci, che non soddisfano la vita. E allora la fede incomincia a
entrare in crisi. È per questo che uno rimane stupito della testimonianza
che ci ha sempre offerto don Giussani di quella esasperata tensione a
cogliere tutti i fattori fino al “Tu”. Quando Giussani ci diceva queste
cose, era semplicemente per un desiderio di complicarci la vita? O era
per non perdere quella Presenza di cui vedeva le risonanze e che desi-
94 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., p. 32.
95 L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, p. 272.
Sabato pomeriggio
47derava raggiungere? Sentite con quale insistenza ne parla: «La fede è
razionale, in quanto fiorisce sull’estremo limite della dinamica razionale
come un fiore di grazia, cui l’uomo aderisce con la sua libertà [insieme
alla ragione, ecco l’altro fattore decisivo dell’umano: la libertà]. E come
fa l’uomo ad aderire con la sua libertà a questo fiore incomprensibile
come origine e come fattura? Aderire con la propria libertà significa, per
l’uomo, con semplicità riconoscere quello che la sua ragione percepisce
come eccezionale, con quella immediatezza certa, come avviene per l’evidenza inattaccabile e indistruttibile di fattori e momenti della realtà,
così come entrano nell’orizzonte della propria persona».96 «Così la mia
libertà accetta quell’avvenimento, accetta di riconoscerlo.»97
Dice Lewis: «Poiché io sono “io”, devo compiere un atto di abbandono, pur piccolo o facile, vivere per Dio anziché per me. Questo è, se
volete, il “punto debole”, nell’opera della creazione, il rischio che Dio
apparentemente pensa che valga la pena di affrontare [con noi]».98
«Perciò, in noi, la fede è sia il riconoscimento dell’eccezionale presente [che compie la ragione], sia l’adesione semplice e sincera che dice
“sì” [che compie la libertà] e non oppone obiezioni: riconoscimento e
adesione sono parte del momento in cui il Signore, attraverso la forza
del Suo Spirito, si rivela a noi, sono parte del momento in cui l’avvenimento di Cristo entra nella nostra vita.»99 Per questo san Paolo dice che
nessuno può dire che Gesù è il Signore (cioè compiere veramente un atto
di fede pieno) se non è per lo Spirito Santo,100 che porta la ragione e la libertà alla loro cima, perché la fede cristiana è così umana che esalta tutto
l’umano, la ragione e la libertà. Senza questa esaltazione e senza che noi
decidiamo di partecipare a questa esaltazione non c’è la fede. Giussani
non ha fatto senza scopo questo sforzo gigantesco. Lo ha compiuto per
aiutarci a capire tutti i fattori della fede, perché oggi, nel nostro mondo,
nella nostra cultura, se la ragione e la libertà non sono presenti nell’atto
di fede, non ci sarà più la fede: in un mondo in cui tutto dice il contrario,
non possiamo credere solo per abitudine. Per questo, seguire Giussani
è l’unica possibilità di avere, oggi, la fede. Benedetto XVI ha condotto
una lotta accanita per un allargamento della ragione, per aiutarci a capire
che la fede ne rappresenta il culmine (reso possibile dall’avvenimento
stesso di Cristo), perché l’affermazione di Cristo non diventi qualcosa
96 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., pp. 32-33.
97 Ibidem, p. 31.
98 C.S. Lewis, Il problema della sofferenza, Morcelliana, Brescia 1957, p. 83.
99 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., p. 31.
100 Cfr. 1 Cor 12,3.
Esercizi della Fraternità
48di aggiunto alla vita e, in fondo, irrazionale. Ciascuno deve decidere se
è disponibile a seguire don Giussani in questo percorso per poter vivere
la fede da uomini, da adulti, in un mondo come il nostro. La fede non è
un’aggiunta opzionale all’Avvenimento. E senza il riconoscimento della
fede, la vita è condannata al vuoto. La paura, la solitudine e l’insoddisfazione vincono. Per questo sant’Agostino dice: «Si sente attratto da
Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella
giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo».101
Allora, come la fede può diventare sempre più mia?
2. La personalizzazione della fede
Il carisma – quante volte ce lo ha ricordato don Giussani – è un dono
dello Spirito per aiutare la personalizzazione della fede, rendendola così
più persuasiva nella vita di ciascuno. In una lettera proprio a don Giussani, Giovanni Paolo II affermava che «l’originalità del carisma di ogni
movimento “non pretende, né lo potrebbe, di aggiungere alcunché alla
ricchezza del depositum fidei, custodito dalla Chiesa con appassionata
fedeltà” [...]. Tale originalità, tuttavia, “costituisce un sostegno potente,
un richiamo suggestivo e convincente a vivere appieno, con intelligenza
e creatività, l’esperienza cristiana. Sta in ciò il presupposto per trovare
risposte adeguate alle sfide e alle urgenze dei tempi e delle circostanze
storiche sempre diverse”».102
In questo senso, don Giussani ha una preoccupazione costante: che il
movimento sia in grado di generare una personalità adulta. Perché don
Giussani ha questa preoccupazione continuamente documentata? Perché
vede la difficoltà di tale generazione di personalità adulte nella fede. Il
problema della fede non è alle nostre spalle, come qualcosa che riguardi
soltanto gli altri. No, questa è l’unica preoccupazione di don Giussani
nei nostri confronti, sempre: «Il grave problema è la stentatezza con cui
sorge l’adulto. [...] Quello dunque che manca come volto generale è la
personalità di fede. Hanno personalità nella cultura, nella professione,
nel temperamento, ma non personalità di fede ecclesiale (non intimista)
e dunque c’è una assenza di creatività, perché se manca il soggetto uma-
101 Sant’Agostino, L’Eucarestia: corpo della Chiesa, Città Nuova Editrice, Roma 2000, p. 43.
102 Giovanni Paolo II, Messaggio a monsignor Luigi Giussani in occasione del ventesimo
anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione, 11
febbraio 2002.
Sabato pomeriggio
49no, manca anche l’azione».103 Egli è preoccupato per questa difficoltà a
generare personalità adulte nella fede.
Ma don Giussani non si accontenta di questa constatazione. Identifica con chiarezza anche qual è la causa profonda di questa carenza:
«Il motivo di questa situazione è dato da una gravissima decadenza del
metodo: del metodo [del movimento] rimane una gabbia di parole e di
formule, manca il genio. È come prosciugato il genio del metodo».104
In che cosa consiste questa decadenza gravissima di metodo? «Ora
la decadenza di metodo si può così formulare: noi che siamo entrati
nell’agone ecclesiale e sociale quali affermatori del cristianesimo come
esperienza, adesso [lo diceva nel 1976, ma penso che valga perfettamente anche per l’oggi] privilegiamo l’intellettualismo sull’esperienza, e
con l’intellettualismo s’accompagna un esasperato attivismo. E questo è
gravissimo. Ognuno di noi ora può dire: il movimento non è la mia vita,
meglio, la vita mia non è movimento; il movimento è una serie di condizionamenti alla mia vita, che non è perciò evocata da esso. [...] “Vi è un
consenso ideologico invece che una esperienza di vita”. Si agisce molto,
si fanno molte iniziative, ma non si cerca il riscontro nella vita quotidiana, mentre la vita quotidiana, con l’umiltà cui costringe, con la sofferenza inevitabile, con la responsabilità concreta e ineliminabile, renderebbe
equilibrati, più concreti e meno evanescenti, più effettivamente fedeli
[Giussani tiene al fatto che la fede possa incidere così potentemente nel
quotidiano da rispondere alla grave obiezione di Pavese, a quel vivere
quotidiano che taglia le gambe; senza questo la fede non interesserà più
innanzitutto a noi, figuratevi agli altri!]. Ancora, si sostituisce all’intelligenza della persona l’intellettualismo della massa, perché l’intelligenza
– come diceva san Tommaso d’Aquino – agisce scattando dall’esperienza [questo è decisivo]. L’intelligenza scatta dall’esperienza della vita:
se manca questa non c’è una intelligenza nella persona; allora la sua
adesione alle iniziative e il suo comportamento di fronte ai problemi che
angustiano la società [...] è una presenza senza intelligenza. Prima conseguenza: il conformismo, c’è una presenza conformistica, c’è cioè una
assenza di capacità critica. Nasce un modo di giudicare che, non essendo
radicato in una esperienza di vita di fronte a Dio, è superficiale e volubile. Perciò [uno, accontentandosi,] o ripete o segue in modo meccanico
e sordo, oppure critica reattivamente polarizzandosi attorno al proprio
parere; si blocca, si lamenta e, sdegnosamente o non sdegnosamente,
103 Scuola responsabili, Collevalenza (Pg), 17-19 settembre 1976. Archivio CL.
104 Ivi.
50
Esercizi della Fraternitàsi ritira e non partecipa. È un giudizio che non è capace di attraversare
la soggettività del proprio sentimento, per collaborare a creare in unità.
Seconda conseguenza di questa mancanza di intelligenza è che non c’è
assunzione creativa. [...] Così si crea l’abitudine, [...] perché la creatività
dipende dal sentimento di una vita nuova e diversa che ci si sente addosso [non si tratta di fare corsi a Harvard, perché è da una vita che scatta
una creatività diversa]. Per questo il movimento non diventa la vita di
ciascuno di noi e [...] la nostra comunicazione assume un tono di “banalità mondana insopportabile” [è una definizione che descrive anche certi
dialoghi tra noi].»105
Ma questo stato di cose non scoraggia affatto Giussani. Perché, infatti, il Signore permette questa decadenza? «Il Signore ha permesso che
noi cadessimo, perché avessimo a riprendere più veri, più consapevoli
del fatto che solo Lui è capace di portare avanti la nostra vita nella via
giusta, che solo Lui ha la capacità di dilatare l’avvento del suo regno.
[...] Il Signore permette i nostri errori ed i nostri peccati come un modo
strano, ma il più drammaticamente operativo, il più pedagogicamente
efficace, per approfondire il senso del nostro rapporto con Lui. Siamo
così tenaci nell’amor proprio che, senza l’esperienza del nostro limite,
non diremmo con autenticità: “Dio tu sei tutto” e “io sono niente”.»106
Allora, possiamo riassumere la gravissima decadenza di metodo con
queste parole: «C’è una prevalenza decisa dell’intellettualismo sull’esperienza, sull’avvenimento di vita». E questo errore ha una conseguenza immediata: da una posizione intellettuale non potrà mai nascere una vita. «Questo è il punto fondamentale del movimento: l’adulto
non cresce perché c’è il decadimento del metodo nostro, che è quello
dell’esperienza, partecipazione a un avvenimento e non consenso a un
discorso.»107
Arrivati a questo punto, non è difficile immaginare che si parta alla
ricerca del colpevole di questa situazione – ci conosciamo tutti bene,
eh? –, cercando di scaricare su qualcuno o sull’organizzazione del movimento la colpa di questo stato di cose. Ma Giussani taglia corto, identificando il vero responsabile: il problema sei tu, sono io, è ciascuno
di noi. Ecco che cosa dice: «Essere del movimento è partecipare a un
cambiamento nella concezione di voi stessi, del vostro rapporto con gli
105 Verso una vita di fede più matura, a cura di Comunione e Liberazione, pro manuscripto, Milano
1976, pp. 8-9.
106 Ibidem, pp. 8, 10.
107 Scuola responsabili, Collevalenza (Pg), 17-19 settembre 1976. Archivio CL.
Sabato pomeriggio
51altri: il movimento è questo, non è soltanto un’arma per giudicare altri,
è togliersi qualsiasi alibi, qualsiasi brontolamento, perché il problema
sei tu e basta. Il movimento, infatti, ha un estremo bisogno di gente che
diventi adulta: ma chi è l’adulto? L’adulto è definito da un modo suo con
cui vive i rapporti. L’adulto cristiano è perciò chi vive, tende a vivere
i rapporti alla luce della fede (tra marito e moglie, tra genitori e figli,
nella comunità e fuori). Cosa vuol dire [vivere i rapporti] alla luce della
fede? Vuol dire che l’adulto tende a vivere i rapporti alla luce di questa
Presenza [che ci ha investiti], perché la fede è questo. Non necessariamente è adulto chi fa i discorsi, chi proclama un metodo e neanche chi
è responsabile delle iniziative o chi dà le cose da fare, perché non sono
queste le cose che lo definiscono: l’adulto è chi tende a vivere i rapporti
con le persone in Cristo»,108 lasciando che siano investiti dalla Sua presenza. Senza il prevalere di quella Presenza negli occhi, nella vita, come
qualcosa di reale e presente, senza che quella Presenza incomba sul nostro modo di rapportarci al reale, noi viviamo il rapporto con tutto come
tutti gli altri. Solo chi tende a vivere qualsiasi rapporto – con se stesso,
con le persone in casa, al lavoro, con gli amici, con le circostanze – in
Cristo, cioè con la Sua presenza negli occhi, nel cuore, potrà verificare
la vittoria di Cristo risorto. È un’esperienza che ciascuno deve fare: non
la possiamo sostituire con dei commenti o con delle opinioni.
Continua Giussani: «Questa fisionomia della vita cristiana è piena di
vittoria, baldanza, perché Cristo è vittorioso. Cristo è risorto qui, in me,
nell’ambiente di lavoro, dovunque vada, in casa mia: è risorto. Sono vittorioso, perché è vittorioso [cioè risorto] chi mi possiede. [...] Questa è la
vittoria che vince il mondo, cioè la nostra carne, la nostra insignificanza
[perché investita dalla sua Presenza viva, reale]».109
E qual è il segno della fede come esperienza? La letizia. Se questa
vittoria non è un’esperienza vissuta, non siamo lieti. È inutile nascondersi dietro un dito. Possiamo riempire i nostri raduni di parole, ma se
manca l’esperienza della vittoria di Cristo in noi, «non siamo lieti e non
cambiamo nulla intorno a noi».110
Lo scopo di questa tensione a vivere tutti i rapporti in Cristo, cioè
investiti dalla Sua presenza, è raggiungere ciò che per Giussani costituisce l’adulto: l’unità della vita (che è il contrario della frammentazione
che tante volte ci caratterizza): «L’adulto è chi ha raggiunto l’unità della
108 Giornata d’inizio anno di CL, Milano, 10 settembre 1977. Archivio CL.
109 Ibidem.
110 Convegno adulti, Varese, 19 maggio 1979. Archivio CL.
Esercizi della Fraternità
52vita, una coscienza del suo destino, del suo significato, una energia di
adesione. L’adulto è qualificato dall’affezione e quindi dal gusto del suo
significato».111
Di fronte a certi fraintendimenti che si erano verificati riguardo al
significato della personalizzazione della fede, Giussani è costretto a fare
due puntualizzazioni.
a) La personalizzazione della fede non significa affatto un ripiegamento sui propri problemi personali o una sospensione dell’impeto missionario. Non è infatti «sospendendo la presenza missionaria che trovo
soluzione per risolvere i miei problemi, che riesco a risolvere questi
problemi», osservava un amico. Al contrario, come dicevamo prima, la
personalizzazione della fede è la tensione a vivere tutti i rapporti, circostanze, sfide, compreso il problema personale, alla luce della presenza
di Cristo, lasciando che siano investiti dalla presenza di Cristo. Anche, o
meglio anzitutto, i problemi personali devono essere affrontati alla luce
della Presenza che ci ha raggiunti.
b) Ma senza che la fede mostri la sua pertinenza ai nostri problemi
personali, la nostra missione è presunzione: «In questi anni passati, noi
siamo stati veramente vittima della presunzione del movimento come il
toccasana della Chiesa e dell’Italia [della società], ma questo mi porta
alla radice dell’osservazione: che se il movimento non è l’esperienza
della fede come risolutrice, come illuminante le mie problematiche, non
può essere neanche proposta agli altri [se non è vissuta l’esperienza della
fede come illuminante le nostre problematiche, se essa non serve a noi,
diventiamo presuntuosamente giudici di tutti!]. La proposta è attraverso
la mia umanità, e perciò è attraverso la mia umanità risposta, o la mia
umanità provocata [che il movimento può diventare proposta agli altri].
[...] È vero che noi abbiamo un compito missionario per la Chiesa e per
l’Italia, e per la società di oggi, ma è attraverso, passando attraverso il
fenomeno della problematica personale, la risposta ad essa, la provocazione fatta ad essa, [...] che la missione diventa veramente una proposta
sostenibile. [...] L’impeto della missione è una gratitudine, altrimenti è
una presunzione».112
Allora, che cosa vuole dire personalizzare la fede? Vuol dire questo:
«Tutto ciò che ci viene detto e dato [la proposta che ci viene fatta] deve
111 Consiglio di CL, Milano, 18-19 giugno 1977. Archivio CL.
112 Centro di CL, Milano, 17 novembre 1977. Archivio CL.
Domenica mattina
53
Sabato pomeriggiointeressare la vita [la vita!]. E la vita è l’emozione del cuore, il mal di
testa, lo sguardo sulle cose, la curiosità su tutto, l’incontrare, il riso e
il pianto, l’entusiasmo e lo smarrimento [una descrizione stupenda per
“concretare” il fatto che, se la fede non è pertinente alle esigenze della
vita, non interesserà a noi e sarà inutile per tutti]. In una società come
questa non si può creare qualcosa di nuovo se non con la vita: non c’è
struttura né organizzazione o iniziative che tengano. È solo una vita diversa e nuova che può rivoluzionare strutture, iniziative, rapporti, insomma tutto. E la vita è mia, irriducibilmente mia [inconfondibilmente
mia]».113
Allora, come può avvenire di fatto la personalizzazione della fede?
Occorre che Cristo incomba su tutto. Occorre «che mangiando e bevendo, che vivendo i rapporti con gli amici, andando a lavorare, andando
a studiare, nella vita affettiva con la tua donna e col tuo uomo, coi tuoi
figli, con gli altri, nella vita pubblica, per la strada, questa parola che ci
chiama per nome non sia mai dimenticata, questo Cristo che incombe
sul nostro cuore, che penetra la nostra sete di felicità per dire: Io sono
la via, la verità, la vita [non sia mai dimenticato] [...]. Il movimento è
questo. È come se la vita del movimento debba costituire l’esperienza
di una ragione più grande per vivere, anzi dell’unica ragione adeguata,
totale per vivere. [...] Il movimento è ciò che aiuta questo e basta. Aiuta
ad esser te stesso».114
Qual è, dunque, il cammino da percorrere perché questa personalizzazione della fede accada?
3. Il metodo della personalizzazione della fede è la sequela
«La vita la si impara seguendo chi vive: non perché sia migliore di
te! Può essere un miliardo di volte peggiore di te! Ma come metodo,
come atteggiamento di vita, come comportamento, come atteggiamento
applicativo è un esempio. Si segue un esempio, non si segue un discorso. Perché il discorso è alla mercé della propria interpretazione, mentre
seguire un esempio sfida il nostro modo di fare.»115
Don Giussani ha costantemente indicato la sequela come metodo
per la maturità: «C’è un solo mezzo, amici miei, per essere educati a
113 «Movimento, “regola” di libertà», in CL litterae communionis, n. 11, novembre 1978, p. 44.
114 Giornata d’inizio anno di CL, Varese, 17 settembre 1978. Archivio CL.
115 Incontro dei preti di CL, Idice San Lazzaro (Bo), 7 gennaio 1980. Archivio CL.
Esercizi della Fraternità
54questa presenza, per essere sostenuti nella fede fino a diventare testimonianza e non agitatori o agitati come in un’associazione: questo modo
con cui possiamo imparare la presenza è la sequela».116 «Seguire vuol
dire immedesimarsi con persone che vivono con più maturità la fede,
coinvolgersi in un’esperienza viva, che “passa” (tradit, tradizione) il suo
dinamismo e il suo gusto dentro di noi. Questo dinamismo e questo gusto passano in noi non attraverso i nostri ragionamenti, non al termine
di una logica, ma quasi per pressione osmotica: è un cuore nuovo che
si comunica al nostro, è il cuore di un altro che incomincia a muoversi
dentro la nostra vita.»117 Altro che ragionamenti, commenti o battute! La
sequela è un’esperienza viva!
Per questo, come vi ho scritto nella lettera dopo il Sinodo, citando
don Giussani: «La sequela è il desiderio di rivivere l’esperienza della
persona che ti ha provocato e ti provoca con la sua presenza nella vita
della comunità, è la tensione a diventare non come quella persona nella
sua concretezza piena di limiti, ma come quella persona nel valore a
cui si dà e che redime in fondo anche la sua faccia di povero uomo; è il
desiderio di partecipare alla vita di quella persona nella quale ti è portato
qualcosa d’Altro, ed è questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui aspiri, cui
vuoi aderire, dentro questo cammino».118 Questa frase resterà per noi il
termine costante di paragone per verificare se ciascuno sta seguendo o
no, cioè se sta rivivendo un’esperienza o no. E grazie a Dio, come al solito, don Giussani non ci ha dato solo questa compiuta spiegazione della
sequela, ma ha anche giudicato i concetti di sequela diffusi tra di noi,
individuandone i limiti, per aiutarci appassionatamente a non perdere
tempo.
Allora, senza la pretesa di essere esaurienti, vediamo alcune modalità
di riduzione della sequela.
a) La prima riduzione della sequela è la sua identificazione con l’ascoltare un discorso o con il ripetere parole sentite (pensando di essere
così ancora più sicuri di seguire). «Ma la sequela non è mica quella roba
lì!»,119 dice Giussani. Io posso infatti ascoltare quel che dice un altro e
ripeterlo senza muovere il centro del mio io, perciò senza che il centro
del mio sia toccato nella sua radice. E allora la proposta non genera in
116 Giornata d’inizio anno di CL, Milano, 10 settembre 1977. Archivio CL.
117 L. Giussani, Dall’utopia alla presenza (1975-1978), Bur, Milano 2006, p. 59.
118 L. Giussani, Il rischio educativo. Come creazione di personalità e di storia, op. cit. p. 64.
119 Diaconia diocesana, Milano, 9 gennaio 1980. Archivio CL.
55
Sabato pomeriggiome niente di nuovo, non rinnova il mio essere. Eppure, se a chi cerca di
ripetere o di imparare un contenuto di parola chiedessimo che termine
userebbe per descrivere quel che sta facendo, risponderebbe sinceramente: «Seguire: sto seguendo». E invece no, questa è una riduzione
della sequela, questo non è seguire; ripetere il discorso non è seguire.
Diceva Daniélou: «Tutta la scienza del mondo può allargare le dimensioni della gabbia in cui si trova l’uomo ma non può farlo uscire da
questa gabbia».120 Soltanto un’esperienza lo può ottenere: «La sequela è
immedesimarsi e riprendere in sé, imitare – questa è la parola – imitare
la traduzione concreta e pratica, le modalità concrete e pratiche con cui
chi guida la comunità, chi guida il movimento traduce il discorso che
fa!».121
b) La seconda riduzione è identificare la sequela con iniziative, riunioni e cose da fare. «Il Movimento è nato da una presenza che si imponeva e portava alla vita la provocazione di una promessa da seguire.
Ma poi abbiamo affidato la continuità di questo inizio ai discorsi e alle
iniziative, alle riunioni e alle cose da fare. Non l’abbiamo affidato alla
nostra vita, così che [ecco il sintomo che non si tratta di vera sequela] l’inizio ha cessato molto presto di essere verità offerta alla nostra persona
ed è divenuto spunto di una associazione, di una realtà su cui scaricare la
responsabilità del proprio lavoro e dalla quale pretendere la risoluzione
delle cose. Quello che doveva essere l’accoglienza di una provocazione
e quindi un seguire vivo è diventato obbedienza all’organizzazione.»122
c) La terza riduzione della sequela è il personalismo: penso di seguire
perché mi attacco alla persona. No, dice don Giussani. Infatti, «la sequela è l’immedesimarsi con intelligenza e con cuore a [...] una modalità di
vita che connette quel che si vive con il proprio destino, che è Cristo!
Perciò la sequela vuol dire un modo di percepire, riconoscere e immedesimarsi con i valori proposti, cioè con l’esperienza proposta, la quale
può essere comunicata attraverso una determinata persona; ma non si
segue la persona, non è la persona che si segue! Si segue l’esperienza
che quella persona vive, perciò [la sequela è] libera dalla persona! Mentre, per esempio, tra di noi, è immensamente facile trovare che la gente
viene a legarsi alla nostra persona, [sta parlando di sé] per cui restano
120 J. Daniélou, Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia 2012, p. 136.
121 Diaconia diocesana, Milano, 9 gennaio 1980. Archivio CL.
122 L. Giussani, Il rischio educativo. Come creazione di personalità e di storia, op. cit., p. 63.
Esercizi della Fraternità
56dipendenti dalla nostra persona. E un sintomo chiarissimo [di questo] è
che non avviene una sequela tra di loro, vale a dire non avviene un’affezione, una comunione tra di loro, non diventano un avvenimento, non
diventano tra di loro una unità, un avvenimento, perché [fate attenzione
alla ragione che dà Giussani] tutti sono legati alla mia persona! Possono
essere cento, legatissimi alla mia persona... Guardate che questo è un
malanno terribile!».123 Uno potrebbe dire: «Ma che cosa vuoi di più che
legarti alla persona di don Giussani?». Per questo impressiona che don
Giussani dica queste cose proprio riferendosi al legame con la sua persona! Sta affermando che coloro che dicevano di seguirlo in realtà non
lo stavano seguendo, e lo si capiva dal fatto che, malgrado fossero legati
a lui, non accadeva nulla tra di loro. Ognuno “dipendente” da Giussani, “legato” a lui; ma nessuna affezione, nessun avvenimento tra loro.
Perché? La ragione la dice don Giussani: «Ciò che unisce è che ognuno
impari», cioè che ognuno faccia l’esperienza di colui che segue. Solo
così può accadere la comunione, non mettendosi d’accordo. Occorre che
ciascuno impari da don Giussani, che riviva la sua esperienza.
Don Giussani ci ha lasciato tutta una serie di strumenti – per chi
vuole veramente seguire –, per aiutarci in mezzo alle difficoltà che dobbiamo affrontare sulla nostra strada.
Se adesso riprendiamo la concezione di sequela richiamata prima,
capiamo che la questione decisiva è che a tutte le riduzioni manca il
rivivere l’esperienza dell’altro che ci ha colpiti, cioè l’esperienza di
Giussani. Se uno non percorre la strada che gli consente di fare in prima
persona la stessa identica esperienza che fa colui che l’ha provocato e lo
provoca con la sua presenza, quel che l’ha colpito dell’altro non diventerà mai suo.
In che cosa vedo che faccio l’esperienza del seguire? Nel fatto
che non mi limito ad ascoltare o a ripetere un discorso, non mi fermo all’organizzazione o alla reiterazione formalistica dei gesti, non
mi riduco ad attaccarmi personalisticamente a un altro, ma partecipo alla vita di quella persona che mi ha portato qualcosa d’Altro.
Perché se io non arrivo, rivivendo l’esperienza dell’altra persona, a
questo Altro – che è ciò che il mio cuore desidera, cui è devoto, cui
aspira –, nel tempo non mi importerà più nulla di quella sequela, perché non sarà in grado di prendermi. La gente non abbandona la fede
innanzitutto perché abbia un problema con il dogma della Trinità,
per esempio, ma perché, non facendo questa esperienza nella vita, la
123 Consiglio Nazionale di CL, Idice San Lazzaro (Bo), 1-2 marzo 1980. Archivio CL.
57
Sabato pomeriggiofede a un certo momento perde la sua ragionevolezza.
Il vangelo documenta di continuo le riduzioni cui abbiamo accennato. Anche i discepoli cercano di legarsi personalisticamente a Cristo:
«Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori,
comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi
risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. Allora comincerete a
dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle
nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete».124
Ecco un altro episodio: «“Voi chi dite che io sia?”. Rispose Simon
Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te,
Simone figlio di Giona [...]”.[...] Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno. Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò
a protestare dicendo: “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà
mai”. Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: “Lungi da me, satana! Tu mi sei
di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”».125
Gesù non accetta che si stabilisca un legame personalistico con Lui: non
è sufficiente che Pietro aderisca alla Sua persona, occorre che egli partecipi alla Sua esperienza, perché se Pietro non rifà l’esperienza di Gesù,
non riuscirà a capire e a obbedire al disegno di Dio su Gesù.
Lo stesso succede dopo la moltiplicazione dei pani: tutti aderiscono, si legano a Lui fino al punto di volerlo fare re. Ma Gesù non cede
a questo modo di attaccarsi a Lui, perché sa che all’uomo non basta
mangiare il pane, che l’uomo ha bisogno di un’altra cosa, e li sfida: «In
verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo
e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. [...] Come il Padre,
che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che
mangia me vivrà per me».126 Gesù li vuole portare a fare la Sua stessa
esperienza.
E quando Pietro nel Getsemani tira fuori la spada e colpisce l’orecchio del servo del sommo sacerdote, Gesù gli dice: «Rimetti la spada
nel fodero [...]. Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che
mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli?».127 Gesù non accetta
riduzioni.
124 Lc 13,25-27.
125 Mt 16,15-23.
126 Gv 6,53-57.
127 Mt 26,52-53.
Esercizi della Fraternità
58Con questo, Gesù dove voleva portare i discepoli? A capire il disegno
di un Altro, affinché potessero entrarvi anche loro. Se non ci introducesse al Padre, Gesù non ci svelerebbe l’origine ultima della Sua diversità e
non ci aiuterebbe a fare la Sua stessa esperienza. Possiamo ripercorrere
tutto il vangelo e verificare che la concezione di sequela che don Giussani ci comunica è esattamente quella di Cristo: «Gesù non concepiva
l’attrattiva sua sugli altri come un riferimento ultimo a sé [come un attaccare le persone a sé], ma al Padre [all’Altro a cui aspiro, cui il mio
cuore può essere devoto e legarsi]: a sé perché Lui potesse condurre
al Padre, come conoscenza e come obbedienza».128 Senza una vera sequela, l’esperienza di Gesù non potrebbe diventare mia, e l’esperienza
di Giussani non potrebbe diventare mia, tua, nostra. Ma se essa non
diventa nostra, noi rimaniamo da soli con il nostro niente. Perché se non
ci lasciamo introdurre al Mistero di Dio, nel quale è il significato ultimo
del vivere, nel quale possiamo trovare quello che corrisponde alla nostra
attesa, come possiamo stare davanti alla vita e ai suoi drammi, alle sue
sfide e ai suoi dolori?
Per questo, se noi riduciamo la sequela evitando di rivivere l’esperienza di colui che ci ha colpito, prima o poi non ci interesserà più il
cristianesimo. Non è una questione di strategia. È la fede che qui è in
gioco, perché senza sequela non vedremo la convenienza umana della
fede, non la sentiremo corrispondente all’attesa che abbiamo dentro il
cuore. Al contrario, il segno che vivo la stessa esperienza di colui che
mi ha colpito è che io trovo l’Altro a cui aspiro e perciò sperimento
quella corrispondenza al cuore che mi conferma la verità della fede. Per
questo sono devoto: perché con Gesù, attaccato a Gesù, entro di più nel
Mistero. Gesù mi porta costantemente a entrare nel Mistero del Padre.
Egli è venuto per questo: per educarci al Mistero, per introdurci al Padre. E proprio perché noi siamo fatti per questo, non possiamo mentire
a noi stessi e nessuno ci può ingannare. Ci può distrarre per un po’, ma
qualunque altra cosa, siccome non ci corrisponde, non durerà a lungo.
Se la sequela è il metodo della personalizzazione della fede, allora,
seguendo, sperimento ogni volta di più come la fede diventi sempre più
mia, come il rapporto con Cristo diventi sempre più mio. Ne sono segni
la novità della vita e il cambiamento che ne nasce. Questi tratti iniziano
a definire il mio volto, la mia identità, ovunque io sia, a casa o al lavoro,
da solo o in compagnia, in vacanza o impegnato coi problemi che mi si
presentano.
128 L. Giussani, L’uomo e il suo destino, Marietti, Genova 1999, p. 129.
59
Sabato pomeriggioPer questo noi non possiamo scambiare l’esperienza con qualsiasi
cosa: l’esperienza è il luogo dell’evidenza, se ci atteniamo ad essa non
possiamo confonderci. Come dice Lewis: «Quello che mi piace dell’esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio
di svolte sbagliate; ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso
di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto. Potete
aver ingannato voi stessi, ma l’esperienza non sta cercando di ingannarvi. L’universo risponde il vero quando lo interrogate onestamente».129
Questo è il vantaggio di uno che vuole vivere: esso ha nella propria
esperienza i segni della verità che lo ha raggiunto; perché l’esperienza
ha un’evidenza tale che, anche se vuoi lottare contro di essa, non la puoi
cancellare, resta. Perciò nessun personalismo, nessun già-saputo, nessuna interpretazione, nessuna riduzione possono essere confusi con l’esperienza della corrispondenza, con il rapporto con l’Altro che desideri, a
cui aspiri. E noi lo sappiamo benissimo. Per questo ciascuno deve farci
i conti e decidere o meno di obbedire all’esperienza. Perché, in fondo,
che cos’è l’obbedienza? «Al limite l’estrema forma dell’obbedienza è
seguire la scoperta di se stessi operata alla luce della parola e dell’esempio di un altro»,130 perché colpiti da un altro. La scoperta di sé provocata
dall’esperienza di un altro è un avvenimento assolutamente irriducibile.
Possiamo fare quel che vogliamo, possiamo ingannarci quanto vogliamo, ma questo avvenimento è irriducibile, non è in nostro potere.
Perciò don Giussani riassume la sfida con questa parola: «sequela».
4. La presenza
Questo seguire, attraverso il cambiamento che genera in noi, è ciò
che ci rende presenza. La fede come esperienza reale ci fa fiorire come
presenza.
«Essere presenza, questa è la nostra ultima categoria. Essere presenza, qualunque temperamento si abbia e a prescindere dalle doti di cui si
disponga [...] vuol dire un modo diverso di essere dentro una situazione
– perché non si vive se non dentro il rapporto con la propria ragazza,
con gli amici, con i genitori, con il corso universitario che si frequenta,
con il libro che si deve studiare –, in un dato momento culturale e politico della società. Essere presenza in una situazione [guardate che modo
129 C.S. Lewis, Sorpreso dalla gioia, Jaca Book, Milano 2002, p. 131.
130 L. Giussani, Si può vivere così?, op. cit., p. 149.
Esercizi della Fraternità
60imponente di dirlo] vuol dire esserci in modo da perturbarla, così che,
se tu non ci fossi, tutti se ne accorgerebbero. Dove ci sarai, gli altri si
arrabbieranno o ti ammireranno, oppure sembreranno essere indifferenti, ma non potranno non riconoscere la tua “diversità”. Essere presenza vuol dire essere dentro una situazione rendendo Cristo avvenimento
della nostra persona. [...] Il vero annuncio [è qui il punto decisivo!] lo
facciamo attraverso quello che Cristo ha perturbato nella nostra vita, avviene attraverso la perturbazione che Cristo realizza in noi: noi rendiamo presente Cristo attraverso il cambiamento che Egli opera in noi. È il
concetto di testimonianza. Noi usiamo facilmente la parola presenza, ma
la presenza è soprattutto questo: la perturbazione mirabile, affascinante,
che l’amicizia che si instaura fra noi per Cristo – questo tipo di amicizia
capace di letizia e di gioia, dell’impossibile gioia – provoca.»
131
Ce lo ha ricordato papa Francesco: «Io mi domando: dove trovavano
i primi discepoli la forza per questa loro testimonianza? [...] La loro
fede si basava su un’esperienza così forte e personale di Cristo morto
e risorto che non avevano paura di nulla e di nessuno [...]: quando una
persona conosce veramente Gesù Cristo e crede in Lui, sperimenta la
sua presenza nella vita e la forza della sua Risurrezione, e non può fare
a meno di comunicare questa esperienza».132
Noi, quindi, perturbiamo un ambiente solo attraverso il cambiamento
che Egli opera in noi. È questo lasciarsi plasmare da Lui che ci rende
testimoni, come dice ancora Daniélou: «Ciò che ne fa una testimonianza
è il fatto di manifestare un’azione divina proprio là dove non si trova una
generosità eccezionale. L’eroismo dimostra quel che può fare l’uomo.
La santità dimostra quel che può fare Dio».133
Quel che ci auguriamo è di diventare, in ogni situazione, quella «irruzione» descritta da Julien Green: «Pensato oggi al chiasso, alle migliaia
di parole inutili, al rumore della strada, rumore infernale, deprimente,
alle telefonate, ecc., tutto ciò che forma il tessuto della giornata e, in
mezzo al caos, un uomo che con gesti tranquilli e parole che non cambiano mai opera il miracolo della discesa di Dio tra noi. [È la] irruzione
della fede [...], irruzione dell’infinito nel nostro tempo artificioso».134
Che è quel che aspettano tutti, come ci ricorda don Giussani: «Ciò che
manca non è tanto la ripetizione verbale o culturale dell’annuncio [cioè
131 L. Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, Edit Editoriale italiana-Il Sabato, Roma
1993, pp. 345-346.
132 Francesco, Regina Coeli, 14 aprile 2013.
133 J. Daniélou, Saggio sul mistero della storia, op. cit., p. 128.
134 J. Green, L’espatriato. Diario 1984-1990, Mursia, Milano 1992, p. 68.
61
Sabato pomeriggiouna intellettualizzazione della fede o un discorso]. L’uomo di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza dell’incontro con persone
per le quali il fatto di Cristo è realtà così presente che la vita loro è
cambiata. È un impatto umano che può scuotere l’uomo di oggi: un avvenimento che sia eco dell’avvenimento iniziale, quando Gesù alzò gli
occhi e disse: “Zaccheo, scendi subito, vengo a casa tua”».135 È così che
sono bruciati via duemila anni di storia e noi possiamo fare ora la stessa
identica esperienza di Zaccheo. Noi testimoniamo a tutti che Cristo è
presente attraverso il cambiamento che sorprendiamo in noi.
«La normalità diventa improvvisamente densa e tesa secondo la sua
verità, e la sua verità è il rapporto con l’Infinito [...]. La normalità, istante per istante, è rapporto con quella presenza. [...] La presenza di Cristo,
nella normalità del vivere, implica sempre di più il battito del cuore: la
commozione della Sua presenza diventa commozione nella vita quotidiana e illumina, intenerisce, abbellisce, rende dolce il tenore della
vita quotidiana, sempre di più. Non c’è niente di inutile, non c’è niente
di estraneo, perché non c’è niente di estraneo al tuo destino, e perciò
non c’è niente a cui non ci si possa affezionare, a tutto ci si affeziona,
nasce un’affezione a tutto, tutto, con le sue conseguenze magnifiche di
rispetto della cosa che fai, di precisione nella cosa che fai, di lealtà con
la tua opera concreta, di tenacia nel perseguire il suo fine; diventi più
instancabile.»
136
Lo dice bene Werfel: «Ogni suo gesto, ogni saluto, ogni sorriso erano
pieni di quell’infinito che non c’era bisogno di evocare per nome»,137
tanto era palese.
Se è questo cambiamento che rende presente Cristo, allora occorre purificare la nostra concezione di presenza da certi connotati con
cui a volte viene identificata, come ci raccomandava don Giussani:
«Dall’Equipe del 1976, il cui titolo era Dall’utopia alla presenza, è
stato fatto un cammino che ci spinge ora a sfondare e sfrondare la
parola presenza: bisogna sfondarla e sfrondarla. [...] La presenza è
un argomento che coincide con il tuo io. La presenza nasce e consiste
nella persona. [...] E quello che definisce la persona come attore e protagonista di una presenza è la chiarezza della fede, è quella chiarezza
della coscienza che si chiama fede [...]. La presenza è tutta quanta
consistente nella persona, nasce e consiste nella persona e la persona
135 L. Giussani, L’avvenimento cristiano, Bur, Milano 2003, pp. 23-24.
136 L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo..., op. cit., pp. 101-104.
137 F. Werfel, Barbara, Corbaccio, Milano 2000, p. 52.
Esercizi della Fraternità
62è intelligenza della realtà fino a toccare l’orizzonte ultimo».138
Così come la personalizzazione non si riduce a un intimismo o a
una sospensione dell’impeto missionario, allo stesso modo la centratura della presenza nella persona non è da leggere nella opposizione
tra “pubblico” e “privato”, come un ridimensionamento della presenza,
un ripiegamento su se stessi. Al contrario: è una profonda ricentratura
secondo l’impostazione originale del movimento. Vale a dire: affermare
che la presenza è tutta consistente nella persona non significa separare o
opporre una sfera privata, intimistica, a quella pubblica (non esiste questa divisione!), ma significa indicare il luogo originale di ogni cambiamento, la radice da cui viene un frutto la cui dilatazione investe la storia
intera, secondo il disegno del Mistero e non secondo i nostri programmi.
Tutto il resto è illusione, inganno, fa perdere tempo. La persona non
è il “privato” in opposizione al “pubblico” (sono categorie mondane e
riduttive, del tutto inapplicabili alla vita di fede). Il cambiamento della
persona e l’esistenza di una comunità cristiana autentica hanno una valenza storica.
«La storia non è definita, nei suoi tempi, da noi. A noi spetta di vivere
la presenza: un credito totale all’Infinito che è entrato nella nostra vita
e che si rivela immediatamente come umanità nuova, come amicizia,
come comunione. “Non temere, piccolo gregge, io ho vinto il mondo.”
“Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede.” La nostra fede
avrà bisogno di sette, otto, nove secoli perché tutto il mondo universitario sia di nuovo investito dalla presenza cristiana? Non sono, questi,
calcoli che noi possiamo decifrare. L’università ci interessa per l’edificazione del nostro soggetto, non per dire: “Vinciamo”. [...] Dobbiamo abbandonare quella interpretazione ideologica della vita universitaria che
produce un lavoro affannoso e logorante, pesante e amaro, per cui tanti
se ne vanno; mentre nessuno se ne va da una umanità nuova, eccetto il
caso di una ribellione diabolica e feroce.»139
Ma dire questo non significa non fare niente. Vuol dire ripartire con
semplicità, senza presunzione e pretese egemoniche, dal porre di nuovo
gesti e luoghi in cui il soggetto possa essere edificato; così che, a chi ci
vede, venga la voglia di venire con noi per il fascino della vita che ha
davanti agli occhi.
«Moltiplicare e dilatare la comunità cristiana negli ambienti in cui
viviamo: questo è dunque il nostro apporto ai nostri fratelli uomini, aper-
138 L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo..., op. cit., pp. 142-143.
139 L. Giussani, Dall’utopia alla presenza, op. cit., pp. 68-69.
63
Sabato pomeriggioEsercizi della Fraternità
64
ti a valorizzare anche l’infinitesimale spunto che l’intuizione altrui ci palesi, pronti a collaborare con ogni fatto che, alla luce della fede, ci appaia
giusto. Il soggetto vero di questa avventura, di questo apporto storico, è
la persona in quanto appartiene alla comunione. Così è sorto lo slogan
“Comunione e Liberazione”.»140
140 L. Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, op. cit., p. 345.Venerdì sera
65
Domenica 21 aprile, mattina
All’ingresso e all’uscita:
Sergej Rachmaninov, Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in do minore, op. 18
Sviatoslav Richter, pianoforte
Stanislaw Wislocki – Warsaw Philarmonic Orchestra
“Spirto Gentil” n. 8, Deutsche Grammophon
Don Pino. «Egli fu guardato, e allora vide.»141 Che cos’è l’Angelus,
se non l’istante della giornata in cui prendiamo coscienza dell’iniziativa
del Mistero fatto carne, di Cristo, verso ciascuno di noi? Al di fuori di
questa iniziativa c’è solo il groviglio delle nostre immagini. Accorgendosi e accogliendo la Sua iniziativa, inizia il nostro protagonismo nel
mondo.
Angelus
Lodi
n ASSEmBLEA
Davide Prosperi. L’assemblea di questa mattina ha lo scopo di fissare alcuni degli elementi che possono aiutarci di più nel cammino dei
prossimi mesi, perché avremo l’opportunità di lavorare ancora insieme
sul contenuto di questi Esercizi.
La prima sera siamo stati sfidati dalla domanda di Gesù: «Ma il
Figlio dell’Uomo, quando tornerà, troverà ancora la fede?». Ci siamo
sentiti rivolgere questa domanda personalmente, non appena in senso
escatologico, ma siamo stati messi a nudo di fronte all’esperienza che
facciamo tutti i giorni, perché il «quando tornerà» è ora. E questa sfida
di Gesù, che è un abbraccio, rischia, può rischiare di diventare in noi
dubbio e intellettualismo. Un po’ l’abbiamo visto come esito del lavoro fatto negli alberghi, nelle domande che sono arrivate. Pensiamo che
possa essere utile riproporre, anche se in modo critico, alcune di queste
domande, che nella stragrande maggioranza erano relative alla seconda lezione, sottolineando la difficoltà a rispondere all’avvenimento, ma
dando per scontato l’avvenimento stesso.
141 Sant’Agostino, Discorso 174, 4.4.Esercizi della Fraternità
66
Prima domanda. Immedesimandoci con Cristo noi conosciamo Zaccheo; sembrerebbe più immediato immedesimarci con Zaccheo. Come
è possibile immedesimarci con Cristo, fare la Sua stessa esperienza?
Pensare di fare l’esperienza di Cristo è da brivido.
Julián Carrón. Questo è un esempio della prevalenza dell’intellettualismo sull’esperienza, tanto diffusa tra noi, perché sarebbe bastato
partire dall’esperienza che ciascuno di noi ha fatto per rispondere a questa domanda in modo semplice. Ma noi siamo «moderni» e appena sentiamo certe parole diamo loro subito un significato moderno.
Per noi immedesimarci con Cristo che cosa vuol dire? “Immaginare”
come Lui fa. Allora come possiamo essere sicuri di immaginare correttamente? E di non ridurre Cristo alla immagine che noi ci facciamo? Chi
mi assicura di fare la Sua stessa identica esperienza? È perfettamente
comprensibile il timore. Ma se noi seguissimo quel che don Giussani ci
dice – correggendoci in continuazione –, cioè che la realtà si rende trasparente nell’esperienza (l’esperienza che noi facciamo), sarebbe tutto
più semplice. Possiamo, infatti, immedesimarci con quello che vive un
altro solo per una esperienza che abbiamo fatto noi.
Che esperienza abbiamo fatto imbattendoci nel movimento? Quando uno incontra il movimento, quando vede qualcosa che lo stupisce,
non deve immaginare nulla: accusa il contraccolpo di ciò che è davanti
ai suoi occhi. È di questo capovolgimento di metodo avvenuto con il
cristianesimo che ci ha parlato don Giussani. E questa è la prima cosa
che anche Giovanni e Andrea o Zaccheo hanno sentito: è stato l’urto
di una diversità. Non hanno dovuto immaginare nulla, hanno dovuto
semplicemente accusare il contraccolpo di una diversità così unica, così
assolutamente fuori dal comune, così eccezionale, che è stato facilissimo rimanere incollati a quella Presenza. È un urto con qualcosa che non
proviene da noi, che non possiamo creare noi. Ditemi se questo non è
facile! Ma quando la gente ci incontra, quando vede come stiamo insieme a celebrare un matrimonio – come mi raccontavano recentemente a
un’assemblea in Lombardia –, è lo stesso: vedono una modalità di stare
insieme inaudita. Perciò il ristoratore, alla fine di tutto, va a ringraziare
per la festa. Perché? Che cosa ha visto? Non ha dovuto procedere ad
alcuna introspezione! No, è stato colpito da un modo di stare insieme.
E se un ristoratore è colpito, vuol dire che c’è qualcosa di veramente
diverso, perché vede feste di matrimonio in continuazione! Vi ho anche
riferito ieri della reazione della persona che è andata al funerale di uno Venerdì sera
67
di noi ed è rimasta profondamente colpita da quello che ha visto. Quante
volte avrà partecipato a un funerale? Ma per arrivare a dire: «Così è perfino bello morire!», deve essersi trovata davanti a qualcosa di inaudito e
irriducibile, che non è il frutto di uno sforzo nostro, di un’attività nostra,
che non è qualcosa che riusciamo a fare noi. Ecco, per immedesimarsi
occorre solo aver fatto esperienze come queste.
La fede riguarda sempre qualcosa che succede fuori di noi, ha una
sorgente fuori di noi, dipende da qualcosa che non generiamo noi, nasce
da qualcosa in cui ci imbattiamo. Allora Giussani ci dice: «Guardate
quello che vi è accaduto», perché quella è la modalità con cui Cristo vi
ha afferrato. Ora, è solo partendo dall’esperienza presente che noi possiamo immedesimarci con Cristo senza ridurLo. L’esperienza presente
è, infatti, l’esperienza di quella modalità di sguardo con cui Cristo ci
ha raggiunto e ci raggiunge. E quando ci troviamo davanti a uno che ci
guarda in un modo diverso, come non siamo mai stati guardati, rimaniamo colpiti da quello sguardo. Ognuno deve andare a rintracciare nella
propria esperienza quando gli è accaduto questo, per capire che cosa
vuol dire immedesimarsi con Cristo, per non ridurre tutto a una immaginazione. Il cristianesimo è un’altra cosa!
Capisco, allora, perché tante volte noi non sentiamo l’urgenza di riandare costantemente a leggere Giussani o a leggere il vangelo: non ne
abbiamo bisogno. Ci riduciamo ai nostri pensieri, ai nostri tentativi, alle
nostre immaginazioni, che non riescono mai a darci un istante di letizia.
Giussani ci testimonia, invece, costantemente che lui non può vivere
senza Cristo! Dobbiamo decidere se vogliamo seguirlo fino al punto di
fare la sua stessa identica esperienza oppure se vogliamo ridurre tutto
alla nostra misura.
Prosperi. Due domande che leggo insieme perché si completano.
Oggi hai parlato di una esasperata tensione a dire il Suo nome in ogni
aspetto e in ogni istante della vita. Come questo può essere vissuto nel
quotidiano come atto libero e pacificante, e non come un’operazione che
misura?
Riconoscere un avvenimento è semplice, come è riaccaduto oggi per
me. Come stanno insieme questa semplicità e il cammino che richiede
un impegno totale per sorprendere il significato vero, che tante volte non
mi sembra semplice?
Carrón. Vedete? Quando raccontiamo un’esperienza è facilissimo:
«Riconoscere un avvenimento è semplice, come è riaccaduto oggi per
me». Quando ci stacchiamo dall’esperienza cominciamo a complicarci
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
68
e non sappiamo più di che cosa stiamo parlando. Questa è la prevalenza
dell’intellettualismo: ci ingarbugliamo con le nostre parole e non sappiamo di che cosa stiamo parlando. Don Giussani dice che, se non partiamo
costantemente dall’esperienza, finiamo per soccombere alla confusione.
Allora guardiamo in faccia anche queste domande. Pensiamo all’esperienza dell’innamorarsi. Se uno si innamora, per lui innamorarsi non
vuol dire: «Adesso mi dedico alla contemplazione del suo volto e non
faccio nulla». No! Proprio perché è successo, quella presenza investe
talmente la vita che la domanda è opposta: come potete fare tutto, vivere
il quotidiano, senza sentire in voi l’urgenza di lei o di lui? Ditemi come!
L’urgenza dell’altro non è uno sforzo titanico che io devo compiere, no!
È qualcosa che sorprendo in me. Ed è per questo che mi rendo conto di
che cosa mi è accaduto, di quale presenza ha investito la mia vita: io non
posso vivere alcun momento della giornata (anche quando vado in metropolitana, quando mi vesto al mattino, quando sono a pranzo), senza
l’esasperata tensione a dire il suo nome. Questa tensione, questa urgenza
che sorprendo in me stesso, che preme dentro di me, è la memoria di lui
o di lei: è questo il prevalere di una presenza. Che cosa succede quando,
a un certo momento, questo fenomeno non accade più? Uno non decide
di non pensare a lei o a lui perché ha altro da fare. Anche prima era pieno di cose da fare, ma non poteva evitare che ritornasse alla mente, che
prevalesse quella presenza! Quando non succede più non vuol dire che
la persona amata sia sparita dalla faccia della terra: è ancora lì, ma non
vi è più il prevalere di quella presenza come determinante la vita, l’avvenimento non urge più dentro di sé. Per questo dico – lo dico innanzitutto
a me stesso – che il problema grave per noi è che Cristo non ci manca!
Possiamo dare tutte le interpretazioni che vogliamo, ma il problema è
che tante volte Cristo non ci manca. E non c’entra il fatto che abbiamo
dei limiti, che facciamo degli errori: tutto questo c’è – mettiamo in conto tutto, tutto, perché nella vita c’è tutto –, ma il problema è che Cristo
non ci manca! Noi abbiamo incontrato un uomo che, facendo un pranzo con gli amici, non poteva non sentire l’esasperata tensione a dire il
Suo nome. Allora, “esasperata tensione” o “impegno” è lo stesso: dopo
averLo incontrato, sento l’urgenza di Lui, mi manca! Perché se non mi
manca, nessun moralismo può sostituire la tensione di questa mancanza.
Allora, come l’esasperata tensione a dire il Suo nome può essere un
atto libero e pacificante? Il problema è alla rovescia: se non fate questo,
come potete essere liberi in mezzo a tutti i problemi del giorno?! Come
potete vivere in pace?! Come possiamo essere sempre più liberi in mez-Venerdì sera
69
zo a tutto il daffare che abbiamo, se Cristo non ci manca, se non è Lui a
riempire tutto della Sua presenza?
Ma alcuni, quando dico queste cose, obiettano: «Questo è intimismo». Un cavolo! Dite a voi stessi se questo è intimismo o se è il segno
che Cristo significa qualcosa nella vita! Questa è la fede: per vivere io
ho bisogno del riconoscimento di Lui. Il problema della fede non è alle
nostre spalle, è il nostro problema quotidiano. Che cosa vuol dire la Sua
presenza per noi ora?
Prosperi. Questo c’entra con la domanda successiva: che cosa vuol
dire aspettarsi tutto dal fatto di Cristo?
Carrón. Ciascuno deve farsi questa domanda, perché soltanto chi ha
incontrato Cristo sa che cosa si può aspettare. Che cos’è Cristo per noi?
Uno tra gli altri? Come diceva l’amico citato, «è un problema di stima».
Gesù è la cosa che io stimo più di qualsiasi altra o no? Che cosa ho sperimentato nell’incontro con Cristo? Occorre rispondere a questa domanda, perché poi nella vita può succedere tutto: sbagliamo, ci distraiamo,
pensiamo di stare perdendo il meglio, come il figliol prodigo, e allora
come lui andiamo via di casa a cercare un compimento che immaginiamo più grande. E quando viviamo per qualsiasi altra cosa che non sia
Lui, possiamo vedere che cosa succede: proprio come il figliol prodigo!
Perché si è ricordato di suo padre, della sua casa? Che cosa si aspetta,
dopo aver vissuto tutto il resto, dopo aver cercato un compimento dappertutto? Con il padre lui ha fatto un’esperienza diversa, incomparabile,
come noi con Cristo. Dunque, che cosa si aspetta il figlio? Si aspetta
tutto quel che ha già vissuto e che altrimenti non avrebbe saputo, di cui
nemmeno noi sapevamo prima dell’incontro. Perciò – diceva sempre
don Giussani – la gente può andare via, ma da un fatto non si torna indietro. Per questo Cristo ci può sfidare tutti: «Fate il paragone con qualsiasi
altra cosa, e ditemi se trovate qualcosa che vi corrisponda di più rispetto
a quello che Io sono, a quello che avete sperimentato nell’incontro con
Me!». Così uno può cominciare a vedere che non c’è nulla, nessun’altra
presenza, nessun altro modo di vivere la vita che sia più corrispondente
all’attesa del suo cuore – questa è la verifica della fede –. Non ce ne
accorgiamo innanzitutto perché siamo bravi, perché non facciamo più
le stupidaggini di tutti, perché non ci distraiamo, ma perché quanto più
uno si allontana, tanto più si rende conto di che cosa gli manca andando
via. Allora uno si aspetta che Cristo diventi sempre più tutto per lui;
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
70
con dolore, ripartendo, zoppicando, ma senza andare via, senza prendere
un’altra strada – come diceva Eliot –. Questa è, allora, la domanda che
ciascuno deve farsi: noi ci aspettiamo tutto da Cristo? Io mi aspetto tutto
da Te, o Cristo? La questione non è se io sono “in grado di”, se io sono
“all’altezza di”; non è questa la domanda, ma è quella di Gesù a Pietro:
«Mi ami tu? Non ti chiedo se sei bravo, non ti chiedo se domani non mi
tradirai, non ti domando questo. Ma: mi ami più di qualsiasi altra cosa?
La Mia presenza ti interessa più di qualsiasi altra cosa? Ti aspetti tutto da
Me? O Io sono una tra le tante cose? Da che cosa ti aspetti di compiere la
vita?». Se per noi, in fondo, Cristo è uno tra tanti, tra le tante cose della
vita, allora risponderemo: «Sì, Cristo va bene, ma senza esagerare!».
Che Cristo possa essere tutto, questa è la domanda della fede: io mi
aspetto tutto da Cristo? La fede non soltanto è fare l’elenco delle verità
a cui aderiamo, perché queste verità sono percepite tante volte come una
serie di astrazioni. Il problema è che la verità è diventata carne, la bellezza è diventata carne, la felicità è diventata carne. Il problema è se per
noi Cristo è questo avvenimento. Altrimenti noi siamo già da un’altra
parte, e non perché siamo incoerenti – attenzione! –, perché i pubblicani
erano incoerenti molto più di noi, ma ritornavano da Lui in continuazione. È un problema di stima, è un problema di giudizio. Non vi è nulla di
sentimentale o moralistico. Chi è Cristo per la vita di ciascuno di noi? È
un problema di giudizio.
Prosperi. Altre due domande legate tra loro.
Sull’oggettività di Cristo duemila anni fa, nessun problema. Invece
sull’oggettività di Cristo oggi, il rischio di seguire una nostra idea di Dio
è molto elevato. Che cosa ci libera da questo rischio?
Anche Pietro ha corso il rischio del personalismo, ma alla fine ha
conosciuto Cristo realmente. Qual è la sottile linea di demarcazione tra
seguire la presenza e seguire la persona? E perché questa differenza è
così importante?
Carrón. Vedete che non è un problema solo nostro? Anche Pietro
correva il rischio di seguire una sua idea di Dio o di seguire una sua idea
di Gesù (di che cosa convenisse a Gesù); il vangelo lo documenta, come
abbiamo visto ieri. Questo in noi è inevitabile, come ci dice don Giussani: è inevitabile che uno, appena conosce qualcosa, si formi un’immagine, si faccia un’idea di quella cosa; perciò non dobbiamo spaventarci di
questo. La vera questione è che, quando mi trovo davanti a una irriducibilità come quella di Cristo – così come Pietro –, io ceda. Anche Pietro, Venerdì sera
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subito dopo che era stato lodato perché aveva confessato che Gesù era il
Cristo, ha sentito tutto il Suo rimprovero: «Tu non la pensi come Dio!».
Anche Pietro si era fatto un’idea di Dio. Chi ci libera costantemente
da questo? Questa è la questione, oggi come duemila anni fa. Ci libera soltanto una Presenza irriducibile. Per questo la fede cristiana non è
possibile senza una oggettività davanti a sé, senza qualcosa al di fuori di
me in cui mi imbatto, che non posso ridurre alle mie immagini, alle mie
idee, al mio sentimento, alla mia reazione, alla mia interpretazione. La
fede cristiana sarà sempre l’imbattersi in una Presenza che ti libera dalle
tue misure, ti libera dalla tua gabbia, ti libera dal tuo bunker (per usare
un’immagine di Benedetto XVI). Il cristianesimo permane nella storia
perché continua ad accadere la sua Presenza e perciò questa liberazione
da me stesso, dalla mia gabbia, dal mio bunker, perché con le mie interpretazioni posso affossarmi e con i miei pensieri posso soffocare. In
che cosa percepisco che Cristo è presente? Nel fatto che davanti a Lui
faccio una esperienza tale di liberazione, di respiro, che dico: «EccoLo!». Come la persona che ha detto: «Questo avvenimento è riaccaduto
ieri». Quante volte stando insieme, partecipando a qualcosa, ci troviamo
davanti alla testimonianza di qualcuno, davanti a qualcosa che succede,
e noi siamo liberati! Sappiamo che Cristo è presente non perché lo diciamo noi, ma perché sorprendiamo accadere in noi questo respiro, questa
liberazione dalla nostra misura, dal soffocamento, dalla gabbia. E quando succede è uno stupore così enorme che a uno viene da dire: «Grazie,
grazie che ci sei, o Cristo, oggi, presente in mezzo a noi, nel Tuo corpo
che è la Chiesa, nella Tua visibilità storica, irriducibile a tutte le mie
misure». Basta che ciascuno pensi se è successo qualcosa durante questi
tre giorni, come è arrivato qui e se è successo qualcosa. Come mi ha
scritto qualcuno: uno arriva ingarbugliato, preoccupato da tante cose, e
si trova davanti a qualcosa di irriducibile; non perché parliamo delle preoccupazioni del lavoro, di cosa ha lasciato a casa, no! Si trova immerso
in una irriducibilità. Perché, altrimenti, dobbiamo venire qui, se non per
questo? Perché dobbiamo essere cristiani, se non per questo? Perché
dobbiamo appartenere al movimento, se non per questo? Tutto il nostro
tentativo è affinché il movimento sia un luogo dove riaccade la liberazione: non un’agenzia di attività o un’organizzazione non governativa,
come diceva papa Francesco, ma un luogo dove riaccade la novità del
mio io, così che uno possa tornare a casa diverso. Allora, essere liberati
è vivere il cristianesimo come un avvenimento. Possiamo viverlo secondo la sua natura, solo se riaccade costantemente come avvenimento.
Altrimenti perde di interesse. Invece, se succede ogni volta, allora uno
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
72
si attacca sempre di più, uno si riempie sempre di più di ragioni. Per
questo abbiamo ripetuto, fino a stancarci, che se il cristianesimo non è
un’esperienza presente, dove io trovo la conferma che esso risponde alle
esigenze del vivere, la fede non potrà resistere in un mondo in cui tutto
dice il contrario. Questo è il nostro problema. Per questo, se Giussani
insiste nel denunciare le riduzioni del movimento o della sequela, secondo tutte le varianti di cui abbiamo parlato in questi giorni, non è per
un gusto analitico o per rimproverarci qualcosa: è per salvarci! Perché
tutte queste varianti non saranno mai il cristianesimo, non saranno mai
il movimento. Il movimento sarà ed è il contraccolpo dell’inizio, anche
con persone come noi piene di fragilità: è il contraccolpo dell’inizio che
ci ha liberati. Se non è questo, nel tempo non ci interesserà più.
Prosperi. Le ultime due domande si riferiscono ad esperienze particolari, che però pongono questioni che ci riguardano tutti.
Dopo l’esperienza significativa del Clu, sono tornato al mio paese e
sperimento una grossa difficoltà con la comunità locale del movimento,
che mi sembra molto diversa dalla vita del Clu. Davanti a questa difficoltà mi si dice che sono io che non riesco a valorizzare ciò che c’è. È in
questo caso che Carrón dice che il problema è mio? In questa condizione
che cosa significa la sequela?
Carrón. La prima cosa che occorre dire è che la Fraternità è una, e il
movimento è uno, così come la Chiesa è una. Occorre aprire le finestre
delle comunità e dei gruppetti perché, se in ogni comunità non corre tutta l’aria della totalità del movimento, se in ogni gruppetto non corre tutta
l’aria della Fraternità, allora tutto diventa soffocante, come lo diventa
ogni gruppo di amici. Nessuno adesso, qualsiasi sia la situazione in cui
si trova, può non avere a portata di mano tutta la ricchezza della vita del
movimento, anche se è nel luogo più sperduto della Terra. Quindi, tutto
ciò che la vita del movimento è arriva fino là. Alla fine della prima lezione, ho fatto il paragone con la Chiesa. Questo tipo di autoreferenzialità
di ogni comunità può capitare, infatti, anche rispetto al movimento; e
non ce la caviamo cambiando strategia. No! Per fare uscire gli apostoli
dalla riduzione che operavano, Cristo non ha cambiato strategia: ha dato
la vita per loro, è morto ed è risorto per loro. Occorre accettare di partecipare alla totalità della vita della Chiesa, che si comunica non soltanto
ritrovandosi a mangiare insieme con gli amici: la vita della Chiesa è
molto più ricca di tutti i nostri tentativi e se noi riduciamo la nostra compagnia ai nostri tentativi, dove andiamo? Se noi non abbiamo il respiro Venerdì sera
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della totalità della Chiesa e non sentiamo tutta la urgenza di partecipare
a questa oggettività molto più grande di noi, che ci perdona, che costantemente ci alimenta con l’Eucarestia, che costantemente ci offre la Sua
parola, ci offre tutta la ricchezza della Sua testimonianza e della Sua
compagnia, noi come possiamo non soccombere? Lo sottolineo perché
ciò che capita con la Chiesa capita con il movimento. Se in ogni gruppo
la vita non è aperta a questa totalità, soffochiamo. Ciascuno ha tutto ciò
che occorre per vivere lì dove si trova. «Nessun dono di grazia più vi
manca»142 diceva san Paolo alla comunità di Corinto, in mezzo a tutto
l’Impero romano, quando erano “tre gatti”. «Nessun dono di grazia più
vi manca.» E allora a nessuno è impedito di vivere, in qualsiasi situazione, in qualsiasi comunità, in qualsiasi luogo: può perfino valorizzare
tutto quel che c’è, senza ridurre la comunità a quel che c’è, ma spalancandola. Tu puoi arrivare lì con tutta la ricchezza di quello che hai vissuto nel Clu e perturbare la comunità per la perturbazione che è accaduta
in te, come dicevamo: se può succedere la perturbazione nell’ambiente
di lavoro, può avvenire anche nelle nostre comunità. Speriamo anzi che
qualcuno continui a perturbare le comunità. Altrimenti siamo finiti! Per
questo nessuno ci impedisce di vivere, qualsiasi sia la situazione in cui
il Mistero ci ha collocato.
Prosperi. Ci hai detto che l’avvenimento non è generato dal nostro
fare. Però il movimento ci richiama a gesti (caritativa, tende Avsi, Colletta Alimentare, ecc.) che sono uno strumento educativo. Come questo
fare non si riduce ad attivismo?
Carrón. Ciò che ci è successo non è stato il prodotto del nostro fare.
L’Avvenimento non è generato dal nostro fare, e fin dall’inizio non è
stato generato dal nostro fare. Ci siamo imbattuti in qualcosa di diverso
che non avevamo creato noi e che ha cambiato la nostra vita. Tutto ciò
che facciamo, i gesti sono espressione di quella novità che il movimento
ha introdotto, della novità che Cristo ha introdotto nella vita. Il problema
è quando i gesti, invece di essere espressione di quella novità, diventano
cose da fare. Tutte le donne lo capiscono. Quando si sposano e hanno a
cuore di mantenere la casa bella e in ordine, o di fare un pranzo appetitoso, affinché la casa sia un luogo in cui uno desideri tornare, perché lo
fanno? Per l’impeto che quel che è successo loro riempia tutto. E allora
ogni gesto è espressione di un amore, di una passione per la vita della
142 1 Cor 1,7.
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
74
propria famiglia. Che disgrazia quando questo si perde e tutto diventa
“cose da fare”! Ciò che era l’espressione di un amore diventa allora un
lamento: «Ma devo ancora fare questo? Tu vai sempre via, e io qui a
pulire!». Che può avere un suo senso, non lo discuto. Che i mariti non
prendano spunto da questo per sentirsi giustificati, perché capita lo stesso agli uomini!
I gesti possono essere espressione di un avvenimento, espressione di un
amore, di una passione, o essere semplicemente ridotti a cose da fare: invece di generare continuamente il rapporto, di essere espressione del rapporto
e facilitare l’incrementarsi del rapporto, diventano solo cose da fare.
Il rischio è sempre questa duplice riduzione: attivismo o intimismo.
Di questa contrapposizione micidiale, l’esempio più palese è l’episodio
di Marta e Maria. Marta si dà da fare, e tanto! Chi di noi non sarebbe
stato contento e onorato di fare delle cose per Gesù, di averlo ospite a
casa sua? Ma uno può avere a casa Gesù, avere la fortuna di servirLo,
e fare prevalere, comunque, il lamento. «Guarda, Maria non mi dà una
mano!»: prevale il lamento. E allora, quando Gesù dice a Marta: «C’è
una sola cosa importante», non sta dicendo che è meglio la contemplazione dell’attività; no, sta sottolineando che Marta non coglie che,
qualsiasi cosa faccia, ciò che deve prevalere è il fatto di Cristo, il fatto
di essere onorata di essere con Lui, che tutto quanto è per Lui. Quando
Gesù le dice questo, non è per un rimprovero. «Se tu non ti rendi conto
di questo, carissima Marta, il tuo fare non ti basta; e si vede dal lamento.» Quando don Giussani ci invita a non soccombere all’attivismo,
non lo fa perché non vuole che facciamo delle attività; e quando noi
ci diciamo queste cose, non è per insistere sull’intimismo invece che
sull’attivismo. No, non confondetevi! Il fatto è che l’attività, quando
non è vissuta secondo la sua vera natura, genera il lamento, perché non
è espressione di un amore, perché non aiuta a fare memoria di quell’amore, perché non mi rende consapevole di quell’amore. Infatti, anche se
fossi in atteggiamento intimista e non Lo riconoscessi, sarebbe lo stesso:
lamento! Il problema non è l’attivismo o l’intimismo, il problema è se
prevale la Sua presenza o meno. L’alternativa non è tra il fare o il nonfare, ma è tra il lasciare entrare una Presenza ed esserne colpito, tanto
che domina la vita, o no. Se Lui non prevale, possiamo fare o non fare,
ma il lamento, il disagio, domina. Tante volte la gente si ritaglia degli
spazi per non complicarsi la vita. Ma questo risponde? Qualsiasi forma
di questa contrapposizione risponde? Il problema è che a volte pensiamo
che facendo così possiamo cavarcela. No! Occorre che il nostro fare sia
tutto investito dalla Sua presenza, così come il nostro riposare. Perché Venerdì sera
75
quel che succede nel fare, succede nel riposo. Così, anche quando non
facciamo niente, Lui non ci manca: la stessa riduzione che trasforma
l’attività in attivismo si realizza nel riposo, per cui andiamo in vacanza
come i pagani, aspettandoci soltanto quel che si aspettano tutti, invece
di vivere anche la vacanza come occasione della memoria di Lui, dell’esasperata tensione a dire il Suo nome.
La questione, alla fin fine, è sempre la fede: se prevale questa Presenza come avvenimento nella vita. Attenzione! Non confondiamoci,
come se questo volesse dire che occorre non so che razza di coerenza o
di irreprensibilità. No, no, no! Lo vediamo bene quando l’avvenimento
dell’innamorarsi è vivo. Possiamo continuare a fare gli sbagli di prima,
ma prevalgono l’urgenza, la gratitudine e la gioia della presenza della
persona amata. Sono contento perché Tu vivi, Cristo, perché Tu ci sei;
non sono costretto a soffocare in qualsiasi cosa io faccia, nell’attività o
nel riposo, perché Tu ci sei! È la questione della fede, perché per noi la
fede è qualcosa che ha a che vedere con tutto, non qualcosa che si ritaglia un pezzo di vita. La fede è qualcosa che ha a che vedere con tutto.
Per questo continuiamo il nostro cammino cercando di seguire ciò
che la Chiesa ci propone nell’Anno della fede, affinché possiamo riscoprire la bellezza della fede, per vivere, per vivere di più, per vivere più
intensamente, per vivere con vera intensità la vita, in modo da rispondere a quel «quotidiano che taglia le gambe». Altrimenti la fede avrà
una data di scadenza; e non per una cattiveria nostra, ma perché non ci
interesserà più. Il nostro interesse si sposterà altrove. Uno può stare qui
e il suo interesse essersi già spostato altrove. Non è così difficile capire
che – come diceva don Giussani – possiamo essere del movimento senza
che la fede sia al centro del nostro interesse. Non perché don Giussani
pensi che diciamo delle eresie contro la fede, no, ma perché il centro
affettivo del nostro io è già spostato altrove: non ci aspettiamo più tutto
da Lui. Questo è il problema della fede.
Vivendo l’esperienza del riconoscimento della sua Presenza, attraverso ciò che Cristo genera in noi, potremo testimoniarLo in tutto quel
che dovremo fare, in tutti i gesti che compiremo. Accompagniamoci in
questo. Per questo esiste la Fraternità.
Domenica mattinaAvviSi
Dico alcune cose sulla Fraternità che ci possono aiutare a ricordarne
lo scopo. Sono stato molto colpito da alcune richieste di iscrizione, che
ridicono lo spunto, la preoccupazione per cui don Giussani è partito nel
fare la Fraternità.
Dice una di queste richieste: «Oggi, dopo più di due anni nel movimento, ho la certezza che è la strada giusta, perché il metodo che mi offre mi aiuta nella vita; mi aiutano i giudizi che ci diamo, la condivisione
dell’esperienza che impariamo alla Scuola di comunità. Imparo a capire
che la consistenza della mia libertà e della mia felicità non si basano su
una mia individuale indipendenza, ma in un rapporto con il Tu, nella
coscienza che sto camminando sulla strada al mio destino. L’amicizia
e la comunione che viviamo in comunità fanno necessariamente parte
di questa strada, di questo rapporto e anche della mia felicità e libertà.
Per questo vorrei chiederti di entrare nella Fraternità di Comunione e
Liberazione, perché il Signore mi ha fatto capire che è la mia strada».
Un altro amico scrive: «Vorrei entrare nella Fraternità di Comunione
e Liberazione, perché mi rendo conto che è l’unica strada che mi rende veramente felice e attraverso la quale Cristo da me si fa conoscere.
È proprio il movimento il modo con cui si fa conoscere. Quando ho
conosciuto Cl ero un grande individualista [questo è il punto: uno può
partire così, individualista, ma poi desidera appartenere perché ha fatto
l’esperienza di una liberazione dalla sua gabbia], un uomo che voleva
riuscire in tutto da solo, a modo proprio. Cl era un mio progetto, e non
solo Cl, ma tutta la mia vita era un mio progetto [quando abbiamo questa
impostazione, facciamo anche del movimento un progetto] e su questo
mi intestardivo. Poi dovevo cercare dei compromessi, e quando non funzionava iniziavano i problemi. Ma poco alla volta, in tutto quello che
vivevo, sia nel bene che nel male, ho imparato che ciò di cui ho bisogno
è un luogo dove continuamente posso incontrare Cristo vivo [uno incomincia come può, siamo poveracci; la questione è che, a un certo punto,
si trova davanti a qualcosa di irriducibile]». «Ho imparato ciò di cui ho
bisogno: un luogo dove posso incontrare Cristo vivo [nell’esperienza lui
sa che cosa viveva all’inizio e che cosa sta succedendo vivendo dentro
un luogo come il movimento]. Per me questo luogo è diventato la comunità delle persone di Cl dove si rinnova in me la memoria di ciò che nella
mia vita è importante. È anche il luogo dove continuamente imparo,
dove mi sento a casa.»
All’ultima diaconia della Fraternità, lo scorso mese, un amico ci di-
76Venerdì sera
77
ceva che in poco tempo sono morti tre amici a Montreal, in Canada.
Uno di loro, malato di tumore, aveva premura di iscriversi alla Fraternità
prima di morire, tanto da chiedere di poter essere accettato il più presto
possibile. È stato sepolto con la tessera di iscrizione alla Fraternità nel
taschino, vicino al cuore, come un tesoro. Voleva morire appartenendo
al luogo dove Cristo si era fatto a lui vicino.
Don Giussani, in un’intervista del 1992, diceva: «L’iscrizione alla Fraternità è un atto personale, di totale iniziativa del singolo, non una scelta
operata da un gruppo. Nasce come necessità personale per la propria fede
[come abbiamo visto] e per il realizzarsi della propria fisionomia cristiana. Il suo scopo [...] è quello di partecipare a una compagnia che aiuti nel
cammino alla santità; cioè nella conoscenza di Cristo, nell’amore a Cristo
per il bene degli uomini, per il regno di Dio sulla terra».143
Dovremmo leggerle spesso queste frasi, perché ci dicono che cosa è
la Fraternità, di fronte a tutte le nostre riduzioni. «Nasce come necessità
personale per la propria fede», cioè per la propria vita, come un «partecipare a una compagnia che aiuti nel cammino alla santità».
Quando questo non si capisce, quando uno ha ridotto il suo bisogno e la sua necessità, allora nemmeno si capisce veramente che cosa
è la Fraternità. A gennaio, per esempio, al raduno dei responsabili degli
Stati Uniti, alcuni dei partecipanti mi hanno raccontato della fatica che
alcuni fanno a partecipare alla Fraternità. Perché? Perché la Fraternità
è una proposta che riguarda la totalità della vita, per la natura stessa
dell’avvenimento cristiano. Spesso noi – è un problema dappertutto –
accettiamo di appartenere a un club, ad associazioni che rispondono a
certi bisogni particolari, e a volte la Fraternità è uno tra i tanti luoghi o
club di appartenenza. Gli amici americani mi domandavano il perché di
questa fatica. E io ho risposto: «Appartenendo alla Fraternità così, qual
è il problema? Fate la Fraternità come un club; qual è il problema? Va
tutto bene, così?». E allora hanno incominciato a intervenire, uno dopo
l’altro, dicendo: «No, non va bene. Manca questo alla mia vita, manca
quest’altro...». «Ah, allora ridurre la Fraternità a uno dei tanti club non
risolve la vita, non aiuta. Per questo la Fraternità è una proposta diversa
da un club, perché voi avete le tessere di tanti club, e uscite uno dopo
l’altro a dire che cosa non va. È per questo che la Fraternità, se è vissuta
come un club in più, non interessa.» Invece la proposta della Fraternità
è diversa. Per questo, chi può appartenervi davvero? Chi può desiderar-
143 L. Giussani, «Per una fede matura», intervista a cura di P. Colognesi, Litterae communionisCL, febbraio, 1992, p. 26.
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
78
la? Chi non si accontenta di meno del tutto! Cioè, chi sente l’urgenza
dentro di sé di questa necessità personale. Se non scatta l’ipotesi della
Fraternità, non scatta perché manca questo desiderio della santità, cioè
questo desiderio della pienezza di cui parla Giussani, quel desiderio del
compimento totale della propria vita. Chi ha questo desiderio sente il
bisogno di mettersi insieme ad altri per essere sostenuto nel proprio tentativo, essendo consapevole della propria fragilità. È l’amicizia come
compagnia guidata al destino. Che scatti come ipotesi è la conseguenza
di questo desiderio, di questo seguire. Per questo basterebbe essere leali
con le nostre necessità, per capire l’urgenza che abbiamo di un luogo
reale, vero, irriducibile dove siamo veramente aiutati.
Come diceva ancora don Giussani: «Poiché lo scopo della Fraternità
è l’impegno della responsabilità personale di fronte alla santità e al destino, il vero problema è la capacità di amicizia, la vita in comune [nel
senso di compagnia guidata al destino]. È una condivisione da vivere
senza pretese, senza misura, senza sentimentalismi [diceva don Giussani] e che giunge fino all’aiuto sociale e materiale. Scuola di comunità e
missione sono gli scopi cui dedicarsi».144
Sempre in America mi facevano una domanda sui primi gruppi che
nascevano, con questa preoccupazione: «Essendo cresciuti molto in tutto
il territorio i gruppetti di Fraternità, vogliamo capire qual è l’importanza
di essere fedeli al fondo comune, di seguire una regola che permetta di
dare una certa struttura a questa amicizia». Qui vediamo, come dicevamo
prima, che fare un gesto, darsi una minima regola di preghiera, invitarsi
a essere fedeli al fondo comune, sono piccole cose, è un impegno minimo, ma è l’espressione più semplice di questo desiderio di appartenere
all’unica Fraternità. Capire il significato di questi semplici gesti è decisivo per non viverli in modo formale, ma come espressione della nostra
appartenenza. In questo c’è tanto cammino da fare ancora. Se li viviamo
in maniera vera, questi gesti aiutano a incrementare la consapevolezza di
appartenere e quindi generano costantemente questa appartenenza, sono
il modo di nutrire la consapevolezza di appartenere, sono un aiuto.
E nella Lettera che inviava ai nuovi iscritti, don Giussani scriveva: «La Fraternità di CL vuole essere espressione consapevole e
impegnata, cioè matura, della storia del Movimento di CL. Essa vuole essere il livello in cui tutte le intuizioni, che per grazia di Dio ci
hanno animato e ci animano, siano realizzate, sia nel senso di “ren-
144 L. Giussani, «Per una fede matura», op. cit., p. 26.Venerdì sera
79
dersi conto” di esse, sia nel senso di dare loro una effettualità».145
In questo senso, anche avere cura degli aspetti “formali” della vita
della Fraternità è importante. Mi ha colpito, per esempio, l’intervento
del responsabile dell’America Latina, alla scorsa Diaconia, quando
diceva quale occasione di educazione possano essere anche gli adempimenti formali a cui ogni tanto siamo chiamati. Dovendo occuparsi
della elezione dei responsabili diocesani della Fraternità nelle varie
nazioni – come sapete, ogni tre anni gli iscritti delle diocesi dove la
Fraternità è istituita sono chiamati a eleggere i responsabili diocesani
della Fraternità –, il responsabile dell’America Latina raccontava che
sembrava una cosa formale e diceva: «Inizialmente non aveva molta importanza per noi. Invece, avendolo preso sul serio, capisco che
anche un particolare così giuridico può diventare un aspetto molto
educativo. Questo fatto ha implicato per me una serietà con la libertà
delle persone che partecipano all’elezione e un tentativo di giudizio
sulla situazione del movimento, una richiesta del parere delle persone». Tutti questi strumenti li possiamo vivere formalmente o possono
diventare un’occasione di educazione per capire che cosa è la nostra
compagnia, la nostra Fraternità.
Diceva ancora don Giussani: «La Fraternità di CL ha lo scopo di
assicurare il futuro dell’esperienza del Movimento, e la sua utilità per
la Chiesa e per la società, attraverso la continuità dell’educazione e
la costruzione di opere, come esito di tale educazione, nelle strutture
della società ecclesiastica civile. A questo livello io intendo prendere
in considerazione la gente che ci sta fino in fondo».146 È questo che
costruisce la nostra Fraternità: gente che vuole starci «fino in fondo».
Fondo comune
Da ultimo, risottolineo l’importanza del fondo comune. Come
ho avuto modo di dire anche pubblicamente all’Assemblea generale
della Compagnia delle Opere, il 25 novembre scorso: «Fin dall’inizio il movimento è vissuto esclusivamente grazie ai sacrifici economici delle persone che vi aderiscono. Chi appartiene al movimento,
si impegna a versare mensilmente una quota di denaro liberamente
stabilita, il cosiddetto “fondo comune”, che don Giussani ha sempre
indicato come gesto educativo a una concezione comunionale di ciò
che si possiede, alla coscienza della povertà come virtù evangelica
145 L. Giussani, L’opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, op. cit., p. 250.
146 Ivi.
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
80
e come gesto di gratitudine per quello che si vive nel movimento.
Proprio per la ragione educativa detta, non è rilevante l’entità della
quota che ciascuno versa, ma la serietà con la quale si rimane fedeli
all’impegno preso. Per sostenere la vita delle nostre comunità in Italia e nel mondo e le iniziative caritatevoli, missionarie e culturali, il
movimento di Comunione e Liberazione non ha bisogno d’altro [e
lo devo gridare a tutti che noi non abbiamo bisogno d’altro!]; e per
questo siamo liberi da tutto e da tutti nello svolgere il nostro compito
come movimento».147
Ma su questo facciamo ancora fatica. Così come altri gesti nella
vita del movimento “entrano” sempre di più (per esempio, la caritativa, perché uno percepisce il bene che è per lui partecipare al gesto di
caritativa per poi vivere tutto), riguardo al fondo comune dobbiamo
fare ancora molta strada, tanto che ci sono ancora – qui! – tremila
persone che non danno nulla al fondo comune. E questo perché? Non
è un problema economico, perché il fondo comune non è una questione di quantità, ma di fedeltà. Questa cosa non la capiamo ancora
nella sua portata educativa, nella sua capacità di generare una modalità nuova di vivere. E per questo facciamo fatica. Perché la prima
ragione del fondo comune è educarci a vivere tutto come ricevuto da
un Altro. Per questo ci conviene non perdere la consapevolezza di
questo. La seconda ragione è collaborare alla missione della Chiesa,
costruendo il movimento. Quanto più uno ne capisce la portata, tanto
più vorrà che possa diffondersi, che possiamo testimoniarlo in tutti i
luoghi (dove nasce costantemente il movimento).
Alcuni di noi vivono questa fedeltà al fondo comune anche nelle
difficoltà. Leggo una lettera: «Purtroppo questa sera non vi scrivo
quello che da qualche anno a questa parte mi sarei aspettata di scrivervi, e cioè che avevo fatto un bonifico a saldo di tutte le quote di
fondo comune che non ero più riuscita a pagare, ma vi devo dire che
non ce la faccio proprio a recuperare le quote non versate [tra di noi
è possibile anche dire questo, con la mortificazione che uno vive,
tra di noi possiamo dirci le cose con questa libertà]. Man mano che
tentavo di mettere da parte qualcosa da mandare al fondo comune,
arrivava una spesa improvvisa. Inutile dirvi che sono tempi difficili.
Mio marito ha lavorato tanto con un basso guadagno e, pur facendo
grandi sacrifici per poter pagare il mutuo e affrontare tutte le spese
che abbiamo, non sempre riusciamo a onorare i nostri impegni se non
147 J. Carrón, «Con l’audacia del realismo», Tracce-Litterae communionis, dicembre 2012, p. VI.fosse per l’aiuto dei nostri genitori. Fino a oggi non vi avevo mai
scritto, e neanche avevo abbassato la quota, seppur già bassa, perché
mi vergognavo di non riuscire a rispettare il mio impegno. Ora invece mi vergogno d’aver ceduto all’orgoglio e d’aver perso così tanto
tempo in pensieri, anziché partecipare a un’opera, anche se con poco
[non importa la quantità, è un problema di appartenenza, di consapevolezza dell’appartenenza, di amore a quel che viviamo tra di noi].
Spero un giorno di poter recuperare e riuscire a fare una donazione».
Che uno possa sperimentare questo struggimento dice di più di quanto possa dare.
Anno della fede - Pellegrinaggio a Roma
Vi ricordo l’importanza del pellegrinaggio a Roma del prossimo 18
maggio, proposto per l’Anno della fede dal Pontificio Consiglio per la
promozione della nuova evangelizzazione, che sarà il primo incontro di
papa Francesco con i Movimenti ecclesiali e le nuove comunità.
Libri
È uscito il nuovo libro di don Giussani, che riprende le Equipe
degli universitari degli anni 1990-91, dal titolo Un evento reale nella vita dell’uomo. È sorprendente vedere come don Giussani descrive la natura del cristianesimo: «L’evento reale nella vita d’un uomo
è il riconoscimento e l’adesione a Cristo, è l’accettare di essere stati
scelti».148 E ancora: «Il cristianesimo non è il legame che tu stabilisci con Cristo, ma è il legame che Cristo stabilisce con te».149 Solo
chi accetta di lasciarti plasmare da questo evento reale può diventare
un protagonista in grado di vivere l’interminabile fatica del vivere
quotidiano, senza essere sconfitto dalle circostanze.
Il libro del mese di maggio-giugno è Il potere dei senza potere
di Václav Havel (Prefazione di Marta Cartabia). Il testo originale è
stato arricchito di altri discorsi di Havel molto interessanti, successivi al 1978. Adesso possiamo percepire molto di più la potenza di
questi scritti. Basta ricordare il famoso esempio dell’ortolano, che è
la documentazione dell’aspetto conoscitivo, culturale, «rivoluzionario» di un io che si pone nella realtà. Questa è l’unica nostra risorsa,
ci diceva don Giussani.
148 L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo..., op. cit., p. 163.
149 Ibidem, pp. 326-327.
Telegrammi inviati
Domenica mattina
81Esercizi della Fraternità
82
Tracce
Raccontava recentemente don Pino di come sia sbalordito dal fatto
che tutte le mattine, in Università Cattolica a Milano, un gruppetto
di ragazzi vende Tracce, e che il tutto è nato dall’iniziativa di una
ragazza che ha detto: «Questa non è la rivista di Cl. Questa è la “mia”
rivista». Ne ha parlato con cinque, dieci amici. Per alcuni è stata
l’occasione di un incontro, come è avvenuto, per esempio, vendendo
Tracce di marzo con la copertina su papa Benedetto: alcune persone
volevano capire perché era così importante per noi.
SANTA MESSA
Letture della Santa Messa: At 13,14.43-52; Sal 99; Ap 7,9.14-17; Gv 10,27-30
OmELiA Di DOn michELE BERchi
«Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla Mia mano.» Questo è ciò che desidera Cristo
per me, per ciascuno di noi: stare con me, stare con ciascuno di noi
per l’eternità. Tu mi vuoi Tuo per l’eternità. Questa è la vita eterna.
Potremmo dire che Gesù muore dalla voglia di stare con me. È morto dalla voglia di stare con me, di farmi Suo per sempre.
Ma chi sono io per Te? Perché solo davanti alla fedele e inimmaginabile affermazione di Cristo, anzi, solo davanti a questa vera dichiarazione d’amore, il primo amore: «Le mie pecore», mie – che Gesù
dica di ciascuno di noi: «Mia pecora» è come la mamma e il papà che
lo dicono del loro bambino, come l’uomo innamorato lo dice della
donna che gli ha detto di sì – «le mie pecore ascoltano la mia voce e io
le conosco ed esse mi seguono»; solo davanti a questa dichiarazione
d’amore possiamo cominciare a capire chi siamo. Chi sono io coincide con il chi sono io per Te; chi sono io per Te, o Signore.
Nessuno ci strapperà più via questa esperienza, nessuno potrà
strapparci dalla Tua mano, nessuno. La forma che Tu hai impresso
nel nostro cuore, incontrandoci uno a uno, non potremo mai più togliercela di dosso, perché tutte le migliaia di persone che siamo qui,
tutti siamo stati incontrati uno a uno; questa moltitudine immensa
che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua,
è stata radunata uno a uno. Chi di noi può dire che il Signore non
l’ha condotto qui, asciugando ogni lacrima dai suoi occhi? Tu ci hai
fatti Tuoi, e da quel momento nessuno potrà mai più strapparci di
dosso questo incontro che ci ha fatti Tuoi.
C’è solo un pericolo, quello stesso dei giudei, che – come dicono
gli Atti degli Apostoli – non si giudicavano degni della vita eterna. Si può essere anche gelosi di questa appartenenza, eppure non
aderire. Si può appartenere al popolo eletto, e non aderire. Questo
punto di resistenza incredibile, eppure sempre possibile; come lo
sappiamo bene, come lo conosciamo bene quel maledetto orgoglio,
quell’amor proprio fino alla rovina di noi stessi. Però, guardandolo
bene, questo punto di resistenza ci rende ancora più pieni di stupore,
perché Tu, Signore, preferisci rischiare che io Ti dica di no, piuttosto Esercizi della Fraternità
84
che comperare la mia libertà. Ma perché ci ami così tanto? Perché?
Domandiamo in questa santa messa che lo Spirito, attraverso la
carne della Madonna da cui è nata questa compagnia, ci mantenga
questo stupore, perché è attraverso di questo che diventa vero che
nulla ci separerà mai dall’amore di Suo Figlio.
MESSAGGI RICEVUTI
Carissimi,
il tema degli Esercizi di quest’anno: «Chi ci separerà dall’amore di
Cristo?» prende di petto la modalità con cui l’annuncio cristiano debba
essere proposto a tutti, in particolare agli uomini e alle donne della nostra affaticata Europa.
Infatti, solo la certezza di essere stati definitivamente afferrati dal
Suo amore rende possibile l’appassionata apertura nei confronti di
quello che don Giussani chiamava «tutto l’esistente e tutta l’esistenza».
Assicuro la mia vicinanza nella preghiera e nell’affetto in questi
giorni di straordinaria portata per la vita di Comunione e Liberazione.
Vi saluto tutti e Vi benedico.
S.E.R. cardinale Angelo Scola
Arcivescovo di Milano
Carissimo don Julián Carrón,
mi unisco a tutti voi riuniti per gli Esercizi Spirituali della Fraternità in questo tempo straordinario in cui abbiamo partecipato a grandi fatti di grazia come la rinuncia al ministero petrino di Benedetto
XVI e l’inizio del pontificato di papa Francesco nuovo “Vescovo di
Roma”. Il Signore ci ha sorpreso con la sua presenza e con la qualità
della sua vicinanza. Come abbiamo sentito la paternità intensa e bella
di Benedetto sento particolarmente, grazie ai ventisette anni vissuti in
missione in Brasile, la familiarità con il cuore e lo stile immediato e
semplice di Francesco. Averlo incontrato, in Argentina ed in Brasile
ad Aparecida, è stata una grazia che ci apre il cuore ad una sequela
totale che comporta intelligenza e piena disponibilità come sempre
abbiamo vissuto con i Sommi Pontefici, secondo quanto ci ha insegnato don Giussani.
Per questo il tema degli Esercizi «Chi ci separerà dall’amore di
Cristo?» (Rm 8,35) ci apre alla scuola del carisma e ci riempie di fiducia nel cammino che il Signore offre oggi a tutti noi e alla sua Chiesa.
Chiedo allo Spirito la grazia di vivere questi esercizi come una vera
opportunità, come un tempo favorevole per la nostra persona e per la
nostra missione nel mondo. Nell’“Anno della fede” e dinanzi a tanti Esercizi della Fraternità
86
prodigi della misericordia di Dio, la Madonna ci renda come lei aperti
ad accogliere il dono di Dio, a consegnarci totalmente al suo disegno
e a comunicare a tutti con franchezza quanto ci è accaduto.
Invocando su di voi la benedizione del Signore e la protezione
della Gran Madre di Dio,
vi saluto cordialmente
S.E.R. monsignor Filippo Santoro
Arcivescovo di TarantoTELEGRAMMI INVIATI
Sua Santità
Francesco
Santo Padre, 24.000 aderenti alla Fraternità di Comunione e Liberazione, radunati a Rimini per gli annuali Esercizi spirituali e altre migliaia in videocollegamento da 21 nazioni, hanno meditato sul tema «Chi ci
separerà dall’amore di Cristo?».
Grati per la Vostra benedizione, che ci fa sperimentare la maternità
della Chiesa, abbiamo approfondito la consapevolezza che «il Signore
è vivo e cammina con noi» perché il cristianesimo è l’esperienza di un
avvenimento, Cristo risorto, come ci ha testimoniato con la sua vita don
Giussani e come vediamo nelle parole e nei gesti di Vostra Santità, sorgente continua di stupore e di affezione.
In un tempo nel quale la fede non è più «un presupposto ovvio» (Porta fidei), abbiamo sentito come rivolta a noi la domanda di Gesù: «Ma
il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». L’inizio
del Vostro pontificato ci spinge a riscoprire che la fede non è una teoria o
un insieme di regole, ma il riconoscimento di una Presenza «attraente e
persuasiva perché risponde al bisogno profondo dell’esistenza umana».
Nella memoria di don Giussani, desideriamo rivivere la sua stessa
esperienza per essere così pieni dello sguardo di Cristo da essere una presenza diversa, soprattutto nelle «periferie esistenziali» di questo mondo.
In questo Anno della fede riconsegniamo tutte le nostre persone e le
nostre comunità sparse nel mondo nelle mani della Santità Vostra, col
desiderio di testimoniare la gioia di essere cristiani per aiutare i nostri
fratelli uomini a trovare in Cristo la misericordia che salva.
All’augurio per l’imminente ricorrenza del Vostro santo patrono
uniamo la preghiera alla Madonna di rendere “dulces pondus” il mandato di Successore di Pietro, in cammino con il Suo popolo.
In attesa di incontrare Vostra Santità il 18 maggio in piazza San Pietro.
Grazie, Santità.
87Esercizi della Fraternità
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Sua Santità papa emerito Benedetto XVI
Santità, a Rimini insieme a tutti i 24.000 amici della Fraternità di Comunione e Liberazione, radunati per gli Esercizi spirituali, e altre migliaia in videocollegamento da 21 nazioni, meditando sul brano di san Paolo
«Chi ci separerà dall’amore di Cristo?» ho pensato alla Sua persona. Tutti
domandiamo alla Madonna di accompagnarLa nella immedesimazione
con Cristo, l’Amico che non ci abbandona mai. Nascosto al mondo, ma
non ai nostri cuori affezionati a Lei, Le chiedo una preghiera per tutte le
nostre persone, affinché possiamo riscoprire la gioia di essere cristiani
in questo Anno della fede da Lei indetto con la premura di un padre, per
testimoniare la bellezza di essere cristiani nella vita quotidiana.
Illustrissimo Giorgio Napolitano
Presidente della Repubblica italiana
Illustrissimo Signor Presidente, 24.000 aderenti alla Fraternità di
Comunione e Liberazione, radunati a Rimini per gli annuali Esercizi
spirituali, hanno appreso la notizia della Sua rielezione.
«Mi muove in questo momento il sentimento di non potermi sottrarre
a un’assunzione di responsabilità verso la nazione, confidando che vi
corrisponda una analoga collettiva assunzione di responsabilità.» Il suo
gesto di libertà aumenta l’ammirazione per la Sua persona.
In questo drammatico momento Lei ci appare come una risorsa per
l’Italia, di fronte all’urgenza di riprendere la strada di una vera pacificazione che ottenga quel bene così necessario per la vita personale e sociale.
Pur consapevoli dei nostri limiti, come credenti educati da don Giussani alla passione per il destino dei fratelli uomini, desideriamo offrire la
nostra testimonianza, insieme a ogni uomo di buona volontà, come contributo per sbloccare la situazione, affermando il valore dell’altro nella
ricerca del bene comune al di sopra di qualsiasi interesse particolare.
Comprendendo il peso enorme della nuova responsabilità, Le auguriamo di ottenere ciò per cui ha accettato questo grande sacrificio.
S.E.R. cardinale Angelo Bagnasco
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
24.000 aderenti alla Fraternità di Comunione e Liberazione, radunati a
Rimini per gli annuali Esercizi spirituali, meditando sul tema «Chi ci sepa-rerà dall’amore di Cristo?», nella certezza che il Signore risorto è l’Unico
in grado di colmare il bisogno infinito del cuore, confermano l’impegno a
vivere una fede sempre più personalizzata, seguendo Papa Francesco che
ci invita a darne testimonianza nelle «periferie esistenziali» della nostra
società, soprattutto in questo momento di grande incertezza.
S.E.R. cardinale Stanisław Ryłko
Presidente Pontificio Consiglio per i Laici
Eminenza carissima, 24.000 aderenti alla Fraternità di Comunione e
Liberazione, a Rimini per gli Esercizi spirituali e altre migliaia in videocollegamento da 21 nazioni, meditando sul tema «Chi ci separerà dall’amore
di Cristo?», rinnovano l’impegno a vivere il Battesimo come testimonianza
della gioia di essere cristiani, nella sequela a Papa Francesco.
S.E.R. cardinale Angelo Scola
Arcivescovo di Milano
Carissimo Angelo, grati per il tuo messaggio ti diciamo che in questi
giorni abbiamo fatto di nuovo l’esperienza di Cristo presente, che ci afferra
attraverso quella forma di insegnamento alla quale siamo stati consegnati.
Ti domandiamo di pregare per ciascuno di noi, affinché siamo sempre
più pieni del Suo sguardo attraente e persuasivo − e irriducibile a ogni nostra misura − per essere testimoni nel mondo della pertinenza della fede alle
esigenze della vita
.
S.E.R. monsignor Filippo Santoro
Arcivescovo di Taranto
Carissimo Filippo, il tuo messaggio ci aiuta a essere più consapevoli
della grazia che abbiamo ricevuto ad avere don Giussani come padre
nella fede.
Nella volontà di seguire Papa Francesco, torniamo alle nostre case
più certi che niente e nessuno potrà separarci dall’amore di Cristo se
saremo così semplici da stupirci ogni volta dell’avvenimento della Sua
presenza che riaccade tra di noi ora
al peccato che la tradizione chiama concupiscenza, la quale rimane nei
battezzati perché sostengano le loro prove nel combattimento della vita
cristiana, aiutati dalla grazia di Cristo. Si tratta del combattimento della
conversione in vista della santità e della vita eterna alla quale il Signore
non cessa di chiamarci.»77
È solo se noi accettiamo di partecipare, di accogliere questi gesti di
Cristo – attraverso i quali Lui ci attira dentro di sé, ci fa un solo corpo, ci
rinnova con il sacramento della penitenza, ci nutre con il Suo Corpo e il
Suo Sangue –, che possiamo ripartire: «Cristo – ha detto papa Francesco
il Lunedì dell’Angelo – ha vinto il male in modo pieno e definitivo, ma
spetta a noi, agli uomini di ogni tempo, accogliere questa vittoria nella
nostra vita e nelle realtà concrete della storia e della società. Per questo
mi sembra importante sottolineare quello che oggi domandiamo a Dio
nella liturgia: “O Padre, che fai crescere la tua Chiesa donandole sempre
36
nuovi figli, concedi ai tuoi fedeli di esprimere nella vita il sacramento
che hanno ricevuto nella fede” [...]. È vero, il Battesimo che ci fa figli di
Dio, l’Eucarestia che ci unisce a Cristo, devono diventare vita, tradursi
cioè in atteggiamenti, comportamenti, gesti, scelte. La grazia contenuta
nei Sacramenti pasquali è un potenziale di rinnovamento enorme per
l’esistenza personale, per la vita delle famiglie, per le relazioni sociali. Ma
tutto passa attraverso il cuore umano: se io mi lascio raggiungere dalla
grazia di Cristo risorto, se le permetto di cambiarmi in quel mio aspetto
che non è buono, che può far male a me e agli altri, io permetto alla
vittoria di Cristo di affermarsi nella mia vita, di allargare la sua azione
benefica. Questo è il potere della grazia! Senza la grazia non possiamo
nulla. Senza la grazia non possiamo nulla! E con la grazia del Battesimo
e della Comunione eucaristica posso diventare strumento della
misericordia di Dio, di quella bella misericordia di Dio. Esprimere nella vita il
sacramento che abbiamo ricevuto: ecco, cari fratelli e sorelle, il nostro
impegno quotidiano, ma direi anche la nostra gioia quotidiana! La gioia
di sentirsi strumenti della grazia di Cristo, come tralci della vite che è
Lui stesso, animati dalla linfa del suo Spirito!».78
La Sua capacità di trasformare la vita e di farci partecipare a questa
grazia si esprime, insieme ai sacramenti, attraverso i carismi: «Lo Spirito
Santo non si limita a santificare e a guidare il popolo di Dio per mezzo
dei sacramenti e dei ministeri, e ad adornarlo di virtù, ma “distribuendo
a ciascuno i propri doni come piace a lui” (1 Cor 12,11), dispensa pure
tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e
pronti ad assumersi vari incarichi e uffici utili al rinnovamento e alla
maggiore espansione della Chiesa».79
Ci ha detto Giovanni Paolo II in piazza san Pietro il 30 maggio 1998:
«I veri carismi non possono che tendere all’incontro con Cristo nei
Sacramenti. Le realtà ecclesiali cui aderite vi hanno aiutato a riscoprire la
vocazione battesimale, a valorizzare i doni dello Spirito ricevuti nella
Cresima, ad affidarvi alla misericordia di Dio nel Sacramento della
Riconciliazione ed a riconoscere nell’Eucaristia la fonte e il culmine di
tutta la vita cristiana».80
È questo il contributo storico che don Giussani ha dato a noi e a
tutta la Chiesa: «Il carisma rappresenta proprio la modalità di tempo, di
spazio, di carattere, di temperamento, la modalità psicologica, affettiva,
37
Sabato mattinaintellettuale, con cui il Signore diventa avvenimento per
me e, allo stesso modo, anche per altri».81 Dunque il carisma è fattore di
appartenenza a Cristo e alla Sua verità: «La questione del carisma è decisiva perché
è il fattore che esistenzialmente facilita l’appartenenza a Cristo, cioè è
l’evidenza dell’Avvenimento presente oggi, in quanto ci muove. In questo
senso il carisma introduce alla totalità del dogma. Se il carisma è la
modalità con cui lo Spirito di Cristo ci fa percepire la sua Presenza
eccezionale, ci dà il potere di aderirvi con semplicità e amorosità, è vivendo
il carisma che si illumina il contenuto oggettivo del dogma».82
Non dobbiamo dimenticare, però, che solo dalla grazia sacramentale
può nascere costantemente il carisma, la sua vitalità oggi. È la grazia
sacramentale che fa sorgere e mantiene vivo il corpo ecclesiale, come
Giovanni Paolo II ci ha detto in un discorso per noi memorabile: «Il
sorgere del corpo ecclesiale come istituzione, la sua forza persuasiva
e la sua energia aggregativa, hanno la loro radice nel dinamismo della
Grazia sacramentale. Essa trova però la sua forma espressiva, la sua
modalità operativa, la sua concreta incidenza storica mediante i diversi
carismi che caratterizzano un temperamento e una storia personale. [...]
Quando un movimento è riconosciuto dalla Chiesa, esso diventa uno
strumento privilegiato per una personale e sempre nuova adesione al
mistero di Cristo. Non permettete mai che nella vostra partecipazione
alberghi il tarlo dell’abitudine, della routine, della vecchiaia! Rinnovate
continuamente la scoperta del carisma che vi ha affascinati ed esso vi
condurrà più potentemente a rendervi servitori di quell’unica potestà che
è Cristo Signore!».83
Solo se ci lasciamo raggiungere dalla potenza di Cristo risorto, che
ci viene incontro costantemente attraverso i sacramenti e il carisma,
potremo vedere che il quotidiano «che taglia le gambe» diventa vivibile:
«Il miracolo è la realtà umana vissuta quotidianamente, senza enfasi
eccezionali, senza necessità di eccezioni, senza fortune particolari, è la
realtà del mangiare, del bere, del vegliare e del dormire investita dalla
coscienza di una Presenza che ha i suoi terminali in mani che si toccano,
in facce che si vedono, in un perdono da dare, in soldi da distribuire, in
una fatica da compiere, in un lavoro da accettare».84
«La presenza di Cristo, nella normalità del vivere, implica sempre di
38
più il battito del cuore: la commozione della Sua presenza diventa
commozione nella vita quotidiana e illumina, intenerisce, abbellisce, rende
dolce il tenore della vita quotidiana, sempre di più. Non c’è niente di
inutile, non c’è niente di estraneo, perché non c’è niente di estraneo al
tuo destino, e perciò non c’è niente a cui non ci si possa affezionare [...],
con le sue conseguenze magnifiche di rispetto della cosa che fai, di
precisione nella cosa che fai, di lealtà con la tua opera concreta, di tenacia
nel perseguire il suo fine; diventi più instancabile [...]. La stanchezza,
pur senza ombra, è per così dire riassorbita anche come stanchezza,
diventa una stanchezza puramente fisiologica.»85
È la verifica, nel quotidiano, della presenza vittoriosa di Cristo che
ci consentirà di attaccarci sempre di più a Lui, fino a poter dire con Ada
Negri: «Tutto / per me tu fosti e sei».86 Di tante persone forse qualcuno
potrebbe dire: «Tutto per me tu fosti». Ma dire di qualcuno non soltanto:
«Fosti» nel passato, nell’incontro iniziale, ma: «Sei» adesso, nel presente,
questa è un’altra cosa!
È soltanto coinvolgendoci nella Sua vittoria che potremo dire con
verità: «Cristo, tutto per me Tu fosti e sei».
85 Ibidem, pp. 103-104.
86 A. Negri, «Atto d’amore», Mia giovinezza, Bur, Milano 2010, p.
SANTA MESSA
Liturgia della Santa Messa: At 9,31-42; Sal 115 (116); Gv 6,60-69
OMELIA DI SUA EMINENZA CARDINALE JEAN-LOUIS TAURAN
PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO
Come sempre Gesù lascia gli uomini liberi di scegliere. I Dodici, anche loro, devono rinnovare la loro adesione a Cristo: «“Forse anche voi
volete andarvene?”. Simon Pietro risponde a loro nome: “Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna. Noi abbiamo creduto e conosciuto che
tu sei il santo di Dio”». Di fronte alle parole e ai gesti di Gesù, uno è
costretto a rispondere con un «sì» o con «no». Il grande dramma dell’uomo non è la malattia né la morte: è la sua libertà. L’uomo può dire «no»
a Dio, e Dio rispetta la sua libertà. Il famoso poeta Hölderlin, contemporaneo di Goethe, ha scritto: «Dio ha creato lʼuomo, come il mare fa i
continenti, ritirandosi».
Non si può evitare Gesù Cristo. Gesù disturba, perché è segno di contraddizione: «Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?» (Gv 6,60).
Noi siamo qui perché siamo discepoli di Gesù e perché siamo portatori di
un messaggio per il mondo, per l’Italia di oggi. Un messaggio che è una
contestazione radicale del «galateo politico e culturale». Pensate: diciamo ai nostri amici: «Siete – siamo – chiamati alla vita eterna». Per di più,
abbiamo da ricordare all’umanità di oggi e di domani un avvenimento
unico nella storia: Gesù è risorto! Mai una rivoluzione, mai un progresso
scientifico potranno offrire agli uomini una «cosa così importante» come
la risurrezione di Gesù. È il vangelo della vittoria inaudita sul dolore,
sul peccato, sulla morte che Cristo ha conseguito per sé e per noi. È un
avvenimento indescrivibile, che tutti ci riguarda e ci avvolge!
Allora vedete come credere non è semplicemente credere che Dio
esista. No, è credere che Dio interviene nell’esistenza umana. L’oggetto
della nostra fede – ho sentito stamattina don Carrón sottolineare questo –
è un avvenimento, o una serie di avvenimenti: credere che Dio ha parlato
ad Abramo, ha liberato il popolo dall’Egitto, si è incarnato nel seno della
Vergine Maria, è risuscitato dai morti. Per noi è credere anche che Dio
è presente in mezzo a noi nell’Eucaristia: ecco il «supremo paradosso».
In realtà gli uomini sono disposti, più o meno, a riconoscere una divinità
che «sta al di sopra di loro, che non disturba». Ma credere che Dio intervenga nella trama dell’esistenza umana, che ci siano delle opere divine
che si compiono oggi: questo è uno «scandalo» che la maggior parte dei
40nostri contemporanei rifiutano. Rifiutano il soprannaturale.
Questa assemblea numerosa, attenta, impegnata riscalda il cuore perché è un avvenimento divino. Qui, questa mattina, hic et nunc, Dio è in
mezzo a noi in questa Eucaristia. Per noi il Cristianesimo non è «una
certa visione del mondo». Non è un sistema che accettiamo perché ci
conviene. Siamo qui perché crediamo che qualcosa è capitato, che Cristo
è risuscitato, che Lui è la Verità e questo interessa noi e tutti gli uomini.
Lo sapete, noi cristiani siamo «osservati». Tutti cercano non le belle
cose che possiamo compiere, ma piuttosto le nostre mancanze. E questo
ci ricorda che la Chiesa è una realtà divina e umana, allo stesso tempo.
Non dobbiamo, però, avere complessi, perché lo Spirito guida la Chiesa
e riserva sempre sorprese. Basta ricordare ciò che è avvenuto a Roma il
mese scorso. Ho notato che nei discorsi del nuovo Papa vi è una parola
da lui spesso usata: è il verbo «uscire». Uscire da noi stessi per lasciarci
purificare da Dio; uscire dalle nostre chiese, dai nostri conventi, dalle
nostre sale di riunioni per raggiungere gli uomini dove questi vivono,
costruiscono, soffrono, muoiono.
La prima lettura ci ha presentato Pietro in «visita pastorale», diciamo. La pace e l’intesa fraterna vengono sottolineate. Sappiamo che a
questa pace e intesa fraterna si deve aggiungere l’ascolto della Parola, lo
spezzare del pane e la comunione dei beni. Sono le caratteristiche della
prima comunità cristiana e noi dobbiamo sempre riferirci a questa comunità. Ma il comportamento di Pietro che guarisce i malati ci ricorda che
anche noi dobbiamo rispondere alle domande dei nostri contemporanei.
Devono vederci pregare per potersi porre le domande fondamentali; hanno bisogno di una parola che «sollevi» le loro anime, hanno bisogno di
incontrare delle comunità dove essere accolti, ascoltati e rispettati. Sì,
tutti hanno bisogno di uscire da questo contesto di morte, di sfiducia, di
sospetto che, purtroppo, rovina la nostra vita e che segna la cultura di
oggi: il non-senso, l’isolamento, la non stima di se stessi. Pietro ha potuto
rispondere alle attese delle persone in difficoltà che incontrava perché lui
stesso aveva imparato da Gesù come pregare e quale missione compiere.
Durante questo ritiro vi siete domandati: «Chi ci separerà dall’amore
di Cristo?». Per poter rispondere: «Nessuno, niente», anche voi dovete
avere alle spalle una vita di intimità, di amicizia con Cristo.
Nel mondo di oggi, il grande pericolo è di organizzare la nostra vita,
la società secondo la misura dell’uomo. Noi cristiani proponiamo un Dio
Padre vicino a noi, che si fa servitore e cibo: ecco ciò che ci distingue
dai discepoli di Maometto o di Buddha. Ma, attenti: non dobbiamo mai
abituarci a questa incredibile prossimità di Dio. Chi dice di Dio: «Egli»,
41
Sabato mattinasenza mai dire: «Tu», sta a poco a poco dimenticando i tratti del volto
di Dio. E un bel giorno Dio non sarà niente di più che un’idea e, molto
presto, nient’altro che una parola.
Non più tardi di ieri mattina, papa Francesco ricordava che la vita
cristiana è un parlare con Dio a tu per tu, come si parla con una persona.
«Non con un Dio – diceva – indefinito e diffuso alla maniera di uno spray
sparso un po’ ovunque.»
Fratelli e sorelle, preghiamo perché ci siano date le energie spirituali
di cui abbiamo bisogno per essere cristiani coerenti, capaci di costruire
una società con delle finalità degne dell’uomo. Voglia Dio preservarci
dall’“abbassare la guardiaˮ, riducendo la carità a una semplice filantropia, trasformando lo spirito apostolico in una semplice propaganda o la
Chiesa in un club.
Rendiamo grazie a Dio per questo ritiro, che ci permette, ancora una
volta, di constatare quanti siano numerosi gli uomini e le donne che, nella
vita di ogni giorno, sono consapevoli della fedeltà di Dio, manifestata in
Gesù Cristo e nella sua Chiesa. Tutti insieme ci sentiamo più forti, per
amare e servire questo nostro mondo, il mondo che Dio ama e che Cristo
salva. Questo mondo dove l’uomo vuole addentrarsi nei segreti dell’atomo, ma che, nel contempo, rimane cieco sul senso dell’avventura umana.
Questo mondo ricco di progetti e di exploits tecnici, ma che, nello stesso
tempo, è angosciato per il futuro. Questo mondo dalle comunicazioni
sempre più rapide, ma che è anche il mondo della solitudine. Questo
mondo dove uomini e donne sono capaci di gesti di solidarietà ammirevoli, ma che è anche il mondo dove tanti vivono rinchiusi in se stessi.
Ebbene, è questo mondo che Dio ama, che noi dobbiamo amare e
servire. Dobbiamo mantenere aperta la porta del nostro cuore per accogliere, capire, dialogare, incoraggiare e permettere ad altri di crescere,
crescendo noi stessi, grazie alle loro domande.
Aveva ragione il grande papa Paolo VI quando affermava, il giorno di
Pasqua dell’anno 1969: «Il cristianesimo non è facile, ma è felice». Quindi, aiutiamoci gli uni gli altri a stabilire e ad approfondire una relazione
personale con Gesù! Gesù che si fa servitore, che questa mattina ancora
una volta apparecchia la tavola dove è, allo stesso tempo, Colui che serve
e Colui che si dà in cibo.
Conserviamo una fiducia assoluta verso questo Dio fedele, e così il
nostro amore alla persona di Gesù sarà così forte che niente potrà separarci da Lui.
E così sia!
Esercizi della Fraternità
42PRimA DELLA BEnEDiZiOnE
Julián Carrón. Eminenza reverendissima, a nome di tutti desidero
ringraziarLa innanzitutto per la sua partecipazione ai nostri Esercizi.
Mi consenta di ringraziarLa ancora per l’attenzione con cui segue la nostra esperienza, attenzione che nel tempo è maturata in paterna amicizia.
È significativo che proprio dalla sua voce abbiamo ascoltato la sera
del 13 marzo il primo annuncio dell’elezione del papa Francesco, il
grande dono che il Signore ha fatto alla Sua Chiesa.
La ringraziamo per la sua limpida testimonianza di servizio intelligente e discreto al Santo Padre, che ci aiuta nella nostra sequela quotidiana a Cristo.
Grazie, Eminenza!
Cardinale Tauran. Grazie! Quando sono stato fatto cardinale, ho distribuito ai miei amici un piccolo ricordino con questa espressione di san
Paolo, tratta dalla seconda lettera ai Corinzi: «Siamo i vostri servitori a
causa di Gesù». Questo è il programma di ogni sacerdote.
Grazie della fiducia!
Sabato 20 aprile, pomeriggio
All’ingresso e all’uscita:
Franz Schubert, Sonata per arpeggione e pianoforte, D 821
Mstislav Rostropovich, violoncello – Benjamin Britten, pianoforte
“Spirto Gentil” n. 18, Decca
n SEcOnDA mEDiTAZiOnE
Julián Carrón
«Mi accada secondo la tua parola»
Ha detto Benedetto XVI: «Tutta la vita cristiana è un rispondere
all’amore di Dio. La prima risposta è appunto la fede come accoglienza piena di stupore e gratitudine di un’inaudita iniziativa divina che ci
precede e ci sollecita. E il “sì” della fede segna l’inizio di una luminosa
storia di amicizia con il Signore, che riempie e dà senso pieno a tutta la
nostra esistenza».87
È di questa fede che parliamo adesso.
1. La fede è il riconoscimento di una Presenza
«La posizione in cui noi ci troviamo di fronte all’avvenimento di
Cristo è identica a quella di Zaccheo di fronte a quell’Uomo che si è fermato sotto la pianta su cui egli era salito e gli ha detto: “Scendi in fretta,
vengo a casa tua”. È la stessa posizione della vedova, il cui unico figlio
era morto, che si è sentita dire da Gesù, in un modo che a noi appare
così irrazionale: “Donna, non piangere!” – è assurdo, infatti, dire a una
madre cui è morto l’unico figlio: “Donna, non piangere!” –. È stata per
loro ed è anche per noi l’esperienza della presenza di qualcosa di radicalmente diverso dalle nostre immagini e al tempo stesso di totalmente
e originalmente corrispondente alle aspettative profonde della nostra
persona. Sperimentare una reale corrispondenza [come dicevamo questa mattina] al cuore nostro è una cosa assolutamente eccezionale [...].
Poiché il cuore nostro è fatto per questa corrispondenza, essa dovrebbe
87 Benedetto XVI, Credere nella carità suscita la carità, 1. Messaggio per la Quaresima 2013.
15 ottobre 2012.
44essere normale nella vita; e invece non capita mai; quando capita, ciò
costituisce un’esperienza eccezionale. Avere la sincerità di riconoscere,
la semplicità di accettare e l’affezione di attaccarsi a una tale Presenza,
questa è la fede.»88
Giussani prosegue: «Perché avvenga la fede nell’uomo e nel mondo
deve cioè accadere prima qualcosa che è grazia, pura grazia: l’avvenimento di Cristo, dell’incontro con Cristo, in cui si fa esperienza di una
eccezionalità che non può accadere da sola. La fede è essenzialmente
riconoscere la diversità di una Presenza, riconoscere una Presenza eccezionale, divina. [...] Chissà quante volte la Samaritana avrà avuto sete
dell’atteggiamento con cui Cristo l’ha trattata in quell’istante, senza mai
accorgersene prima; quando è accaduto, l’ha subito riconosciuto».89
Occorre rendersi conto che la fede cristiana ha la sua sorgente fuori
di noi. Non è qualcosa che possiamo creare noi. Quante volte ci piacerebbe essere noi a creare la corrispondenza che desideriamo possedere!
Ma se l’origine della fede è qualcosa fuori di noi, allora essa non ha
niente a che vedere con un’introspezione, con qualcosa che riusciamo
a ottenere scavando dentro di noi. La fede non è dunque un sentimento
o un’etica, perché non è nelle nostre mani, non è nelle nostre capacità
generare la presenza che ci corrisponde. La fede cristiana è talmente
determinata dall’oggetto, che senza questa Presenza semplicemente non
ci sarebbe. Come l’innamoramento: senza la presenza amata, semplicemente non ci sarebbe. È inutile pensare di poterlo generare con qualche
strategia, con qualche tentativo, con qualche sforzo, con qualche impeto
di sentimento, con qualche ragionamento (usate tutte le parole che volete): tutto questo è inutile per generare anche solo un istante di esperienza
di innamoramento. Insomma, fa parte dell’innamoramento una presenza
che lo faccia scattare, che lo faccia sorgere, che lo sostenga.
Perciò: «La fede è parte dell’avvenimento cristiano perché è parte della grazia che l’avvenimento rappresenta [...]. La fede appartiene
all’avvenimento perché, in quanto riconoscimento amoroso della presenza di qualcosa di eccezionale, è un dono, è una grazia. Come Cristo
si dà a me in un avvenimento presente, così vivifica in me la capacità di
afferrarlo e di riconoscerlo nella sua eccezionalità».90
Ma in che modo la Presenza eccezionale vivifica la capacità di afferrarLa? Perché, se la sua Presenza eccezionale non facilita l’arrivare fino
88 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., pp. 28-29.
89 Ibidem, pp. 30-31.
90 Ibidem, p. 31.
Sabato pomeriggio
45lì e se, come abbiamo visto questa mattina, non seguiamo il desiderio ridestato da quella Presenza, l’esasperata tensione a dire il Suo nome, noi
non La raggiungiamo, e il nostro cuore non trova quella soddisfazione
per cui è fatto. Per questo Giussani scrive: «Lo stesso gesto con cui Dio
si rende presente all’uomo nell’avvenimento cristiano esalta anche la capacità conoscitiva della coscienza, adegua l’acume dello sguardo umano
alla realtà eccezionale cui lo provoca. Si dice grazia della fede».91 Per
analogia, è la presenza della persona amata che esalta la nostra capacità
conoscitiva affinché noi possiamo coglierla nella sua verità profonda.
Come, allora, si esalta la nostra capacità conoscitiva in modo che
essa arrivi a cogliere tutta la portata della Presenza? Insiste don Giussani: «Per poter conoscere occorre [...] una posizione di apertura, cioè di
“amore”. Senza amore non si conosce. In fondo, questo amore è indicato
da quell’istinto originale per cui la natura – cioè Dio che ci crea – ci
getta nell’universale paragone con curiosità. [...] Ultimamente, soltanto
quell’apertura viva all’oggetto che diventa affezione fa sì che esso ci
tocchi per ciò che è (affici, esser-toccato-da). Come l’uomo cammina
con tutto se stesso, così vede con tutto se stesso [non si può rompere
l’unità dell’io, ci ha sempre insegnato don Giussani]: egli vede con gli
occhi della ragione in quanto il cuore è aperto-a, in quanto cioè l’affezione sostiene l’apertura degli occhi, altrimenti davanti all’oggetto l’occhio
si chiude, si “addormenta”, fugge via. L’occhio della ragione vede, dunque, in quanto sostenuto dall’affezione, che già esprime il gioco della
libertà».92
Occorre guardare bene questa descrizione che fa don Giussani per
poterla capire fino in fondo. Perché è necessaria la Presenza eccezionale? Che cosa c’entra con l’apertura degli occhi della ragione? La Presenza eccezionale calamita in tal modo la curiosità e l’affezione dell’uomo
– lo vediamo nei bambini – da sostenere l’apertura degli occhi della
ragione perché essa possa conoscere l’oggetto senza ridurlo. È in quanto sostenuta dall’affezione che la ragione può arrivare a cogliere tutti i
fattori implicati nella Presenza eccezionale. La presenza eccezionale di
Cristo spalanca, dunque, lo sguardo esaltando la capacità conoscitiva
dell’uomo, perché egli possa afferrarLo e riconoscerLo nella Sua eccezionalità. L’abbiamo ricordato con la frase di sant’Agostino su Zaccheo:
«Egli fu guardato, e allora vide».93 Continua don Giussani: «La fede
91 L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., pp. 130-131.
92 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., p. 30.
93 Sant’Agostino, Discorso 174, 4.4.
Esercizi della Fraternità
46rappresenta il compimento della ragione umana. Essa è l’intelligenza
della realtà nel suo orizzonte ultimo, il riconoscimento di ciò in cui tutto
consiste. L’intelligenza naturale [attenzione!] non riesce a toccare questo orizzonte ultimo. È soltanto per qualcosa che è accaduto, per l’avvenimento di Dio fatto uomo, per il suo dono [per la eccezionalità di questa
Presenza che abbiamo davanti], che la nostra intelligenza rinnovata può
riconoscerlo e toccarlo. La fede coglie così un culmine oltre la ragione;
senza di essa la ragione non si compie, mentre in essa la ragione diventa
scala della speranza».94
La fede è una forma di conoscenza che è oltre il limite della ragione.
Perché è oltre il limite della ragione? «Perché coglie una cosa che la
ragione non può cogliere: “la presenza di Gesù tra noi”, “Cristo è qui
ora”, la ragione non può percepirlo come percepisce che sei qui tu, è
chiaro? Però non posso non ammettere che c’è. Perché? Perché c’è un
fattore qua dentro, c’è un fattore che decide di questa compagnia, di certi
risultati di questa compagnia, di certe risonanze in questa compagnia,
così sorprendente che se non affermo qualcosa d’altro non do ragione
dell’esperienza, perché la ragione è affermare la realtà sperimentabile
secondo tutti i fattori che la compongono, tutti i fattori. Ci può essere un
fattore che la compone di cui si sente l’eco, di cui si sente il frutto [lo
dicevamo questa mattina: il frutto di un’umanità diversa], di cui si vede
anche la conseguenza, ma non si riesce a vedere direttamente; se io dico:
“Allora non c’è”, sbaglio, perché elimino qualcosa dell’esperienza, non
è più ragionevole.»95
Ma noi tante volte, siccome questo riconoscimento comporta una
fatica, implica una tensione esasperata – in quanti l’avete pensato già
soltanto ascoltandolo! Immaginate il farlo! –, restiamo all’apparenza,
ci fermiamo alla superficie di ciò che dovrebbe essere accennato segno,
sia negando o eliminando quel fattore di cui si sente l’eco, sia accontentandoci di quelle risonanze positive, fino a quando ci stanchiamo,
ci rendiamo conto che non bastano per vivere, che non sono in grado
di riempirci, che non soddisfano la vita. E allora la fede incomincia a
entrare in crisi. È per questo che uno rimane stupito della testimonianza
che ci ha sempre offerto don Giussani di quella esasperata tensione a
cogliere tutti i fattori fino al “Tu”. Quando Giussani ci diceva queste
cose, era semplicemente per un desiderio di complicarci la vita? O era
per non perdere quella Presenza di cui vedeva le risonanze e che desi-
94 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., p. 32.
95 L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, p. 272.
Sabato pomeriggio
47derava raggiungere? Sentite con quale insistenza ne parla: «La fede è
razionale, in quanto fiorisce sull’estremo limite della dinamica razionale
come un fiore di grazia, cui l’uomo aderisce con la sua libertà [insieme
alla ragione, ecco l’altro fattore decisivo dell’umano: la libertà]. E come
fa l’uomo ad aderire con la sua libertà a questo fiore incomprensibile
come origine e come fattura? Aderire con la propria libertà significa, per
l’uomo, con semplicità riconoscere quello che la sua ragione percepisce
come eccezionale, con quella immediatezza certa, come avviene per l’evidenza inattaccabile e indistruttibile di fattori e momenti della realtà,
così come entrano nell’orizzonte della propria persona».96 «Così la mia
libertà accetta quell’avvenimento, accetta di riconoscerlo.»97
Dice Lewis: «Poiché io sono “io”, devo compiere un atto di abbandono, pur piccolo o facile, vivere per Dio anziché per me. Questo è, se
volete, il “punto debole”, nell’opera della creazione, il rischio che Dio
apparentemente pensa che valga la pena di affrontare [con noi]».98
«Perciò, in noi, la fede è sia il riconoscimento dell’eccezionale presente [che compie la ragione], sia l’adesione semplice e sincera che dice
“sì” [che compie la libertà] e non oppone obiezioni: riconoscimento e
adesione sono parte del momento in cui il Signore, attraverso la forza
del Suo Spirito, si rivela a noi, sono parte del momento in cui l’avvenimento di Cristo entra nella nostra vita.»99 Per questo san Paolo dice che
nessuno può dire che Gesù è il Signore (cioè compiere veramente un atto
di fede pieno) se non è per lo Spirito Santo,100 che porta la ragione e la libertà alla loro cima, perché la fede cristiana è così umana che esalta tutto
l’umano, la ragione e la libertà. Senza questa esaltazione e senza che noi
decidiamo di partecipare a questa esaltazione non c’è la fede. Giussani
non ha fatto senza scopo questo sforzo gigantesco. Lo ha compiuto per
aiutarci a capire tutti i fattori della fede, perché oggi, nel nostro mondo,
nella nostra cultura, se la ragione e la libertà non sono presenti nell’atto
di fede, non ci sarà più la fede: in un mondo in cui tutto dice il contrario,
non possiamo credere solo per abitudine. Per questo, seguire Giussani
è l’unica possibilità di avere, oggi, la fede. Benedetto XVI ha condotto
una lotta accanita per un allargamento della ragione, per aiutarci a capire
che la fede ne rappresenta il culmine (reso possibile dall’avvenimento
stesso di Cristo), perché l’affermazione di Cristo non diventi qualcosa
96 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., pp. 32-33.
97 Ibidem, p. 31.
98 C.S. Lewis, Il problema della sofferenza, Morcelliana, Brescia 1957, p. 83.
99 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., p. 31.
100 Cfr. 1 Cor 12,3.
Esercizi della Fraternità
48di aggiunto alla vita e, in fondo, irrazionale. Ciascuno deve decidere se
è disponibile a seguire don Giussani in questo percorso per poter vivere
la fede da uomini, da adulti, in un mondo come il nostro. La fede non è
un’aggiunta opzionale all’Avvenimento. E senza il riconoscimento della
fede, la vita è condannata al vuoto. La paura, la solitudine e l’insoddisfazione vincono. Per questo sant’Agostino dice: «Si sente attratto da
Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella
giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo».101
Allora, come la fede può diventare sempre più mia?
2. La personalizzazione della fede
Il carisma – quante volte ce lo ha ricordato don Giussani – è un dono
dello Spirito per aiutare la personalizzazione della fede, rendendola così
più persuasiva nella vita di ciascuno. In una lettera proprio a don Giussani, Giovanni Paolo II affermava che «l’originalità del carisma di ogni
movimento “non pretende, né lo potrebbe, di aggiungere alcunché alla
ricchezza del depositum fidei, custodito dalla Chiesa con appassionata
fedeltà” [...]. Tale originalità, tuttavia, “costituisce un sostegno potente,
un richiamo suggestivo e convincente a vivere appieno, con intelligenza
e creatività, l’esperienza cristiana. Sta in ciò il presupposto per trovare
risposte adeguate alle sfide e alle urgenze dei tempi e delle circostanze
storiche sempre diverse”».102
In questo senso, don Giussani ha una preoccupazione costante: che il
movimento sia in grado di generare una personalità adulta. Perché don
Giussani ha questa preoccupazione continuamente documentata? Perché
vede la difficoltà di tale generazione di personalità adulte nella fede. Il
problema della fede non è alle nostre spalle, come qualcosa che riguardi
soltanto gli altri. No, questa è l’unica preoccupazione di don Giussani
nei nostri confronti, sempre: «Il grave problema è la stentatezza con cui
sorge l’adulto. [...] Quello dunque che manca come volto generale è la
personalità di fede. Hanno personalità nella cultura, nella professione,
nel temperamento, ma non personalità di fede ecclesiale (non intimista)
e dunque c’è una assenza di creatività, perché se manca il soggetto uma-
101 Sant’Agostino, L’Eucarestia: corpo della Chiesa, Città Nuova Editrice, Roma 2000, p. 43.
102 Giovanni Paolo II, Messaggio a monsignor Luigi Giussani in occasione del ventesimo
anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione, 11
febbraio 2002.
Sabato pomeriggio
49no, manca anche l’azione».103 Egli è preoccupato per questa difficoltà a
generare personalità adulte nella fede.
Ma don Giussani non si accontenta di questa constatazione. Identifica con chiarezza anche qual è la causa profonda di questa carenza:
«Il motivo di questa situazione è dato da una gravissima decadenza del
metodo: del metodo [del movimento] rimane una gabbia di parole e di
formule, manca il genio. È come prosciugato il genio del metodo».104
In che cosa consiste questa decadenza gravissima di metodo? «Ora
la decadenza di metodo si può così formulare: noi che siamo entrati
nell’agone ecclesiale e sociale quali affermatori del cristianesimo come
esperienza, adesso [lo diceva nel 1976, ma penso che valga perfettamente anche per l’oggi] privilegiamo l’intellettualismo sull’esperienza, e
con l’intellettualismo s’accompagna un esasperato attivismo. E questo è
gravissimo. Ognuno di noi ora può dire: il movimento non è la mia vita,
meglio, la vita mia non è movimento; il movimento è una serie di condizionamenti alla mia vita, che non è perciò evocata da esso. [...] “Vi è un
consenso ideologico invece che una esperienza di vita”. Si agisce molto,
si fanno molte iniziative, ma non si cerca il riscontro nella vita quotidiana, mentre la vita quotidiana, con l’umiltà cui costringe, con la sofferenza inevitabile, con la responsabilità concreta e ineliminabile, renderebbe
equilibrati, più concreti e meno evanescenti, più effettivamente fedeli
[Giussani tiene al fatto che la fede possa incidere così potentemente nel
quotidiano da rispondere alla grave obiezione di Pavese, a quel vivere
quotidiano che taglia le gambe; senza questo la fede non interesserà più
innanzitutto a noi, figuratevi agli altri!]. Ancora, si sostituisce all’intelligenza della persona l’intellettualismo della massa, perché l’intelligenza
– come diceva san Tommaso d’Aquino – agisce scattando dall’esperienza [questo è decisivo]. L’intelligenza scatta dall’esperienza della vita:
se manca questa non c’è una intelligenza nella persona; allora la sua
adesione alle iniziative e il suo comportamento di fronte ai problemi che
angustiano la società [...] è una presenza senza intelligenza. Prima conseguenza: il conformismo, c’è una presenza conformistica, c’è cioè una
assenza di capacità critica. Nasce un modo di giudicare che, non essendo
radicato in una esperienza di vita di fronte a Dio, è superficiale e volubile. Perciò [uno, accontentandosi,] o ripete o segue in modo meccanico
e sordo, oppure critica reattivamente polarizzandosi attorno al proprio
parere; si blocca, si lamenta e, sdegnosamente o non sdegnosamente,
103 Scuola responsabili, Collevalenza (Pg), 17-19 settembre 1976. Archivio CL.
104 Ivi.
50
Esercizi della Fraternitàsi ritira e non partecipa. È un giudizio che non è capace di attraversare
la soggettività del proprio sentimento, per collaborare a creare in unità.
Seconda conseguenza di questa mancanza di intelligenza è che non c’è
assunzione creativa. [...] Così si crea l’abitudine, [...] perché la creatività
dipende dal sentimento di una vita nuova e diversa che ci si sente addosso [non si tratta di fare corsi a Harvard, perché è da una vita che scatta
una creatività diversa]. Per questo il movimento non diventa la vita di
ciascuno di noi e [...] la nostra comunicazione assume un tono di “banalità mondana insopportabile” [è una definizione che descrive anche certi
dialoghi tra noi].»105
Ma questo stato di cose non scoraggia affatto Giussani. Perché, infatti, il Signore permette questa decadenza? «Il Signore ha permesso che
noi cadessimo, perché avessimo a riprendere più veri, più consapevoli
del fatto che solo Lui è capace di portare avanti la nostra vita nella via
giusta, che solo Lui ha la capacità di dilatare l’avvento del suo regno.
[...] Il Signore permette i nostri errori ed i nostri peccati come un modo
strano, ma il più drammaticamente operativo, il più pedagogicamente
efficace, per approfondire il senso del nostro rapporto con Lui. Siamo
così tenaci nell’amor proprio che, senza l’esperienza del nostro limite,
non diremmo con autenticità: “Dio tu sei tutto” e “io sono niente”.»106
Allora, possiamo riassumere la gravissima decadenza di metodo con
queste parole: «C’è una prevalenza decisa dell’intellettualismo sull’esperienza, sull’avvenimento di vita». E questo errore ha una conseguenza immediata: da una posizione intellettuale non potrà mai nascere una vita. «Questo è il punto fondamentale del movimento: l’adulto
non cresce perché c’è il decadimento del metodo nostro, che è quello
dell’esperienza, partecipazione a un avvenimento e non consenso a un
discorso.»107
Arrivati a questo punto, non è difficile immaginare che si parta alla
ricerca del colpevole di questa situazione – ci conosciamo tutti bene,
eh? –, cercando di scaricare su qualcuno o sull’organizzazione del movimento la colpa di questo stato di cose. Ma Giussani taglia corto, identificando il vero responsabile: il problema sei tu, sono io, è ciascuno
di noi. Ecco che cosa dice: «Essere del movimento è partecipare a un
cambiamento nella concezione di voi stessi, del vostro rapporto con gli
105 Verso una vita di fede più matura, a cura di Comunione e Liberazione, pro manuscripto, Milano
1976, pp. 8-9.
106 Ibidem, pp. 8, 10.
107 Scuola responsabili, Collevalenza (Pg), 17-19 settembre 1976. Archivio CL.
Sabato pomeriggio
51altri: il movimento è questo, non è soltanto un’arma per giudicare altri,
è togliersi qualsiasi alibi, qualsiasi brontolamento, perché il problema
sei tu e basta. Il movimento, infatti, ha un estremo bisogno di gente che
diventi adulta: ma chi è l’adulto? L’adulto è definito da un modo suo con
cui vive i rapporti. L’adulto cristiano è perciò chi vive, tende a vivere
i rapporti alla luce della fede (tra marito e moglie, tra genitori e figli,
nella comunità e fuori). Cosa vuol dire [vivere i rapporti] alla luce della
fede? Vuol dire che l’adulto tende a vivere i rapporti alla luce di questa
Presenza [che ci ha investiti], perché la fede è questo. Non necessariamente è adulto chi fa i discorsi, chi proclama un metodo e neanche chi
è responsabile delle iniziative o chi dà le cose da fare, perché non sono
queste le cose che lo definiscono: l’adulto è chi tende a vivere i rapporti
con le persone in Cristo»,108 lasciando che siano investiti dalla Sua presenza. Senza il prevalere di quella Presenza negli occhi, nella vita, come
qualcosa di reale e presente, senza che quella Presenza incomba sul nostro modo di rapportarci al reale, noi viviamo il rapporto con tutto come
tutti gli altri. Solo chi tende a vivere qualsiasi rapporto – con se stesso,
con le persone in casa, al lavoro, con gli amici, con le circostanze – in
Cristo, cioè con la Sua presenza negli occhi, nel cuore, potrà verificare
la vittoria di Cristo risorto. È un’esperienza che ciascuno deve fare: non
la possiamo sostituire con dei commenti o con delle opinioni.
Continua Giussani: «Questa fisionomia della vita cristiana è piena di
vittoria, baldanza, perché Cristo è vittorioso. Cristo è risorto qui, in me,
nell’ambiente di lavoro, dovunque vada, in casa mia: è risorto. Sono vittorioso, perché è vittorioso [cioè risorto] chi mi possiede. [...] Questa è la
vittoria che vince il mondo, cioè la nostra carne, la nostra insignificanza
[perché investita dalla sua Presenza viva, reale]».109
E qual è il segno della fede come esperienza? La letizia. Se questa
vittoria non è un’esperienza vissuta, non siamo lieti. È inutile nascondersi dietro un dito. Possiamo riempire i nostri raduni di parole, ma se
manca l’esperienza della vittoria di Cristo in noi, «non siamo lieti e non
cambiamo nulla intorno a noi».110
Lo scopo di questa tensione a vivere tutti i rapporti in Cristo, cioè
investiti dalla Sua presenza, è raggiungere ciò che per Giussani costituisce l’adulto: l’unità della vita (che è il contrario della frammentazione
che tante volte ci caratterizza): «L’adulto è chi ha raggiunto l’unità della
108 Giornata d’inizio anno di CL, Milano, 10 settembre 1977. Archivio CL.
109 Ibidem.
110 Convegno adulti, Varese, 19 maggio 1979. Archivio CL.
Esercizi della Fraternità
52vita, una coscienza del suo destino, del suo significato, una energia di
adesione. L’adulto è qualificato dall’affezione e quindi dal gusto del suo
significato».111
Di fronte a certi fraintendimenti che si erano verificati riguardo al
significato della personalizzazione della fede, Giussani è costretto a fare
due puntualizzazioni.
a) La personalizzazione della fede non significa affatto un ripiegamento sui propri problemi personali o una sospensione dell’impeto missionario. Non è infatti «sospendendo la presenza missionaria che trovo
soluzione per risolvere i miei problemi, che riesco a risolvere questi
problemi», osservava un amico. Al contrario, come dicevamo prima, la
personalizzazione della fede è la tensione a vivere tutti i rapporti, circostanze, sfide, compreso il problema personale, alla luce della presenza
di Cristo, lasciando che siano investiti dalla presenza di Cristo. Anche, o
meglio anzitutto, i problemi personali devono essere affrontati alla luce
della Presenza che ci ha raggiunti.
b) Ma senza che la fede mostri la sua pertinenza ai nostri problemi
personali, la nostra missione è presunzione: «In questi anni passati, noi
siamo stati veramente vittima della presunzione del movimento come il
toccasana della Chiesa e dell’Italia [della società], ma questo mi porta
alla radice dell’osservazione: che se il movimento non è l’esperienza
della fede come risolutrice, come illuminante le mie problematiche, non
può essere neanche proposta agli altri [se non è vissuta l’esperienza della
fede come illuminante le nostre problematiche, se essa non serve a noi,
diventiamo presuntuosamente giudici di tutti!]. La proposta è attraverso
la mia umanità, e perciò è attraverso la mia umanità risposta, o la mia
umanità provocata [che il movimento può diventare proposta agli altri].
[...] È vero che noi abbiamo un compito missionario per la Chiesa e per
l’Italia, e per la società di oggi, ma è attraverso, passando attraverso il
fenomeno della problematica personale, la risposta ad essa, la provocazione fatta ad essa, [...] che la missione diventa veramente una proposta
sostenibile. [...] L’impeto della missione è una gratitudine, altrimenti è
una presunzione».112
Allora, che cosa vuole dire personalizzare la fede? Vuol dire questo:
«Tutto ciò che ci viene detto e dato [la proposta che ci viene fatta] deve
111 Consiglio di CL, Milano, 18-19 giugno 1977. Archivio CL.
112 Centro di CL, Milano, 17 novembre 1977. Archivio CL.
Domenica mattina
53
Sabato pomeriggiointeressare la vita [la vita!]. E la vita è l’emozione del cuore, il mal di
testa, lo sguardo sulle cose, la curiosità su tutto, l’incontrare, il riso e
il pianto, l’entusiasmo e lo smarrimento [una descrizione stupenda per
“concretare” il fatto che, se la fede non è pertinente alle esigenze della
vita, non interesserà a noi e sarà inutile per tutti]. In una società come
questa non si può creare qualcosa di nuovo se non con la vita: non c’è
struttura né organizzazione o iniziative che tengano. È solo una vita diversa e nuova che può rivoluzionare strutture, iniziative, rapporti, insomma tutto. E la vita è mia, irriducibilmente mia [inconfondibilmente
mia]».113
Allora, come può avvenire di fatto la personalizzazione della fede?
Occorre che Cristo incomba su tutto. Occorre «che mangiando e bevendo, che vivendo i rapporti con gli amici, andando a lavorare, andando
a studiare, nella vita affettiva con la tua donna e col tuo uomo, coi tuoi
figli, con gli altri, nella vita pubblica, per la strada, questa parola che ci
chiama per nome non sia mai dimenticata, questo Cristo che incombe
sul nostro cuore, che penetra la nostra sete di felicità per dire: Io sono
la via, la verità, la vita [non sia mai dimenticato] [...]. Il movimento è
questo. È come se la vita del movimento debba costituire l’esperienza
di una ragione più grande per vivere, anzi dell’unica ragione adeguata,
totale per vivere. [...] Il movimento è ciò che aiuta questo e basta. Aiuta
ad esser te stesso».114
Qual è, dunque, il cammino da percorrere perché questa personalizzazione della fede accada?
3. Il metodo della personalizzazione della fede è la sequela
«La vita la si impara seguendo chi vive: non perché sia migliore di
te! Può essere un miliardo di volte peggiore di te! Ma come metodo,
come atteggiamento di vita, come comportamento, come atteggiamento
applicativo è un esempio. Si segue un esempio, non si segue un discorso. Perché il discorso è alla mercé della propria interpretazione, mentre
seguire un esempio sfida il nostro modo di fare.»115
Don Giussani ha costantemente indicato la sequela come metodo
per la maturità: «C’è un solo mezzo, amici miei, per essere educati a
113 «Movimento, “regola” di libertà», in CL litterae communionis, n. 11, novembre 1978, p. 44.
114 Giornata d’inizio anno di CL, Varese, 17 settembre 1978. Archivio CL.
115 Incontro dei preti di CL, Idice San Lazzaro (Bo), 7 gennaio 1980. Archivio CL.
Esercizi della Fraternità
54questa presenza, per essere sostenuti nella fede fino a diventare testimonianza e non agitatori o agitati come in un’associazione: questo modo
con cui possiamo imparare la presenza è la sequela».116 «Seguire vuol
dire immedesimarsi con persone che vivono con più maturità la fede,
coinvolgersi in un’esperienza viva, che “passa” (tradit, tradizione) il suo
dinamismo e il suo gusto dentro di noi. Questo dinamismo e questo gusto passano in noi non attraverso i nostri ragionamenti, non al termine
di una logica, ma quasi per pressione osmotica: è un cuore nuovo che
si comunica al nostro, è il cuore di un altro che incomincia a muoversi
dentro la nostra vita.»117 Altro che ragionamenti, commenti o battute! La
sequela è un’esperienza viva!
Per questo, come vi ho scritto nella lettera dopo il Sinodo, citando
don Giussani: «La sequela è il desiderio di rivivere l’esperienza della
persona che ti ha provocato e ti provoca con la sua presenza nella vita
della comunità, è la tensione a diventare non come quella persona nella
sua concretezza piena di limiti, ma come quella persona nel valore a
cui si dà e che redime in fondo anche la sua faccia di povero uomo; è il
desiderio di partecipare alla vita di quella persona nella quale ti è portato
qualcosa d’Altro, ed è questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui aspiri, cui
vuoi aderire, dentro questo cammino».118 Questa frase resterà per noi il
termine costante di paragone per verificare se ciascuno sta seguendo o
no, cioè se sta rivivendo un’esperienza o no. E grazie a Dio, come al solito, don Giussani non ci ha dato solo questa compiuta spiegazione della
sequela, ma ha anche giudicato i concetti di sequela diffusi tra di noi,
individuandone i limiti, per aiutarci appassionatamente a non perdere
tempo.
Allora, senza la pretesa di essere esaurienti, vediamo alcune modalità
di riduzione della sequela.
a) La prima riduzione della sequela è la sua identificazione con l’ascoltare un discorso o con il ripetere parole sentite (pensando di essere
così ancora più sicuri di seguire). «Ma la sequela non è mica quella roba
lì!»,119 dice Giussani. Io posso infatti ascoltare quel che dice un altro e
ripeterlo senza muovere il centro del mio io, perciò senza che il centro
del mio sia toccato nella sua radice. E allora la proposta non genera in
116 Giornata d’inizio anno di CL, Milano, 10 settembre 1977. Archivio CL.
117 L. Giussani, Dall’utopia alla presenza (1975-1978), Bur, Milano 2006, p. 59.
118 L. Giussani, Il rischio educativo. Come creazione di personalità e di storia, op. cit. p. 64.
119 Diaconia diocesana, Milano, 9 gennaio 1980. Archivio CL.
55
Sabato pomeriggiome niente di nuovo, non rinnova il mio essere. Eppure, se a chi cerca di
ripetere o di imparare un contenuto di parola chiedessimo che termine
userebbe per descrivere quel che sta facendo, risponderebbe sinceramente: «Seguire: sto seguendo». E invece no, questa è una riduzione
della sequela, questo non è seguire; ripetere il discorso non è seguire.
Diceva Daniélou: «Tutta la scienza del mondo può allargare le dimensioni della gabbia in cui si trova l’uomo ma non può farlo uscire da
questa gabbia».120 Soltanto un’esperienza lo può ottenere: «La sequela è
immedesimarsi e riprendere in sé, imitare – questa è la parola – imitare
la traduzione concreta e pratica, le modalità concrete e pratiche con cui
chi guida la comunità, chi guida il movimento traduce il discorso che
fa!».121
b) La seconda riduzione è identificare la sequela con iniziative, riunioni e cose da fare. «Il Movimento è nato da una presenza che si imponeva e portava alla vita la provocazione di una promessa da seguire.
Ma poi abbiamo affidato la continuità di questo inizio ai discorsi e alle
iniziative, alle riunioni e alle cose da fare. Non l’abbiamo affidato alla
nostra vita, così che [ecco il sintomo che non si tratta di vera sequela] l’inizio ha cessato molto presto di essere verità offerta alla nostra persona
ed è divenuto spunto di una associazione, di una realtà su cui scaricare la
responsabilità del proprio lavoro e dalla quale pretendere la risoluzione
delle cose. Quello che doveva essere l’accoglienza di una provocazione
e quindi un seguire vivo è diventato obbedienza all’organizzazione.»122
c) La terza riduzione della sequela è il personalismo: penso di seguire
perché mi attacco alla persona. No, dice don Giussani. Infatti, «la sequela è l’immedesimarsi con intelligenza e con cuore a [...] una modalità di
vita che connette quel che si vive con il proprio destino, che è Cristo!
Perciò la sequela vuol dire un modo di percepire, riconoscere e immedesimarsi con i valori proposti, cioè con l’esperienza proposta, la quale
può essere comunicata attraverso una determinata persona; ma non si
segue la persona, non è la persona che si segue! Si segue l’esperienza
che quella persona vive, perciò [la sequela è] libera dalla persona! Mentre, per esempio, tra di noi, è immensamente facile trovare che la gente
viene a legarsi alla nostra persona, [sta parlando di sé] per cui restano
120 J. Daniélou, Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia 2012, p. 136.
121 Diaconia diocesana, Milano, 9 gennaio 1980. Archivio CL.
122 L. Giussani, Il rischio educativo. Come creazione di personalità e di storia, op. cit., p. 63.
Esercizi della Fraternità
56dipendenti dalla nostra persona. E un sintomo chiarissimo [di questo] è
che non avviene una sequela tra di loro, vale a dire non avviene un’affezione, una comunione tra di loro, non diventano un avvenimento, non
diventano tra di loro una unità, un avvenimento, perché [fate attenzione
alla ragione che dà Giussani] tutti sono legati alla mia persona! Possono
essere cento, legatissimi alla mia persona... Guardate che questo è un
malanno terribile!».123 Uno potrebbe dire: «Ma che cosa vuoi di più che
legarti alla persona di don Giussani?». Per questo impressiona che don
Giussani dica queste cose proprio riferendosi al legame con la sua persona! Sta affermando che coloro che dicevano di seguirlo in realtà non
lo stavano seguendo, e lo si capiva dal fatto che, malgrado fossero legati
a lui, non accadeva nulla tra di loro. Ognuno “dipendente” da Giussani, “legato” a lui; ma nessuna affezione, nessun avvenimento tra loro.
Perché? La ragione la dice don Giussani: «Ciò che unisce è che ognuno
impari», cioè che ognuno faccia l’esperienza di colui che segue. Solo
così può accadere la comunione, non mettendosi d’accordo. Occorre che
ciascuno impari da don Giussani, che riviva la sua esperienza.
Don Giussani ci ha lasciato tutta una serie di strumenti – per chi
vuole veramente seguire –, per aiutarci in mezzo alle difficoltà che dobbiamo affrontare sulla nostra strada.
Se adesso riprendiamo la concezione di sequela richiamata prima,
capiamo che la questione decisiva è che a tutte le riduzioni manca il
rivivere l’esperienza dell’altro che ci ha colpiti, cioè l’esperienza di
Giussani. Se uno non percorre la strada che gli consente di fare in prima
persona la stessa identica esperienza che fa colui che l’ha provocato e lo
provoca con la sua presenza, quel che l’ha colpito dell’altro non diventerà mai suo.
In che cosa vedo che faccio l’esperienza del seguire? Nel fatto
che non mi limito ad ascoltare o a ripetere un discorso, non mi fermo all’organizzazione o alla reiterazione formalistica dei gesti, non
mi riduco ad attaccarmi personalisticamente a un altro, ma partecipo alla vita di quella persona che mi ha portato qualcosa d’Altro.
Perché se io non arrivo, rivivendo l’esperienza dell’altra persona, a
questo Altro – che è ciò che il mio cuore desidera, cui è devoto, cui
aspira –, nel tempo non mi importerà più nulla di quella sequela, perché non sarà in grado di prendermi. La gente non abbandona la fede
innanzitutto perché abbia un problema con il dogma della Trinità,
per esempio, ma perché, non facendo questa esperienza nella vita, la
123 Consiglio Nazionale di CL, Idice San Lazzaro (Bo), 1-2 marzo 1980. Archivio CL.
57
Sabato pomeriggiofede a un certo momento perde la sua ragionevolezza.
Il vangelo documenta di continuo le riduzioni cui abbiamo accennato. Anche i discepoli cercano di legarsi personalisticamente a Cristo:
«Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori,
comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi
risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. Allora comincerete a
dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle
nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete».124
Ecco un altro episodio: «“Voi chi dite che io sia?”. Rispose Simon
Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te,
Simone figlio di Giona [...]”.[...] Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno. Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò
a protestare dicendo: “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà
mai”. Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: “Lungi da me, satana! Tu mi sei
di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”».125
Gesù non accetta che si stabilisca un legame personalistico con Lui: non
è sufficiente che Pietro aderisca alla Sua persona, occorre che egli partecipi alla Sua esperienza, perché se Pietro non rifà l’esperienza di Gesù,
non riuscirà a capire e a obbedire al disegno di Dio su Gesù.
Lo stesso succede dopo la moltiplicazione dei pani: tutti aderiscono, si legano a Lui fino al punto di volerlo fare re. Ma Gesù non cede
a questo modo di attaccarsi a Lui, perché sa che all’uomo non basta
mangiare il pane, che l’uomo ha bisogno di un’altra cosa, e li sfida: «In
verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo
e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. [...] Come il Padre,
che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che
mangia me vivrà per me».126 Gesù li vuole portare a fare la Sua stessa
esperienza.
E quando Pietro nel Getsemani tira fuori la spada e colpisce l’orecchio del servo del sommo sacerdote, Gesù gli dice: «Rimetti la spada
nel fodero [...]. Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che
mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli?».127 Gesù non accetta
riduzioni.
124 Lc 13,25-27.
125 Mt 16,15-23.
126 Gv 6,53-57.
127 Mt 26,52-53.
Esercizi della Fraternità
58Con questo, Gesù dove voleva portare i discepoli? A capire il disegno
di un Altro, affinché potessero entrarvi anche loro. Se non ci introducesse al Padre, Gesù non ci svelerebbe l’origine ultima della Sua diversità e
non ci aiuterebbe a fare la Sua stessa esperienza. Possiamo ripercorrere
tutto il vangelo e verificare che la concezione di sequela che don Giussani ci comunica è esattamente quella di Cristo: «Gesù non concepiva
l’attrattiva sua sugli altri come un riferimento ultimo a sé [come un attaccare le persone a sé], ma al Padre [all’Altro a cui aspiro, cui il mio
cuore può essere devoto e legarsi]: a sé perché Lui potesse condurre
al Padre, come conoscenza e come obbedienza».128 Senza una vera sequela, l’esperienza di Gesù non potrebbe diventare mia, e l’esperienza
di Giussani non potrebbe diventare mia, tua, nostra. Ma se essa non
diventa nostra, noi rimaniamo da soli con il nostro niente. Perché se non
ci lasciamo introdurre al Mistero di Dio, nel quale è il significato ultimo
del vivere, nel quale possiamo trovare quello che corrisponde alla nostra
attesa, come possiamo stare davanti alla vita e ai suoi drammi, alle sue
sfide e ai suoi dolori?
Per questo, se noi riduciamo la sequela evitando di rivivere l’esperienza di colui che ci ha colpito, prima o poi non ci interesserà più il
cristianesimo. Non è una questione di strategia. È la fede che qui è in
gioco, perché senza sequela non vedremo la convenienza umana della
fede, non la sentiremo corrispondente all’attesa che abbiamo dentro il
cuore. Al contrario, il segno che vivo la stessa esperienza di colui che
mi ha colpito è che io trovo l’Altro a cui aspiro e perciò sperimento
quella corrispondenza al cuore che mi conferma la verità della fede. Per
questo sono devoto: perché con Gesù, attaccato a Gesù, entro di più nel
Mistero. Gesù mi porta costantemente a entrare nel Mistero del Padre.
Egli è venuto per questo: per educarci al Mistero, per introdurci al Padre. E proprio perché noi siamo fatti per questo, non possiamo mentire
a noi stessi e nessuno ci può ingannare. Ci può distrarre per un po’, ma
qualunque altra cosa, siccome non ci corrisponde, non durerà a lungo.
Se la sequela è il metodo della personalizzazione della fede, allora,
seguendo, sperimento ogni volta di più come la fede diventi sempre più
mia, come il rapporto con Cristo diventi sempre più mio. Ne sono segni
la novità della vita e il cambiamento che ne nasce. Questi tratti iniziano
a definire il mio volto, la mia identità, ovunque io sia, a casa o al lavoro,
da solo o in compagnia, in vacanza o impegnato coi problemi che mi si
presentano.
128 L. Giussani, L’uomo e il suo destino, Marietti, Genova 1999, p. 129.
59
Sabato pomeriggioPer questo noi non possiamo scambiare l’esperienza con qualsiasi
cosa: l’esperienza è il luogo dell’evidenza, se ci atteniamo ad essa non
possiamo confonderci. Come dice Lewis: «Quello che mi piace dell’esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio
di svolte sbagliate; ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso
di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto. Potete
aver ingannato voi stessi, ma l’esperienza non sta cercando di ingannarvi. L’universo risponde il vero quando lo interrogate onestamente».129
Questo è il vantaggio di uno che vuole vivere: esso ha nella propria
esperienza i segni della verità che lo ha raggiunto; perché l’esperienza
ha un’evidenza tale che, anche se vuoi lottare contro di essa, non la puoi
cancellare, resta. Perciò nessun personalismo, nessun già-saputo, nessuna interpretazione, nessuna riduzione possono essere confusi con l’esperienza della corrispondenza, con il rapporto con l’Altro che desideri, a
cui aspiri. E noi lo sappiamo benissimo. Per questo ciascuno deve farci
i conti e decidere o meno di obbedire all’esperienza. Perché, in fondo,
che cos’è l’obbedienza? «Al limite l’estrema forma dell’obbedienza è
seguire la scoperta di se stessi operata alla luce della parola e dell’esempio di un altro»,130 perché colpiti da un altro. La scoperta di sé provocata
dall’esperienza di un altro è un avvenimento assolutamente irriducibile.
Possiamo fare quel che vogliamo, possiamo ingannarci quanto vogliamo, ma questo avvenimento è irriducibile, non è in nostro potere.
Perciò don Giussani riassume la sfida con questa parola: «sequela».
4. La presenza
Questo seguire, attraverso il cambiamento che genera in noi, è ciò
che ci rende presenza. La fede come esperienza reale ci fa fiorire come
presenza.
«Essere presenza, questa è la nostra ultima categoria. Essere presenza, qualunque temperamento si abbia e a prescindere dalle doti di cui si
disponga [...] vuol dire un modo diverso di essere dentro una situazione
– perché non si vive se non dentro il rapporto con la propria ragazza,
con gli amici, con i genitori, con il corso universitario che si frequenta,
con il libro che si deve studiare –, in un dato momento culturale e politico della società. Essere presenza in una situazione [guardate che modo
129 C.S. Lewis, Sorpreso dalla gioia, Jaca Book, Milano 2002, p. 131.
130 L. Giussani, Si può vivere così?, op. cit., p. 149.
Esercizi della Fraternità
60imponente di dirlo] vuol dire esserci in modo da perturbarla, così che,
se tu non ci fossi, tutti se ne accorgerebbero. Dove ci sarai, gli altri si
arrabbieranno o ti ammireranno, oppure sembreranno essere indifferenti, ma non potranno non riconoscere la tua “diversità”. Essere presenza vuol dire essere dentro una situazione rendendo Cristo avvenimento
della nostra persona. [...] Il vero annuncio [è qui il punto decisivo!] lo
facciamo attraverso quello che Cristo ha perturbato nella nostra vita, avviene attraverso la perturbazione che Cristo realizza in noi: noi rendiamo presente Cristo attraverso il cambiamento che Egli opera in noi. È il
concetto di testimonianza. Noi usiamo facilmente la parola presenza, ma
la presenza è soprattutto questo: la perturbazione mirabile, affascinante,
che l’amicizia che si instaura fra noi per Cristo – questo tipo di amicizia
capace di letizia e di gioia, dell’impossibile gioia – provoca.»
131
Ce lo ha ricordato papa Francesco: «Io mi domando: dove trovavano
i primi discepoli la forza per questa loro testimonianza? [...] La loro
fede si basava su un’esperienza così forte e personale di Cristo morto
e risorto che non avevano paura di nulla e di nessuno [...]: quando una
persona conosce veramente Gesù Cristo e crede in Lui, sperimenta la
sua presenza nella vita e la forza della sua Risurrezione, e non può fare
a meno di comunicare questa esperienza».132
Noi, quindi, perturbiamo un ambiente solo attraverso il cambiamento
che Egli opera in noi. È questo lasciarsi plasmare da Lui che ci rende
testimoni, come dice ancora Daniélou: «Ciò che ne fa una testimonianza
è il fatto di manifestare un’azione divina proprio là dove non si trova una
generosità eccezionale. L’eroismo dimostra quel che può fare l’uomo.
La santità dimostra quel che può fare Dio».133
Quel che ci auguriamo è di diventare, in ogni situazione, quella «irruzione» descritta da Julien Green: «Pensato oggi al chiasso, alle migliaia
di parole inutili, al rumore della strada, rumore infernale, deprimente,
alle telefonate, ecc., tutto ciò che forma il tessuto della giornata e, in
mezzo al caos, un uomo che con gesti tranquilli e parole che non cambiano mai opera il miracolo della discesa di Dio tra noi. [È la] irruzione
della fede [...], irruzione dell’infinito nel nostro tempo artificioso».134
Che è quel che aspettano tutti, come ci ricorda don Giussani: «Ciò che
manca non è tanto la ripetizione verbale o culturale dell’annuncio [cioè
131 L. Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, Edit Editoriale italiana-Il Sabato, Roma
1993, pp. 345-346.
132 Francesco, Regina Coeli, 14 aprile 2013.
133 J. Daniélou, Saggio sul mistero della storia, op. cit., p. 128.
134 J. Green, L’espatriato. Diario 1984-1990, Mursia, Milano 1992, p. 68.
61
Sabato pomeriggiouna intellettualizzazione della fede o un discorso]. L’uomo di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza dell’incontro con persone
per le quali il fatto di Cristo è realtà così presente che la vita loro è
cambiata. È un impatto umano che può scuotere l’uomo di oggi: un avvenimento che sia eco dell’avvenimento iniziale, quando Gesù alzò gli
occhi e disse: “Zaccheo, scendi subito, vengo a casa tua”».135 È così che
sono bruciati via duemila anni di storia e noi possiamo fare ora la stessa
identica esperienza di Zaccheo. Noi testimoniamo a tutti che Cristo è
presente attraverso il cambiamento che sorprendiamo in noi.
«La normalità diventa improvvisamente densa e tesa secondo la sua
verità, e la sua verità è il rapporto con l’Infinito [...]. La normalità, istante per istante, è rapporto con quella presenza. [...] La presenza di Cristo,
nella normalità del vivere, implica sempre di più il battito del cuore: la
commozione della Sua presenza diventa commozione nella vita quotidiana e illumina, intenerisce, abbellisce, rende dolce il tenore della
vita quotidiana, sempre di più. Non c’è niente di inutile, non c’è niente
di estraneo, perché non c’è niente di estraneo al tuo destino, e perciò
non c’è niente a cui non ci si possa affezionare, a tutto ci si affeziona,
nasce un’affezione a tutto, tutto, con le sue conseguenze magnifiche di
rispetto della cosa che fai, di precisione nella cosa che fai, di lealtà con
la tua opera concreta, di tenacia nel perseguire il suo fine; diventi più
instancabile.»
136
Lo dice bene Werfel: «Ogni suo gesto, ogni saluto, ogni sorriso erano
pieni di quell’infinito che non c’era bisogno di evocare per nome»,137
tanto era palese.
Se è questo cambiamento che rende presente Cristo, allora occorre purificare la nostra concezione di presenza da certi connotati con
cui a volte viene identificata, come ci raccomandava don Giussani:
«Dall’Equipe del 1976, il cui titolo era Dall’utopia alla presenza, è
stato fatto un cammino che ci spinge ora a sfondare e sfrondare la
parola presenza: bisogna sfondarla e sfrondarla. [...] La presenza è
un argomento che coincide con il tuo io. La presenza nasce e consiste
nella persona. [...] E quello che definisce la persona come attore e protagonista di una presenza è la chiarezza della fede, è quella chiarezza
della coscienza che si chiama fede [...]. La presenza è tutta quanta
consistente nella persona, nasce e consiste nella persona e la persona
135 L. Giussani, L’avvenimento cristiano, Bur, Milano 2003, pp. 23-24.
136 L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo..., op. cit., pp. 101-104.
137 F. Werfel, Barbara, Corbaccio, Milano 2000, p. 52.
Esercizi della Fraternità
62è intelligenza della realtà fino a toccare l’orizzonte ultimo».138
Così come la personalizzazione non si riduce a un intimismo o a
una sospensione dell’impeto missionario, allo stesso modo la centratura della presenza nella persona non è da leggere nella opposizione
tra “pubblico” e “privato”, come un ridimensionamento della presenza,
un ripiegamento su se stessi. Al contrario: è una profonda ricentratura
secondo l’impostazione originale del movimento. Vale a dire: affermare
che la presenza è tutta consistente nella persona non significa separare o
opporre una sfera privata, intimistica, a quella pubblica (non esiste questa divisione!), ma significa indicare il luogo originale di ogni cambiamento, la radice da cui viene un frutto la cui dilatazione investe la storia
intera, secondo il disegno del Mistero e non secondo i nostri programmi.
Tutto il resto è illusione, inganno, fa perdere tempo. La persona non
è il “privato” in opposizione al “pubblico” (sono categorie mondane e
riduttive, del tutto inapplicabili alla vita di fede). Il cambiamento della
persona e l’esistenza di una comunità cristiana autentica hanno una valenza storica.
«La storia non è definita, nei suoi tempi, da noi. A noi spetta di vivere
la presenza: un credito totale all’Infinito che è entrato nella nostra vita
e che si rivela immediatamente come umanità nuova, come amicizia,
come comunione. “Non temere, piccolo gregge, io ho vinto il mondo.”
“Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede.” La nostra fede
avrà bisogno di sette, otto, nove secoli perché tutto il mondo universitario sia di nuovo investito dalla presenza cristiana? Non sono, questi,
calcoli che noi possiamo decifrare. L’università ci interessa per l’edificazione del nostro soggetto, non per dire: “Vinciamo”. [...] Dobbiamo abbandonare quella interpretazione ideologica della vita universitaria che
produce un lavoro affannoso e logorante, pesante e amaro, per cui tanti
se ne vanno; mentre nessuno se ne va da una umanità nuova, eccetto il
caso di una ribellione diabolica e feroce.»139
Ma dire questo non significa non fare niente. Vuol dire ripartire con
semplicità, senza presunzione e pretese egemoniche, dal porre di nuovo
gesti e luoghi in cui il soggetto possa essere edificato; così che, a chi ci
vede, venga la voglia di venire con noi per il fascino della vita che ha
davanti agli occhi.
«Moltiplicare e dilatare la comunità cristiana negli ambienti in cui
viviamo: questo è dunque il nostro apporto ai nostri fratelli uomini, aper-
138 L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo..., op. cit., pp. 142-143.
139 L. Giussani, Dall’utopia alla presenza, op. cit., pp. 68-69.
63
Sabato pomeriggioEsercizi della Fraternità
64
ti a valorizzare anche l’infinitesimale spunto che l’intuizione altrui ci palesi, pronti a collaborare con ogni fatto che, alla luce della fede, ci appaia
giusto. Il soggetto vero di questa avventura, di questo apporto storico, è
la persona in quanto appartiene alla comunione. Così è sorto lo slogan
“Comunione e Liberazione”.»140
140 L. Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, op. cit., p. 345.Venerdì sera
65
Domenica 21 aprile, mattina
All’ingresso e all’uscita:
Sergej Rachmaninov, Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in do minore, op. 18
Sviatoslav Richter, pianoforte
Stanislaw Wislocki – Warsaw Philarmonic Orchestra
“Spirto Gentil” n. 8, Deutsche Grammophon
Don Pino. «Egli fu guardato, e allora vide.»141 Che cos’è l’Angelus,
se non l’istante della giornata in cui prendiamo coscienza dell’iniziativa
del Mistero fatto carne, di Cristo, verso ciascuno di noi? Al di fuori di
questa iniziativa c’è solo il groviglio delle nostre immagini. Accorgendosi e accogliendo la Sua iniziativa, inizia il nostro protagonismo nel
mondo.
Angelus
Lodi
n ASSEmBLEA
Davide Prosperi. L’assemblea di questa mattina ha lo scopo di fissare alcuni degli elementi che possono aiutarci di più nel cammino dei
prossimi mesi, perché avremo l’opportunità di lavorare ancora insieme
sul contenuto di questi Esercizi.
La prima sera siamo stati sfidati dalla domanda di Gesù: «Ma il
Figlio dell’Uomo, quando tornerà, troverà ancora la fede?». Ci siamo
sentiti rivolgere questa domanda personalmente, non appena in senso
escatologico, ma siamo stati messi a nudo di fronte all’esperienza che
facciamo tutti i giorni, perché il «quando tornerà» è ora. E questa sfida
di Gesù, che è un abbraccio, rischia, può rischiare di diventare in noi
dubbio e intellettualismo. Un po’ l’abbiamo visto come esito del lavoro fatto negli alberghi, nelle domande che sono arrivate. Pensiamo che
possa essere utile riproporre, anche se in modo critico, alcune di queste
domande, che nella stragrande maggioranza erano relative alla seconda lezione, sottolineando la difficoltà a rispondere all’avvenimento, ma
dando per scontato l’avvenimento stesso.
141 Sant’Agostino, Discorso 174, 4.4.Esercizi della Fraternità
66
Prima domanda. Immedesimandoci con Cristo noi conosciamo Zaccheo; sembrerebbe più immediato immedesimarci con Zaccheo. Come
è possibile immedesimarci con Cristo, fare la Sua stessa esperienza?
Pensare di fare l’esperienza di Cristo è da brivido.
Julián Carrón. Questo è un esempio della prevalenza dell’intellettualismo sull’esperienza, tanto diffusa tra noi, perché sarebbe bastato
partire dall’esperienza che ciascuno di noi ha fatto per rispondere a questa domanda in modo semplice. Ma noi siamo «moderni» e appena sentiamo certe parole diamo loro subito un significato moderno.
Per noi immedesimarci con Cristo che cosa vuol dire? “Immaginare”
come Lui fa. Allora come possiamo essere sicuri di immaginare correttamente? E di non ridurre Cristo alla immagine che noi ci facciamo? Chi
mi assicura di fare la Sua stessa identica esperienza? È perfettamente
comprensibile il timore. Ma se noi seguissimo quel che don Giussani ci
dice – correggendoci in continuazione –, cioè che la realtà si rende trasparente nell’esperienza (l’esperienza che noi facciamo), sarebbe tutto
più semplice. Possiamo, infatti, immedesimarci con quello che vive un
altro solo per una esperienza che abbiamo fatto noi.
Che esperienza abbiamo fatto imbattendoci nel movimento? Quando uno incontra il movimento, quando vede qualcosa che lo stupisce,
non deve immaginare nulla: accusa il contraccolpo di ciò che è davanti
ai suoi occhi. È di questo capovolgimento di metodo avvenuto con il
cristianesimo che ci ha parlato don Giussani. E questa è la prima cosa
che anche Giovanni e Andrea o Zaccheo hanno sentito: è stato l’urto
di una diversità. Non hanno dovuto immaginare nulla, hanno dovuto
semplicemente accusare il contraccolpo di una diversità così unica, così
assolutamente fuori dal comune, così eccezionale, che è stato facilissimo rimanere incollati a quella Presenza. È un urto con qualcosa che non
proviene da noi, che non possiamo creare noi. Ditemi se questo non è
facile! Ma quando la gente ci incontra, quando vede come stiamo insieme a celebrare un matrimonio – come mi raccontavano recentemente a
un’assemblea in Lombardia –, è lo stesso: vedono una modalità di stare
insieme inaudita. Perciò il ristoratore, alla fine di tutto, va a ringraziare
per la festa. Perché? Che cosa ha visto? Non ha dovuto procedere ad
alcuna introspezione! No, è stato colpito da un modo di stare insieme.
E se un ristoratore è colpito, vuol dire che c’è qualcosa di veramente
diverso, perché vede feste di matrimonio in continuazione! Vi ho anche
riferito ieri della reazione della persona che è andata al funerale di uno Venerdì sera
67
di noi ed è rimasta profondamente colpita da quello che ha visto. Quante
volte avrà partecipato a un funerale? Ma per arrivare a dire: «Così è perfino bello morire!», deve essersi trovata davanti a qualcosa di inaudito e
irriducibile, che non è il frutto di uno sforzo nostro, di un’attività nostra,
che non è qualcosa che riusciamo a fare noi. Ecco, per immedesimarsi
occorre solo aver fatto esperienze come queste.
La fede riguarda sempre qualcosa che succede fuori di noi, ha una
sorgente fuori di noi, dipende da qualcosa che non generiamo noi, nasce
da qualcosa in cui ci imbattiamo. Allora Giussani ci dice: «Guardate
quello che vi è accaduto», perché quella è la modalità con cui Cristo vi
ha afferrato. Ora, è solo partendo dall’esperienza presente che noi possiamo immedesimarci con Cristo senza ridurLo. L’esperienza presente
è, infatti, l’esperienza di quella modalità di sguardo con cui Cristo ci
ha raggiunto e ci raggiunge. E quando ci troviamo davanti a uno che ci
guarda in un modo diverso, come non siamo mai stati guardati, rimaniamo colpiti da quello sguardo. Ognuno deve andare a rintracciare nella
propria esperienza quando gli è accaduto questo, per capire che cosa
vuol dire immedesimarsi con Cristo, per non ridurre tutto a una immaginazione. Il cristianesimo è un’altra cosa!
Capisco, allora, perché tante volte noi non sentiamo l’urgenza di riandare costantemente a leggere Giussani o a leggere il vangelo: non ne
abbiamo bisogno. Ci riduciamo ai nostri pensieri, ai nostri tentativi, alle
nostre immaginazioni, che non riescono mai a darci un istante di letizia.
Giussani ci testimonia, invece, costantemente che lui non può vivere
senza Cristo! Dobbiamo decidere se vogliamo seguirlo fino al punto di
fare la sua stessa identica esperienza oppure se vogliamo ridurre tutto
alla nostra misura.
Prosperi. Due domande che leggo insieme perché si completano.
Oggi hai parlato di una esasperata tensione a dire il Suo nome in ogni
aspetto e in ogni istante della vita. Come questo può essere vissuto nel
quotidiano come atto libero e pacificante, e non come un’operazione che
misura?
Riconoscere un avvenimento è semplice, come è riaccaduto oggi per
me. Come stanno insieme questa semplicità e il cammino che richiede
un impegno totale per sorprendere il significato vero, che tante volte non
mi sembra semplice?
Carrón. Vedete? Quando raccontiamo un’esperienza è facilissimo:
«Riconoscere un avvenimento è semplice, come è riaccaduto oggi per
me». Quando ci stacchiamo dall’esperienza cominciamo a complicarci
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
68
e non sappiamo più di che cosa stiamo parlando. Questa è la prevalenza
dell’intellettualismo: ci ingarbugliamo con le nostre parole e non sappiamo di che cosa stiamo parlando. Don Giussani dice che, se non partiamo
costantemente dall’esperienza, finiamo per soccombere alla confusione.
Allora guardiamo in faccia anche queste domande. Pensiamo all’esperienza dell’innamorarsi. Se uno si innamora, per lui innamorarsi non
vuol dire: «Adesso mi dedico alla contemplazione del suo volto e non
faccio nulla». No! Proprio perché è successo, quella presenza investe
talmente la vita che la domanda è opposta: come potete fare tutto, vivere
il quotidiano, senza sentire in voi l’urgenza di lei o di lui? Ditemi come!
L’urgenza dell’altro non è uno sforzo titanico che io devo compiere, no!
È qualcosa che sorprendo in me. Ed è per questo che mi rendo conto di
che cosa mi è accaduto, di quale presenza ha investito la mia vita: io non
posso vivere alcun momento della giornata (anche quando vado in metropolitana, quando mi vesto al mattino, quando sono a pranzo), senza
l’esasperata tensione a dire il suo nome. Questa tensione, questa urgenza
che sorprendo in me stesso, che preme dentro di me, è la memoria di lui
o di lei: è questo il prevalere di una presenza. Che cosa succede quando,
a un certo momento, questo fenomeno non accade più? Uno non decide
di non pensare a lei o a lui perché ha altro da fare. Anche prima era pieno di cose da fare, ma non poteva evitare che ritornasse alla mente, che
prevalesse quella presenza! Quando non succede più non vuol dire che
la persona amata sia sparita dalla faccia della terra: è ancora lì, ma non
vi è più il prevalere di quella presenza come determinante la vita, l’avvenimento non urge più dentro di sé. Per questo dico – lo dico innanzitutto
a me stesso – che il problema grave per noi è che Cristo non ci manca!
Possiamo dare tutte le interpretazioni che vogliamo, ma il problema è
che tante volte Cristo non ci manca. E non c’entra il fatto che abbiamo
dei limiti, che facciamo degli errori: tutto questo c’è – mettiamo in conto tutto, tutto, perché nella vita c’è tutto –, ma il problema è che Cristo
non ci manca! Noi abbiamo incontrato un uomo che, facendo un pranzo con gli amici, non poteva non sentire l’esasperata tensione a dire il
Suo nome. Allora, “esasperata tensione” o “impegno” è lo stesso: dopo
averLo incontrato, sento l’urgenza di Lui, mi manca! Perché se non mi
manca, nessun moralismo può sostituire la tensione di questa mancanza.
Allora, come l’esasperata tensione a dire il Suo nome può essere un
atto libero e pacificante? Il problema è alla rovescia: se non fate questo,
come potete essere liberi in mezzo a tutti i problemi del giorno?! Come
potete vivere in pace?! Come possiamo essere sempre più liberi in mez-Venerdì sera
69
zo a tutto il daffare che abbiamo, se Cristo non ci manca, se non è Lui a
riempire tutto della Sua presenza?
Ma alcuni, quando dico queste cose, obiettano: «Questo è intimismo». Un cavolo! Dite a voi stessi se questo è intimismo o se è il segno
che Cristo significa qualcosa nella vita! Questa è la fede: per vivere io
ho bisogno del riconoscimento di Lui. Il problema della fede non è alle
nostre spalle, è il nostro problema quotidiano. Che cosa vuol dire la Sua
presenza per noi ora?
Prosperi. Questo c’entra con la domanda successiva: che cosa vuol
dire aspettarsi tutto dal fatto di Cristo?
Carrón. Ciascuno deve farsi questa domanda, perché soltanto chi ha
incontrato Cristo sa che cosa si può aspettare. Che cos’è Cristo per noi?
Uno tra gli altri? Come diceva l’amico citato, «è un problema di stima».
Gesù è la cosa che io stimo più di qualsiasi altra o no? Che cosa ho sperimentato nell’incontro con Cristo? Occorre rispondere a questa domanda, perché poi nella vita può succedere tutto: sbagliamo, ci distraiamo,
pensiamo di stare perdendo il meglio, come il figliol prodigo, e allora
come lui andiamo via di casa a cercare un compimento che immaginiamo più grande. E quando viviamo per qualsiasi altra cosa che non sia
Lui, possiamo vedere che cosa succede: proprio come il figliol prodigo!
Perché si è ricordato di suo padre, della sua casa? Che cosa si aspetta,
dopo aver vissuto tutto il resto, dopo aver cercato un compimento dappertutto? Con il padre lui ha fatto un’esperienza diversa, incomparabile,
come noi con Cristo. Dunque, che cosa si aspetta il figlio? Si aspetta
tutto quel che ha già vissuto e che altrimenti non avrebbe saputo, di cui
nemmeno noi sapevamo prima dell’incontro. Perciò – diceva sempre
don Giussani – la gente può andare via, ma da un fatto non si torna indietro. Per questo Cristo ci può sfidare tutti: «Fate il paragone con qualsiasi
altra cosa, e ditemi se trovate qualcosa che vi corrisponda di più rispetto
a quello che Io sono, a quello che avete sperimentato nell’incontro con
Me!». Così uno può cominciare a vedere che non c’è nulla, nessun’altra
presenza, nessun altro modo di vivere la vita che sia più corrispondente
all’attesa del suo cuore – questa è la verifica della fede –. Non ce ne
accorgiamo innanzitutto perché siamo bravi, perché non facciamo più
le stupidaggini di tutti, perché non ci distraiamo, ma perché quanto più
uno si allontana, tanto più si rende conto di che cosa gli manca andando
via. Allora uno si aspetta che Cristo diventi sempre più tutto per lui;
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
70
con dolore, ripartendo, zoppicando, ma senza andare via, senza prendere
un’altra strada – come diceva Eliot –. Questa è, allora, la domanda che
ciascuno deve farsi: noi ci aspettiamo tutto da Cristo? Io mi aspetto tutto
da Te, o Cristo? La questione non è se io sono “in grado di”, se io sono
“all’altezza di”; non è questa la domanda, ma è quella di Gesù a Pietro:
«Mi ami tu? Non ti chiedo se sei bravo, non ti chiedo se domani non mi
tradirai, non ti domando questo. Ma: mi ami più di qualsiasi altra cosa?
La Mia presenza ti interessa più di qualsiasi altra cosa? Ti aspetti tutto da
Me? O Io sono una tra le tante cose? Da che cosa ti aspetti di compiere la
vita?». Se per noi, in fondo, Cristo è uno tra tanti, tra le tante cose della
vita, allora risponderemo: «Sì, Cristo va bene, ma senza esagerare!».
Che Cristo possa essere tutto, questa è la domanda della fede: io mi
aspetto tutto da Cristo? La fede non soltanto è fare l’elenco delle verità
a cui aderiamo, perché queste verità sono percepite tante volte come una
serie di astrazioni. Il problema è che la verità è diventata carne, la bellezza è diventata carne, la felicità è diventata carne. Il problema è se per
noi Cristo è questo avvenimento. Altrimenti noi siamo già da un’altra
parte, e non perché siamo incoerenti – attenzione! –, perché i pubblicani
erano incoerenti molto più di noi, ma ritornavano da Lui in continuazione. È un problema di stima, è un problema di giudizio. Non vi è nulla di
sentimentale o moralistico. Chi è Cristo per la vita di ciascuno di noi? È
un problema di giudizio.
Prosperi. Altre due domande legate tra loro.
Sull’oggettività di Cristo duemila anni fa, nessun problema. Invece
sull’oggettività di Cristo oggi, il rischio di seguire una nostra idea di Dio
è molto elevato. Che cosa ci libera da questo rischio?
Anche Pietro ha corso il rischio del personalismo, ma alla fine ha
conosciuto Cristo realmente. Qual è la sottile linea di demarcazione tra
seguire la presenza e seguire la persona? E perché questa differenza è
così importante?
Carrón. Vedete che non è un problema solo nostro? Anche Pietro
correva il rischio di seguire una sua idea di Dio o di seguire una sua idea
di Gesù (di che cosa convenisse a Gesù); il vangelo lo documenta, come
abbiamo visto ieri. Questo in noi è inevitabile, come ci dice don Giussani: è inevitabile che uno, appena conosce qualcosa, si formi un’immagine, si faccia un’idea di quella cosa; perciò non dobbiamo spaventarci di
questo. La vera questione è che, quando mi trovo davanti a una irriducibilità come quella di Cristo – così come Pietro –, io ceda. Anche Pietro, Venerdì sera
71
subito dopo che era stato lodato perché aveva confessato che Gesù era il
Cristo, ha sentito tutto il Suo rimprovero: «Tu non la pensi come Dio!».
Anche Pietro si era fatto un’idea di Dio. Chi ci libera costantemente
da questo? Questa è la questione, oggi come duemila anni fa. Ci libera soltanto una Presenza irriducibile. Per questo la fede cristiana non è
possibile senza una oggettività davanti a sé, senza qualcosa al di fuori di
me in cui mi imbatto, che non posso ridurre alle mie immagini, alle mie
idee, al mio sentimento, alla mia reazione, alla mia interpretazione. La
fede cristiana sarà sempre l’imbattersi in una Presenza che ti libera dalle
tue misure, ti libera dalla tua gabbia, ti libera dal tuo bunker (per usare
un’immagine di Benedetto XVI). Il cristianesimo permane nella storia
perché continua ad accadere la sua Presenza e perciò questa liberazione
da me stesso, dalla mia gabbia, dal mio bunker, perché con le mie interpretazioni posso affossarmi e con i miei pensieri posso soffocare. In
che cosa percepisco che Cristo è presente? Nel fatto che davanti a Lui
faccio una esperienza tale di liberazione, di respiro, che dico: «EccoLo!». Come la persona che ha detto: «Questo avvenimento è riaccaduto
ieri». Quante volte stando insieme, partecipando a qualcosa, ci troviamo
davanti alla testimonianza di qualcuno, davanti a qualcosa che succede,
e noi siamo liberati! Sappiamo che Cristo è presente non perché lo diciamo noi, ma perché sorprendiamo accadere in noi questo respiro, questa
liberazione dalla nostra misura, dal soffocamento, dalla gabbia. E quando succede è uno stupore così enorme che a uno viene da dire: «Grazie,
grazie che ci sei, o Cristo, oggi, presente in mezzo a noi, nel Tuo corpo
che è la Chiesa, nella Tua visibilità storica, irriducibile a tutte le mie
misure». Basta che ciascuno pensi se è successo qualcosa durante questi
tre giorni, come è arrivato qui e se è successo qualcosa. Come mi ha
scritto qualcuno: uno arriva ingarbugliato, preoccupato da tante cose, e
si trova davanti a qualcosa di irriducibile; non perché parliamo delle preoccupazioni del lavoro, di cosa ha lasciato a casa, no! Si trova immerso
in una irriducibilità. Perché, altrimenti, dobbiamo venire qui, se non per
questo? Perché dobbiamo essere cristiani, se non per questo? Perché
dobbiamo appartenere al movimento, se non per questo? Tutto il nostro
tentativo è affinché il movimento sia un luogo dove riaccade la liberazione: non un’agenzia di attività o un’organizzazione non governativa,
come diceva papa Francesco, ma un luogo dove riaccade la novità del
mio io, così che uno possa tornare a casa diverso. Allora, essere liberati
è vivere il cristianesimo come un avvenimento. Possiamo viverlo secondo la sua natura, solo se riaccade costantemente come avvenimento.
Altrimenti perde di interesse. Invece, se succede ogni volta, allora uno
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
72
si attacca sempre di più, uno si riempie sempre di più di ragioni. Per
questo abbiamo ripetuto, fino a stancarci, che se il cristianesimo non è
un’esperienza presente, dove io trovo la conferma che esso risponde alle
esigenze del vivere, la fede non potrà resistere in un mondo in cui tutto
dice il contrario. Questo è il nostro problema. Per questo, se Giussani
insiste nel denunciare le riduzioni del movimento o della sequela, secondo tutte le varianti di cui abbiamo parlato in questi giorni, non è per
un gusto analitico o per rimproverarci qualcosa: è per salvarci! Perché
tutte queste varianti non saranno mai il cristianesimo, non saranno mai
il movimento. Il movimento sarà ed è il contraccolpo dell’inizio, anche
con persone come noi piene di fragilità: è il contraccolpo dell’inizio che
ci ha liberati. Se non è questo, nel tempo non ci interesserà più.
Prosperi. Le ultime due domande si riferiscono ad esperienze particolari, che però pongono questioni che ci riguardano tutti.
Dopo l’esperienza significativa del Clu, sono tornato al mio paese e
sperimento una grossa difficoltà con la comunità locale del movimento,
che mi sembra molto diversa dalla vita del Clu. Davanti a questa difficoltà mi si dice che sono io che non riesco a valorizzare ciò che c’è. È in
questo caso che Carrón dice che il problema è mio? In questa condizione
che cosa significa la sequela?
Carrón. La prima cosa che occorre dire è che la Fraternità è una, e il
movimento è uno, così come la Chiesa è una. Occorre aprire le finestre
delle comunità e dei gruppetti perché, se in ogni comunità non corre tutta l’aria della totalità del movimento, se in ogni gruppetto non corre tutta
l’aria della Fraternità, allora tutto diventa soffocante, come lo diventa
ogni gruppo di amici. Nessuno adesso, qualsiasi sia la situazione in cui
si trova, può non avere a portata di mano tutta la ricchezza della vita del
movimento, anche se è nel luogo più sperduto della Terra. Quindi, tutto
ciò che la vita del movimento è arriva fino là. Alla fine della prima lezione, ho fatto il paragone con la Chiesa. Questo tipo di autoreferenzialità
di ogni comunità può capitare, infatti, anche rispetto al movimento; e
non ce la caviamo cambiando strategia. No! Per fare uscire gli apostoli
dalla riduzione che operavano, Cristo non ha cambiato strategia: ha dato
la vita per loro, è morto ed è risorto per loro. Occorre accettare di partecipare alla totalità della vita della Chiesa, che si comunica non soltanto
ritrovandosi a mangiare insieme con gli amici: la vita della Chiesa è
molto più ricca di tutti i nostri tentativi e se noi riduciamo la nostra compagnia ai nostri tentativi, dove andiamo? Se noi non abbiamo il respiro Venerdì sera
73
della totalità della Chiesa e non sentiamo tutta la urgenza di partecipare
a questa oggettività molto più grande di noi, che ci perdona, che costantemente ci alimenta con l’Eucarestia, che costantemente ci offre la Sua
parola, ci offre tutta la ricchezza della Sua testimonianza e della Sua
compagnia, noi come possiamo non soccombere? Lo sottolineo perché
ciò che capita con la Chiesa capita con il movimento. Se in ogni gruppo
la vita non è aperta a questa totalità, soffochiamo. Ciascuno ha tutto ciò
che occorre per vivere lì dove si trova. «Nessun dono di grazia più vi
manca»142 diceva san Paolo alla comunità di Corinto, in mezzo a tutto
l’Impero romano, quando erano “tre gatti”. «Nessun dono di grazia più
vi manca.» E allora a nessuno è impedito di vivere, in qualsiasi situazione, in qualsiasi comunità, in qualsiasi luogo: può perfino valorizzare
tutto quel che c’è, senza ridurre la comunità a quel che c’è, ma spalancandola. Tu puoi arrivare lì con tutta la ricchezza di quello che hai vissuto nel Clu e perturbare la comunità per la perturbazione che è accaduta
in te, come dicevamo: se può succedere la perturbazione nell’ambiente
di lavoro, può avvenire anche nelle nostre comunità. Speriamo anzi che
qualcuno continui a perturbare le comunità. Altrimenti siamo finiti! Per
questo nessuno ci impedisce di vivere, qualsiasi sia la situazione in cui
il Mistero ci ha collocato.
Prosperi. Ci hai detto che l’avvenimento non è generato dal nostro
fare. Però il movimento ci richiama a gesti (caritativa, tende Avsi, Colletta Alimentare, ecc.) che sono uno strumento educativo. Come questo
fare non si riduce ad attivismo?
Carrón. Ciò che ci è successo non è stato il prodotto del nostro fare.
L’Avvenimento non è generato dal nostro fare, e fin dall’inizio non è
stato generato dal nostro fare. Ci siamo imbattuti in qualcosa di diverso
che non avevamo creato noi e che ha cambiato la nostra vita. Tutto ciò
che facciamo, i gesti sono espressione di quella novità che il movimento
ha introdotto, della novità che Cristo ha introdotto nella vita. Il problema
è quando i gesti, invece di essere espressione di quella novità, diventano
cose da fare. Tutte le donne lo capiscono. Quando si sposano e hanno a
cuore di mantenere la casa bella e in ordine, o di fare un pranzo appetitoso, affinché la casa sia un luogo in cui uno desideri tornare, perché lo
fanno? Per l’impeto che quel che è successo loro riempia tutto. E allora
ogni gesto è espressione di un amore, di una passione per la vita della
142 1 Cor 1,7.
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
74
propria famiglia. Che disgrazia quando questo si perde e tutto diventa
“cose da fare”! Ciò che era l’espressione di un amore diventa allora un
lamento: «Ma devo ancora fare questo? Tu vai sempre via, e io qui a
pulire!». Che può avere un suo senso, non lo discuto. Che i mariti non
prendano spunto da questo per sentirsi giustificati, perché capita lo stesso agli uomini!
I gesti possono essere espressione di un avvenimento, espressione di un
amore, di una passione, o essere semplicemente ridotti a cose da fare: invece di generare continuamente il rapporto, di essere espressione del rapporto
e facilitare l’incrementarsi del rapporto, diventano solo cose da fare.
Il rischio è sempre questa duplice riduzione: attivismo o intimismo.
Di questa contrapposizione micidiale, l’esempio più palese è l’episodio
di Marta e Maria. Marta si dà da fare, e tanto! Chi di noi non sarebbe
stato contento e onorato di fare delle cose per Gesù, di averlo ospite a
casa sua? Ma uno può avere a casa Gesù, avere la fortuna di servirLo,
e fare prevalere, comunque, il lamento. «Guarda, Maria non mi dà una
mano!»: prevale il lamento. E allora, quando Gesù dice a Marta: «C’è
una sola cosa importante», non sta dicendo che è meglio la contemplazione dell’attività; no, sta sottolineando che Marta non coglie che,
qualsiasi cosa faccia, ciò che deve prevalere è il fatto di Cristo, il fatto
di essere onorata di essere con Lui, che tutto quanto è per Lui. Quando
Gesù le dice questo, non è per un rimprovero. «Se tu non ti rendi conto
di questo, carissima Marta, il tuo fare non ti basta; e si vede dal lamento.» Quando don Giussani ci invita a non soccombere all’attivismo,
non lo fa perché non vuole che facciamo delle attività; e quando noi
ci diciamo queste cose, non è per insistere sull’intimismo invece che
sull’attivismo. No, non confondetevi! Il fatto è che l’attività, quando
non è vissuta secondo la sua vera natura, genera il lamento, perché non
è espressione di un amore, perché non aiuta a fare memoria di quell’amore, perché non mi rende consapevole di quell’amore. Infatti, anche se
fossi in atteggiamento intimista e non Lo riconoscessi, sarebbe lo stesso:
lamento! Il problema non è l’attivismo o l’intimismo, il problema è se
prevale la Sua presenza o meno. L’alternativa non è tra il fare o il nonfare, ma è tra il lasciare entrare una Presenza ed esserne colpito, tanto
che domina la vita, o no. Se Lui non prevale, possiamo fare o non fare,
ma il lamento, il disagio, domina. Tante volte la gente si ritaglia degli
spazi per non complicarsi la vita. Ma questo risponde? Qualsiasi forma
di questa contrapposizione risponde? Il problema è che a volte pensiamo
che facendo così possiamo cavarcela. No! Occorre che il nostro fare sia
tutto investito dalla Sua presenza, così come il nostro riposare. Perché Venerdì sera
75
quel che succede nel fare, succede nel riposo. Così, anche quando non
facciamo niente, Lui non ci manca: la stessa riduzione che trasforma
l’attività in attivismo si realizza nel riposo, per cui andiamo in vacanza
come i pagani, aspettandoci soltanto quel che si aspettano tutti, invece
di vivere anche la vacanza come occasione della memoria di Lui, dell’esasperata tensione a dire il Suo nome.
La questione, alla fin fine, è sempre la fede: se prevale questa Presenza come avvenimento nella vita. Attenzione! Non confondiamoci,
come se questo volesse dire che occorre non so che razza di coerenza o
di irreprensibilità. No, no, no! Lo vediamo bene quando l’avvenimento
dell’innamorarsi è vivo. Possiamo continuare a fare gli sbagli di prima,
ma prevalgono l’urgenza, la gratitudine e la gioia della presenza della
persona amata. Sono contento perché Tu vivi, Cristo, perché Tu ci sei;
non sono costretto a soffocare in qualsiasi cosa io faccia, nell’attività o
nel riposo, perché Tu ci sei! È la questione della fede, perché per noi la
fede è qualcosa che ha a che vedere con tutto, non qualcosa che si ritaglia un pezzo di vita. La fede è qualcosa che ha a che vedere con tutto.
Per questo continuiamo il nostro cammino cercando di seguire ciò
che la Chiesa ci propone nell’Anno della fede, affinché possiamo riscoprire la bellezza della fede, per vivere, per vivere di più, per vivere più
intensamente, per vivere con vera intensità la vita, in modo da rispondere a quel «quotidiano che taglia le gambe». Altrimenti la fede avrà
una data di scadenza; e non per una cattiveria nostra, ma perché non ci
interesserà più. Il nostro interesse si sposterà altrove. Uno può stare qui
e il suo interesse essersi già spostato altrove. Non è così difficile capire
che – come diceva don Giussani – possiamo essere del movimento senza
che la fede sia al centro del nostro interesse. Non perché don Giussani
pensi che diciamo delle eresie contro la fede, no, ma perché il centro
affettivo del nostro io è già spostato altrove: non ci aspettiamo più tutto
da Lui. Questo è il problema della fede.
Vivendo l’esperienza del riconoscimento della sua Presenza, attraverso ciò che Cristo genera in noi, potremo testimoniarLo in tutto quel
che dovremo fare, in tutti i gesti che compiremo. Accompagniamoci in
questo. Per questo esiste la Fraternità.
Domenica mattinaAvviSi
Dico alcune cose sulla Fraternità che ci possono aiutare a ricordarne
lo scopo. Sono stato molto colpito da alcune richieste di iscrizione, che
ridicono lo spunto, la preoccupazione per cui don Giussani è partito nel
fare la Fraternità.
Dice una di queste richieste: «Oggi, dopo più di due anni nel movimento, ho la certezza che è la strada giusta, perché il metodo che mi offre mi aiuta nella vita; mi aiutano i giudizi che ci diamo, la condivisione
dell’esperienza che impariamo alla Scuola di comunità. Imparo a capire
che la consistenza della mia libertà e della mia felicità non si basano su
una mia individuale indipendenza, ma in un rapporto con il Tu, nella
coscienza che sto camminando sulla strada al mio destino. L’amicizia
e la comunione che viviamo in comunità fanno necessariamente parte
di questa strada, di questo rapporto e anche della mia felicità e libertà.
Per questo vorrei chiederti di entrare nella Fraternità di Comunione e
Liberazione, perché il Signore mi ha fatto capire che è la mia strada».
Un altro amico scrive: «Vorrei entrare nella Fraternità di Comunione
e Liberazione, perché mi rendo conto che è l’unica strada che mi rende veramente felice e attraverso la quale Cristo da me si fa conoscere.
È proprio il movimento il modo con cui si fa conoscere. Quando ho
conosciuto Cl ero un grande individualista [questo è il punto: uno può
partire così, individualista, ma poi desidera appartenere perché ha fatto
l’esperienza di una liberazione dalla sua gabbia], un uomo che voleva
riuscire in tutto da solo, a modo proprio. Cl era un mio progetto, e non
solo Cl, ma tutta la mia vita era un mio progetto [quando abbiamo questa
impostazione, facciamo anche del movimento un progetto] e su questo
mi intestardivo. Poi dovevo cercare dei compromessi, e quando non funzionava iniziavano i problemi. Ma poco alla volta, in tutto quello che
vivevo, sia nel bene che nel male, ho imparato che ciò di cui ho bisogno
è un luogo dove continuamente posso incontrare Cristo vivo [uno incomincia come può, siamo poveracci; la questione è che, a un certo punto,
si trova davanti a qualcosa di irriducibile]». «Ho imparato ciò di cui ho
bisogno: un luogo dove posso incontrare Cristo vivo [nell’esperienza lui
sa che cosa viveva all’inizio e che cosa sta succedendo vivendo dentro
un luogo come il movimento]. Per me questo luogo è diventato la comunità delle persone di Cl dove si rinnova in me la memoria di ciò che nella
mia vita è importante. È anche il luogo dove continuamente imparo,
dove mi sento a casa.»
All’ultima diaconia della Fraternità, lo scorso mese, un amico ci di-
76Venerdì sera
77
ceva che in poco tempo sono morti tre amici a Montreal, in Canada.
Uno di loro, malato di tumore, aveva premura di iscriversi alla Fraternità
prima di morire, tanto da chiedere di poter essere accettato il più presto
possibile. È stato sepolto con la tessera di iscrizione alla Fraternità nel
taschino, vicino al cuore, come un tesoro. Voleva morire appartenendo
al luogo dove Cristo si era fatto a lui vicino.
Don Giussani, in un’intervista del 1992, diceva: «L’iscrizione alla Fraternità è un atto personale, di totale iniziativa del singolo, non una scelta
operata da un gruppo. Nasce come necessità personale per la propria fede
[come abbiamo visto] e per il realizzarsi della propria fisionomia cristiana. Il suo scopo [...] è quello di partecipare a una compagnia che aiuti nel
cammino alla santità; cioè nella conoscenza di Cristo, nell’amore a Cristo
per il bene degli uomini, per il regno di Dio sulla terra».143
Dovremmo leggerle spesso queste frasi, perché ci dicono che cosa è
la Fraternità, di fronte a tutte le nostre riduzioni. «Nasce come necessità
personale per la propria fede», cioè per la propria vita, come un «partecipare a una compagnia che aiuti nel cammino alla santità».
Quando questo non si capisce, quando uno ha ridotto il suo bisogno e la sua necessità, allora nemmeno si capisce veramente che cosa
è la Fraternità. A gennaio, per esempio, al raduno dei responsabili degli
Stati Uniti, alcuni dei partecipanti mi hanno raccontato della fatica che
alcuni fanno a partecipare alla Fraternità. Perché? Perché la Fraternità
è una proposta che riguarda la totalità della vita, per la natura stessa
dell’avvenimento cristiano. Spesso noi – è un problema dappertutto –
accettiamo di appartenere a un club, ad associazioni che rispondono a
certi bisogni particolari, e a volte la Fraternità è uno tra i tanti luoghi o
club di appartenenza. Gli amici americani mi domandavano il perché di
questa fatica. E io ho risposto: «Appartenendo alla Fraternità così, qual
è il problema? Fate la Fraternità come un club; qual è il problema? Va
tutto bene, così?». E allora hanno incominciato a intervenire, uno dopo
l’altro, dicendo: «No, non va bene. Manca questo alla mia vita, manca
quest’altro...». «Ah, allora ridurre la Fraternità a uno dei tanti club non
risolve la vita, non aiuta. Per questo la Fraternità è una proposta diversa
da un club, perché voi avete le tessere di tanti club, e uscite uno dopo
l’altro a dire che cosa non va. È per questo che la Fraternità, se è vissuta
come un club in più, non interessa.» Invece la proposta della Fraternità
è diversa. Per questo, chi può appartenervi davvero? Chi può desiderar-
143 L. Giussani, «Per una fede matura», intervista a cura di P. Colognesi, Litterae communionisCL, febbraio, 1992, p. 26.
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
78
la? Chi non si accontenta di meno del tutto! Cioè, chi sente l’urgenza
dentro di sé di questa necessità personale. Se non scatta l’ipotesi della
Fraternità, non scatta perché manca questo desiderio della santità, cioè
questo desiderio della pienezza di cui parla Giussani, quel desiderio del
compimento totale della propria vita. Chi ha questo desiderio sente il
bisogno di mettersi insieme ad altri per essere sostenuto nel proprio tentativo, essendo consapevole della propria fragilità. È l’amicizia come
compagnia guidata al destino. Che scatti come ipotesi è la conseguenza
di questo desiderio, di questo seguire. Per questo basterebbe essere leali
con le nostre necessità, per capire l’urgenza che abbiamo di un luogo
reale, vero, irriducibile dove siamo veramente aiutati.
Come diceva ancora don Giussani: «Poiché lo scopo della Fraternità
è l’impegno della responsabilità personale di fronte alla santità e al destino, il vero problema è la capacità di amicizia, la vita in comune [nel
senso di compagnia guidata al destino]. È una condivisione da vivere
senza pretese, senza misura, senza sentimentalismi [diceva don Giussani] e che giunge fino all’aiuto sociale e materiale. Scuola di comunità e
missione sono gli scopi cui dedicarsi».144
Sempre in America mi facevano una domanda sui primi gruppi che
nascevano, con questa preoccupazione: «Essendo cresciuti molto in tutto
il territorio i gruppetti di Fraternità, vogliamo capire qual è l’importanza
di essere fedeli al fondo comune, di seguire una regola che permetta di
dare una certa struttura a questa amicizia». Qui vediamo, come dicevamo
prima, che fare un gesto, darsi una minima regola di preghiera, invitarsi
a essere fedeli al fondo comune, sono piccole cose, è un impegno minimo, ma è l’espressione più semplice di questo desiderio di appartenere
all’unica Fraternità. Capire il significato di questi semplici gesti è decisivo per non viverli in modo formale, ma come espressione della nostra
appartenenza. In questo c’è tanto cammino da fare ancora. Se li viviamo
in maniera vera, questi gesti aiutano a incrementare la consapevolezza di
appartenere e quindi generano costantemente questa appartenenza, sono
il modo di nutrire la consapevolezza di appartenere, sono un aiuto.
E nella Lettera che inviava ai nuovi iscritti, don Giussani scriveva: «La Fraternità di CL vuole essere espressione consapevole e
impegnata, cioè matura, della storia del Movimento di CL. Essa vuole essere il livello in cui tutte le intuizioni, che per grazia di Dio ci
hanno animato e ci animano, siano realizzate, sia nel senso di “ren-
144 L. Giussani, «Per una fede matura», op. cit., p. 26.Venerdì sera
79
dersi conto” di esse, sia nel senso di dare loro una effettualità».145
In questo senso, anche avere cura degli aspetti “formali” della vita
della Fraternità è importante. Mi ha colpito, per esempio, l’intervento
del responsabile dell’America Latina, alla scorsa Diaconia, quando
diceva quale occasione di educazione possano essere anche gli adempimenti formali a cui ogni tanto siamo chiamati. Dovendo occuparsi
della elezione dei responsabili diocesani della Fraternità nelle varie
nazioni – come sapete, ogni tre anni gli iscritti delle diocesi dove la
Fraternità è istituita sono chiamati a eleggere i responsabili diocesani
della Fraternità –, il responsabile dell’America Latina raccontava che
sembrava una cosa formale e diceva: «Inizialmente non aveva molta importanza per noi. Invece, avendolo preso sul serio, capisco che
anche un particolare così giuridico può diventare un aspetto molto
educativo. Questo fatto ha implicato per me una serietà con la libertà
delle persone che partecipano all’elezione e un tentativo di giudizio
sulla situazione del movimento, una richiesta del parere delle persone». Tutti questi strumenti li possiamo vivere formalmente o possono
diventare un’occasione di educazione per capire che cosa è la nostra
compagnia, la nostra Fraternità.
Diceva ancora don Giussani: «La Fraternità di CL ha lo scopo di
assicurare il futuro dell’esperienza del Movimento, e la sua utilità per
la Chiesa e per la società, attraverso la continuità dell’educazione e
la costruzione di opere, come esito di tale educazione, nelle strutture
della società ecclesiastica civile. A questo livello io intendo prendere
in considerazione la gente che ci sta fino in fondo».146 È questo che
costruisce la nostra Fraternità: gente che vuole starci «fino in fondo».
Fondo comune
Da ultimo, risottolineo l’importanza del fondo comune. Come
ho avuto modo di dire anche pubblicamente all’Assemblea generale
della Compagnia delle Opere, il 25 novembre scorso: «Fin dall’inizio il movimento è vissuto esclusivamente grazie ai sacrifici economici delle persone che vi aderiscono. Chi appartiene al movimento,
si impegna a versare mensilmente una quota di denaro liberamente
stabilita, il cosiddetto “fondo comune”, che don Giussani ha sempre
indicato come gesto educativo a una concezione comunionale di ciò
che si possiede, alla coscienza della povertà come virtù evangelica
145 L. Giussani, L’opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, op. cit., p. 250.
146 Ivi.
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
80
e come gesto di gratitudine per quello che si vive nel movimento.
Proprio per la ragione educativa detta, non è rilevante l’entità della
quota che ciascuno versa, ma la serietà con la quale si rimane fedeli
all’impegno preso. Per sostenere la vita delle nostre comunità in Italia e nel mondo e le iniziative caritatevoli, missionarie e culturali, il
movimento di Comunione e Liberazione non ha bisogno d’altro [e
lo devo gridare a tutti che noi non abbiamo bisogno d’altro!]; e per
questo siamo liberi da tutto e da tutti nello svolgere il nostro compito
come movimento».147
Ma su questo facciamo ancora fatica. Così come altri gesti nella
vita del movimento “entrano” sempre di più (per esempio, la caritativa, perché uno percepisce il bene che è per lui partecipare al gesto di
caritativa per poi vivere tutto), riguardo al fondo comune dobbiamo
fare ancora molta strada, tanto che ci sono ancora – qui! – tremila
persone che non danno nulla al fondo comune. E questo perché? Non
è un problema economico, perché il fondo comune non è una questione di quantità, ma di fedeltà. Questa cosa non la capiamo ancora
nella sua portata educativa, nella sua capacità di generare una modalità nuova di vivere. E per questo facciamo fatica. Perché la prima
ragione del fondo comune è educarci a vivere tutto come ricevuto da
un Altro. Per questo ci conviene non perdere la consapevolezza di
questo. La seconda ragione è collaborare alla missione della Chiesa,
costruendo il movimento. Quanto più uno ne capisce la portata, tanto
più vorrà che possa diffondersi, che possiamo testimoniarlo in tutti i
luoghi (dove nasce costantemente il movimento).
Alcuni di noi vivono questa fedeltà al fondo comune anche nelle
difficoltà. Leggo una lettera: «Purtroppo questa sera non vi scrivo
quello che da qualche anno a questa parte mi sarei aspettata di scrivervi, e cioè che avevo fatto un bonifico a saldo di tutte le quote di
fondo comune che non ero più riuscita a pagare, ma vi devo dire che
non ce la faccio proprio a recuperare le quote non versate [tra di noi
è possibile anche dire questo, con la mortificazione che uno vive,
tra di noi possiamo dirci le cose con questa libertà]. Man mano che
tentavo di mettere da parte qualcosa da mandare al fondo comune,
arrivava una spesa improvvisa. Inutile dirvi che sono tempi difficili.
Mio marito ha lavorato tanto con un basso guadagno e, pur facendo
grandi sacrifici per poter pagare il mutuo e affrontare tutte le spese
che abbiamo, non sempre riusciamo a onorare i nostri impegni se non
147 J. Carrón, «Con l’audacia del realismo», Tracce-Litterae communionis, dicembre 2012, p. VI.fosse per l’aiuto dei nostri genitori. Fino a oggi non vi avevo mai
scritto, e neanche avevo abbassato la quota, seppur già bassa, perché
mi vergognavo di non riuscire a rispettare il mio impegno. Ora invece mi vergogno d’aver ceduto all’orgoglio e d’aver perso così tanto
tempo in pensieri, anziché partecipare a un’opera, anche se con poco
[non importa la quantità, è un problema di appartenenza, di consapevolezza dell’appartenenza, di amore a quel che viviamo tra di noi].
Spero un giorno di poter recuperare e riuscire a fare una donazione».
Che uno possa sperimentare questo struggimento dice di più di quanto possa dare.
Anno della fede - Pellegrinaggio a Roma
Vi ricordo l’importanza del pellegrinaggio a Roma del prossimo 18
maggio, proposto per l’Anno della fede dal Pontificio Consiglio per la
promozione della nuova evangelizzazione, che sarà il primo incontro di
papa Francesco con i Movimenti ecclesiali e le nuove comunità.
Libri
È uscito il nuovo libro di don Giussani, che riprende le Equipe
degli universitari degli anni 1990-91, dal titolo Un evento reale nella vita dell’uomo. È sorprendente vedere come don Giussani descrive la natura del cristianesimo: «L’evento reale nella vita d’un uomo
è il riconoscimento e l’adesione a Cristo, è l’accettare di essere stati
scelti».148 E ancora: «Il cristianesimo non è il legame che tu stabilisci con Cristo, ma è il legame che Cristo stabilisce con te».149 Solo
chi accetta di lasciarti plasmare da questo evento reale può diventare
un protagonista in grado di vivere l’interminabile fatica del vivere
quotidiano, senza essere sconfitto dalle circostanze.
Il libro del mese di maggio-giugno è Il potere dei senza potere
di Václav Havel (Prefazione di Marta Cartabia). Il testo originale è
stato arricchito di altri discorsi di Havel molto interessanti, successivi al 1978. Adesso possiamo percepire molto di più la potenza di
questi scritti. Basta ricordare il famoso esempio dell’ortolano, che è
la documentazione dell’aspetto conoscitivo, culturale, «rivoluzionario» di un io che si pone nella realtà. Questa è l’unica nostra risorsa,
ci diceva don Giussani.
148 L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo..., op. cit., p. 163.
149 Ibidem, pp. 326-327.
Telegrammi inviati
Domenica mattina
81Esercizi della Fraternità
82
Tracce
Raccontava recentemente don Pino di come sia sbalordito dal fatto
che tutte le mattine, in Università Cattolica a Milano, un gruppetto
di ragazzi vende Tracce, e che il tutto è nato dall’iniziativa di una
ragazza che ha detto: «Questa non è la rivista di Cl. Questa è la “mia”
rivista». Ne ha parlato con cinque, dieci amici. Per alcuni è stata
l’occasione di un incontro, come è avvenuto, per esempio, vendendo
Tracce di marzo con la copertina su papa Benedetto: alcune persone
volevano capire perché era così importante per noi.
SANTA MESSA
Letture della Santa Messa: At 13,14.43-52; Sal 99; Ap 7,9.14-17; Gv 10,27-30
OmELiA Di DOn michELE BERchi
«Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla Mia mano.» Questo è ciò che desidera Cristo
per me, per ciascuno di noi: stare con me, stare con ciascuno di noi
per l’eternità. Tu mi vuoi Tuo per l’eternità. Questa è la vita eterna.
Potremmo dire che Gesù muore dalla voglia di stare con me. È morto dalla voglia di stare con me, di farmi Suo per sempre.
Ma chi sono io per Te? Perché solo davanti alla fedele e inimmaginabile affermazione di Cristo, anzi, solo davanti a questa vera dichiarazione d’amore, il primo amore: «Le mie pecore», mie – che Gesù
dica di ciascuno di noi: «Mia pecora» è come la mamma e il papà che
lo dicono del loro bambino, come l’uomo innamorato lo dice della
donna che gli ha detto di sì – «le mie pecore ascoltano la mia voce e io
le conosco ed esse mi seguono»; solo davanti a questa dichiarazione
d’amore possiamo cominciare a capire chi siamo. Chi sono io coincide con il chi sono io per Te; chi sono io per Te, o Signore.
Nessuno ci strapperà più via questa esperienza, nessuno potrà
strapparci dalla Tua mano, nessuno. La forma che Tu hai impresso
nel nostro cuore, incontrandoci uno a uno, non potremo mai più togliercela di dosso, perché tutte le migliaia di persone che siamo qui,
tutti siamo stati incontrati uno a uno; questa moltitudine immensa
che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua,
è stata radunata uno a uno. Chi di noi può dire che il Signore non
l’ha condotto qui, asciugando ogni lacrima dai suoi occhi? Tu ci hai
fatti Tuoi, e da quel momento nessuno potrà mai più strapparci di
dosso questo incontro che ci ha fatti Tuoi.
C’è solo un pericolo, quello stesso dei giudei, che – come dicono
gli Atti degli Apostoli – non si giudicavano degni della vita eterna. Si può essere anche gelosi di questa appartenenza, eppure non
aderire. Si può appartenere al popolo eletto, e non aderire. Questo
punto di resistenza incredibile, eppure sempre possibile; come lo
sappiamo bene, come lo conosciamo bene quel maledetto orgoglio,
quell’amor proprio fino alla rovina di noi stessi. Però, guardandolo
bene, questo punto di resistenza ci rende ancora più pieni di stupore,
perché Tu, Signore, preferisci rischiare che io Ti dica di no, piuttosto Esercizi della Fraternità
84
che comperare la mia libertà. Ma perché ci ami così tanto? Perché?
Domandiamo in questa santa messa che lo Spirito, attraverso la
carne della Madonna da cui è nata questa compagnia, ci mantenga
questo stupore, perché è attraverso di questo che diventa vero che
nulla ci separerà mai dall’amore di Suo Figlio.
MESSAGGI RICEVUTI
Carissimi,
il tema degli Esercizi di quest’anno: «Chi ci separerà dall’amore di
Cristo?» prende di petto la modalità con cui l’annuncio cristiano debba
essere proposto a tutti, in particolare agli uomini e alle donne della nostra affaticata Europa.
Infatti, solo la certezza di essere stati definitivamente afferrati dal
Suo amore rende possibile l’appassionata apertura nei confronti di
quello che don Giussani chiamava «tutto l’esistente e tutta l’esistenza».
Assicuro la mia vicinanza nella preghiera e nell’affetto in questi
giorni di straordinaria portata per la vita di Comunione e Liberazione.
Vi saluto tutti e Vi benedico.
S.E.R. cardinale Angelo Scola
Arcivescovo di Milano
Carissimo don Julián Carrón,
mi unisco a tutti voi riuniti per gli Esercizi Spirituali della Fraternità in questo tempo straordinario in cui abbiamo partecipato a grandi fatti di grazia come la rinuncia al ministero petrino di Benedetto
XVI e l’inizio del pontificato di papa Francesco nuovo “Vescovo di
Roma”. Il Signore ci ha sorpreso con la sua presenza e con la qualità
della sua vicinanza. Come abbiamo sentito la paternità intensa e bella
di Benedetto sento particolarmente, grazie ai ventisette anni vissuti in
missione in Brasile, la familiarità con il cuore e lo stile immediato e
semplice di Francesco. Averlo incontrato, in Argentina ed in Brasile
ad Aparecida, è stata una grazia che ci apre il cuore ad una sequela
totale che comporta intelligenza e piena disponibilità come sempre
abbiamo vissuto con i Sommi Pontefici, secondo quanto ci ha insegnato don Giussani.
Per questo il tema degli Esercizi «Chi ci separerà dall’amore di
Cristo?» (Rm 8,35) ci apre alla scuola del carisma e ci riempie di fiducia nel cammino che il Signore offre oggi a tutti noi e alla sua Chiesa.
Chiedo allo Spirito la grazia di vivere questi esercizi come una vera
opportunità, come un tempo favorevole per la nostra persona e per la
nostra missione nel mondo. Nell’“Anno della fede” e dinanzi a tanti Esercizi della Fraternità
86
prodigi della misericordia di Dio, la Madonna ci renda come lei aperti
ad accogliere il dono di Dio, a consegnarci totalmente al suo disegno
e a comunicare a tutti con franchezza quanto ci è accaduto.
Invocando su di voi la benedizione del Signore e la protezione
della Gran Madre di Dio,
vi saluto cordialmente
S.E.R. monsignor Filippo Santoro
Arcivescovo di TarantoTELEGRAMMI INVIATI
Sua Santità
Francesco
Santo Padre, 24.000 aderenti alla Fraternità di Comunione e Liberazione, radunati a Rimini per gli annuali Esercizi spirituali e altre migliaia in videocollegamento da 21 nazioni, hanno meditato sul tema «Chi ci
separerà dall’amore di Cristo?».
Grati per la Vostra benedizione, che ci fa sperimentare la maternità
della Chiesa, abbiamo approfondito la consapevolezza che «il Signore
è vivo e cammina con noi» perché il cristianesimo è l’esperienza di un
avvenimento, Cristo risorto, come ci ha testimoniato con la sua vita don
Giussani e come vediamo nelle parole e nei gesti di Vostra Santità, sorgente continua di stupore e di affezione.
In un tempo nel quale la fede non è più «un presupposto ovvio» (Porta fidei), abbiamo sentito come rivolta a noi la domanda di Gesù: «Ma
il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». L’inizio
del Vostro pontificato ci spinge a riscoprire che la fede non è una teoria o
un insieme di regole, ma il riconoscimento di una Presenza «attraente e
persuasiva perché risponde al bisogno profondo dell’esistenza umana».
Nella memoria di don Giussani, desideriamo rivivere la sua stessa
esperienza per essere così pieni dello sguardo di Cristo da essere una presenza diversa, soprattutto nelle «periferie esistenziali» di questo mondo.
In questo Anno della fede riconsegniamo tutte le nostre persone e le
nostre comunità sparse nel mondo nelle mani della Santità Vostra, col
desiderio di testimoniare la gioia di essere cristiani per aiutare i nostri
fratelli uomini a trovare in Cristo la misericordia che salva.
All’augurio per l’imminente ricorrenza del Vostro santo patrono
uniamo la preghiera alla Madonna di rendere “dulces pondus” il mandato di Successore di Pietro, in cammino con il Suo popolo.
In attesa di incontrare Vostra Santità il 18 maggio in piazza San Pietro.
Grazie, Santità.
87Esercizi della Fraternità
88
Sua Santità papa emerito Benedetto XVI
Santità, a Rimini insieme a tutti i 24.000 amici della Fraternità di Comunione e Liberazione, radunati per gli Esercizi spirituali, e altre migliaia in videocollegamento da 21 nazioni, meditando sul brano di san Paolo
«Chi ci separerà dall’amore di Cristo?» ho pensato alla Sua persona. Tutti
domandiamo alla Madonna di accompagnarLa nella immedesimazione
con Cristo, l’Amico che non ci abbandona mai. Nascosto al mondo, ma
non ai nostri cuori affezionati a Lei, Le chiedo una preghiera per tutte le
nostre persone, affinché possiamo riscoprire la gioia di essere cristiani
in questo Anno della fede da Lei indetto con la premura di un padre, per
testimoniare la bellezza di essere cristiani nella vita quotidiana.
Illustrissimo Giorgio Napolitano
Presidente della Repubblica italiana
Illustrissimo Signor Presidente, 24.000 aderenti alla Fraternità di
Comunione e Liberazione, radunati a Rimini per gli annuali Esercizi
spirituali, hanno appreso la notizia della Sua rielezione.
«Mi muove in questo momento il sentimento di non potermi sottrarre
a un’assunzione di responsabilità verso la nazione, confidando che vi
corrisponda una analoga collettiva assunzione di responsabilità.» Il suo
gesto di libertà aumenta l’ammirazione per la Sua persona.
In questo drammatico momento Lei ci appare come una risorsa per
l’Italia, di fronte all’urgenza di riprendere la strada di una vera pacificazione che ottenga quel bene così necessario per la vita personale e sociale.
Pur consapevoli dei nostri limiti, come credenti educati da don Giussani alla passione per il destino dei fratelli uomini, desideriamo offrire la
nostra testimonianza, insieme a ogni uomo di buona volontà, come contributo per sbloccare la situazione, affermando il valore dell’altro nella
ricerca del bene comune al di sopra di qualsiasi interesse particolare.
Comprendendo il peso enorme della nuova responsabilità, Le auguriamo di ottenere ciò per cui ha accettato questo grande sacrificio.
S.E.R. cardinale Angelo Bagnasco
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
24.000 aderenti alla Fraternità di Comunione e Liberazione, radunati a
Rimini per gli annuali Esercizi spirituali, meditando sul tema «Chi ci sepa-rerà dall’amore di Cristo?», nella certezza che il Signore risorto è l’Unico
in grado di colmare il bisogno infinito del cuore, confermano l’impegno a
vivere una fede sempre più personalizzata, seguendo Papa Francesco che
ci invita a darne testimonianza nelle «periferie esistenziali» della nostra
società, soprattutto in questo momento di grande incertezza.
S.E.R. cardinale Stanisław Ryłko
Presidente Pontificio Consiglio per i Laici
Eminenza carissima, 24.000 aderenti alla Fraternità di Comunione e
Liberazione, a Rimini per gli Esercizi spirituali e altre migliaia in videocollegamento da 21 nazioni, meditando sul tema «Chi ci separerà dall’amore
di Cristo?», rinnovano l’impegno a vivere il Battesimo come testimonianza
della gioia di essere cristiani, nella sequela a Papa Francesco.
S.E.R. cardinale Angelo Scola
Arcivescovo di Milano
Carissimo Angelo, grati per il tuo messaggio ti diciamo che in questi
giorni abbiamo fatto di nuovo l’esperienza di Cristo presente, che ci afferra
attraverso quella forma di insegnamento alla quale siamo stati consegnati.
Ti domandiamo di pregare per ciascuno di noi, affinché siamo sempre
più pieni del Suo sguardo attraente e persuasivo − e irriducibile a ogni nostra misura − per essere testimoni nel mondo della pertinenza della fede alle
esigenze della vita
.
S.E.R. monsignor Filippo Santoro
Arcivescovo di Taranto
Carissimo Filippo, il tuo messaggio ci aiuta a essere più consapevoli
della grazia che abbiamo ricevuto ad avere don Giussani come padre
nella fede.
Nella volontà di seguire Papa Francesco, torniamo alle nostre case
più certi che niente e nessuno potrà separarci dall’amore di Cristo se
saremo così semplici da stupirci ogni volta dell’avvenimento della Sua
presenza che riaccade tra di noi ora
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