sabato 4 maggio 2013

«Chi ci separerà dall'amore di Cristo?»

Giotto, ''Ultima cena'' (particolare). Cappella degli Scrovegni, Padova.
 Gli appunti dalle lezioni di Julián Carrón agli Esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione. Rimini, 19-21 aprile 2013


Città del Vaticano, 16 aprile 2013
Don Julián Carrón
Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione
Reverendo Signore,
In occasione dell’annuale corso di Esercizi Spirituali della Fraternità di Comunione e 
Liberazione, che si terrà a Rimini sul tema 
«Chi ci separerà dall’amore di Cristo?», 
nel contesto dell’Anno della fede, Sua Santità papa Francesco desidera rivolgere agli 
organizzatori e ai numerosi partecipanti il suo cordiale e beneaugurante 
saluto. Esprimendo compiacimento per la provvida iniziativa pastorale, il Santo Padre
auspica che essa susciti rinnovata adesione al 
Divino Maestro e crescente 

consapevolezza che il Signore è vivo e 

cammina con noi e, mentre invoca abbondanti 



grazie celesti, domanda un ricordo nella preghiera ed invia di cuore, per intercessione 


della Vergine Maria, l’implorata benedizione apostolica, propiziatrice di sempre fecondo 
cammino ecclesiale.

Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di Sua Santità


Venerdì 19 aprile, sera
All’ingresso e all’uscita:
Wolfgang Amadeus Mozart, Concerto per pianoforte e orchestra n. 23 in la maggiore,
 K 488  
Wilhelm Kempff, pianoforte


Ferdinand Leitner – Bamberger Symphoniker
Deutsche Grammophon
n inTRODUZiOnE
Julián Carrón
Non siamo noi che costruiamo la Chiesa, «la Chiesa non comincia 
con il “fare” nostro»,1
 ci ha ricordato Benedetto XVI. Non è il nostro 
fare che riesce a ridestare la nostra vita. Per questo, come per i discepoli, anche per noi,
 qui radunati per cominciare i nostri Esercizi spirituali, 
la cosa più adeguata alla nostra povertà, alla nostra incapacità è il domandare: domandare 
lo Spirito affinché sia Lui a ridestarci, a ridestare 
tutto il nostro desiderio, tutta la nostra attesa di Cristo.

Discendi Santo Spirito
Saluto ciascuno di voi qui presente, tutti gli amici che sono collegati con 
noi da ventuno Paesi e tutti coloro che parteciperanno agli Esercizi nelle 
prossime settimane.
Inizio dando lettura del telegramma del Santo Padre: «In occasione 
dell’annuale corso di Esercizi Spirituali della Fraternità di Comunione 
e Liberazione, che si terrà a Rimini sul tema “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”, 

nel contesto dell’Anno della fede, Sua Santità papa Francesco desidera 

rivolgere agli organizzatori e ai numerosi partecipanti il 
suo cordiale e beneaugurante saluto. Esprimendo compiacimento per 
la provvida iniziativa pastorale, il Santo Padre auspica che essa susciti 
rinnovata adesione al Divino Maestro e crescente consapevolezza che 
il Signore è vivo e cammina con noi e, mentre invoca abbondanti grazie 
celesti, domanda un ricordo nella preghiera ed invia di cuore, per 
intercessione della Vergine Maria, l’implorata benedizione apostolica, 
1
 Benedetto XVI, Meditazione nel corso della prima Congregazione 
Generale della XIII Assemblea 
Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 8 ottobre 2012.
4Venerdì sera
5
propiziatrice di sempre fecondo cammino ecclesiale. Cardinale Tarcisio 
Bertone, Segretario di Stato di Sua Santità».
«Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?»2
Mi sembra che questa frase esprima meglio di qualsiasi altra la vera 
questione davanti alla quale si trova ciascuno di noi, in questi tempi in 
modo particolare. E siccome l’abbiamo sentita tante volte, il rischio è 
che soprassediamo subito, considerandola un po’ esagerata, una frase 
di Gesù che, tutto sommato, non ci riguarda, come a dire: «Ma cosa 
c’entra propriamente con noi? Potrà valere per gli altri, miscredenti o 
agnostici. Ma per noi?». E in questo modo archiviamo la questione prima 
ancora di cominciare.
Ma due richiami ci indicano che non ci conviene compiere una mossa come 
questa. Il primo è stato il gesto compiuto da Benedetto XVI 
di indire l’Anno della fede: «Capita ormai non di rado che i cristiani 
si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali 
e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un 
presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non 
solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era 
possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, [...] oggi non 
sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una 
profonda crisi di fede che ha toccato molte persone».3
 Questa crisi sta 
provocando effetti sempre più palesi anche in terre feconde – diceva 
sempre Benedetto XVI ai vescovi italiani – che rischiano così di diventare 
«deserto inospitale».4
Per noi tutto questo dovrebbe essere familiare, perché il movimento è 
nato esattamente per rispondere a questa sfida lanciata alla fede, quando 
il deserto cominciava a mostrare i primi segni. Quanti di noi sono arrivati qui 
dal deserto e hanno scoperto di nuovo il valore del cristianesimo, 
proprio mentre erano nel nulla!
Tuttavia questo non può farci confondere, come se la questione fosse 
ormai alle nostre spalle. Ce lo testimonia questa lettera: «Il lavoro che 
ci stai proponendo in questi tempi mi provoca a farmi una domanda che 
mai avrei pensato di dovermi fare dopo quasi quaranta anni di movimento: 
ma io ci credo o no? Eh sì, se si trattasse di una teoria da ripetere o 
di principi da affermare non ce ne sarebbe bisogno, basterebbe imparare 
6
il discorso una volta per tutte e poi adattarlo alle diverse situazioni, e 
molte volte è così. Mentre per il mondo di oggi la fede non è più un presupposto 
ovvio, per me tante volte rischia di essere solo un presupposto 
ovvio, già saputo, dato per scontato. Per una fede così [ridotta a questo] 
la domanda è: ma ci credo o no? Questa domanda ha dentro tante volte 
una vena di scetticismo o di moralismo, che nel tempo diventano insopportabili. 
È come se, non bastando o non avendo coscienza di quello che 
mi è accaduto e continua a riaccadere, il credere fosse l’esito di qualcosa 
che devo aggiungere o applicare io. È una fatica che ti logora». 
O ancora, quest’altra lettera: «Caro don Carrón, durante il nostro 
gruppetto di Scuola di comunità alcuni di noi hanno raccontato la loro 
esperienza. Tutti gli interventi raccontavano di un certo atteggiamento di 
fronte alla vita: chi raccontava di come si sta prendendo cura dei propri 
genitori, chi di un atteggiamento diverso sul lavoro che lo faceva essere 
più contento, chi dava un giudizio su un certo tipo di esperienza. Tutte 
cose belle e interessanti, ma che potrebbero anche essere frutto di uno 
sforzo intellettuale o morale. Cosa c’entra dunque l’esperienza cristiana? 
Nessuno di noi mette in dubbio l’esistenza di Dio, ma dove sta la 
differenza? Chiunque si prenderebbe cura dei propri genitori, chiunque 
può riuscire bene nel proprio lavoro, tutti hanno il desiderio e provano 
a trattare bene il proprio fidanzato o marito o i propri figli. Mi sembra 
a volte che si salti subito al dopo, alle conseguenze. Ma del fascino del 
cristianesimo, di cui tante volte parliamo, che cosa rimane? Del fascino 
per Cristo che cosa resta? In questo periodo sono rimasta colpita dalle 
letture della Pasqua, che raccontano lo stupore degli apostoli di fronte 
a Gesù risorto e la frase che si ripete in continuazione: “Credettero in 
Lui”. E allora che differenza c’è tra l’essere delle brave persone e un 
cristianesimo in carne e ossa?».
Se la fede diventa solo un presupposto ovvio o è ridotta a delle conseguenze 
etiche, del fascino per Cristo cosa rimane?
Dovremmo tutti essere grati a chi, come questa amica, ci pone tale 
domanda, ci costringe a guardare questa domanda, non si accontenta 
delle conseguenze, ma ci sbatte in faccia questa domanda.
Il secondo richiamo arriva proprio da don Giussani, che non ha mai 
smesso di sollecitarci a non dare per scontata la fede. Il motivo è semplice: 
si può appartenere al movimento – dice – senza avere una fede 
reale: «Il vero problema di CL oggi è la verità della sua esperienza e, 
quindi, la sua coerenza con l’origine. Tra noi esiste un atteggiamento per 
cui l’urgenza principale è il come vanno le cose, come va la comunità, 
mentre l’urgenza deve diventare quella di ridare vita ad una sensibili
7
per la verità della esperienza del movimento. Bisogna che CL sia vita e 
non rimanga solo schema. [...] Si può appartenere al movimento, oggi, 
senza che questo implichi una fede reale, senza che la vita delle persone 
e delle comunità venga contestata, senza conversione».5
Papa Francesco affermava di recente che, a volte «per superficialità, 
a volte per indifferenza, [siamo] occupati da mille cose che si ritengono 
più importanti della fede».6
 Ma questo non accade senza conseguenze 
per la vita. E per facilitare ciascuno di noi a renderci conto di questo, 
don Giussani ci offre, come al solito, l’indizio più clamoroso di questa 
situazione: «[Il] sintomo [più impressionante] del prevalere dello schema 

sulla vita è lo smarrimento che coglie l’adulto quando viene posto 
di fronte ai problemi del vivere. Come tono generale, l’adulto evita la 
fatica di una incarnazione della fede nella vita e non si fa mettere in crisi 
[...] da essa; oppure nel rapporto con la moglie, nella educazione dei 
figli, nel problema politico o nel lavoro, opera a prescindere da ciò che 
conclama nella vita di comunità; al massimo si fa portatore di iniziative 
lanciate dalla comunità».7
Lo smarrimento di noi adulti di fronte ai problemi del vivere è quindi, 

secondo don Giussani, strettamente legato alla fatica dell’incarnazione 
della fede nella vita. Se la fede non è una risorsa per vivere le 
difficoltà che siamo costretti ad affrontare, a che cosa serve credere? 
Che cosa vuol dire avere la fede? Don Giussani ha un giudizio preciso 
sulla situazione in cui viviamo: «Il grande problema del mondo di oggi 
non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale. 
Non: “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”. Il mondo di oggi è 
riportato a livello della miseria evangelica; al tempo di Gesù il problema 
era come fare a vivere e non chi avesse ragione; questo era il problema 
degli scribi e dei farisei. Questa osservazione cambia anche l’assetto 
della nostra preoccupazione: dobbiamo passare da una posizione 

intellettualmente criticistica alla passione per ciò che caratterizza l’uomo 
oggi: il dubbio sull’esistenza, la paura dell’esistere, la fragilità del vivere, 

l’inconsistenza di se stessi, il terrore dell’impossibilità; l’orrore della 
sproporzione tra sé e l’ideale. Questo è il fondo della questione e da qui 
si riparte per una cultura nuova, per una criticità nuova».8

8
Queste parole hanno oggi un peso ancora più grande di quando 
furono pronunciate nel lontano 1991. Questo giudizio di don Giussani 
identifica, infatti, molto bene a quale livello si colloca la fatica del vivere, 
quella fatica che Pavese descrive con la sua solita genialità: «La vita 
dell’uomo si svolge laggiù tra le case, nei campi. Davanti al fuoco e 
in un letto. E ogni giorno che spunta ti mette davanti la stessa fatica e 
le stesse mancanze. È un fastidio alla fine [...]. C’è una burrasca che 
rinnova le campagne – né la morte né i grossi dolori scoraggiano. Ma 
la fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del 
male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate – 
quest’è il vivere che taglia le gambe».9
 È difficile descrivere il dramma 
del vivere quotidiano in un modo più acuto e più pertinente di questo. 
Ogni giorno la stessa fatica e la stessa mancanza. Una fatica interminabile, 
fastidiosa, come le mosche d’estate. Questo quotidiano è il «vivere 
che taglia le gambe». I grossi dolori o la morte non ci scoraggiano, alla 
fine, ma questo quotidiano che taglia le gambe è ciò che rende la vita 
veramente drammatica.
È allora davanti al vivere che taglia le gambe (non nei nostri pensieri, 
nelle nostre intenzioni, nei nostri sentimenti, nelle nostre discussioni), 
che noi dobbiamo compiere la verifica della fede: è davanti alle sfide 
del reale! Don Giussani non molla mai la presa; mettendoci di fronte 
alla questione in termini esistenziali, ci impedisce di barare su di noi e 
sulla fede. Egli ci sfida dicendo che proprio davanti alle prove del vivere 
si vede l’autenticità o meno della nostra fede: «È questo [...] il sintomo 
della verità, della autenticità o meno della nostra fede: se in primo piano 
è veramente la fede o in primo piano è un altro tipo di preoccupazione, 
se ci aspettiamo veramente tutto dal fatto di Cristo, oppure se dal fatto 
di Cristo ci aspettiamo quello che decidiamo di aspettarci, ultimamente 
rendendolo spunto e sostegno a nostri progetti o a nostri programmi [che 
divengono, quindi, ciò da cui ci aspettiamo veramente tutto!]. La legge 
dello sviluppo spirituale, questa legge dinamica della vita della nostra 
fede [...] è realmente d’estrema importanza per gli individui, come per 
le collettività; per le collettività, come per gli individui. Resta sempre 
vero che, per chi capisce Dio e vuole Dio, tutto coopera al bene; e resta 
sempre vero che, nella difficoltà, viene a galla il fatto se tu voglia Dio 
o no. [...] Ciò che l’uomo ama viene a galla di fronte all’interrogativo, 
al problema, alla domanda, alla difficoltà. [...] Se quello che cerchiamo 
è Cristo oppure è il nostro amor proprio, è l’affermazione di noi, sotto 
9
qualunque flessione, secondo qualunque versante, lo si vede, viene a 
galla, nel momento esatto della prova e della difficoltà».10
Quest’anno non sono mancate le difficoltà, anzi. Tutti le abbiamo 
ben presenti, da quelle generali per una crisi che incombe sempre di più 
e riguarda sempre di più ciascuno di noi, i nostri amici, i nostri concittadini,
 alle difficoltà che ci hanno riguardato come movimento. 
Che cosa è venuto a galla affrontando tutte queste difficoltà? Alla 
Giornata d’inizio anno ci siamo dati una ipotesi di lavoro per fare i conti 
con esse: «Nella vita di chi Egli chiama, Dio non permette che accada 
qualche cosa, se non per la maturità, se non per una maturazione di coloro 
che Egli ha chiamati».11 Il test, cioè, che Giussani propone per verificare 
se stiamo diventando più maturi nella fede è proprio la capacità che 
ognuno di noi ha di rendere ciò che appare come obiezione, persecuzione 
o comunque come difficoltà, strumento o momento di maturazione. 
È questo che dimostra la verità della nostra fede.
Che cosa abbiamo fatto di questa ipotesi di lavoro? L’abbiamo utilizzata? 
Abbiamo provato a verificarla? Che cosa è successo, qualsiasi 
sia stata la risposta che ciascuno di noi ha dato alla proposta fatta? Se 
l’abbiamo usata, che cosa è successo? Se non l’abbiamo usata, che cosa 
è successo? Che esperienza abbiamo fatto? Che cosa abbiamo imparato?
Negli ultimi tempi abbiamo ripetuto spesso che «una fede che non 
potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da 
essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe [...] una fede in 
grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, [...] dice l’opposto».12
Allora, dopo questo anno, siamo più entusiasti della nostra fede e del 
cammino fatto, oppure siamo più scoraggiati, più abbattuti, più schiacciati? 
Dopo tutte le sfide che abbiamo dovuto affrontare, siamo più certi 
o più incerti? Più consistenti o più distrutti? Le circostanze ci hanno 
costretto a un lavoro. Possiamo dire, con più coscienza che mai, dopo le 
sfide affrontate: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?». Non è che san 
Paolo non abbia dovuto affrontare difficoltà enormi, ma queste lo hanno 
portato a una certezza: «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? 
Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il 
pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: “Per causa tua siamo messi 
a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello”. Ma in 
tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha 
amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, 
né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, 
né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo 
Gesù, nostro Signore».13 Questa, per noi, è una bella frase con cui siamo 
d’accordo, oppure è una certezza frutto dell’esperienza vissuta? Tutti, 
infatti, sappiamo benissimo la differenza che c’è tra ripetere delle frasi 
o esprimere l’esperienza fatta, piena di carne, documentata dalla vita.
Alcuni possono rispondere così: «Caro don Carrón, ho letto la sintesi 
dell’Assemblea responsabili avvenuta a Pacengo. Alla domanda: “Ma 
io da tutto questo periodo, in cui siamo stati sfidati senza tregua, sono 
venuto fuori con più certezza su Cristo?”, rispondo di sì. Mi sembra di 
essere presuntuosa e invece no, perché è Cristo che mi fa». 
Ascoltate anche quest’altra lettera: «Sento il desiderio di scriverti 
tutta la mia gratitudine e la mia riconoscenza per le ultime parole che tu 
hai detto e scritto. Mi riferisco alla sintesi che hai fatto alla Tre giorni 
dei responsabili del movimento e alle lettere che tu hai mandato alla 
stampa in occasione di circostanze che hanno toccato la nostra vita. Nel 
contempo ho la necessità di comunicarti come, vivendo il mio quotidiano, 
la sequela sta diventando un fattore fondamentale per la mia crescita 
personale nella fede, che genera sicurezza nell’affrontare le difficoltà 
del quotidiano. Quel che sta avvenendo in me è qualcosa di 
sorprendentemente nuovo e, nel contempo, di antico, cioè la rinascita 
della novità che l’esperienza cristiana porta dentro la mia mentalità. 
È un cammino molto lento, ma inesorabile, al quale non desidero
 porre resistenza». 
O ancora: «Carissimo Julián, non riesco a trattenere quel che voglio 
dirti. Da diversi giorni sono emozionata, persino la notte mi agito! A 
quarantotto anni mi sorprende di vivere questa emozione pensando che 
tra qualche giorno verrò agli Esercizi. Anche mio marito si è accorto di 
questo, e ieri sera mi ha detto: “La cosa più bella di questi Esercizi, per 
me, è questa tua emozione, questa tua attesa. Chi può essere emozionata 
come te!”. [Non è che non le sia capitato nulla...] In questi anni, dopo la 
morte di mio padre, il desiderio di non perderlo è stato l’unico motore 
della mia vita. Mi ha fatto tornare una domanda essenziale: o accasciarmi
 negli angoli delle circostanze, oppure ricominciare dall’unica cosa 
vera accaduta nella mia vita. La tua amicizia, nella vicinanza dei collegamenti
della Scuola di comunità, ha riacceso questa sfida! Nel tempo è 
come se si fosse squarciato un velo, e tutto intorno a me ha incominciato 
13 Rm 8,35-39.Venerdì sera
11
a essere più chiaro. Mentre io ho iniziato a vedere più chiaramente, tutta 
la realtà peggiorava, crollava, si demoliva ogni sicurezza (il lavoro di 
mio marito, la situazione economica sempre peggiore, con quattro figli 
che studiano, di cui la prima all’università), con tanti rischi connessi. La 
cosa per me assurda è che io sono più contenta di prima, ma di una gioia 
quasi inesprimibile. Ora mi accorgo che ciò che sorprende me inizia a 
sorprendere anche gli altri, che mi dicono: “Tu sei diversa!”, oppure: 
“Sei così appassionata alle cose che mi piacerebbe confrontarmi con 
te!”. Ma la cosa che mi ha stupita di più è che in questo periodo, dopo 
le dimissioni di papa Benedetto e l’arrivo di papa Francesco, mi ritrovo 
a parlare con la gente di Cristo in maniera esplicita e semplice, come 
se fosse il segno più evidente di quello che è successo, e una persona 
mi ha detto: “Sai, ora che tu me lo dici, mi accorgo anch’io di questo!”. 
Le persone rimangono lì ad ascoltarmi, sorprese da una descrizione dei 
fatti più corrispondente. E poi qualcuno ha espresso la paura di perdere 
papa Francesco, come di una cosa bella che potesse finire! E io ho risposto, 
prima ancora a me stessa, con una frase del Miguel Mañara che ho 
riascoltato poco fa dalla voce del Gius (in cd) e che mi aveva colpito: 
“Perché temi di perdere ciò che ha saputo trovarti?”. Tutto quello che è 
accaduto non è stato ideato da noi! Questo ha sorpreso me, ma anche gli 
altri! P.S. Grazie per la testimonianza che rappresenti per la mia vita». 
Che cosa resiste quando siamo spogliati di ogni sicurezza? Chi siamo? 
A chi apparteniamo? Che cosa permane dopo che tanti dei nostri 
progetti sono falliti? Che cosa resta quando le nostre pretese sono azzerate? 
Resta ciò che ci è capitato, perché nessuno ce lo può strappare di 
dosso, neanche noi stessi con le nostre delusioni, arrabbiature o ribellioni. 
Resta un fatto che ci è accaduto.
Ma non basta che rimanga. Ciascuno deve decidere, meglio: decide e 
ha già deciso. L’alternativa è chiara: riconoscere il Fatto, che comunque 
rimane, perché niente riesce a strapparlo via da noi, oppure non riconoscere 
il Fatto, lasciando prevalere le nostre misure, i risentimenti e gli 
scetticismi. Ciascuno, nella risposta che darà, potrà scoprire, osservando se 
stesso, che cosa ha di più caro, a cosa veramente aderisce, cosa 
prevale nella sua vita. Nella modalità con cui rispondiamo grideremo a 
tutti (a cominciare da noi stessi) che cosa abbiamo di più caro. Non è un 
problema moralistico: è una questione di giudizio, di valore e di stima.
È a questo punto che possiamo capire la portata della domanda iniziale:
 «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».14
14 Lc 18,8.Esercizi della Fraternità
12
Forse siamo più aiutati a non darla per scontata se la formuliamo in un 
altro modo: ma noi crediamo ancora che Cristo possa riempire la vita? 
Ci aspettiamo – come ci sfida don Giussani – veramente tutto dal fatto 
di Cristo, o in fondo non siamo più così «ingenui» (ci diciamo) come 
all’inizio, e Cristo è ormai solo una tra le tante cose, uno spunto per i 
nostri progetti? Crediamo che Cristo sia la risposta adeguata per noi ora, 
nelle circostanze che viviamo, all’età che abbiamo? È, quella in Cristo, 
una fede che riguarda la vita o solo un elenco di affermazioni astratte 
o di iniziative da fare? Perché è vero quel che dice don Giussani: «Si 
può appartenere al movimento, oggi, senza che questo implichi una fede 
reale, senza che la vita delle persone e delle comunità venga contestata, 
senza conversione».15
Questa frase dell’Apocalisse – che sento rivolta innanzitutto a me, e 
che per questo propongo anche a voi, amici – mi sembra ci riguardi tutti: 
«Sei costante [tant’è vero che sei qui] e hai molto sopportato per il mio 
nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il 
tuo amore di prima».16
Il nostro primo amore dov’è?
Un gesto di queste dimensioni non lo possiamo “tenere in piedi” 
senza il contributo e il sacrificio di ciascuno di noi, nell’attenzione agli 
avvisi, al silenzio e alle indicazioni che ci sono date. Ognuna di queste 
cose è una modalità attraverso cui possiamo domandare a Cristo che 
abbia pietà del nostro niente, che ci doni quella conversione che ci rende 
veramente noi stessi. Tutti sappiamo quanto bisogno abbiamo di questo 
silenzio, che consente di lasciare penetrare fino al midollo ogni cosa che 
ci viene detta, e di fare diventare questo silenzio grido, domanda a Cristo 
che abbia pietà di noi.
15 «Il vero problema di CL è la verità della sua esperienza», op. cit., p. 8.


SANTA MESSA
Liturgia della Santa Messa: At 9,1-20; Sal 116 (117); Gv 6,52-59
OmELiA Di DOn STEFAnO ALBERTO
«Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne 
del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la 
vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io 
lo risusciterò nell’ultimo giorno”.»17 Tra pochi istanti questa promessa, 
questo giudizio di Cristo diventerà realtà fisica. La Sua presenza di risorto
 attraversa i ventun secoli che ci separano da queste parole e lo spazio: 
Cafarnao, Damasco, Rimini. Nessuna genialità umana, pur grande, può 
immaginare una familiarità, una tenerezza, una passione così per la vita 
del singolo uomo: «La Mia carne è il tuo cibo, il Mio sangue è la tua 
bevanda per la vita», per la vita-vita, perché tu viva di Me, con Me, per 
Me. Quando Gesù ha pronunciato queste parole se ne sono andati via 
tutti, tranne quei dodici.
È il momento che don Giussani descrive come l’inizio della fede, 
quando, con il suo temperamento generoso e impetuoso, Pietro gli dice: 
«Non capiamo come ciò possa accadere, ma via da Te dove andiamo?». 
Cristo ha afferrato quella gente semplice, è entrato nella radice del loro 
essere non con violenza, ma con tenerezza, prendendo continuamente 
l’iniziativa con loro, finché il loro cuore non è stato pieno di Lui, tutto 
di Lui. Ha afferrato Pietro, il rude pescatore; ha afferrato Paolo, il raffinato 
intellettuale, il fariseo, il persecutore, trasformandolo nel grande 
innamorato di Lui. Se ha afferrato Pietro, se ha afferrato Paolo e poi 
una lunghissima catena fino a don Giussani, perché non può afferrare, 
riacciuffare anche me e te adesso, in questo gesto che è pieno della 
tenerezza, della passione per la vita di ciascuno di noi? Perché resistere? Che 
cos’hai da opporre? C’è qualcosa di più semplice che lasciare entrare la 
Sua vita nella mia, che ci rende uno in Lui?
17 Gv 6,53-54.
Sabato 20 aprile, mattina
All’ingresso e all’uscita:
Franz Schubert, Trio con pianoforte n. 2 in mi bemolle maggiore, op. 100 D 929
Eugene Istomin, pianoforte – Isaac Stern, violino – Leonard Rose, violoncello
“Spirto Gentil” n. 14, Sony Classical
Angelus
Lodi
n PRimA mEDiTAZiOnE
Julián Carrón
«L’angelo del Signore portò l’annuncio a Maria»
L’Anno della fede ha come scopo di farci riscoprire la bellezza e la 
gioia della fede, che inizia con l’irruzione del Mistero nella storia, come 
ricordiamo ogni mattina: «L’angelo del Signore portò l’annuncio a Maria». 
Questo è l’inizio. Affrontiamo, dunque, in questa prima lezione 
l’avvenimento cristiano, questa irruzione del Mistero, per cogliere la sua 
vera natura, lasciando alla lezione di questo pomeriggio il tema della 
risposta dell’uomo a questa irruzione.
1. Il cristianesimo è un avvenimento: «Era pieno di quello sguardo»
«Il cristianesimo è un avvenimento»:18 è un’espressione a noi molto 
familiare. Ma tutti sappiamo bene che non basta possedere la definizione 
giusta per vivere il cristianesimo secondo la sua natura. Che cosa vuol 
dire che il cristianesimo è un avvenimento? Qual è il contenuto di esperienza di esso? 
Il cristianesimo si rivela nella sua natura come risposta a 
un bisogno presente. E quindi ci interesserà oggi se risponde al bisogno 
che caratterizza l’uomo che siamo, se risponde a quella «fatica interminabile»
 del «vivere che taglia le gambe».19
«Carissimo don Julián, sto passando da un periodo “eroico” di una 
guerra fondamentale (il terremoto della malattia) a una battaglia di tutti i 
18 L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 1999, p. 136.
19 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, op. cit., p. 166.
14giorni, a una comprensione che tutto si deve giocare e si gioca momento 
per momento. Tutti i giorni (quando la nausea, la debolezza fisica, gli 
sbalzi di umore che i medicinali antidolorifici provocano, le parole che 
mi vengono a mancare quando parlo) mi fanno capire che ho bisogno di 
una presenza presente ora, momento per momento, che vinca qualsiasi 
riduzione che l’abitudine mette in campo.» Come questo nostro amico, 
tutti noi abbiamo bisogno di un avvenimento ora, perché la salvezza 
del nostro io e della storia è un avvenimento, non un pensiero. E chi lo 
capisce di più? I malati, gli uomini feriti, i peccatori, i bisognosi, cioè le 
persone coscienti della propria condizione umana, coloro che non 
calpestano la propria umanità con le sue esigenze di pienezza, di 
compimento.
I vangeli lo documentano continuamente; colpisce come fossero i 
bisognosi coloro che cercavano Gesù. Il prototipo sono i pubblicani. 
Stupisce – ma noi quasi non ce ne rendiamo conto, passa quasi inosservato 
nella sua semplicità – leggere nel vangelo: «Si avvicinavano a lui tutti 
i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano 
[dando così ragione del motivo per cui gli altri si avvicinavano a 
Gesù]: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”».20 Questa frase è 
una generalizzazione di quel che doveva essere accaduto tante altre volte. 
«Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, 
chiamato Matteo, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre 
Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori 
e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei 
[di nuovo pieni di ira e sorpresa] dicevano ai suoi discepoli: “Perché il 
vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”. Gesù li udì 
e disse: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”.»21
Come mai proprio coloro che sembrerebbero i più lontani, i meno 
interessati a stare con Lui, sono quelli che più Lo cercano? Che cosa 
vedevano in Lui che non trovavano altrove? Solo con Lui riuscivano a 
guardare se stessi. Questo è un esempio solare che l’altro è un bene. La 
presenza di Gesù era percepita come un bene prezioso, stare con Lui 
faceva loro bene; e per Gesù quelle persone erano un bene, tanto da 
trattenersi con loro a mangiare. Che grande consolazione per ciascuno 
di noi – se si immedesima con la semplicità di questi racconti – l’essere 
raggiunto da una Presenza così (qualsiasi sia la situazione in cui si 
trova, la difficoltà che sta attraversando, le sfide che deve affrontare)! 
Chi può sentirsi escluso? «Che impressione deve essere stata sentirsi 

15
guardare così da un altro, assolutamente estraneo, e sentirsi colti così 
nel profondo di sé.»
Poter stare davanti a Lui senza dover dimenticare o nascondere niente di sé. 
Non perché Gesù fingesse di non conoscere tutti i loro sbagli o 
perché li giustificasse. Questo non avrebbe dato loro la pace. Di gente 
che giustificava i loro sbagli ne avevano già abbastanza tra coloro con 
cui stavano di solito. Perché allora Lo cercavano? Lo cercavano appunto 
perché con Lui non erano costretti a nascondere niente, tanto ogni cosa 
era palese al Suo sguardo. Altri invece Lo consideravano un ingenuo, 
incapace di rendersi conto di come stavano veramente le cose. «Uno dei 
farisei [chiamato Simone] lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella 
casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di 
quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un 
vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai 
piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi 
capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. A quella vista il fariseo 
che l’aveva invitato pensò tra sé. “Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e 
che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice”.»23
Immediatamente, per far capire a quel fariseo che non era così ingenuo e 
che conosceva bene quella donna, Gesù racconta la parabola dei due debitori: 
«“Un creditore aveva due debitori: l’uno gli doveva cinquecento 
denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi da restituire, condonò il debito 
a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?”. Simone rispose: 
“Suppongo quello a cui ha condonato di più”. Gli disse Gesù: “Hai giudicato 
bene”. E volgendosi verso la donna, disse a Simone: “Vedi questa donna? 
Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; 
lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi 
capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato 
non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio 
profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: 
le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece 
quello a cui si perdona poco, ama poco”».24
Coloro che si avvicinavano a Lui, come la donna di Samaria, sapevano bene
 che a quel Profeta niente era nascosto: «Mi ha detto tutto quello 
che ho fatto».25 Perfino la sua sete di felicità era a Lui palese. Quindi 
nessuno sbaglio, nessuna malattia, nessun dolore, nessuna situazione, 
nessun dramma, nessuna circostanza poteva impedire l’accadere di 
qualcosa di assolutamente imprevedibile, come testimonia il racconto, a 
noi così familiare, di Zaccheo, il capo dei gabellieri di Gerico. 
Facciamo attenzione a come don Giussani ci invita a guardare, per poter 
capire. Che cosa ci perdiamo per non avere mai tempo di guardare come 
ci insegna don Giussani! Che guadagno sarebbe per il nostro vivere, per il 
nostro guardare a noi stessi, se ci comportassimo come don Giussani, 
cercando di immedesimarci con Cristo affinché anche la nostra vita sia piena 
di quello sguardo, dello sguardo che Cristo rivolge a Zaccheo!
Ecco, dunque, come don Giussani racconta l’episodio di Zaccheo: 
«Era il capo dell’esattoria, il capomafia di Gerico e della zona circostante, 
il capo dei gabellieri, di quelli che erano considerati nemici del 
popolo e peccatori pubblici da cui bisognava stare lontano dieci metri 
per non contaminarsi con l’aria, venduto ai Romani. Sentì dire che c’era 
Gesù in paese, perché tutti ne parlavano in quelle zone. Passò davanti 
alla folla e si arrampicò su un sicomoro, una pianta non tanto alta, per 
poterlo vedere passare, per curiosità, per vederlo meglio negli occhi 
perché lui era troppo piccolo. La folla si avvicina, Gesù sta parlando, passa, 
è lì sotto, si ferma, alza la testa e dice: “Zaccheo, vieni giù, ché vengo 
a casa tua”. E Zaccheo: “Vengo”. Immaginiamo quell’uomo che senza 
parlare scivola giù dalla pianta e corre a casa. Pensate a quel silenzio 
pieno, con l’orecchio e il cuore pieni della parola udita, del suo nome: 
finalmente era stato pronunciato il suo nome! Possiamo ben immaginare 
come quella chiamata si echeggiasse poi in tutto quel che faceva, anche 
quando era in silenzio, anche quando lavorava in silenzio. Per Zaccheo 
quell’incontro fu un miracolo, qualcosa cioè che trasformò radicalmente 
la sua vita. Zaccheo non ha avuto alcuna paura di perdere niente; quando 
si è sentito dire: “Zaccheo vengo a casa tua”, ha perso tutto ciò che 
aveva davanti agli occhi, è stato riempito da quel nome».
L’invito di don Giussani è chiaro: «Noi dobbiamo immedesimarci 
con le persone di cui il vangelo parla. Ma non le comprendiamo e non 
riusciamo ad immedesimarci con quel che erano, se non ci immedesimiamo 
con Cristo che dice: “Zaccheo”. Quando scoppia la parola “Zaccheo”, allora 
comprendiamo Zaccheo. Quando Cristo dice: “Zaccheo, 
scendi ché vengo a casa tua”, che cosa era Zaccheo lo comprendiamo in 
quel momento lì. Pensa che cosa ha sentito Zaccheo, come ha misurato 
di botto tutti gli errori fatti senza neanche misurarli, come ha sentito 
cos’era lui e chi era quello che lo chiamava. Cos’era Zaccheo, è proprio 
Sabato mattina
17immedesimandoci con Cristo che lo vediamo».26 Altrove don Giussani 
osserva: «È questa vicinanza, è questa presenza − presenza non di 
uno che guarda dall’altra parte, ma presenza di uno che guarda te −, è 
questa vicinanza che sconvolge, per cui la vita è trasfigurata; insomma 
Zaccheo non ha detto mentre andava a casa: “Adesso questo qui mi dirà 
che ho rubato cento di qui, trentaquattro di là, adesso...”. Era pieno di 
quello sguardo, è andato a casa per preparare il pranzo per quell’uomo, 
per quello lì che l’aveva guardato; e dopo, come conseguenza, pensa: 
“Ecco, io do via tutto quello che ho preso”. Ma è una conseguenza che 
è durata tutta la vita, perché non è automatico; ognuno di noi conosce 
l’impeto con cui si dà, e sa anche che poi si ritira, perciò è la lotta della 
vita. Ma quello che rende ormai trasfigurabile la vita è diventato un 
fatto. Matteo era trasfigurato, la donna, quel gruppetto di donne, erano 
trasfigurate. Provate a pensare a quello che avranno detto i mariti e i figli 
di quelle donne: “Ma siete matte?”. Erano un’altra cosa, Zaccheo era 
un’altra cosa, la loro vita era trasfigurata; loro capivano di voler più bene 
ai loro mariti e ai loro figli, e Zaccheo capiva di essere più ricco di prima, 
trasfigurato, perché era vicino a quello lì. È il contrario dell’episodio 
del giovane ricco, uno a cui Cristo dice: “Vieni con me”, cioè: “Voglio 
stare vicino a te”. E il vangelo dice: “E quello se ne andò triste”, il giovane 
ricco, triste. O trasfigurati o tristi, perché non si può rimanere fermi 
dove si era prima dopo che Cristo ha chiamato, quando Cristo ha dato 
una vocazione, quando Cristo è venuto vicino alla nostra vita, quando 
ha chiesto alla nostra vita di essere la Sua testimonianza nel mondo; 
non si può essere come prima: o si diventa più tristi, ci si intristisce di 
più, anche se sembra di prendere respiro, perché si ritorna a fare i propri 
comodi, ci si immeschinisce in un modo umanamente anche penoso, 
oppure ci si trasfigura».27
Che il cristianesimo sia un avvenimento, nell’esperienza, significa 
la prevalenza di una presenza: non una presenza qualsiasi, ma quella 
Presenza in grado di rispondere al bisogno del vivere. «Per farsi 
riconoscere, Dio è entrato nella vita dell’uomo come uomo, secondo una forma 
umana, così che il pensiero, l’immaginatività e l’affettività dell’uomo 
sono stati come “bloccati”, calamitati da Lui.»28 Perché sono stati calamitati 
da Lui, dalla Sua presenza? Perché era l’unica in grado di rispon-
18
dere al bisogno del vivere, all’esigenza di compimento. Il cristianesimo 
come avvenimento è la preponderanza della Presenza, senza la quale la 
vita sarebbe cupa, triste, priva di un vero interesse. Non si può vivere 
senza di essa. Questo è il motivo vero per cui la si cerca in continuazione. 
Non prima di tutto per essere “buoni”, ma per vivere, per poter stare 
davanti a se stessi, per poter avere affezione a sé.
«La tua grazia vale più della vita.»29 Cosa è questa «grazia» che vale 
più della vita? Per noi la grazia ha un nome: Gesù. La Sua persona è 
tutta la grazia.
Perché questa Presenza riesce a prevalere così potentemente anche 
davanti a tutti i problemi del vivere in cui tante volte ci incastriamo? 
Come mai s’impone con questa potenza semplice, senza che possiamo 
fare niente per evitarlo? Come mai neanche il nostro male, la nostra 
incoerenza (e quella dei pubblicani era tanta!), riesce a impedirle di
 imporsi nella vita? Per la corrispondenza che trova – realizza – nel cuore 
dell’uomo. Che può essere distratto, ridotto quanto si vuole, ma niente 
può impedire, almeno per un attimo, che quella presenza s’imponga. Il 
primo istante è incontrollabile dall’uomo. Nessuno può impedire di essere 
colpito da una presenza, qualunque sia la situazione in cui si trova. 
Nessuno può controllare la realtà fino al punto di impedire la sorpresa di 
un avvenimento. È talmente imprevisto che ci sorprende senza difese, 
almeno per un istante.
Ma, allora, che cosa c’entra il bisogno? Perché Gesù dice di essere 
venuto per i malati? Perché solo coloro che hanno la ferita sono, di solito, 
ultimamente aperti a un imprevisto. Senza bisogno, senza ferita, uno 
chiude subito qualsiasi possibilità a questo imprevisto, cerca di sistemare
 le cose. Il bisogno è condizione necessaria, non del porsi dell’avvenimento,
 ma del suo riconoscimento. Un avvenimento irrompe, accade, 
irriducibilmente, qui e ora, non è conseguenza di antecedenti. Il bisogno 
permette di vedere l’avvenimento, di accorgersi di esso. Come ha detto 
papa Francesco incontrando i cardinali: «La verità cristiana è attraente 
e persuasiva perché risponde al bisogno profondo dell’esistenza umana, 
annunciando in maniera convincente che Cristo è l’unico Salvatore di 
tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Questo annuncio resta valido oggi 
come lo fu all’inizio del cristianesimo, quando si operò la prima grande 
espansione missionaria del Vangelo».30
Chi si lascia colpire da quella Presenza non può evitare di percepir-
29 Sal 63 (62),4.
30 Francesco, Udienza con i Cardinali, 15 marzo 2013.
Sabato mattina
19La come un bene da non perdere. È così corrispondente all’attesa che 
nessun’altra cosa è in grado di portare una soddisfazione tanto sconvolgente.
 Perciò con Lui l’uomo, anche il più miserabile, fa un’esperienza 
di soddisfazione così grande da essere reso libero. Questa corrispondenza
 grida, più di qualunque formula in cui vogliamo incasellarne l’esperienza, 
il valore di tale Presenza: la Sua eccezionalità, la Sua divinità.
Se prevale in noi la presenza di quello sguardo, se esso investe la 
vita, lo si vede dal modo con cui entriamo in rapporto con tutto. «Il suo 
rapporto con Dio – don Giussani sta parlando del paralitico guarito da 
Gesù –, il modo con cui quella sera ha pregato, il modo con cui si è 
recato poi nel tempio tutti i giorni, il sentimento della vita che aveva 
quando vedeva il sole tramontare o il sole nascere, e quando poi andava 
a lavorare tutte le mattine con l’animo pieno di gratitudine e con l’anima 
colma di timore misterioso, di timore e tremore verso questo mistero di 
Dio che era arrivato fino a lui in quell’uomo che lo aveva guarito; insomma,
 il sentimento verso Gesù, il modo con cui diceva che Gesù era il 
Messia – e l’ha detto anche ad altri, perché poi si è accodato, è diventato 
un suo discepolo –, il modo con cui andava insieme ad altri nei villaggi 
ad annunciare che il Regno di Dio era già tra loro (perché c’era Gesù), il 
modo con cui faceva, il modo con cui pensava al suo passato (a tutto il 
marasma a cui si era lasciato andare: le bassezze, gli scoraggiamenti, le 
bestemmie), il modo con cui aveva trattato i familiari, il modo con cui li 
trattava adesso, erano tutte azioni che partivano da una coscienza di sé, 
da un senso della sua persona, la cui fisionomia era plasmata, nata dal 
ricordo di come Gesù l’aveva afferrato, da come Gesù l’aveva investito, 
da come Gesù l’aveva trattato, da come lui aveva conosciuto Gesù.»31
È una presenza così irriducibile da generare una novità talmente grande 
che permette di guardare tutto sotto una luce diversa, meno confusa, 
più vera. Questa esperienza di novità nel rapporto con tutto introduce alla 
vera conoscenza di Cristo. Consente di cogliere il Suo valore per la vita. 
Permette di conoscere Gesù, non come una definizione astratta, ma come 
esperienza. È lì che l’uomo può capire il valore di quella presenza. Chi 
Lo scopre si riconosce dal giudizio di stima che si genera in lui.
Nessun altro l’ha saputo esprimere come san Paolo: «Se alcuno ritiene 
di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, 
della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo 
quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile 
quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello 
31 L. Giussani, Dal temperamento un metodo, Bur, Milano 2002, p. 5.
Esercizi della Fraternità
20che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a 
motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla 
sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho 
lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine 
di guadagnare Cristo».32
Gesù era ben consapevole di che cosa stava portando nel mondo: «Il 
regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo 
trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi 
averi e compra quel campo».33 Qual è il valore di quella Presenza, così 
grande che si fa un grosso affare preferendoLa a qualsiasi altra cosa?
È quanto hanno testimoniato i discepoli. L’attrattiva di quella Presenza 
era così grande che hanno lasciato tutto per seguirla. Come mai? La 
Sua presenza investiva talmente la loro vita – rispondeva talmente alla 
loro fame e alla loro sete di significato e di affezione – che Lui bastava. 
La soddisfazione che procurava era così imponente che la sequela 
costituiva l’unica possibilità di non perderla. La moralità aveva la stessa 
origine dello stupore: la Sua presenza. La moralità sorge, infatti, dalla 
Presenza, non da uno sforzo volontaristico. Il moralismo ha un’origine 
diversa dalla sequela (che è sempre stupore per una presenza).
È quella stessa Presenza che hanno incontrato i pubblicani. Si capisce 
perché andavano a cercarLo in continuazione, perché Lo seguivano: 
non per moralismo, ma per quella simpatia profonda che la Sua persona 
destava in loro. Erano attratti da Lui. Volevano stare con Lui. Così come 
il fariseo Paolo o il pescatore Pietro. «Questo incontro è ciò che 
continuamente polarizza il nostro vivere, dà significato e sintesi alla nostra 
esistenza. Fuori di esso non c’è nessuna sorgente di coscienza di novità 
nella vita. In esso l’avvenimento del Mistero presente tocca la nostra 
vita e la rende parte di un flusso continuo di novità.»34
Si capisce che chi Lo incontra, come scrive Dostoevskij, non riesca a 
prescindere più da Lui: «Non so come succeda agli altri, ma io non posso 
fare come tutti. Ognuno pensa, e subito pensa un’altra cosa. Io non 
posso pensare altro. Io penso tutta la vita a quello che mi è accaduto».35
Parole dello stesso tenore sono quelle, a noi familiari, di Möhler: «Io 
penso che non potrei più vivere, se non Lo sentissi più parlare».36
21
La modalità con cui don Giussani ci ha insegnato a guardare Giovanni 
e Andrea resterà sempre per noi il criterio per verificare se il 
cristianesimo ci sta accadendo ora, se è il prevalere di una presenza 
o se è già ridotto a categoria, a definizione astratta. Altrimenti diciamo che 
il cristianesimo è un avvenimento, ma come si espone una definizione, 
non come qualcosa che sta succedendo ora.
«Il cristianesimo è “avvenimento”: qualcosa che prima non c’era e 
ad un certo punto è sorto. Non che Andrea e Giovanni abbiano detto: 
“È un avvenimento ciò che ci è accaduto”. Non era evidentemente 
necessario che esplicitassero già in una definizione quello che stava loro 
accadendo: stava appunto accadendo! Il cristianesimo è un avvenimento. 
Non esiste altra parola per indicarne la natura: non la parola legge, 
né le parole ideologia, concezione o progetto. Il cristianesimo non è una 
dottrina religiosa, un seguito di leggi morali, un complesso di riti. Il 
cristianesimo è un fatto, un avvenimento: tutto il resto è conseguenza».37
I discepoli potevano riconoscerLo nel guardarLo parlare, nel sentirsi 
guardati, nel sentirsi colti così nel profondo di se stessi. Essi hanno percepito
 che la Sua presenza era riuscita a prevalere su tutto per il fatto che 
erano stati subito conquistati, presi, per il fatto che avevano riconosciuto 
quell’uomo nel Suo valore unico, imparagonabile, divino, e che era stato 
facile rendersene conto. Quando prevale in noi l’attenzione alle conseguenze, 
vuol dire allora che ci siamo già spostati dal fatto!
«Dio è diventato un avvenimento nella nostra esistenza quotidiana, 
affinché il nostro io si riconosca con chiarezza nei suoi fattori originali 
e raggiunga il suo destino, si salvi. Fu così per Maria e per Giuseppe. 
Fu così per Giovanni e Andrea, che andarono dietro a Gesù per il cenno 
di Giovanni Battista. Dio entrava come avvenimento nella loro vita. 
Che l’abbiano sempre tenuto presente o l’abbiano a tratti dimenticato, 
specialmente nei primi giorni o nei primi mesi, tutta la loro vita dipese 
da quell’avvenimento: nella misura della sua importanza, da un 
avvenimento non si può più tornare indietro. Fu così per loro. È così oggi 
per noi: un avvenimento può segnare un inizio e un cammino. 
L’avvenimento può segnalare un metodo di vita. Si tratta comunque di 
un’esperienza da fare. Tale cammino richiede l’impegno dell’uomo, colpito 
dall’avvenimento, fino a sorprendere il significato vero di quanto egli ha 
incominciato a intravedere: è un cammino dello sguardo.»38
Dice Nicola Cabasilas: «Conoscere per esperienza [...] vuol dire rag-
37 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op.cit., p. 12.
38 Ibidem, p. 15.
Esercizi della Fraternità
22giungere la cosa stessa: qui perciò la forma si imprime nell’anima e 
suscita il desiderio come un vestigio proporzionato alla sua bellezza».39
La bellezza di quella Presenza, impressa nell’anima, suscita il desiderio. 
Per questo segna un inizio, un cammino.
Se è vero che da un avvenimento non si può tornare indietro, allo 
stesso modo è vero che noi possiamo assecondare questo desiderio 
oppure no. Dal seguire la curiosità, dall’impegnarsi con essa, dipende che 
quell’avvenimento segni un inizio e un cammino oppure che si blocchi 
il cammino dello sguardo.
E qui incomincia veramente il dramma, perché tante volte quel che 
accade davanti ai nostri occhi non è altro che l’avvenimento di Cristo 
presente. Lo si vede nella diversità con cui viviamo le cose di tutti, 
come spesso ci raccontiamo. Può essere la modalità di vivere una festa 
di matrimonio o di celebrare un funerale, tant’è vero che gli altri ci 
guardano, stupiti da questa diversità: «Se è così, è quasi bello morire», 
ha detto una persona al funerale di un nostro amico. Ma se noi restiamo 
fermi, se blocchiamo il desiderio che quella diversità suscita, diventiamo 
schiavi dell’esito, così che ci arrabbiamo al primo contrattempo. 
Perciò don Giussani ci tiene, con una carità sterminata, a renderci 
consapevoli che se noi rimaniamo fermi al contraccolpo sentimentale, 
senza assecondare l’attrattiva potente della bellezza che abbiamo davanti, 
questo non ci basta per vivere.
Mi ha sempre colpito il seguente episodio, perché ci dice veramente 
qual è il problema davanti al quale noi tante volte ci blocchiamo. Dopo 
una bella canzone eseguita con cura, in un clima umano invidiabile, 
unico, in una casa del Gruppo adulto, Giussani si ferma un istante e 
nota: «È proprio molto bella sia come musica, sia com’è cantata, sia 
come sentimento umano di amicizia e di fraternità e di compagnia in 
una avventura. Eppure, se le cose si potessero elencare così come 
le ho elencate io adesso e basta [tutto bellissimo, ma “basta”, ci si 
ferma qui], e fosse dato per scontato qualcosa d’altro – accettato e 
riconosciuto (intendiamoci!), ma dato per scontato –, e non fosse il 
Suo nome prodotto da un’enfasi di dialogo, di voglia di farsi sentire, 
di voglia di sentirlo; se non avesse personalità a un certo punto 
autonoma, se non avesse una faccia ultimamente singolare, dei tratti 
inconfondibili anche con quelli che Lui stesso ha creati come segno 
di sé»,40 tutto questo non basterebbe: non basterebbe alla nostra 
attesa di felicità, non basterebbe alla nostra sete di destino, 
23
come non basterebbe nemmeno avere un lavoro eccezionale o
riuscire nella vita. Non basterebbe!
È per questo che insiste, amici: «Stiamo attenti che Gesù tra noi può 
essere l’origine di tutto il mondo di umanità, pieno di letizia e di 
amicizie, di ragioni formalmente ineccepibili e di aiuto formalmente, 
ma 
anche materialmente concreto [...], però Gesù [questa Presenza] 
potrebbe essere ridotto al “ritratto di una bella donna scolpito nel 
monumento sepolcrale della medesima”».41 Se non vi viene da
piangere al pensiero che Gesù possa essere ridotto al ritratto di 
una bella donna scolpito sul monumento sepolcrale della medesima...
Cristo «non può essere dilapidato o dilavato dall’affacciarsi bello e 
lieto della compagnia di volti che di Lui dovrebbe essere accennato 
segno!». Questa riduzione si evita solo «quando gli si dice “Tu” realmente, 
con tutta la coscienza dell’io: quanto più si ha coscienza di sé, tanto 
più potente, grande, vera, semplice e pura è la devozione a Lui [...]. 
La presenza di Cristo nel mondo è il miracolo della nostra compagnia. 
Ma questo è la punta emergente di un segno che “s’inabissa ove è più 
vero” o, meglio, è la punta di un segno che in tutto il resto naufraga nel 
significato comune, in tutto il resto naufraga nella naturalità comune. 
Per questo, quanto più si vuole intensamente bene, preferenzialmente 
– insomma, là dove il bene è dire “io” con un impeto che gli altri non 
conoscono, o dire “tu” con un impeto che gli altri non conoscono –, non 
si tratta di ammortizzare il peso dell’amicizia nostra, di rendere nebulosa 
l’efficacia carica d’occhi, di labbra e di viso, di parola, di canto, di cuore 
di una compagnia bella come questa, ma è come una specie di esasperata 
tensione – di tutto quello che ho nominato e che forma la nostra compagnia –
 a gridare il tuo nome, o Cristo: “Grazie che Ti sei fatto vedere e 
Ti sei seduto qui”».42
Dunque, se non c’è questa esasperata tensione a gridare il Tuo nome, 
Cristo, niente basta!
Perciò la questione di un impegno totale con la realtà – di cui abbiamo 
discusso in una occasione recente – è una questione di stima, come diceva 
un amico durante un’assemblea: «Uno non è impegnato totalmente 
con la realtà perché non ha stima fino in fondo di quello che ha incontrato. 
Uno, infatti, dà sempre stima a qualcosa che ha per lui valore assoluto, 
dà stima a una cosa rispetto alle altre. Ecco, è come se per noi la stima di 
Gesù fosse una delle tante cose e non invece “la” stima: io non ti stimo 
41 Ibidem, pp. 150-151.
42 Ibidem, p. 152-153.
Esercizi della Fraternità
24fino in fondo, o Cristo, per cui il mio impegno con la realtà è parziale. 
Lo vedo su di me e sulla gente: questa stima di Gesù totale, se tu ce l’hai 
allora la realtà la affronti, cerchi il significato. Gesù è tutto».
Allora la nostra speranza è che questo Avvenimento continui ad accadere 
e ci attiri talmente da ridestare in noi il desiderio di impegnarci, così che 
possiamo coglierLo nel suo accadere. Se infatti noi non percepiamo la Sua 
presenza, inevitabilmente il centro affettivo si sposta, anche se non ce ne 
rendiamo conto. Dalla Sua presenza può scaturire anche tutto un mondo di 
umanità, ma Cristo non prevale. Qui è in gioco la fede.
Come ci rendiamo conto che Cristo non prevale? L’esperienza ci offre 
tutte le “spie” necessarie: il lavoro o la bella compagnia non ci bastano. 
Eppure non ci rendiamo conto di come questa riduzione avvenga, 
per «uno strano oscuramento del pensiero»,43 come dice Benedetto XVI.
Se il metodo della conoscenza è l’Avvenimento, se ci rendiamo conto di 
noi stessi solo attraverso l’Avvenimento presente, allora solamente 
uno in cui la natura dell’Avvenimento non si è oscurata può renderci 
consapevoli del nostro smarrimento, della nostra riduzione. Questo è il 
dono di don Giussani per noi. Egli non solo ha descritto come nessun 
altro il cristianesimo come avvenimento, ma ce lo ha testimoniato. Che 
in lui accadesse di continuo l’Avvenimento si evince dal fatto che poteva 
rendersi conto di ognuna delle riduzioni da noi operate. In lui stava 
accadendo l’Avvenimento – perché chi vede il deserto non appartiene al 
deserto –: per questo non si accontentava di nulla che fosse meno della 
sua Presenza, come documenta la sua esasperata tensione a dire il Suo 
nome. Noi, intanto, l’avevamo già persa per strada!
2. «All’inizio non fu così»
Per comprendere un avvenimento noi di solito partiamo dalla nostra 
esperienza. Qualcosa succede in un momento del tempo e dello spazio, 
ma poi si passa a un’altra cosa. Ciò che ci accade può lasciare più o 
meno traccia, dipende dalla portata dell’avvenimento, ma subito resta 
alle spalle. Siamo talmente convinti che le cose vadano necessariamente 
così, che spesso commentiamo: «Non è certo possibile rimanere stupiti 
come all’inizio!». Addirittura, lo teorizziamo. 
Ma Giussani sfida la nostra concezione dicendo che questo modo 
25
di ragionare non vale nei confronti dell’avvenimento cristiano: 
«Il cristianesimo infatti è “un avvenimento”, è una realtà nuova di vita che è 
entrata nel mondo e perciò, quando mi afferra, è una esperienza di vita 
nuova, non nuova solo agli inizi, ma sempre nuova».44 Il cristianesimo 
non è quel che rimane di un avvenimento, ma è sempre un avvenimento; 
altrimenti documenterebbe la sua inattendibilità. Infatti, qualcosa che 
non è in qualche modo presente, non è. O sta accadendo ora oppure non 
è. A questo punto, possiamo comprendere ancora di più che cosa 
significhi l’affermazione che il cristianesimo è un avvenimento.
Dice don Giussani: «L’imbattersi in una presenza di umanità diversa 
viene prima non solo all’inizio, ma in ogni momento che segue l’inizio: 
un anno o vent’anni dopo. Il fenomeno iniziale – l’impatto con una 
diversità umana, lo stupore che ne nasce – è destinato a essere il 
fenomeno iniziale e originale di ogni momento dello sviluppo. 
Perché non vi è alcuno sviluppo se quell’impatto iniziale non si 
ripete, se l’avvenimento non resta cioè contemporaneo. O si rinnova, 
oppure nulla procede, e subito si teorizza l’avvenimento accaduto, 
e si brancica alla ricerca di appoggi sostitutivi di Ciò che è 
veramente all’origine della diversità. Il fattore originante è,
 permanentemente, l’impatto con una realtà umana diversa. 
Se dunque non riaccade e si rinnova quello che è avvenuto in principio, 
non si realizza vera continuità: se uno non vive ora l’impatto con una realtà 
umana nuova, non capisce ciò che gli è accaduto allora. 
Solo se l’avvenimento riaccade ora, si illumina e si approfondisce 
l’avvenimento iniziale e si stabilisce così una continuità, uno sviluppo».45
Con la sua genialità, don Giussani ha una percezione talmente 
consapevole della natura del cristianesimo che in questo testo non soltanto 
ci ricorda i requisiti permanenti del cristianesimo come avvenimento 
– la contemporaneità e la irriducibile diversità –, ma ci offre anche gli 
indizi che ci consentono di renderci conto di quando il cristianesimo 
cessa di essere sperimentato come avvenimento presente.
 Lo si riconosce da due segni. 
Primo: si teorizza l’avvenimento accaduto. In mancanza del fascino 
dell’avvenimento, ci accontentiamo della teoria, del discorso, di una 
categoria astratta. E lo ripetiamo in continuazione. Addirittura lo 
giustifichiamo, come ci ricorda Dostoevskij: «L’uomo è talmente attaccato al 
sistema e alla deduzione astratta che sarebbe pronto ad alterare premedi-
26
tatamente la verità, è pronto a non vedere vedendo e a non udire udendo, 
pur di giustificare la propria logica».46 Infatti, avendo perso per strada 
l’attrattiva della Presenza, nella teorizzazione (riduzione a categoria o 
discorso) domina quel che già sappiamo, quel che abbiamo stabilito noi, 
il nostro schema, il nostro parere.
Ma siccome siamo fatti per il compimento, il vuoto lasciato dalla 
mancata presenza deve essere riempito. E perciò – questo è il secondo 
segno – si cercano, dice don Giussani, appoggi sostitutivi, che documentano 
lo spostamento affettivo. Quando i discepoli non si rendono 
conto della portata della Presenza che hanno incontrato, incominciano a 
cercare il tornaconto: «Allora Pietro prendendo la parola disse: “Ecco, 
noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne 
otterremo?”».47 Ma la Sua presenza non è tutto? Neanche lui, Pietro, se 
ne rende conto. 
Oppure prevale la ricerca della riuscita: «I settantadue tornarono 
pieni di gioia dicendo: “Signore, anche i demòni si sottomettono a noi 
nel tuo nome”. Egli disse: “Io vedevo satana cadere dal cielo come la 
folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli 
scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare. 
Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi 
piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli”».48 Ai settantadue non 
basta più la Sua presenza per rallegrare la vita. Non è che non debbano 
valorizzare il bene fatto, ma questo bene non può oscurare la distanza 
abissale che c’è tra i miracoli da essi compiuti e il fatto di essere Suoi! 
Ma ciò non passa neanche per l’anticamera del loro cervello, proprio 
come accade a noi. 
Oppure si cerca di riempire il vuoto con il potere: «E gli si avvicinarono 
Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: “Maestro, 
noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo”. Egli disse loro: 
“Cosa volete che io faccia per voi?”. Gli risposero: “Concedici di sedere 
nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. Gesù disse 
loro: “Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io 
bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. Gli risposero: 
“Lo possiamo”. E Gesù disse: “Il calice che io bevo anche voi lo berrete, 
e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla mia 
destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali 
46 F.M. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, Einaudi, Torino 1988, p. 24.
47 Mt 19,27.
48 Lc 10,17-20.
Sabato mattina
27è stato preparato”. All’udire questo, gli altri dieci [che non erano diversi] 
si sdegnarono con Giacomo e Giovanni».49
Quali sono i nostri appoggi sostitutivi? Non sono molto diversi da 
quelli degli apostoli appena richiamati. Guardiamoli insieme, così come 
ce li ha segnalati don Giussani.
a) Cristianesimo ridotto a valori
«L’altra sera, in un raduno a Milano, osservavo che, in questi anni, 
da una quindicina circa a questa parte, in tutti gli anni del nostro cammino, 
è come se [...] il movimento avesse costruito sui valori che Cristo ci ha portati. 
Così, tutto lo sforzo di attività associativa, operativa, 
caritativa, culturale, sociale, politica, ha certamente avuto come scopo 
quello di mobilitare noi stessi e le cose secondo [...] gli spunti di valore 
che Cristo ci ha resi noti. Ma, all’inizio del movimento, non fu così. 
Come ho accennato ieri, all’inizio del movimento, nei primi anni, non si 
costruì sui valori che Cristo ci aveva portati, ma si costruì su Cristo, 
ingenuamente fin quando volete, ma il tema del cuore, il movente 
persuasivo era il fatto di Cristo, e perciò il fatto del Suo corpo nel mondo, della 
Chiesa. All’inizio si costruiva, si cercava di costruire su qualcosa che 
stava accadendo, non sui valori portati, e quindi sulla inevitabile nostra 
interpretazione di essi: si cercava di costruire su qualcosa che stava 
accadendo e che ci aveva investiti. Per quanto ingenua e smaccatamente 
sproporzionata fosse, questa era una posizione pura. Per questo, per 
averla come abbandonata, essendoci attestati su una posizione che è 
stata innanzitutto, starei per dire, una “traduzione culturale” piuttosto 
che l’entusiasmo per una Presenza, noi non conosciamo – nel senso 
biblico del termine – Cristo, noi non conosciamo il mistero di Dio, perché 
non ci è familiare.»50 Dobbiamo recuperare la purità originale. 
Che cosa occorreva a don Giussani per rendersi conto di tale riduzione 
el cristianesimo a valori? Occorreva che lui vivesse il cristianesimo 
come qualcosa che gli stava accadendo. 
Pensiamo a come una persona innamorata si accorga facilmente 
quando in altri il rapporto con l’uomo o la donna che hanno sposato ha 
cessato di essere qualcosa che sta accadendo ed è diventato una cosa 
diversa dall’entusiasmo per una presenza.
28
Esercizi della Fraternitàb) Da una presenza che si imponeva a organizzazione 

da seguire«Il movimento è nato da una presenza che si imponeva e portava 
alla vita la provocazione di una promessa da seguire. Ma poi abbiamo 
affidato la continuità di questo inizio ai discorsi e alle iniziative, alle 
riunioni e alle cose da fare. Non l’abbiamo affidato alla nostra vita, così 
che l’inizio ha cessato molto presto di essere verità offerta alla nostra 
persona ed è divenuto spunto di una associazione, di una realtà su cui 
scaricare la responsabilità del proprio lavoro e dalla quale pretendere la 
risoluzione delle cose.»51 Non è che si neghi Cristo, semplicemente 
Cristo è diventato un «richiamo spirituale», e quel che prevale è altro: «Per 
molti di noi che la salvezza sia Gesù Cristo e che la liberazione della vita 
e dell’uomo, qui e nell’aldilà, sia legata continuamente all’incontro con 
lui è diventato un richiamo “spirituale”. Il concreto sarebbe altro: è 
l’impegno sindacale, è far passare certi diritti, è la organizzazione, le unità di 
lavoro e perciò le riunioni, ma non come espressioni di una esigenza di 
vita, piuttosto come mortificazione della vita, peso e pedaggio da pagare 
ad una appartenenza che ci trova ancora inspiegabilmente in fila».52
Lo diceva in modo solare l’allora cardinale Bergoglio: «Quando il fedele si 
rende conto di aver perso lo slancio e l’entusiasmo di un tempo, tende a 
assumere atteggiamenti che non gli sono propri. [...] La perdita del fervore 
iniziale porta alcuni [...] a rifugiarsi in quelli che possiamo chiamare 
“compiti secondari”. [...] La fuga si manifesta come fuga verso le virtù 
“secondarie”: alcuni si dedicano al sociale [...]. Altri, al contrario, 
si concentrano sui riti. In entrambi i casi ciò non basta per affrontare 
la vera sfida».53 c) Da vortice a discorso corretto e pulito
Quando il cristianesimo non accade più come avvenimento di una 
Presenza che invade la vita e la fa ribollire, allora si finisce per teorizzare 
l’avvenimento accaduto: «Si tramanda un discorso corretto e pulito, 
alcune regole su come essere cristiani e uomini. Ma senza amore, senza il 
riconoscimento del Mistero vivificante, il singolo si spegne e muore. La 
nostra speranza, la salvezza di Cristo non può essere qualcosa che 
abbiamo letto e sappiamo ripetere bene. Un discorso più o meno 
edificante o moralistico, ecco, a questo viene ridotto spesso l’annuncio. 
Bisognerebbe ribollire... [...] Non si è ancora comunicata l’esaltazione del singolo, 

29
la vittoria del Mistero, la gloria di Cristo di fronte a quello che accade. 
Ma questo avviene se c’è questa esperienza».54
Cristo non è, e non può essere, qualcosa di cui abbiamo letto o un 
discorso che sappiamo ripetere bene. Già nel 1962 don Giussani avvertiva 
i giessini (allora al culmine della diffusione di Gioventù studentesca a 
Milano) di questa riduzione: «Si è come fossilizzata l’esperienza originale
che ci ha fatto entrare, si è cristallizzata. [...] Alle origini qualcosa 
ha agito per voi, in voi, su di voi; è una reazione di semplicità a questo 
dono che vi ha portato con noi». Ma poi è subentrato un formalismo, 
cioè «la stasi della novità».55 Sono subentrati il formalismo e la stasi.
d) L’avvenimento diventa un fenomeno del passato
Il cristianesimo è talmente avvenimento che, quando diventa fenomeno 
del passato, non lo si può far riaccadere con un altro metodo, 
ci dice don Giussani, che non sia quello dell’avvenimento stesso. Il 
cristianesimo è un avvenimento al punto tale che deve riaccadere. Se 
ci siamo sganciati da esso, se si è prodotta una discontinuità (per cui è 
diventato un devoto ricordo quello che è successo nel passato), quando 
cerchiamo di farlo riaccadere con le nostre iniziative, non ci riusciamo. 
«Formuliamo l’ipotesi che si riuniscano oggi alcuni che abbiano già 
vissuto l’esperienza di cui abbiamo parlato e avendo il ricordo 
impressionante di un avvenimento da cui sono stati colpiti – che ha fatto loro 
del bene, che ha addirittura qualificato la loro vita –, vogliono riprenderlo, 
colmando una “discontinuità” che si è venuta a creare nel corso 
degli anni. Ciò per cui essi ancora si sentono amici è un’esperienza 
passata, un fatto accaduto, che nel presente è diventato però
 – come dicevamo – un “devoto ricordo”. Ora, come è possibile per loro
riprendere una continuità con l’avvenimento iniziale che li ha investiti? 
Se per esempio dicessero: “Mettiamoci insieme a fare un gruppo di catechesi, 
oppure a sviluppare una nuova iniziativa politica, o, ancora, a sostenere 
una attività caritativa, a creare un’opera, eccetera”, nessuna di queste 
risposte sarebbe adeguata a coprire la discontinuità. Occorre “qualcosa 
che viene prima”, di cui tutto questo non è che strumento di sviluppo. 
Occorre che riaccada cioè quello che è accaduto loro in principio: non 
“come” è accaduto in principio, ma “quello che” è accaduto in principio: 
l’impatto con una diversità umana in cui lo stesso avvenimento che 
li ha mossi all’origine si rinnova. Lì ci si coagula e, seguendo qualcu-
54 L. Giussani, Un caffè in compagnia, Rizzoli, Milano 2004, pp. 173-175.
55 «Scuola incaricati 1962», Archivio CL.
Esercizi della Fraternità
30no, ci si raccorda con quello che è avvenuto all’inizio. E tutti i fattori 
principali dell’esperienza passata riemergono più maturi e più chiari.»56
Qualsiasi nostro tentativo non può colmare la discontinuità, non riesce a 
fare del devoto ricordo un avvenimento presente. Accade così 
quello che ha detto papa Francesco il Giovedì Santo: «Da qui deriva 
precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, 
[...] trasformati in una sorta di collezionisti di antichità».57
Cominciamo a vedere come, dal prevalere di una Presenza che investiva
 ogni gesto, per cui ogni azione era espressione della Sua imponenza, 
abbiamo finito col perderla per strada. Perché succede questo? Perché 
tante volte – dice don Giussani – il «nostro impegno di vita su problemi 
sociali, culturali e politici» è vissuto «in modo divaricante e divaricato 
rispetto ad una esperienza cristiana viva, autentica. Mentre l’impegno 
nei problemi sociali, culturali e politici dovrebbe essere l’espressione di 
questa esperienza appassionata di vita. È molto facile invece che questo 
impegno generi un clima che logora l’attenzione a quella esperienza e si 
affermi in contrasto con essa, quasi emarginandola, quasi soffocandola. 
Oppure spesso chi desidera vivere un’esperienza di vita cristiana autentica 
afferma questa volontà [...] in contraddizione con l’impegno di quei 
problemi. L’un caso e l’altro sono la doppia faccia di uno stesso grave 
errore».58 Attivismo o intimismo: a dominare non è più l’Avvenimento 
che si impone e cambia la percezione di noi stessi, generando uno sguardo 
nuovo e una passione nuova verso tutto.
Vediamo come Giussani ha instancabilmente smascherato la tentazione 
di ridurre la natura del cristianesimo: «L’analisi del disagio della 
situazione in cui versiamo [storicamente era il 1976, ma è anche il 2013, 
il nostro “oggi”] che voglio compiere è puramente metodologica e non 
recriminatoria, è un aspetto del giudizio che ci fa ripartire».59 Siamo 
sempre esposti a questa riduzione, perciò don Giussani ha continuamente 

giudicato, corretto, richiamato; implacabilmente, senza tregua.
Tutto quanto abbiamo descritto ci fa capire le dimensioni del nostro 
bisogno. Siamo veramente bisognosi! Che liberazione riconoscerlo e 
poterlo guardare insieme! Da questo riconoscimento non può che scaturire 

una domanda, come quella che scaturisce dalle labbra della Chiesa: 
«Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza morta
31
le, e fa’ che riprenda vita per la passione del Tuo unico Figlio».60
Come Cristo ha risposto alla debolezza degli apostoli, alla loro umanità 
sfinita che li portava alla ricerca di appoggi sostitutivi? Non con 
una strategia o con un richiamo moralistico. Non sarebbe bastato loro, 
così come non basterebbe a noi. La portata del bisogno è tale che solo 
la Sua morte e la Sua risurrezione potevano e possono sanare alla radice 
il nostro male. Possiamo riprendere vita solo per la Passione del suo 
Figlio, dice la liturgia. Ma spesso per noi, non essendo coscienti del nostro 
dramma, il dire questo si riduce quasi a «devozione». Da che cosa 
si vede? Dal modo con cui affrontiamo il bisogno, dalla presunzione e 
dalla supponenza che abbiamo addosso. Invece, ciò di cui abbiamo 
bisogno, per dirla con san Bernardo, è proprio «che [Cristo] ritorni, e mi 
restituisca la mia salutare letizia, mi restituisca se stesso».61
3. Permanenza del cristianesimo come avvenimento nel presente: 
Egli è qui Gesù è tornato. Vivente. Se c’è un momento in cui prevale di nuovo 
la Sua presenza viva è la Risurrezione. Che impressione vedere i 
discepoli stupiti dell’imporsi della Sua presenza viva e inesorabile! 
Ma vediamo anche Gesù lottare con la loro incapacità di vedere:
 «I discepoli non si erano accorti che era Gesù».62 Provando una 
volta dopo l’altra a farli uscire dalla propria misura, attraverso un 
certo modo di dire: «Maria», 
oppure attraverso un miracolo: «Gettate la rete dalla parte destra della 
barca e troverete»,63 Gesù vuole far venire fuori la fede, la certezza dei 
suoi discepoli: «È il Signore».64 Si può ripartire sempre perché Lui è 
vivo. Il Vivente. Per far loro riprendere vita non si accontenta di restare 
una presenza inattiva. È una presenza che prende iniziativa per 
rispondere al loro bisogno. Per rispondere allo sconcerto della Sua morte, spiega 
loro la Scrittura: «“Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno 
detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per 
entrare nella sua gloria?”. E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, 
spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui».65 Per rispondere 
32
al tradimento di Pietro, gli domanda: «Pietro, mi ami?».66 E poi: «Ricevete 
lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi 
non li rimetterete, resteranno non rimessi».67 Oppure si fa riconoscere da 
loro nella frazione del pane, nell’Eucarestia.
Questo sarà sempre il punto di partenza. Solo la Sua iniziativa può 
farci ripartire. Ce lo ha ricordato Benedetto XVI all’apertura del Sinodo 
nell’ottobre scorso: «Noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo 
far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa non comincia con il “fare” 
nostro, ma con il “fare” e il “parlare” di Dio. Così gli Apostoli non hanno 
detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa, 
e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione. 
No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato, perché sapevano che 
solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, che Dio è il primo agente: se 
Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; 
solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato. Pentecoste è 
la condizione della nascita della Chiesa: solo perché Dio prima ha agito, 
gli Apostoli possono agire con Lui e con la sua presenza e far presente 
quanto fa Lui. Dio ha parlato e questo “ha parlato” è il perfetto della 
fede, ma è sempre anche un presente: il perfetto di Dio non è solo un 
passato, perché è un passato vero che porta sempre in sé il presente e il 
futuro. Dio ha parlato vuol dire: “parla”. E come in quel tempo solo con 
l’iniziativa di Dio poteva nascere la Chiesa, poteva essere conosciuto 
il vangelo, il fatto che Dio ha parlato e parla, così anche oggi solo Dio 
può cominciare, noi possiamo solo cooperare, ma l’inizio deve venire 
da Dio. Perciò non è una mera formalità se cominciano ogni giorno la 
nostra Assise con la preghiera: questo risponde alla realtà stessa. Solo il 
precedere di Dio rende possibile il camminare nostro, il cooperare nostro, 
che è sempre un cooperare, non una nostra pura decisione. Perciò è 
importante sempre sapere che la prima parola, l’iniziativa vera, l’attività 
vera viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina, solo 
implorando questa iniziativa divina, possiamo anche noi divenire – con 
Lui e in Lui – evangelizzatori. Dio è l’inizio sempre».68
Solo chi accetta di inserirsi in questo inizio continuo può vedere 
come la vita rinasca, come la nostra esistenza riprenda vigore.
In quale modo il cristianesimo permane nella storia come avveni-
33
mento presente? Attraverso coloro che da Lui sono afferrati, attraverso 
coloro in cui la coscienza della Sua presenza è diventata predominante.
Stiamo attenti a non ridurre la densità e la ricchezza della compagnia 
dei credenti ai nostri tentativi, perché risulterebbe insufficiente per 
rispondere alla dimensione del nostro bisogno: «L’avvenimento di Cristo 
permane nella storia attraverso la compagnia dei credenti, che è un segno, 
come tenda nella quale sta il sancta sanctorum, il Mistero diventato 
uomo. Questo Mistero permane nella vita di ogni uomo e del mondo, 
personalmente, realmente, attraverso l’unità sensibilmente espressa dei 
cristiani. La compagnia dei credenti è segno efficace della salvezza di 
Cristo per gli uomini, è il sacramento della salvezza del mondo. Cristo 
Risorto si stringe così attorno a noi: questa compagnia è proprio Cristo 
presente. Essa è Cristo nella sua realtà umana, è il corpo di Cristo che si 
rende presente, tanto che Lo si tocca, Lo si vede, Lo si sente. Il valore di 
questa compagnia è più profondo di quello che si vede, perché quello che 
si vede è l’emergenza del Mistero di Cristo che si rivela».69
Se per rispondere alla nostra umanità sfinita ha dovuto morire e risorgere, 
la questione è: come noi oggi possiamo partecipare della Sua 
vittoria? E come Cristo prende iniziativa oggi per farci partecipare 
della Sua vittoria? «Cristo si fa conoscere, si rende accessibile e 
dunque ci dà il Suo Spirito nella Chiesa attraverso la Sacra Scrittura, i 
Sacramenti, la successione apostolica, ma soprattutto il Suo Spirito ci 
percuote e ci invade attraverso la vita intera della Chiesa. La Chiesa è 
l’universo raggiunto, ricreato e posseduto da Cristo attraverso il Suo 
Spirito. La Chiesa è cioè l’umanità in quanto resa vera, unificata dalla
 presenza di Cristo attraverso quella energia ri-creativa che è il mistero 
dello Spirito nella Pentecoste. Cristo sarebbe irrimediabilmente 
lontano e perciò vittima della nostra interpretazione, se non fosse 
presente nella Chiesa vivente. Se non si offrisse a noi nel mistero del 
Suo Corpo che è la Chiesa, Cristo sarebbe, in ultima analisi, ridotto 
soggettivisticamente, come contenuto e come metodo. La Chiesa è 
perciò il metodo con cui Cristo si comunica nel tempo e nello spazio, 
analogamente al fatto che Cristo è il metodo con cui Dio ha scelto di 
comunicarsi agli uomini per la loro salvezza. Attraverso l’umanità 
della Chiesa il divino ci raggiunge sia come “comunicazione di 
verità” (Scrittura, Tradizione, Magistero), perciò come aiuto all’uomo a 
raggiungere una obiettiva chiarezza e sicurezza nel percepire 
i significati ultimi della propria esistenza, sia come “comunicazione della 
34
realtà divina stessa” – Grazia – attraverso i Sacramenti.»70
La prima nostra attività è allora la passività di lasciarci coinvolgere 
in questa iniziativa di Cristo presente nella Chiesa.
L’iniziativa di Cristo è cominciata nel Battesimo: «L’incontro di Cristo
 con la nostra vita, per cui Egli ha iniziato a diventare un evento reale 
per noi, l’impatto di Cristo con la nostra vita, a partire da cui Egli si è 
mosso verso di noi e ha stabilito, come vir pugnator, una lotta per
 l’“invasione” della nostra esistenza, si chiama Battesimo».71 
Egli ci rinnova, ci fa diventare diversi inserendoci nella Sua morte 
e risurrezione: «Per mezzo del battesimo siamo dunque stati 
sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai 
morti per mezzo della gloria del 
Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti 
siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo 
saremo anche con la sua risurrezione».72
Questo inizio deve essere costantemente alimentato, nutrito, affinché 
noi possiamo camminare in questa vita nuova: «La Comunione alla
Carne del Cristo risorto, “vivificata dallo Spirito Santo e vivificante”, 
conserva, accresce e rinnova la vita di grazia ricevuta nel Battesimo. 
La crescita della vita cristiana richiede di essere alimentata dalla 
Comunione eucaristica, pane del nostro pellegrinaggio».73 Se 
non vogliamo venire meno 
al rapporto con Cristo che ci ha conquistato, abbiamo bisogno di andare 
a ricevere costantemente i sacramenti come mendicanti: «La Comunione 
accresce la nostra unione a Cristo. Ricevere l’Eucaristia nella 
Comunione reca come frutto principale l’unione intima con Cristo Gesù. Il Signore 
infatti dice: “Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue dimora in me 
e io in lui” (Gv 6,56). La vita in Cristo ha il suo fondamento nel banchetto 
eucaristico: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per 
il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (Gv 6,57)».74
È così che Lui ci cerca, come ci ricorda san Giovanni Crisostomo: «Per 
te sono stato coperto di sputi e percosse, mi sono spogliato della mia 
gloria, ho lasciato il Padre mio e sono venuto a te, tu che mi odiavi, mi 
fuggivi e non volevi nemmeno udire il mio nome; ti ho inseguito, ho 
corso sulle tue tracce, per impossessarmi di te; ti ho unito, legato a me, 
ti ho tenuto stretto, ti ho abbracciato. “Mangiami”, ho detto, “bevimi”. 
E io ti ho con me nel cielo e mi lego a te su questa terra. Non mi basta .
35
che io possegga nel cielo le tue primizie, questo non sazia il mio amore. 
Sono disceso nuovamente sulla terra, non solo per mescolarmi tra quelli 
della tua gente, ma per abbracciare stretto proprio te».75
Solo questa è la sorgente continua di una reale comunione tra di noi. 
Solo la comunione eucaristica può trasformarci fino a generare un solo 
corpo, investendo tutti i nostri rapporti della Sua presenza. 
La nostra comunione con Cristo e con i fratelli ha bisogno di essere 
ricostruita continuamente dalla misericordia, cioè dalla presenza di Cristo 
che si rivolge a noi, come a Pietro dopo il tradimento. È solo questa 
iniziativa piena di misericordia verso di noi che ricostruisce noi stessi 
nel nostro rapporto con Cristo, con i fratelli e con noi stessi. Senza 
misericordia, non c’è cammino, non c’è comunione. Per questo, «Cristo ha 
istituito il sacramento della Penitenza per tutti i membri peccatori della 
sua Chiesa, in primo luogo per coloro che, dopo il Battesimo, sono caduti 
in peccato grave e hanno così perduto la grazia battesimale e inflitto 
una ferita alla comunione ecclesiale».76
«La conversione a Cristo, la nuova nascita dal Battesimo, il dono dello 
Spirito Santo, il Corpo e il Sangue di Cristo ricevuti in nutrimento, ci 
hanno resi “santi e immacolati al suo cospetto” (Ef 1,4), come la Chiesa 
stessa, Sposa di Cristo, è “santa e immacolata” (Ef 5,27) davanti a lui. 
Tuttavia, la vita nuova ricevuta nell’iniziazione cristiana non ha soppresso 
la fragilità e la debolezza della natura umana, né l’inclinazione 
al peccato che la tradizione chiama concupiscenza, la quale rimane nei 
battezzati perché sostengano le loro prove nel combattimento della vita 
cristiana, aiutati dalla grazia di Cristo. Si tratta del combattimento della 
conversione in vista della santità e della vita eterna alla quale il Signore 
non cessa di chiamarci.»77
È solo se noi accettiamo di partecipare, di accogliere questi gesti di 
Cristo – attraverso i quali Lui ci attira dentro di sé, ci fa un solo corpo, ci 
rinnova con il sacramento della penitenza, ci nutre con il Suo Corpo e il 
Suo Sangue –, che possiamo ripartire: «Cristo – ha detto papa Francesco 
il Lunedì dell’Angelo – ha vinto il male in modo pieno e definitivo, ma 
spetta a noi, agli uomini di ogni tempo, accogliere questa vittoria nella 
nostra vita e nelle realtà concrete della storia e della società. Per questo 
mi sembra importante sottolineare quello che oggi domandiamo a Dio 
nella liturgia: “O Padre, che fai crescere la tua Chiesa donandole sempre 
36

nuovi figli, concedi ai tuoi fedeli di esprimere nella vita il sacramento 
che hanno ricevuto nella fede” [...]. È vero, il Battesimo che ci fa figli di 
Dio, l’Eucarestia che ci unisce a Cristo, devono diventare vita, tradursi 
cioè in atteggiamenti, comportamenti, gesti, scelte. La grazia contenuta 
nei Sacramenti pasquali è un potenziale di rinnovamento enorme per 

l’esistenza personale, per la vita delle famiglie, per le relazioni sociali. Ma 
tutto passa attraverso il cuore umano: se io mi lascio raggiungere dalla 
grazia di Cristo risorto, se le permetto di cambiarmi in quel mio aspetto 
che non è buono, che può far male a me e agli altri, io permetto alla 
vittoria di Cristo di affermarsi nella mia vita, di allargare la sua azione 
benefica. Questo è il potere della grazia! Senza la grazia non possiamo 
nulla. Senza la grazia non possiamo nulla! E con la grazia del Battesimo 
e della Comunione eucaristica posso diventare strumento della 

misericordia di Dio, di quella bella misericordia di Dio. Esprimere nella vita il 
sacramento che abbiamo ricevuto: ecco, cari fratelli e sorelle, il nostro 
impegno quotidiano, ma direi anche la nostra gioia quotidiana! La gioia 
di sentirsi strumenti della grazia di Cristo, come tralci della vite che è 
Lui stesso, animati dalla linfa del suo Spirito!».78
La Sua capacità di trasformare la vita e di farci partecipare a questa 
grazia si esprime, insieme ai sacramenti, attraverso i carismi: «Lo Spirito 

Santo non si limita a santificare e a guidare il popolo di Dio per mezzo 
dei sacramenti e dei ministeri, e ad adornarlo di virtù, ma “distribuendo 
a ciascuno i propri doni come piace a lui” (1 Cor 12,11), dispensa pure 
tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e 
pronti ad assumersi vari incarichi e uffici utili al rinnovamento e alla 
maggiore espansione della Chiesa».79
Ci ha detto Giovanni Paolo II in piazza san Pietro il 30 maggio 1998: 
«I veri carismi non possono che tendere all’incontro con Cristo nei 

Sacramenti. Le realtà ecclesiali cui aderite vi hanno aiutato a riscoprire la 
vocazione battesimale, a valorizzare i doni dello Spirito ricevuti nella 
Cresima, ad affidarvi alla misericordia di Dio nel Sacramento della 

Riconciliazione ed a riconoscere nell’Eucaristia la fonte e il culmine di 
tutta la vita cristiana».80
È questo il contributo storico che don Giussani ha dato a noi e a 
tutta la Chiesa: «Il carisma rappresenta proprio la modalità di tempo, di 
spazio, di carattere, di temperamento, la modalità psicologica, affettiva, 
37
Sabato mattinaintellettuale, con cui il Signore diventa avvenimento per 

me e, allo stesso modo, anche per altri».81 Dunque il carisma è fattore di 
appartenenza a Cristo e alla Sua verità: «La questione del carisma è decisiva perché 
è il fattore che esistenzialmente facilita l’appartenenza a Cristo, cioè è 
l’evidenza dell’Avvenimento presente oggi, in quanto ci muove. In questo 

senso il carisma introduce alla totalità del dogma. Se il carisma è la 
modalità con cui lo Spirito di Cristo ci fa percepire la sua Presenza 

eccezionale, ci dà il potere di aderirvi con semplicità e amorosità, è vivendo 
il carisma che si illumina il contenuto oggettivo del dogma».82
Non dobbiamo dimenticare, però, che solo dalla grazia sacramentale 
può nascere costantemente il carisma, la sua vitalità oggi. È la grazia 
sacramentale che fa sorgere e mantiene vivo il corpo ecclesiale, come 
Giovanni Paolo II ci ha detto in un discorso per noi memorabile: «Il 
sorgere del corpo ecclesiale come istituzione, la sua forza persuasiva 
e la sua energia aggregativa, hanno la loro radice nel dinamismo della 
Grazia sacramentale. Essa trova però la sua forma espressiva, la sua 
modalità operativa, la sua concreta incidenza storica mediante i diversi 
carismi che caratterizzano un temperamento e una storia personale. [...] 
Quando un movimento è riconosciuto dalla Chiesa, esso diventa uno 
strumento privilegiato per una personale e sempre nuova adesione al 
mistero di Cristo. Non permettete mai che nella vostra partecipazione 
alberghi il tarlo dell’abitudine, della routine, della vecchiaia! Rinnovate 
continuamente la scoperta del carisma che vi ha affascinati ed esso vi 
condurrà più potentemente a rendervi servitori di quell’unica potestà che 
è Cristo Signore!».83
Solo se ci lasciamo raggiungere dalla potenza di Cristo risorto, che 
ci viene incontro costantemente attraverso i sacramenti e il carisma, 

potremo vedere che il quotidiano «che taglia le gambe» diventa vivibile: 
«Il miracolo è la realtà umana vissuta quotidianamente, senza enfasi 

eccezionali, senza necessità di eccezioni, senza fortune particolari, è la 
realtà del mangiare, del bere, del vegliare e del dormire investita dalla 
coscienza di una Presenza che ha i suoi terminali in mani che si toccano, 
in facce che si vedono, in un perdono da dare, in soldi da distribuire, in 
una fatica da compiere, in un lavoro da accettare».84
«La presenza di Cristo, nella normalità del vivere, implica sempre di 
38

più il battito del cuore: la commozione della Sua presenza diventa 
commozione nella vita quotidiana e illumina, intenerisce, abbellisce, rende 
dolce il tenore della vita quotidiana, sempre di più. Non c’è niente di 
inutile, non c’è niente di estraneo, perché non c’è niente di estraneo al 
tuo destino, e perciò non c’è niente a cui non ci si possa affezionare [...], 
con le sue conseguenze magnifiche di rispetto della cosa che fai, di 

precisione nella cosa che fai, di lealtà con la tua opera concreta, di tenacia 
nel perseguire il suo fine; diventi più instancabile [...]. La stanchezza, 
pur senza ombra, è per così dire riassorbita anche come stanchezza, 

diventa una stanchezza puramente fisiologica.»85
È la verifica, nel quotidiano, della presenza vittoriosa di Cristo che 
ci consentirà di attaccarci sempre di più a Lui, fino a poter dire con Ada 
Negri: «Tutto / per me tu fosti e sei».86 Di tante persone forse qualcuno 
potrebbe dire: «Tutto per me tu fosti». Ma dire di qualcuno non soltanto: 
«Fosti» nel passato, nell’incontro iniziale, ma: «Sei» adesso, nel presente, 

questa è un’altra cosa!
È soltanto coinvolgendoci nella Sua vittoria che potremo dire con 
verità: «Cristo, tutto per me Tu fosti e sei».
85 Ibidem, pp. 103-104.
86 A. Negri, «Atto d’amore», Mia giovinezza, Bur, Milano 2010, p. 


SANTA MESSA
Liturgia della Santa Messa: At 9,31-42; Sal 115 (116); Gv 6,60-69
OMELIA DI SUA EMINENZA CARDINALE JEAN-LOUIS TAURAN
PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO
Come sempre Gesù lascia gli uomini liberi di scegliere. I Dodici, anche loro, devono rinnovare la loro adesione a Cristo: «“Forse anche voi 
volete andarvene?”. Simon Pietro risponde a loro nome: “Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna. Noi abbiamo creduto e conosciuto che 
tu sei il santo di Dio”». Di fronte alle parole e ai gesti di Gesù, uno è 
costretto a rispondere con un «sì» o con «no». Il grande dramma dell’uomo non è la malattia né la morte: è la sua libertà. L’uomo può dire «no» 
a Dio, e Dio rispetta la sua libertà. Il famoso poeta Hölderlin, contemporaneo di Goethe, ha scritto: «Dio ha creato lʼuomo, come il mare fa i 
continenti, ritirandosi».
Non si può evitare Gesù Cristo. Gesù disturba, perché è segno di contraddizione: «Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?» (Gv 6,60). 
Noi siamo qui perché siamo discepoli di Gesù e perché siamo portatori di 
un messaggio per il mondo, per l’Italia di oggi. Un messaggio che è una 
contestazione radicale del «galateo politico e culturale». Pensate: diciamo ai nostri amici: «Siete – siamo – chiamati alla vita eterna». Per di più, 
abbiamo da ricordare all’umanità di oggi e di domani un avvenimento 
unico nella storia: Gesù è risorto! Mai una rivoluzione, mai un progresso 
scientifico potranno offrire agli uomini una «cosa così importante» come 
la risurrezione di Gesù. È il vangelo della vittoria inaudita sul dolore, 
sul peccato, sulla morte che Cristo ha conseguito per sé e per noi. È un 
avvenimento indescrivibile, che tutti ci riguarda e ci avvolge!
Allora vedete come credere non è semplicemente credere che Dio 
esista. No, è credere che Dio interviene nell’esistenza umana. L’oggetto 
della nostra fede – ho sentito stamattina don Carrón sottolineare questo – 
è un avvenimento, o una serie di avvenimenti: credere che Dio ha parlato 
ad Abramo, ha liberato il popolo dall’Egitto, si è incarnato nel seno della 
Vergine Maria, è risuscitato dai morti. Per noi è credere anche che Dio 
è presente in mezzo a noi nell’Eucaristia: ecco il «supremo paradosso». 
In realtà gli uomini sono disposti, più o meno, a riconoscere una divinità 
che «sta al di sopra di loro, che non disturba». Ma credere che Dio intervenga nella trama dell’esistenza umana, che ci siano delle opere divine 
che si compiono oggi: questo è uno «scandalo» che la maggior parte dei 
40nostri contemporanei rifiutano. Rifiutano il soprannaturale.
Questa assemblea numerosa, attenta, impegnata riscalda il cuore perché è un avvenimento divino. Qui, questa mattina, hic et nunc, Dio è in 
mezzo a noi in questa Eucaristia. Per noi il Cristianesimo non è «una 
certa visione del mondo». Non è un sistema che accettiamo perché ci 
conviene. Siamo qui perché crediamo che qualcosa è capitato, che Cristo 
è risuscitato, che Lui è la Verità e questo interessa noi e tutti gli uomini.
Lo sapete, noi cristiani siamo «osservati». Tutti cercano non le belle 
cose che possiamo compiere, ma piuttosto le nostre mancanze. E questo 
ci ricorda che la Chiesa è una realtà divina e umana, allo stesso tempo. 
Non dobbiamo, però, avere complessi, perché lo Spirito guida la Chiesa 
e riserva sempre sorprese. Basta ricordare ciò che è avvenuto a Roma il 
mese scorso. Ho notato che nei discorsi del nuovo Papa vi è una parola 
da lui spesso usata: è il verbo «uscire». Uscire da noi stessi per lasciarci 
purificare da Dio; uscire dalle nostre chiese, dai nostri conventi, dalle 
nostre sale di riunioni per raggiungere gli uomini dove questi vivono, 
costruiscono, soffrono, muoiono.
La prima lettura ci ha presentato Pietro in «visita pastorale», diciamo. La pace e l’intesa fraterna vengono sottolineate. Sappiamo che a 
questa pace e intesa fraterna si deve aggiungere l’ascolto della Parola, lo 
spezzare del pane e la comunione dei beni. Sono le caratteristiche della 
prima comunità cristiana e noi dobbiamo sempre riferirci a questa comunità. Ma il comportamento di Pietro che guarisce i malati ci ricorda che 
anche noi dobbiamo rispondere alle domande dei nostri contemporanei. 
Devono vederci pregare per potersi porre le domande fondamentali; hanno bisogno di una parola che «sollevi» le loro anime, hanno bisogno di 
incontrare delle comunità dove essere accolti, ascoltati e rispettati. Sì, 
tutti hanno bisogno di uscire da questo contesto di morte, di sfiducia, di 
sospetto che, purtroppo, rovina la nostra vita e che segna la cultura di 
oggi: il non-senso, l’isolamento, la non stima di se stessi. Pietro ha potuto 
rispondere alle attese delle persone in difficoltà che incontrava perché lui 
stesso aveva imparato da Gesù come pregare e quale missione compiere.
Durante questo ritiro vi siete domandati: «Chi ci separerà dall’amore 
di Cristo?». Per poter rispondere: «Nessuno, niente», anche voi dovete 
avere alle spalle una vita di intimità, di amicizia con Cristo.
Nel mondo di oggi, il grande pericolo è di organizzare la nostra vita, 
la società secondo la misura dell’uomo. Noi cristiani proponiamo un Dio 
Padre vicino a noi, che si fa servitore e cibo: ecco ciò che ci distingue 
dai discepoli di Maometto o di Buddha. Ma, attenti: non dobbiamo mai 
abituarci a questa incredibile prossimità di Dio. Chi dice di Dio: «Egli», 
41
Sabato mattinasenza mai dire: «Tu», sta a poco a poco dimenticando i tratti del volto 
di Dio. E un bel giorno Dio non sarà niente di più che un’idea e, molto 
presto, nient’altro che una parola.
Non più tardi di ieri mattina, papa Francesco ricordava che la vita 
cristiana è un parlare con Dio a tu per tu, come si parla con una persona. 
«Non con un Dio – diceva – indefinito e diffuso alla maniera di uno spray 
sparso un po’ ovunque.» 
Fratelli e sorelle, preghiamo perché ci siano date le energie spirituali 
di cui abbiamo bisogno per essere cristiani coerenti, capaci di costruire 
una società con delle finalità degne dell’uomo. Voglia Dio preservarci 
dall’“abbassare la guardiaˮ, riducendo la carità a una semplice filantropia, trasformando lo spirito apostolico in una semplice propaganda o la 
Chiesa in un club.
Rendiamo grazie a Dio per questo ritiro, che ci permette, ancora una 
volta, di constatare quanti siano numerosi gli uomini e le donne che, nella 
vita di ogni giorno, sono consapevoli della fedeltà di Dio, manifestata in 
Gesù Cristo e nella sua Chiesa. Tutti insieme ci sentiamo più forti, per 
amare e servire questo nostro mondo, il mondo che Dio ama e che Cristo 
salva. Questo mondo dove l’uomo vuole addentrarsi nei segreti dell’atomo, ma che, nel contempo, rimane cieco sul senso dell’avventura umana. 
Questo mondo ricco di progetti e di exploits tecnici, ma che, nello stesso 
tempo, è angosciato per il futuro. Questo mondo dalle comunicazioni 
sempre più rapide, ma che è anche il mondo della solitudine. Questo 
mondo dove uomini e donne sono capaci di gesti di solidarietà ammirevoli, ma che è anche il mondo dove tanti vivono rinchiusi in se stessi.
Ebbene, è questo mondo che Dio ama, che noi dobbiamo amare e 
servire. Dobbiamo mantenere aperta la porta del nostro cuore per accogliere, capire, dialogare, incoraggiare e permettere ad altri di crescere, 
crescendo noi stessi, grazie alle loro domande.
Aveva ragione il grande papa Paolo VI quando affermava, il giorno di 
Pasqua dell’anno 1969: «Il cristianesimo non è facile, ma è felice». Quindi, aiutiamoci gli uni gli altri a stabilire e ad approfondire una relazione 
personale con Gesù! Gesù che si fa servitore, che questa mattina ancora 
una volta apparecchia la tavola dove è, allo stesso tempo, Colui che serve 
e Colui che si dà in cibo. 
Conserviamo una fiducia assoluta verso questo Dio fedele, e così il 
nostro amore alla persona di Gesù sarà così forte che niente potrà separarci da Lui.
E così sia!
Esercizi della Fraternità
42PRimA DELLA BEnEDiZiOnE
Julián Carrón. Eminenza reverendissima, a nome di tutti desidero 
ringraziarLa innanzitutto per la sua partecipazione ai nostri Esercizi.
Mi consenta di ringraziarLa ancora per l’attenzione con cui segue la nostra esperienza, attenzione che nel tempo è maturata in paterna amicizia.
È significativo che proprio dalla sua voce abbiamo ascoltato la sera 
del 13 marzo il primo annuncio dell’elezione del papa Francesco, il 
grande dono che il Signore ha fatto alla Sua Chiesa.
La ringraziamo per la sua limpida testimonianza di servizio intelligente e discreto al Santo Padre, che ci aiuta nella nostra sequela quotidiana a Cristo.
Grazie, Eminenza!
Cardinale Tauran. Grazie! Quando sono stato fatto cardinale, ho distribuito ai miei amici un piccolo ricordino con questa espressione di san 
Paolo, tratta dalla seconda lettera ai Corinzi: «Siamo i vostri servitori a 
causa di Gesù». Questo è il programma di ogni sacerdote.
Grazie della fiducia!

Sabato 20 aprile, pomeriggio
All’ingresso e all’uscita:
Franz Schubert, Sonata per arpeggione e pianoforte, D 821
Mstislav Rostropovich, violoncello – Benjamin Britten, pianoforte
“Spirto Gentil” n. 18, Decca
n SEcOnDA mEDiTAZiOnE
Julián Carrón
«Mi accada secondo la tua parola»
Ha detto Benedetto XVI: «Tutta la vita cristiana è un rispondere 
all’amore di Dio. La prima risposta è appunto la fede come accoglienza piena di stupore e gratitudine di un’inaudita iniziativa divina che ci 
precede e ci sollecita. E il “sì” della fede segna l’inizio di una luminosa 
storia di amicizia con il Signore, che riempie e dà senso pieno a tutta la 
nostra esistenza».87
È di questa fede che parliamo adesso.
1. La fede è il riconoscimento di una Presenza
«La posizione in cui noi ci troviamo di fronte all’avvenimento di 
Cristo è identica a quella di Zaccheo di fronte a quell’Uomo che si è fermato sotto la pianta su cui egli era salito e gli ha detto: “Scendi in fretta, 
vengo a casa tua”. È la stessa posizione della vedova, il cui unico figlio 
era morto, che si è sentita dire da Gesù, in un modo che a noi appare 
così irrazionale: “Donna, non piangere!” – è assurdo, infatti, dire a una 
madre cui è morto l’unico figlio: “Donna, non piangere!” –. È stata per 
loro ed è anche per noi l’esperienza della presenza di qualcosa di radicalmente diverso dalle nostre immagini e al tempo stesso di totalmente 
e originalmente corrispondente alle aspettative profonde della nostra 
persona. Sperimentare una reale corrispondenza [come dicevamo questa mattina] al cuore nostro è una cosa assolutamente eccezionale [...]. 
Poiché il cuore nostro è fatto per questa corrispondenza, essa dovrebbe 
87 Benedetto XVI, Credere nella carità suscita la carità, 1. Messaggio per la Quaresima 2013. 
15 ottobre 2012.
44essere normale nella vita; e invece non capita mai; quando capita, ciò 
costituisce un’esperienza eccezionale. Avere la sincerità di riconoscere, 
la semplicità di accettare e l’affezione di attaccarsi a una tale Presenza, 
questa è la fede.»88
Giussani prosegue: «Perché avvenga la fede nell’uomo e nel mondo 
deve cioè accadere prima qualcosa che è grazia, pura grazia: l’avvenimento di Cristo, dell’incontro con Cristo, in cui si fa esperienza di una 
eccezionalità che non può accadere da sola. La fede è essenzialmente 
riconoscere la diversità di una Presenza, riconoscere una Presenza eccezionale, divina. [...] Chissà quante volte la Samaritana avrà avuto sete 
dell’atteggiamento con cui Cristo l’ha trattata in quell’istante, senza mai 
accorgersene prima; quando è accaduto, l’ha subito riconosciuto».89
Occorre rendersi conto che la fede cristiana ha la sua sorgente fuori 
di noi. Non è qualcosa che possiamo creare noi. Quante volte ci piacerebbe essere noi a creare la corrispondenza che desideriamo possedere! 
Ma se l’origine della fede è qualcosa fuori di noi, allora essa non ha 
niente a che vedere con un’introspezione, con qualcosa che riusciamo 
a ottenere scavando dentro di noi. La fede non è dunque un sentimento 
o un’etica, perché non è nelle nostre mani, non è nelle nostre capacità 
generare la presenza che ci corrisponde. La fede cristiana è talmente 
determinata dall’oggetto, che senza questa Presenza semplicemente non 
ci sarebbe. Come l’innamoramento: senza la presenza amata, semplicemente non ci sarebbe. È inutile pensare di poterlo generare con qualche 
strategia, con qualche tentativo, con qualche sforzo, con qualche impeto 
di sentimento, con qualche ragionamento (usate tutte le parole che volete): tutto questo è inutile per generare anche solo un istante di esperienza 
di innamoramento. Insomma, fa parte dell’innamoramento una presenza 
che lo faccia scattare, che lo faccia sorgere, che lo sostenga.
Perciò: «La fede è parte dell’avvenimento cristiano perché è parte della grazia che l’avvenimento rappresenta [...]. La fede appartiene 
all’avvenimento perché, in quanto riconoscimento amoroso della presenza di qualcosa di eccezionale, è un dono, è una grazia. Come Cristo 
si dà a me in un avvenimento presente, così vivifica in me la capacità di 
afferrarlo e di riconoscerlo nella sua eccezionalità».90
Ma in che modo la Presenza eccezionale vivifica la capacità di afferrarLa? Perché, se la sua Presenza eccezionale non facilita l’arrivare fino 
88 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., pp. 28-29.
89 Ibidem, pp. 30-31.
90 Ibidem, p. 31.
Sabato pomeriggio
45lì e se, come abbiamo visto questa mattina, non seguiamo il desiderio ridestato da quella Presenza, l’esasperata tensione a dire il Suo nome, noi 
non La raggiungiamo, e il nostro cuore non trova quella soddisfazione 
per cui è fatto. Per questo Giussani scrive: «Lo stesso gesto con cui Dio 
si rende presente all’uomo nell’avvenimento cristiano esalta anche la capacità conoscitiva della coscienza, adegua l’acume dello sguardo umano 
alla realtà eccezionale cui lo provoca. Si dice grazia della fede».91 Per 
analogia, è la presenza della persona amata che esalta la nostra capacità 
conoscitiva affinché noi possiamo coglierla nella sua verità profonda.
Come, allora, si esalta la nostra capacità conoscitiva in modo che 
essa arrivi a cogliere tutta la portata della Presenza? Insiste don Giussani: «Per poter conoscere occorre [...] una posizione di apertura, cioè di 
“amore”. Senza amore non si conosce. In fondo, questo amore è indicato 
da quell’istinto originale per cui la natura – cioè Dio che ci crea – ci 
getta nell’universale paragone con curiosità. [...] Ultimamente, soltanto 
quell’apertura viva all’oggetto che diventa affezione fa sì che esso ci 
tocchi per ciò che è (affici, esser-toccato-da). Come l’uomo cammina 
con tutto se stesso, così vede con tutto se stesso [non si può rompere 
l’unità dell’io, ci ha sempre insegnato don Giussani]: egli vede con gli 
occhi della ragione in quanto il cuore è aperto-a, in quanto cioè l’affezione sostiene l’apertura degli occhi, altrimenti davanti all’oggetto l’occhio 
si chiude, si “addormenta”, fugge via. L’occhio della ragione vede, dunque, in quanto sostenuto dall’affezione, che già esprime il gioco della 
libertà».92
Occorre guardare bene questa descrizione che fa don Giussani per 
poterla capire fino in fondo. Perché è necessaria la Presenza eccezionale? Che cosa c’entra con l’apertura degli occhi della ragione? La Presenza eccezionale calamita in tal modo la curiosità e l’affezione dell’uomo 
– lo vediamo nei bambini – da sostenere l’apertura degli occhi della 
ragione perché essa possa conoscere l’oggetto senza ridurlo. È in quanto sostenuta dall’affezione che la ragione può arrivare a cogliere tutti i 
fattori implicati nella Presenza eccezionale. La presenza eccezionale di 
Cristo spalanca, dunque, lo sguardo esaltando la capacità conoscitiva 
dell’uomo, perché egli possa afferrarLo e riconoscerLo nella Sua eccezionalità. L’abbiamo ricordato con la frase di sant’Agostino su Zaccheo: 
«Egli fu guardato, e allora vide».93 Continua don Giussani: «La fede 
91 L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., pp. 130-131.
92 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., p. 30.
93 Sant’Agostino, Discorso 174, 4.4.
Esercizi della Fraternità
46rappresenta il compimento della ragione umana. Essa è l’intelligenza 
della realtà nel suo orizzonte ultimo, il riconoscimento di ciò in cui tutto 
consiste. L’intelligenza naturale [attenzione!] non riesce a toccare questo orizzonte ultimo. È soltanto per qualcosa che è accaduto, per l’avvenimento di Dio fatto uomo, per il suo dono [per la eccezionalità di questa 
Presenza che abbiamo davanti], che la nostra intelligenza rinnovata può 
riconoscerlo e toccarlo. La fede coglie così un culmine oltre la ragione; 
senza di essa la ragione non si compie, mentre in essa la ragione diventa 
scala della speranza».94
La fede è una forma di conoscenza che è oltre il limite della ragione. 
Perché è oltre il limite della ragione? «Perché coglie una cosa che la 
ragione non può cogliere: “la presenza di Gesù tra noi”, “Cristo è qui 
ora”, la ragione non può percepirlo come percepisce che sei qui tu, è 
chiaro? Però non posso non ammettere che c’è. Perché? Perché c’è un 
fattore qua dentro, c’è un fattore che decide di questa compagnia, di certi 
risultati di questa compagnia, di certe risonanze in questa compagnia, 
così sorprendente che se non affermo qualcosa d’altro non do ragione 
dell’esperienza, perché la ragione è affermare la realtà sperimentabile 
secondo tutti i fattori che la compongono, tutti i fattori. Ci può essere un 
fattore che la compone di cui si sente l’eco, di cui si sente il frutto [lo 
dicevamo questa mattina: il frutto di un’umanità diversa], di cui si vede 
anche la conseguenza, ma non si riesce a vedere direttamente; se io dico: 
“Allora non c’è”, sbaglio, perché elimino qualcosa dell’esperienza, non 
è più ragionevole.»95
Ma noi tante volte, siccome questo riconoscimento comporta una 
fatica, implica una tensione esasperata – in quanti l’avete pensato già 
soltanto ascoltandolo! Immaginate il farlo! –, restiamo all’apparenza, 
ci fermiamo alla superficie di ciò che dovrebbe essere accennato segno, 
sia negando o eliminando quel fattore di cui si sente l’eco, sia accontentandoci di quelle risonanze positive, fino a quando ci stanchiamo, 
ci rendiamo conto che non bastano per vivere, che non sono in grado 
di riempirci, che non soddisfano la vita. E allora la fede incomincia a 
entrare in crisi. È per questo che uno rimane stupito della testimonianza 
che ci ha sempre offerto don Giussani di quella esasperata tensione a 
cogliere tutti i fattori fino al “Tu”. Quando Giussani ci diceva queste 
cose, era semplicemente per un desiderio di complicarci la vita? O era 
per non perdere quella Presenza di cui vedeva le risonanze e che desi-
94 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., p. 32.
95 L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, p. 272.
Sabato pomeriggio
47derava raggiungere? Sentite con quale insistenza ne parla: «La fede è 
razionale, in quanto fiorisce sull’estremo limite della dinamica razionale 
come un fiore di grazia, cui l’uomo aderisce con la sua libertà [insieme 
alla ragione, ecco l’altro fattore decisivo dell’umano: la libertà]. E come 
fa l’uomo ad aderire con la sua libertà a questo fiore incomprensibile 
come origine e come fattura? Aderire con la propria libertà significa, per 
l’uomo, con semplicità riconoscere quello che la sua ragione percepisce 
come eccezionale, con quella immediatezza certa, come avviene per l’evidenza inattaccabile e indistruttibile di fattori e momenti della realtà, 
così come entrano nell’orizzonte della propria persona».96 «Così la mia 
libertà accetta quell’avvenimento, accetta di riconoscerlo.»97
Dice Lewis: «Poiché io sono “io”, devo compiere un atto di abbandono, pur piccolo o facile, vivere per Dio anziché per me. Questo è, se 
volete, il “punto debole”, nell’opera della creazione, il rischio che Dio 
apparentemente pensa che valga la pena di affrontare [con noi]».98
«Perciò, in noi, la fede è sia il riconoscimento dell’eccezionale presente [che compie la ragione], sia l’adesione semplice e sincera che dice 
“sì” [che compie la libertà] e non oppone obiezioni: riconoscimento e 
adesione sono parte del momento in cui il Signore, attraverso la forza 
del Suo Spirito, si rivela a noi, sono parte del momento in cui l’avvenimento di Cristo entra nella nostra vita.»99 Per questo san Paolo dice che 
nessuno può dire che Gesù è il Signore (cioè compiere veramente un atto 
di fede pieno) se non è per lo Spirito Santo,100 che porta la ragione e la libertà alla loro cima, perché la fede cristiana è così umana che esalta tutto 
l’umano, la ragione e la libertà. Senza questa esaltazione e senza che noi 
decidiamo di partecipare a questa esaltazione non c’è la fede. Giussani 
non ha fatto senza scopo questo sforzo gigantesco. Lo ha compiuto per 
aiutarci a capire tutti i fattori della fede, perché oggi, nel nostro mondo, 
nella nostra cultura, se la ragione e la libertà non sono presenti nell’atto 
di fede, non ci sarà più la fede: in un mondo in cui tutto dice il contrario, 
non possiamo credere solo per abitudine. Per questo, seguire Giussani 
è l’unica possibilità di avere, oggi, la fede. Benedetto XVI ha condotto 
una lotta accanita per un allargamento della ragione, per aiutarci a capire 
che la fede ne rappresenta il culmine (reso possibile dall’avvenimento 
stesso di Cristo), perché l’affermazione di Cristo non diventi qualcosa 
96 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., pp. 32-33.
97 Ibidem, p. 31.
98 C.S. Lewis, Il problema della sofferenza, Morcelliana, Brescia 1957, p. 83.
99 L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce..., op. cit., p. 31.
100 Cfr. 1 Cor 12,3.
Esercizi della Fraternità
48di aggiunto alla vita e, in fondo, irrazionale. Ciascuno deve decidere se 
è disponibile a seguire don Giussani in questo percorso per poter vivere 
la fede da uomini, da adulti, in un mondo come il nostro. La fede non è 
un’aggiunta opzionale all’Avvenimento. E senza il riconoscimento della 
fede, la vita è condannata al vuoto. La paura, la solitudine e l’insoddisfazione vincono. Per questo sant’Agostino dice: «Si sente attratto da 
Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella 
giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo».101
Allora, come la fede può diventare sempre più mia?
2. La personalizzazione della fede
Il carisma – quante volte ce lo ha ricordato don Giussani – è un dono 
dello Spirito per aiutare la personalizzazione della fede, rendendola così 
più persuasiva nella vita di ciascuno. In una lettera proprio a don Giussani, Giovanni Paolo II affermava che «l’originalità del carisma di ogni 
movimento “non pretende, né lo potrebbe, di aggiungere alcunché alla 
ricchezza del depositum fidei, custodito dalla Chiesa con appassionata 
fedeltà” [...]. Tale originalità, tuttavia, “costituisce un sostegno potente, 
un richiamo suggestivo e convincente a vivere appieno, con intelligenza 
e creatività, l’esperienza cristiana. Sta in ciò il presupposto per trovare 
risposte adeguate alle sfide e alle urgenze dei tempi e delle circostanze 
storiche sempre diverse”».102
In questo senso, don Giussani ha una preoccupazione costante: che il 
movimento sia in grado di generare una personalità adulta. Perché don 
Giussani ha questa preoccupazione continuamente documentata? Perché 
vede la difficoltà di tale generazione di personalità adulte nella fede. Il 
problema della fede non è alle nostre spalle, come qualcosa che riguardi 
soltanto gli altri. No, questa è l’unica preoccupazione di don Giussani 
nei nostri confronti, sempre: «Il grave problema è la stentatezza con cui 
sorge l’adulto. [...] Quello dunque che manca come volto generale è la 
personalità di fede. Hanno personalità nella cultura, nella professione, 
nel temperamento, ma non personalità di fede ecclesiale (non intimista) 
e dunque c’è una assenza di creatività, perché se manca il soggetto uma-
101 Sant’Agostino, L’Eucarestia: corpo della Chiesa, Città Nuova Editrice, Roma 2000, p. 43.
102 Giovanni Paolo II, Messaggio a monsignor Luigi Giussani in occasione del ventesimo 
anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione, 11 
febbraio 2002.
Sabato pomeriggio
49no, manca anche l’azione».103 Egli è preoccupato per questa difficoltà a 
generare personalità adulte nella fede. 
Ma don Giussani non si accontenta di questa constatazione. Identifica con chiarezza anche qual è la causa profonda di questa carenza: 
«Il motivo di questa situazione è dato da una gravissima decadenza del 
metodo: del metodo [del movimento] rimane una gabbia di parole e di 
formule, manca il genio. È come prosciugato il genio del metodo».104
In che cosa consiste questa decadenza gravissima di metodo? «Ora 
la decadenza di metodo si può così formulare: noi che siamo entrati 
nell’agone ecclesiale e sociale quali affermatori del cristianesimo come 
esperienza, adesso [lo diceva nel 1976, ma penso che valga perfettamente anche per l’oggi] privilegiamo l’intellettualismo sull’esperienza, e 
con l’intellettualismo s’accompagna un esasperato attivismo. E questo è 
gravissimo. Ognuno di noi ora può dire: il movimento non è la mia vita, 
meglio, la vita mia non è movimento; il movimento è una serie di condizionamenti alla mia vita, che non è perciò evocata da esso. [...] “Vi è un 
consenso ideologico invece che una esperienza di vita”. Si agisce molto, 
si fanno molte iniziative, ma non si cerca il riscontro nella vita quotidiana, mentre la vita quotidiana, con l’umiltà cui costringe, con la sofferenza inevitabile, con la responsabilità concreta e ineliminabile, renderebbe 
equilibrati, più concreti e meno evanescenti, più effettivamente fedeli
[Giussani tiene al fatto che la fede possa incidere così potentemente nel 
quotidiano da rispondere alla grave obiezione di Pavese, a quel vivere 
quotidiano che taglia le gambe; senza questo la fede non interesserà più 
innanzitutto a noi, figuratevi agli altri!]. Ancora, si sostituisce all’intelligenza della persona l’intellettualismo della massa, perché l’intelligenza 
– come diceva san Tommaso d’Aquino – agisce scattando dall’esperienza [questo è decisivo]. L’intelligenza scatta dall’esperienza della vita: 
se manca questa non c’è una intelligenza nella persona; allora la sua 
adesione alle iniziative e il suo comportamento di fronte ai problemi che 
angustiano la società [...] è una presenza senza intelligenza. Prima conseguenza: il conformismo, c’è una presenza conformistica, c’è cioè una 
assenza di capacità critica. Nasce un modo di giudicare che, non essendo 
radicato in una esperienza di vita di fronte a Dio, è superficiale e volubile. Perciò [uno, accontentandosi,] o ripete o segue in modo meccanico 
e sordo, oppure critica reattivamente polarizzandosi attorno al proprio 
parere; si blocca, si lamenta e, sdegnosamente o non sdegnosamente, 
103 Scuola responsabili, Collevalenza (Pg), 17-19 settembre 1976. Archivio CL.
104 Ivi.
50
Esercizi della Fraternitàsi ritira e non partecipa. È un giudizio che non è capace di attraversare 
la soggettività del proprio sentimento, per collaborare a creare in unità. 
Seconda conseguenza di questa mancanza di intelligenza è che non c’è 
assunzione creativa. [...] Così si crea l’abitudine, [...] perché la creatività 
dipende dal sentimento di una vita nuova e diversa che ci si sente addosso [non si tratta di fare corsi a Harvard, perché è da una vita che scatta 
una creatività diversa]. Per questo il movimento non diventa la vita di 
ciascuno di noi e [...] la nostra comunicazione assume un tono di “banalità mondana insopportabile” [è una definizione che descrive anche certi 
dialoghi tra noi].»105
Ma questo stato di cose non scoraggia affatto Giussani. Perché, infatti, il Signore permette questa decadenza? «Il Signore ha permesso che 
noi cadessimo, perché avessimo a riprendere più veri, più consapevoli 
del fatto che solo Lui è capace di portare avanti la nostra vita nella via 
giusta, che solo Lui ha la capacità di dilatare l’avvento del suo regno. 
[...] Il Signore permette i nostri errori ed i nostri peccati come un modo 
strano, ma il più drammaticamente operativo, il più pedagogicamente 
efficace, per approfondire il senso del nostro rapporto con Lui. Siamo 
così tenaci nell’amor proprio che, senza l’esperienza del nostro limite, 
non diremmo con autenticità: “Dio tu sei tutto” e “io sono niente”.»106
Allora, possiamo riassumere la gravissima decadenza di metodo con 
queste parole: «C’è una prevalenza decisa dell’intellettualismo sull’esperienza, sull’avvenimento di vita». E questo errore ha una conseguenza immediata: da una posizione intellettuale non potrà mai nascere una vita. «Questo è il punto fondamentale del movimento: l’adulto 
non cresce perché c’è il decadimento del metodo nostro, che è quello 
dell’esperienza, partecipazione a un avvenimento e non consenso a un 
discorso.»107
Arrivati a questo punto, non è difficile immaginare che si parta alla 
ricerca del colpevole di questa situazione – ci conosciamo tutti bene, 
eh? –, cercando di scaricare su qualcuno o sull’organizzazione del movimento la colpa di questo stato di cose. Ma Giussani taglia corto, identificando il vero responsabile: il problema sei tu, sono io, è ciascuno 
di noi. Ecco che cosa dice: «Essere del movimento è partecipare a un 
cambiamento nella concezione di voi stessi, del vostro rapporto con gli 
105 Verso una vita di fede più matura, a cura di Comunione e Liberazione, pro manuscripto, Milano 
1976, pp. 8-9.
106 Ibidem, pp. 8, 10.
107 Scuola responsabili, Collevalenza (Pg), 17-19 settembre 1976. Archivio CL.
Sabato pomeriggio
51altri: il movimento è questo, non è soltanto un’arma per giudicare altri, 
è togliersi qualsiasi alibi, qualsiasi brontolamento, perché il problema 
sei tu e basta. Il movimento, infatti, ha un estremo bisogno di gente che 
diventi adulta: ma chi è l’adulto? L’adulto è definito da un modo suo con 
cui vive i rapporti. L’adulto cristiano è perciò chi vive, tende a vivere 
i rapporti alla luce della fede (tra marito e moglie, tra genitori e figli, 
nella comunità e fuori). Cosa vuol dire [vivere i rapporti] alla luce della 
fede? Vuol dire che l’adulto tende a vivere i rapporti alla luce di questa 
Presenza [che ci ha investiti], perché la fede è questo. Non necessariamente è adulto chi fa i discorsi, chi proclama un metodo e neanche chi 
è responsabile delle iniziative o chi dà le cose da fare, perché non sono 
queste le cose che lo definiscono: l’adulto è chi tende a vivere i rapporti 
con le persone in Cristo»,108 lasciando che siano investiti dalla Sua presenza. Senza il prevalere di quella Presenza negli occhi, nella vita, come 
qualcosa di reale e presente, senza che quella Presenza incomba sul nostro modo di rapportarci al reale, noi viviamo il rapporto con tutto come 
tutti gli altri. Solo chi tende a vivere qualsiasi rapporto – con se stesso, 
con le persone in casa, al lavoro, con gli amici, con le circostanze – in 
Cristo, cioè con la Sua presenza negli occhi, nel cuore, potrà verificare 
la vittoria di Cristo risorto. È un’esperienza che ciascuno deve fare: non 
la possiamo sostituire con dei commenti o con delle opinioni.
Continua Giussani: «Questa fisionomia della vita cristiana è piena di 
vittoria, baldanza, perché Cristo è vittorioso. Cristo è risorto qui, in me, 
nell’ambiente di lavoro, dovunque vada, in casa mia: è risorto. Sono vittorioso, perché è vittorioso [cioè risorto] chi mi possiede. [...] Questa è la 
vittoria che vince il mondo, cioè la nostra carne, la nostra insignificanza 
[perché investita dalla sua Presenza viva, reale]».109
E qual è il segno della fede come esperienza? La letizia. Se questa 
vittoria non è un’esperienza vissuta, non siamo lieti. È inutile nascondersi dietro un dito. Possiamo riempire i nostri raduni di parole, ma se 
manca l’esperienza della vittoria di Cristo in noi, «non siamo lieti e non 
cambiamo nulla intorno a noi».110
Lo scopo di questa tensione a vivere tutti i rapporti in Cristo, cioè 
investiti dalla Sua presenza, è raggiungere ciò che per Giussani costituisce l’adulto: l’unità della vita (che è il contrario della frammentazione 
che tante volte ci caratterizza): «L’adulto è chi ha raggiunto l’unità della 
108 Giornata d’inizio anno di CL, Milano, 10 settembre 1977. Archivio CL.
109 Ibidem. 
110 Convegno adulti, Varese, 19 maggio 1979. Archivio CL.
Esercizi della Fraternità
52vita, una coscienza del suo destino, del suo significato, una energia di 
adesione. L’adulto è qualificato dall’affezione e quindi dal gusto del suo 
significato».111
Di fronte a certi fraintendimenti che si erano verificati riguardo al 
significato della personalizzazione della fede, Giussani è costretto a fare 
due puntualizzazioni.
a) La personalizzazione della fede non significa affatto un ripiegamento sui propri problemi personali o una sospensione dell’impeto missionario. Non è infatti «sospendendo la presenza missionaria che trovo 
soluzione per risolvere i miei problemi, che riesco a risolvere questi 
problemi», osservava un amico. Al contrario, come dicevamo prima, la 
personalizzazione della fede è la tensione a vivere tutti i rapporti, circostanze, sfide, compreso il problema personale, alla luce della presenza 
di Cristo, lasciando che siano investiti dalla presenza di Cristo. Anche, o 
meglio anzitutto, i problemi personali devono essere affrontati alla luce 
della Presenza che ci ha raggiunti.
b) Ma senza che la fede mostri la sua pertinenza ai nostri problemi 
personali, la nostra missione è presunzione: «In questi anni passati, noi 
siamo stati veramente vittima della presunzione del movimento come il 
toccasana della Chiesa e dell’Italia [della società], ma questo mi porta 
alla radice dell’osservazione: che se il movimento non è l’esperienza 
della fede come risolutrice, come illuminante le mie problematiche, non 
può essere neanche proposta agli altri [se non è vissuta l’esperienza della 
fede come illuminante le nostre problematiche, se essa non serve a noi, 
diventiamo presuntuosamente giudici di tutti!]. La proposta è attraverso 
la mia umanità, e perciò è attraverso la mia umanità risposta, o la mia 
umanità provocata [che il movimento può diventare proposta agli altri]. 
[...] È vero che noi abbiamo un compito missionario per la Chiesa e per 
l’Italia, e per la società di oggi, ma è attraverso, passando attraverso il 
fenomeno della problematica personale, la risposta ad essa, la provocazione fatta ad essa, [...] che la missione diventa veramente una proposta 
sostenibile. [...] L’impeto della missione è una gratitudine, altrimenti è 
una presunzione».112
Allora, che cosa vuole dire personalizzare la fede? Vuol dire questo: 
«Tutto ciò che ci viene detto e dato [la proposta che ci viene fatta] deve 
111 Consiglio di CL, Milano, 18-19 giugno 1977. Archivio CL.
112 Centro di CL, Milano, 17 novembre 1977. Archivio CL.
Domenica mattina
53
Sabato pomeriggiointeressare la vita [la vita!]. E la vita è l’emozione del cuore, il mal di 
testa, lo sguardo sulle cose, la curiosità su tutto, l’incontrare, il riso e 
il pianto, l’entusiasmo e lo smarrimento [una descrizione stupenda per 
“concretare” il fatto che, se la fede non è pertinente alle esigenze della 
vita, non interesserà a noi e sarà inutile per tutti]. In una società come 
questa non si può creare qualcosa di nuovo se non con la vita: non c’è 
struttura né organizzazione o iniziative che tengano. È solo una vita diversa e nuova che può rivoluzionare strutture, iniziative, rapporti, insomma tutto. E la vita è mia, irriducibilmente mia [inconfondibilmente 
mia]».113
Allora, come può avvenire di fatto la personalizzazione della fede? 
Occorre che Cristo incomba su tutto. Occorre «che mangiando e bevendo, che vivendo i rapporti con gli amici, andando a lavorare, andando 
a studiare, nella vita affettiva con la tua donna e col tuo uomo, coi tuoi 
figli, con gli altri, nella vita pubblica, per la strada, questa parola che ci 
chiama per nome non sia mai dimenticata, questo Cristo che incombe 
sul nostro cuore, che penetra la nostra sete di felicità per dire: Io sono 
la via, la verità, la vita [non sia mai dimenticato] [...]. Il movimento è 
questo. È come se la vita del movimento debba costituire l’esperienza 
di una ragione più grande per vivere, anzi dell’unica ragione adeguata, 
totale per vivere. [...] Il movimento è ciò che aiuta questo e basta. Aiuta 
ad esser te stesso».114
Qual è, dunque, il cammino da percorrere perché questa personalizzazione della fede accada?
3. Il metodo della personalizzazione della fede è la sequela
«La vita la si impara seguendo chi vive: non perché sia migliore di 
te! Può essere un miliardo di volte peggiore di te! Ma come metodo, 
come atteggiamento di vita, come comportamento, come atteggiamento 
applicativo è un esempio. Si segue un esempio, non si segue un discorso. Perché il discorso è alla mercé della propria interpretazione, mentre 
seguire un esempio sfida il nostro modo di fare.»115
Don Giussani ha costantemente indicato la sequela come metodo 
per la maturità: «C’è un solo mezzo, amici miei, per essere educati a 
113 «Movimento, “regola” di libertà», in CL litterae communionis, n. 11, novembre 1978, p. 44.
114 Giornata d’inizio anno di CL, Varese, 17 settembre 1978. Archivio CL.
115 Incontro dei preti di CL, Idice San Lazzaro (Bo), 7 gennaio 1980. Archivio CL.
Esercizi della Fraternità
54questa presenza, per essere sostenuti nella fede fino a diventare testimonianza e non agitatori o agitati come in un’associazione: questo modo 
con cui possiamo imparare la presenza è la sequela».116 «Seguire vuol 
dire immedesimarsi con persone che vivono con più maturità la fede, 
coinvolgersi in un’esperienza viva, che “passa” (tradit, tradizione) il suo 
dinamismo e il suo gusto dentro di noi. Questo dinamismo e questo gusto passano in noi non attraverso i nostri ragionamenti, non al termine 
di una logica, ma quasi per pressione osmotica: è un cuore nuovo che 
si comunica al nostro, è il cuore di un altro che incomincia a muoversi 
dentro la nostra vita.»117 Altro che ragionamenti, commenti o battute! La 
sequela è un’esperienza viva!
Per questo, come vi ho scritto nella lettera dopo il Sinodo, citando 
don Giussani: «La sequela è il desiderio di rivivere l’esperienza della 
persona che ti ha provocato e ti provoca con la sua presenza nella vita 
della comunità, è la tensione a diventare non come quella persona nella 
sua concretezza piena di limiti, ma come quella persona nel valore a 
cui si dà e che redime in fondo anche la sua faccia di povero uomo; è il 
desiderio di partecipare alla vita di quella persona nella quale ti è portato 
qualcosa d’Altro, ed è questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui aspiri, cui 
vuoi aderire, dentro questo cammino».118 Questa frase resterà per noi il 
termine costante di paragone per verificare se ciascuno sta seguendo o 
no, cioè se sta rivivendo un’esperienza o no. E grazie a Dio, come al solito, don Giussani non ci ha dato solo questa compiuta spiegazione della 
sequela, ma ha anche giudicato i concetti di sequela diffusi tra di noi, 
individuandone i limiti, per aiutarci appassionatamente a non perdere 
tempo.
Allora, senza la pretesa di essere esaurienti, vediamo alcune modalità 
di riduzione della sequela. 
a) La prima riduzione della sequela è la sua identificazione con l’ascoltare un discorso o con il ripetere parole sentite (pensando di essere 
così ancora più sicuri di seguire). «Ma la sequela non è mica quella roba 
lì!»,119 dice Giussani. Io posso infatti ascoltare quel che dice un altro e 
ripeterlo senza muovere il centro del mio io, perciò senza che il centro 
del mio sia toccato nella sua radice. E allora la proposta non genera in 
116 Giornata d’inizio anno di CL, Milano, 10 settembre 1977. Archivio CL.
117 L. Giussani, Dall’utopia alla presenza (1975-1978), Bur, Milano 2006, p. 59.
118 L. Giussani, Il rischio educativo. Come creazione di personalità e di storia, op. cit. p. 64.
119 Diaconia diocesana, Milano, 9 gennaio 1980. Archivio CL.
55
Sabato pomeriggiome niente di nuovo, non rinnova il mio essere. Eppure, se a chi cerca di 
ripetere o di imparare un contenuto di parola chiedessimo che termine 
userebbe per descrivere quel che sta facendo, risponderebbe sinceramente: «Seguire: sto seguendo». E invece no, questa è una riduzione 
della sequela, questo non è seguire; ripetere il discorso non è seguire. 
Diceva Daniélou: «Tutta la scienza del mondo può allargare le dimensioni della gabbia in cui si trova l’uomo ma non può farlo uscire da 
questa gabbia».120 Soltanto un’esperienza lo può ottenere: «La sequela è 
immedesimarsi e riprendere in sé, imitare – questa è la parola – imitare 
la traduzione concreta e pratica, le modalità concrete e pratiche con cui 
chi guida la comunità, chi guida il movimento traduce il discorso che 
fa!».121
b) La seconda riduzione è identificare la sequela con iniziative, riunioni e cose da fare. «Il Movimento è nato da una presenza che si imponeva e portava alla vita la provocazione di una promessa da seguire. 
Ma poi abbiamo affidato la continuità di questo inizio ai discorsi e alle 
iniziative, alle riunioni e alle cose da fare. Non l’abbiamo affidato alla 
nostra vita, così che [ecco il sintomo che non si tratta di vera sequela] l’inizio ha cessato molto presto di essere verità offerta alla nostra persona 
ed è divenuto spunto di una associazione, di una realtà su cui scaricare la 
responsabilità del proprio lavoro e dalla quale pretendere la risoluzione 
delle cose. Quello che doveva essere l’accoglienza di una provocazione 
e quindi un seguire vivo è diventato obbedienza all’organizzazione.»122
c) La terza riduzione della sequela è il personalismo: penso di seguire 
perché mi attacco alla persona. No, dice don Giussani. Infatti, «la sequela è l’immedesimarsi con intelligenza e con cuore a [...] una modalità di 
vita che connette quel che si vive con il proprio destino, che è Cristo! 
Perciò la sequela vuol dire un modo di percepire, riconoscere e immedesimarsi con i valori proposti, cioè con l’esperienza proposta, la quale 
può essere comunicata attraverso una determinata persona; ma non si 
segue la persona, non è la persona che si segue! Si segue l’esperienza 
che quella persona vive, perciò [la sequela è] libera dalla persona! Mentre, per esempio, tra di noi, è immensamente facile trovare che la gente 
viene a legarsi alla nostra persona, [sta parlando di sé] per cui restano 
120 J. Daniélou, Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia 2012, p. 136.
121 Diaconia diocesana, Milano, 9 gennaio 1980. Archivio CL.
122 L. Giussani, Il rischio educativo. Come creazione di personalità e di storia, op. cit., p. 63.
Esercizi della Fraternità
56dipendenti dalla nostra persona. E un sintomo chiarissimo [di questo] è 
che non avviene una sequela tra di loro, vale a dire non avviene un’affezione, una comunione tra di loro, non diventano un avvenimento, non 
diventano tra di loro una unità, un avvenimento, perché [fate attenzione 
alla ragione che dà Giussani] tutti sono legati alla mia persona! Possono 
essere cento, legatissimi alla mia persona... Guardate che questo è un 
malanno terribile!».123 Uno potrebbe dire: «Ma che cosa vuoi di più che 
legarti alla persona di don Giussani?». Per questo impressiona che don 
Giussani dica queste cose proprio riferendosi al legame con la sua persona! Sta affermando che coloro che dicevano di seguirlo in realtà non 
lo stavano seguendo, e lo si capiva dal fatto che, malgrado fossero legati 
a lui, non accadeva nulla tra di loro. Ognuno “dipendente” da Giussani, “legato” a lui; ma nessuna affezione, nessun avvenimento tra loro. 
Perché? La ragione la dice don Giussani: «Ciò che unisce è che ognuno 
impari», cioè che ognuno faccia l’esperienza di colui che segue. Solo 
così può accadere la comunione, non mettendosi d’accordo. Occorre che 
ciascuno impari da don Giussani, che riviva la sua esperienza.
Don Giussani ci ha lasciato tutta una serie di strumenti – per chi 
vuole veramente seguire –, per aiutarci in mezzo alle difficoltà che dobbiamo affrontare sulla nostra strada.
Se adesso riprendiamo la concezione di sequela richiamata prima, 
capiamo che la questione decisiva è che a tutte le riduzioni manca il 
rivivere l’esperienza dell’altro che ci ha colpiti, cioè l’esperienza di 
Giussani. Se uno non percorre la strada che gli consente di fare in prima 
persona la stessa identica esperienza che fa colui che l’ha provocato e lo 
provoca con la sua presenza, quel che l’ha colpito dell’altro non diventerà mai suo.
In che cosa vedo che faccio l’esperienza del seguire? Nel fatto 
che non mi limito ad ascoltare o a ripetere un discorso, non mi fermo all’organizzazione o alla reiterazione formalistica dei gesti, non 
mi riduco ad attaccarmi personalisticamente a un altro, ma partecipo alla vita di quella persona che mi ha portato qualcosa d’Altro. 
Perché se io non arrivo, rivivendo l’esperienza dell’altra persona, a 
questo Altro – che è ciò che il mio cuore desidera, cui è devoto, cui 
aspira –, nel tempo non mi importerà più nulla di quella sequela, perché non sarà in grado di prendermi. La gente non abbandona la fede 
innanzitutto perché abbia un problema con il dogma della Trinità, 
per esempio, ma perché, non facendo questa esperienza nella vita, la 
123 Consiglio Nazionale di CL, Idice San Lazzaro (Bo), 1-2 marzo 1980. Archivio CL.
57
Sabato pomeriggiofede a un certo momento perde la sua ragionevolezza.
Il vangelo documenta di continuo le riduzioni cui abbiamo accennato. Anche i discepoli cercano di legarsi personalisticamente a Cristo: 
«Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, 
comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi 
risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. Allora comincerete a 
dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle 
nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete».124
Ecco un altro episodio: «“Voi chi dite che io sia?”. Rispose Simon 
Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, 
Simone figlio di Giona [...]”.[...] Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno. Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò 
a protestare dicendo: “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà 
mai”. Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: “Lungi da me, satana! Tu mi sei 
di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”».125
Gesù non accetta che si stabilisca un legame personalistico con Lui: non 
è sufficiente che Pietro aderisca alla Sua persona, occorre che egli partecipi alla Sua esperienza, perché se Pietro non rifà l’esperienza di Gesù, 
non riuscirà a capire e a obbedire al disegno di Dio su Gesù.
Lo stesso succede dopo la moltiplicazione dei pani: tutti aderiscono, si legano a Lui fino al punto di volerlo fare re. Ma Gesù non cede 
a questo modo di attaccarsi a Lui, perché sa che all’uomo non basta 
mangiare il pane, che l’uomo ha bisogno di un’altra cosa, e li sfida: «In 
verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo 
e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. [...] Come il Padre, 
che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che 
mangia me vivrà per me».126 Gesù li vuole portare a fare la Sua stessa 
esperienza. 
E quando Pietro nel Getsemani tira fuori la spada e colpisce l’orecchio del servo del sommo sacerdote, Gesù gli dice: «Rimetti la spada 
nel fodero [...]. Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che 
mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli?».127 Gesù non accetta 
riduzioni.
124 Lc 13,25-27.
125 Mt 16,15-23.
126 Gv 6,53-57.
127 Mt 26,52-53.
Esercizi della Fraternità
58Con questo, Gesù dove voleva portare i discepoli? A capire il disegno 
di un Altro, affinché potessero entrarvi anche loro. Se non ci introducesse al Padre, Gesù non ci svelerebbe l’origine ultima della Sua diversità e 
non ci aiuterebbe a fare la Sua stessa esperienza. Possiamo ripercorrere 
tutto il vangelo e verificare che la concezione di sequela che don Giussani ci comunica è esattamente quella di Cristo: «Gesù non concepiva 
l’attrattiva sua sugli altri come un riferimento ultimo a sé [come un attaccare le persone a sé], ma al Padre [all’Altro a cui aspiro, cui il mio 
cuore può essere devoto e legarsi]: a sé perché Lui potesse condurre 
al Padre, come conoscenza e come obbedienza».128 Senza una vera sequela, l’esperienza di Gesù non potrebbe diventare mia, e l’esperienza 
di Giussani non potrebbe diventare mia, tua, nostra. Ma se essa non 
diventa nostra, noi rimaniamo da soli con il nostro niente. Perché se non 
ci lasciamo introdurre al Mistero di Dio, nel quale è il significato ultimo 
del vivere, nel quale possiamo trovare quello che corrisponde alla nostra 
attesa, come possiamo stare davanti alla vita e ai suoi drammi, alle sue 
sfide e ai suoi dolori? 
Per questo, se noi riduciamo la sequela evitando di rivivere l’esperienza di colui che ci ha colpito, prima o poi non ci interesserà più il 
cristianesimo. Non è una questione di strategia. È la fede che qui è in 
gioco, perché senza sequela non vedremo la convenienza umana della 
fede, non la sentiremo corrispondente all’attesa che abbiamo dentro il 
cuore. Al contrario, il segno che vivo la stessa esperienza di colui che 
mi ha colpito è che io trovo l’Altro a cui aspiro e perciò sperimento 
quella corrispondenza al cuore che mi conferma la verità della fede. Per 
questo sono devoto: perché con Gesù, attaccato a Gesù, entro di più nel 
Mistero. Gesù mi porta costantemente a entrare nel Mistero del Padre. 
Egli è venuto per questo: per educarci al Mistero, per introdurci al Padre. E proprio perché noi siamo fatti per questo, non possiamo mentire 
a noi stessi e nessuno ci può ingannare. Ci può distrarre per un po’, ma 
qualunque altra cosa, siccome non ci corrisponde, non durerà a lungo.
Se la sequela è il metodo della personalizzazione della fede, allora, 
seguendo, sperimento ogni volta di più come la fede diventi sempre più 
mia, come il rapporto con Cristo diventi sempre più mio. Ne sono segni 
la novità della vita e il cambiamento che ne nasce. Questi tratti iniziano 
a definire il mio volto, la mia identità, ovunque io sia, a casa o al lavoro, 
da solo o in compagnia, in vacanza o impegnato coi problemi che mi si 
presentano.
128 L. Giussani, L’uomo e il suo destino, Marietti, Genova 1999, p. 129.
59
Sabato pomeriggioPer questo noi non possiamo scambiare l’esperienza con qualsiasi 
cosa: l’esperienza è il luogo dell’evidenza, se ci atteniamo ad essa non 
possiamo confonderci. Come dice Lewis: «Quello che mi piace dell’esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio 
di svolte sbagliate; ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso 
di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto. Potete 
aver ingannato voi stessi, ma l’esperienza non sta cercando di ingannarvi. L’universo risponde il vero quando lo interrogate onestamente».129
Questo è il vantaggio di uno che vuole vivere: esso ha nella propria 
esperienza i segni della verità che lo ha raggiunto; perché l’esperienza 
ha un’evidenza tale che, anche se vuoi lottare contro di essa, non la puoi 
cancellare, resta. Perciò nessun personalismo, nessun già-saputo, nessuna interpretazione, nessuna riduzione possono essere confusi con l’esperienza della corrispondenza, con il rapporto con l’Altro che desideri, a 
cui aspiri. E noi lo sappiamo benissimo. Per questo ciascuno deve farci 
i conti e decidere o meno di obbedire all’esperienza. Perché, in fondo, 
che cos’è l’obbedienza? «Al limite l’estrema forma dell’obbedienza è 
seguire la scoperta di se stessi operata alla luce della parola e dell’esempio di un altro»,130 perché colpiti da un altro. La scoperta di sé provocata 
dall’esperienza di un altro è un avvenimento assolutamente irriducibile. 
Possiamo fare quel che vogliamo, possiamo ingannarci quanto vogliamo, ma questo avvenimento è irriducibile, non è in nostro potere.
Perciò don Giussani riassume la sfida con questa parola: «sequela». 
4. La presenza
Questo seguire, attraverso il cambiamento che genera in noi, è ciò 
che ci rende presenza. La fede come esperienza reale ci fa fiorire come 
presenza.
«Essere presenza, questa è la nostra ultima categoria. Essere presenza, qualunque temperamento si abbia e a prescindere dalle doti di cui si 
disponga [...] vuol dire un modo diverso di essere dentro una situazione 
– perché non si vive se non dentro il rapporto con la propria ragazza, 
con gli amici, con i genitori, con il corso universitario che si frequenta, 
con il libro che si deve studiare –, in un dato momento culturale e politico della società. Essere presenza in una situazione [guardate che modo 
129 C.S. Lewis, Sorpreso dalla gioia, Jaca Book, Milano 2002, p. 131.
130 L. Giussani, Si può vivere così?, op. cit., p. 149.
Esercizi della Fraternità
60imponente di dirlo] vuol dire esserci in modo da perturbarla, così che, 
se tu non ci fossi, tutti se ne accorgerebbero. Dove ci sarai, gli altri si 
arrabbieranno o ti ammireranno, oppure sembreranno essere indifferenti, ma non potranno non riconoscere la tua “diversità”. Essere presenza vuol dire essere dentro una situazione rendendo Cristo avvenimento 
della nostra persona. [...] Il vero annuncio [è qui il punto decisivo!] lo 
facciamo attraverso quello che Cristo ha perturbato nella nostra vita, avviene attraverso la perturbazione che Cristo realizza in noi: noi rendiamo presente Cristo attraverso il cambiamento che Egli opera in noi. È il 
concetto di testimonianza. Noi usiamo facilmente la parola presenza, ma 
la presenza è soprattutto questo: la perturbazione mirabile, affascinante, 
che l’amicizia che si instaura fra noi per Cristo – questo tipo di amicizia 
capace di letizia e di gioia, dell’impossibile gioia – provoca.»
131
Ce lo ha ricordato papa Francesco: «Io mi domando: dove trovavano 
i primi discepoli la forza per questa loro testimonianza? [...] La loro 
fede si basava su un’esperienza così forte e personale di Cristo morto 
e risorto che non avevano paura di nulla e di nessuno [...]: quando una 
persona conosce veramente Gesù Cristo e crede in Lui, sperimenta la 
sua presenza nella vita e la forza della sua Risurrezione, e non può fare 
a meno di comunicare questa esperienza».132
Noi, quindi, perturbiamo un ambiente solo attraverso il cambiamento 
che Egli opera in noi. È questo lasciarsi plasmare da Lui che ci rende 
testimoni, come dice ancora Daniélou: «Ciò che ne fa una testimonianza 
è il fatto di manifestare un’azione divina proprio là dove non si trova una 
generosità eccezionale. L’eroismo dimostra quel che può fare l’uomo. 
La santità dimostra quel che può fare Dio».133
Quel che ci auguriamo è di diventare, in ogni situazione, quella «irruzione» descritta da Julien Green: «Pensato oggi al chiasso, alle migliaia 
di parole inutili, al rumore della strada, rumore infernale, deprimente, 
alle telefonate, ecc., tutto ciò che forma il tessuto della giornata e, in 
mezzo al caos, un uomo che con gesti tranquilli e parole che non cambiano mai opera il miracolo della discesa di Dio tra noi. [È la] irruzione 
della fede [...], irruzione dell’infinito nel nostro tempo artificioso».134
Che è quel che aspettano tutti, come ci ricorda don Giussani: «Ciò che 
manca non è tanto la ripetizione verbale o culturale dell’annuncio [cioè 
131 L. Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, Edit Editoriale italiana-Il Sabato, Roma 
1993, pp. 345-346. 
132 Francesco, Regina Coeli, 14 aprile 2013.
133 J. Daniélou, Saggio sul mistero della storia, op. cit., p. 128.
134 J. Green, L’espatriato. Diario 1984-1990, Mursia, Milano 1992, p. 68.
61
Sabato pomeriggiouna intellettualizzazione della fede o un discorso]. L’uomo di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza dell’incontro con persone 
per le quali il fatto di Cristo è realtà così presente che la vita loro è 
cambiata. È un impatto umano che può scuotere l’uomo di oggi: un avvenimento che sia eco dell’avvenimento iniziale, quando Gesù alzò gli 
occhi e disse: “Zaccheo, scendi subito, vengo a casa tua”».135 È così che 
sono bruciati via duemila anni di storia e noi possiamo fare ora la stessa 
identica esperienza di Zaccheo. Noi testimoniamo a tutti che Cristo è 
presente attraverso il cambiamento che sorprendiamo in noi. 
«La normalità diventa improvvisamente densa e tesa secondo la sua 
verità, e la sua verità è il rapporto con l’Infinito [...]. La normalità, istante per istante, è rapporto con quella presenza. [...] La presenza di Cristo, 
nella normalità del vivere, implica sempre di più il battito del cuore: la 
commozione della Sua presenza diventa commozione nella vita quotidiana e illumina, intenerisce, abbellisce, rende dolce il tenore della 
vita quotidiana, sempre di più. Non c’è niente di inutile, non c’è niente 
di estraneo, perché non c’è niente di estraneo al tuo destino, e perciò 
non c’è niente a cui non ci si possa affezionare, a tutto ci si affeziona, 
nasce un’affezione a tutto, tutto, con le sue conseguenze magnifiche di 
rispetto della cosa che fai, di precisione nella cosa che fai, di lealtà con 
la tua opera concreta, di tenacia nel perseguire il suo fine; diventi più 
instancabile.»
136
Lo dice bene Werfel: «Ogni suo gesto, ogni saluto, ogni sorriso erano 
pieni di quell’infinito che non c’era bisogno di evocare per nome»,137
tanto era palese. 
Se è questo cambiamento che rende presente Cristo, allora occorre purificare la nostra concezione di presenza da certi connotati con 
cui a volte viene identificata, come ci raccomandava don Giussani: 
«Dall’Equipe del 1976, il cui titolo era Dall’utopia alla presenza, è 
stato fatto un cammino che ci spinge ora a sfondare e sfrondare la 
parola presenza: bisogna sfondarla e sfrondarla. [...] La presenza è 
un argomento che coincide con il tuo io. La presenza nasce e consiste 
nella persona. [...] E quello che definisce la persona come attore e protagonista di una presenza è la chiarezza della fede, è quella chiarezza 
della coscienza che si chiama fede [...]. La presenza è tutta quanta 
consistente nella persona, nasce e consiste nella persona e la persona 
135 L. Giussani, L’avvenimento cristiano, Bur, Milano 2003, pp. 23-24.
136 L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo..., op. cit., pp. 101-104.
137 F. Werfel, Barbara, Corbaccio, Milano 2000, p. 52.
Esercizi della Fraternità
62è intelligenza della realtà fino a toccare l’orizzonte ultimo».138
Così come la personalizzazione non si riduce a un intimismo o a 
una sospensione dell’impeto missionario, allo stesso modo la centratura della presenza nella persona non è da leggere nella opposizione 
tra “pubblico” e “privato”, come un ridimensionamento della presenza, 
un ripiegamento su se stessi. Al contrario: è una profonda ricentratura 
secondo l’impostazione originale del movimento. Vale a dire: affermare 
che la presenza è tutta consistente nella persona non significa separare o 
opporre una sfera privata, intimistica, a quella pubblica (non esiste questa divisione!), ma significa indicare il luogo originale di ogni cambiamento, la radice da cui viene un frutto la cui dilatazione investe la storia 
intera, secondo il disegno del Mistero e non secondo i nostri programmi. 
Tutto il resto è illusione, inganno, fa perdere tempo. La persona non 
è il “privato” in opposizione al “pubblico” (sono categorie mondane e 
riduttive, del tutto inapplicabili alla vita di fede). Il cambiamento della 
persona e l’esistenza di una comunità cristiana autentica hanno una valenza storica.
«La storia non è definita, nei suoi tempi, da noi. A noi spetta di vivere 
la presenza: un credito totale all’Infinito che è entrato nella nostra vita 
e che si rivela immediatamente come umanità nuova, come amicizia, 
come comunione. “Non temere, piccolo gregge, io ho vinto il mondo.” 
“Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede.” La nostra fede 
avrà bisogno di sette, otto, nove secoli perché tutto il mondo universitario sia di nuovo investito dalla presenza cristiana? Non sono, questi, 
calcoli che noi possiamo decifrare. L’università ci interessa per l’edificazione del nostro soggetto, non per dire: “Vinciamo”. [...] Dobbiamo abbandonare quella interpretazione ideologica della vita universitaria che 
produce un lavoro affannoso e logorante, pesante e amaro, per cui tanti 
se ne vanno; mentre nessuno se ne va da una umanità nuova, eccetto il 
caso di una ribellione diabolica e feroce.»139
Ma dire questo non significa non fare niente. Vuol dire ripartire con 
semplicità, senza presunzione e pretese egemoniche, dal porre di nuovo 
gesti e luoghi in cui il soggetto possa essere edificato; così che, a chi ci 
vede, venga la voglia di venire con noi per il fascino della vita che ha 
davanti agli occhi.
«Moltiplicare e dilatare la comunità cristiana negli ambienti in cui 
viviamo: questo è dunque il nostro apporto ai nostri fratelli uomini, aper-
138 L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo..., op. cit., pp. 142-143.
139 L. Giussani, Dall’utopia alla presenza, op. cit., pp. 68-69.
63
Sabato pomeriggioEsercizi della Fraternità
64
ti a valorizzare anche l’infinitesimale spunto che l’intuizione altrui ci palesi, pronti a collaborare con ogni fatto che, alla luce della fede, ci appaia 
giusto. Il soggetto vero di questa avventura, di questo apporto storico, è 
la persona in quanto appartiene alla comunione. Così è sorto lo slogan 
“Comunione e Liberazione”.»140
140 L. Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, op. cit., p. 345.Venerdì sera
65
Domenica 21 aprile, mattina 
All’ingresso e all’uscita:
Sergej Rachmaninov, Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in do minore, op. 18
Sviatoslav Richter, pianoforte
Stanislaw Wislocki – Warsaw Philarmonic Orchestra
“Spirto Gentil” n. 8, Deutsche Grammophon
Don Pino. «Egli fu guardato, e allora vide.»141 Che cos’è l’Angelus, 
se non l’istante della giornata in cui prendiamo coscienza dell’iniziativa 
del Mistero fatto carne, di Cristo, verso ciascuno di noi? Al di fuori di 
questa iniziativa c’è solo il groviglio delle nostre immagini. Accorgendosi e accogliendo la Sua iniziativa, inizia il nostro protagonismo nel 
mondo.
Angelus
Lodi
n ASSEmBLEA
Davide Prosperi. L’assemblea di questa mattina ha lo scopo di fissare alcuni degli elementi che possono aiutarci di più nel cammino dei 
prossimi mesi, perché avremo l’opportunità di lavorare ancora insieme 
sul contenuto di questi Esercizi.
La prima sera siamo stati sfidati dalla domanda di Gesù: «Ma il 
Figlio dell’Uomo, quando tornerà, troverà ancora la fede?». Ci siamo 
sentiti rivolgere questa domanda personalmente, non appena in senso 
escatologico, ma siamo stati messi a nudo di fronte all’esperienza che 
facciamo tutti i giorni, perché il «quando tornerà» è ora. E questa sfida 
di Gesù, che è un abbraccio, rischia, può rischiare di diventare in noi 
dubbio e intellettualismo. Un po’ l’abbiamo visto come esito del lavoro fatto negli alberghi, nelle domande che sono arrivate. Pensiamo che 
possa essere utile riproporre, anche se in modo critico, alcune di queste 
domande, che nella stragrande maggioranza erano relative alla seconda lezione, sottolineando la difficoltà a rispondere all’avvenimento, ma 
dando per scontato l’avvenimento stesso.
141 Sant’Agostino, Discorso 174, 4.4.Esercizi della Fraternità
66
Prima domanda. Immedesimandoci con Cristo noi conosciamo Zaccheo; sembrerebbe più immediato immedesimarci con Zaccheo. Come 
è possibile immedesimarci con Cristo, fare la Sua stessa esperienza? 
Pensare di fare l’esperienza di Cristo è da brivido.
Julián Carrón. Questo è un esempio della prevalenza dell’intellettualismo sull’esperienza, tanto diffusa tra noi, perché sarebbe bastato 
partire dall’esperienza che ciascuno di noi ha fatto per rispondere a questa domanda in modo semplice. Ma noi siamo «moderni» e appena sentiamo certe parole diamo loro subito un significato moderno.
Per noi immedesimarci con Cristo che cosa vuol dire? “Immaginare” 
come Lui fa. Allora come possiamo essere sicuri di immaginare correttamente? E di non ridurre Cristo alla immagine che noi ci facciamo? Chi 
mi assicura di fare la Sua stessa identica esperienza? È perfettamente 
comprensibile il timore. Ma se noi seguissimo quel che don Giussani ci 
dice – correggendoci in continuazione –, cioè che la realtà si rende trasparente nell’esperienza (l’esperienza che noi facciamo), sarebbe tutto 
più semplice. Possiamo, infatti, immedesimarci con quello che vive un 
altro solo per una esperienza che abbiamo fatto noi. 
Che esperienza abbiamo fatto imbattendoci nel movimento? Quando uno incontra il movimento, quando vede qualcosa che lo stupisce, 
non deve immaginare nulla: accusa il contraccolpo di ciò che è davanti 
ai suoi occhi. È di questo capovolgimento di metodo avvenuto con il 
cristianesimo che ci ha parlato don Giussani. E questa è la prima cosa 
che anche Giovanni e Andrea o Zaccheo hanno sentito: è stato l’urto 
di una diversità. Non hanno dovuto immaginare nulla, hanno dovuto 
semplicemente accusare il contraccolpo di una diversità così unica, così 
assolutamente fuori dal comune, così eccezionale, che è stato facilissimo rimanere incollati a quella Presenza. È un urto con qualcosa che non 
proviene da noi, che non possiamo creare noi. Ditemi se questo non è 
facile! Ma quando la gente ci incontra, quando vede come stiamo insieme a celebrare un matrimonio – come mi raccontavano recentemente a 
un’assemblea in Lombardia –, è lo stesso: vedono una modalità di stare 
insieme inaudita. Perciò il ristoratore, alla fine di tutto, va a ringraziare 
per la festa. Perché? Che cosa ha visto? Non ha dovuto procedere ad 
alcuna introspezione! No, è stato colpito da un modo di stare insieme. 
E se un ristoratore è colpito, vuol dire che c’è qualcosa di veramente 
diverso, perché vede feste di matrimonio in continuazione! Vi ho anche 
riferito ieri della reazione della persona che è andata al funerale di uno Venerdì sera
67
di noi ed è rimasta profondamente colpita da quello che ha visto. Quante 
volte avrà partecipato a un funerale? Ma per arrivare a dire: «Così è perfino bello morire!», deve essersi trovata davanti a qualcosa di inaudito e 
irriducibile, che non è il frutto di uno sforzo nostro, di un’attività nostra, 
che non è qualcosa che riusciamo a fare noi. Ecco, per immedesimarsi 
occorre solo aver fatto esperienze come queste. 
La fede riguarda sempre qualcosa che succede fuori di noi, ha una 
sorgente fuori di noi, dipende da qualcosa che non generiamo noi, nasce 
da qualcosa in cui ci imbattiamo. Allora Giussani ci dice: «Guardate 
quello che vi è accaduto», perché quella è la modalità con cui Cristo vi 
ha afferrato. Ora, è solo partendo dall’esperienza presente che noi possiamo immedesimarci con Cristo senza ridurLo. L’esperienza presente 
è, infatti, l’esperienza di quella modalità di sguardo con cui Cristo ci 
ha raggiunto e ci raggiunge. E quando ci troviamo davanti a uno che ci 
guarda in un modo diverso, come non siamo mai stati guardati, rimaniamo colpiti da quello sguardo. Ognuno deve andare a rintracciare nella 
propria esperienza quando gli è accaduto questo, per capire che cosa 
vuol dire immedesimarsi con Cristo, per non ridurre tutto a una immaginazione. Il cristianesimo è un’altra cosa!
Capisco, allora, perché tante volte noi non sentiamo l’urgenza di riandare costantemente a leggere Giussani o a leggere il vangelo: non ne 
abbiamo bisogno. Ci riduciamo ai nostri pensieri, ai nostri tentativi, alle 
nostre immaginazioni, che non riescono mai a darci un istante di letizia. 
Giussani ci testimonia, invece, costantemente che lui non può vivere 
senza Cristo! Dobbiamo decidere se vogliamo seguirlo fino al punto di 
fare la sua stessa identica esperienza oppure se vogliamo ridurre tutto 
alla nostra misura.
Prosperi. Due domande che leggo insieme perché si completano.
Oggi hai parlato di una esasperata tensione a dire il Suo nome in ogni 
aspetto e in ogni istante della vita. Come questo può essere vissuto nel 
quotidiano come atto libero e pacificante, e non come un’operazione che 
misura?
Riconoscere un avvenimento è semplice, come è riaccaduto oggi per 
me. Come stanno insieme questa semplicità e il cammino che richiede 
un impegno totale per sorprendere il significato vero, che tante volte non 
mi sembra semplice?
Carrón. Vedete? Quando raccontiamo un’esperienza è facilissimo: 
«Riconoscere un avvenimento è semplice, come è riaccaduto oggi per 
me». Quando ci stacchiamo dall’esperienza cominciamo a complicarci 
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
68
e non sappiamo più di che cosa stiamo parlando. Questa è la prevalenza 
dell’intellettualismo: ci ingarbugliamo con le nostre parole e non sappiamo di che cosa stiamo parlando. Don Giussani dice che, se non partiamo 
costantemente dall’esperienza, finiamo per soccombere alla confusione.
Allora guardiamo in faccia anche queste domande. Pensiamo all’esperienza dell’innamorarsi. Se uno si innamora, per lui innamorarsi non 
vuol dire: «Adesso mi dedico alla contemplazione del suo volto e non 
faccio nulla». No! Proprio perché è successo, quella presenza investe 
talmente la vita che la domanda è opposta: come potete fare tutto, vivere 
il quotidiano, senza sentire in voi l’urgenza di lei o di lui? Ditemi come! 
L’urgenza dell’altro non è uno sforzo titanico che io devo compiere, no! 
È qualcosa che sorprendo in me. Ed è per questo che mi rendo conto di 
che cosa mi è accaduto, di quale presenza ha investito la mia vita: io non 
posso vivere alcun momento della giornata (anche quando vado in metropolitana, quando mi vesto al mattino, quando sono a pranzo), senza 
l’esasperata tensione a dire il suo nome. Questa tensione, questa urgenza 
che sorprendo in me stesso, che preme dentro di me, è la memoria di lui 
o di lei: è questo il prevalere di una presenza. Che cosa succede quando, 
a un certo momento, questo fenomeno non accade più? Uno non decide 
di non pensare a lei o a lui perché ha altro da fare. Anche prima era pieno di cose da fare, ma non poteva evitare che ritornasse alla mente, che 
prevalesse quella presenza! Quando non succede più non vuol dire che 
la persona amata sia sparita dalla faccia della terra: è ancora lì, ma non 
vi è più il prevalere di quella presenza come determinante la vita, l’avvenimento non urge più dentro di sé. Per questo dico – lo dico innanzitutto 
a me stesso – che il problema grave per noi è che Cristo non ci manca! 
Possiamo dare tutte le interpretazioni che vogliamo, ma il problema è 
che tante volte Cristo non ci manca. E non c’entra il fatto che abbiamo 
dei limiti, che facciamo degli errori: tutto questo c’è – mettiamo in conto tutto, tutto, perché nella vita c’è tutto –, ma il problema è che Cristo 
non ci manca! Noi abbiamo incontrato un uomo che, facendo un pranzo con gli amici, non poteva non sentire l’esasperata tensione a dire il 
Suo nome. Allora, “esasperata tensione” o “impegno” è lo stesso: dopo 
averLo incontrato, sento l’urgenza di Lui, mi manca! Perché se non mi 
manca, nessun moralismo può sostituire la tensione di questa mancanza.
Allora, come l’esasperata tensione a dire il Suo nome può essere un 
atto libero e pacificante? Il problema è alla rovescia: se non fate questo, 
come potete essere liberi in mezzo a tutti i problemi del giorno?! Come 
potete vivere in pace?! Come possiamo essere sempre più liberi in mez-Venerdì sera
69
zo a tutto il daffare che abbiamo, se Cristo non ci manca, se non è Lui a 
riempire tutto della Sua presenza? 
Ma alcuni, quando dico queste cose, obiettano: «Questo è intimismo». Un cavolo! Dite a voi stessi se questo è intimismo o se è il segno 
che Cristo significa qualcosa nella vita! Questa è la fede: per vivere io 
ho bisogno del riconoscimento di Lui. Il problema della fede non è alle 
nostre spalle, è il nostro problema quotidiano. Che cosa vuol dire la Sua 
presenza per noi ora? 
Prosperi. Questo c’entra con la domanda successiva: che cosa vuol 
dire aspettarsi tutto dal fatto di Cristo?
Carrón. Ciascuno deve farsi questa domanda, perché soltanto chi ha 
incontrato Cristo sa che cosa si può aspettare. Che cos’è Cristo per noi? 
Uno tra gli altri? Come diceva l’amico citato, «è un problema di stima». 
Gesù è la cosa che io stimo più di qualsiasi altra o no? Che cosa ho sperimentato nell’incontro con Cristo? Occorre rispondere a questa domanda, perché poi nella vita può succedere tutto: sbagliamo, ci distraiamo, 
pensiamo di stare perdendo il meglio, come il figliol prodigo, e allora 
come lui andiamo via di casa a cercare un compimento che immaginiamo più grande. E quando viviamo per qualsiasi altra cosa che non sia 
Lui, possiamo vedere che cosa succede: proprio come il figliol prodigo! 
Perché si è ricordato di suo padre, della sua casa? Che cosa si aspetta, 
dopo aver vissuto tutto il resto, dopo aver cercato un compimento dappertutto? Con il padre lui ha fatto un’esperienza diversa, incomparabile, 
come noi con Cristo. Dunque, che cosa si aspetta il figlio? Si aspetta 
tutto quel che ha già vissuto e che altrimenti non avrebbe saputo, di cui 
nemmeno noi sapevamo prima dell’incontro. Perciò – diceva sempre 
don Giussani – la gente può andare via, ma da un fatto non si torna indietro. Per questo Cristo ci può sfidare tutti: «Fate il paragone con qualsiasi 
altra cosa, e ditemi se trovate qualcosa che vi corrisponda di più rispetto 
a quello che Io sono, a quello che avete sperimentato nell’incontro con 
Me!». Così uno può cominciare a vedere che non c’è nulla, nessun’altra 
presenza, nessun altro modo di vivere la vita che sia più corrispondente 
all’attesa del suo cuore – questa è la verifica della fede –. Non ce ne 
accorgiamo innanzitutto perché siamo bravi, perché non facciamo più 
le stupidaggini di tutti, perché non ci distraiamo, ma perché quanto più 
uno si allontana, tanto più si rende conto di che cosa gli manca andando 
via. Allora uno si aspetta che Cristo diventi sempre più tutto per lui; 
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
70
con dolore, ripartendo, zoppicando, ma senza andare via, senza prendere 
un’altra strada – come diceva Eliot –. Questa è, allora, la domanda che 
ciascuno deve farsi: noi ci aspettiamo tutto da Cristo? Io mi aspetto tutto 
da Te, o Cristo? La questione non è se io sono “in grado di”, se io sono 
“all’altezza di”; non è questa la domanda, ma è quella di Gesù a Pietro: 
«Mi ami tu? Non ti chiedo se sei bravo, non ti chiedo se domani non mi 
tradirai, non ti domando questo. Ma: mi ami più di qualsiasi altra cosa? 
La Mia presenza ti interessa più di qualsiasi altra cosa? Ti aspetti tutto da 
Me? O Io sono una tra le tante cose? Da che cosa ti aspetti di compiere la 
vita?». Se per noi, in fondo, Cristo è uno tra tanti, tra le tante cose della 
vita, allora risponderemo: «Sì, Cristo va bene, ma senza esagerare!». 
Che Cristo possa essere tutto, questa è la domanda della fede: io mi 
aspetto tutto da Cristo? La fede non soltanto è fare l’elenco delle verità 
a cui aderiamo, perché queste verità sono percepite tante volte come una 
serie di astrazioni. Il problema è che la verità è diventata carne, la bellezza è diventata carne, la felicità è diventata carne. Il problema è se per 
noi Cristo è questo avvenimento. Altrimenti noi siamo già da un’altra 
parte, e non perché siamo incoerenti – attenzione! –, perché i pubblicani 
erano incoerenti molto più di noi, ma ritornavano da Lui in continuazione. È un problema di stima, è un problema di giudizio. Non vi è nulla di 
sentimentale o moralistico. Chi è Cristo per la vita di ciascuno di noi? È 
un problema di giudizio.
Prosperi. Altre due domande legate tra loro. 
Sull’oggettività di Cristo duemila anni fa, nessun problema. Invece 
sull’oggettività di Cristo oggi, il rischio di seguire una nostra idea di Dio 
è molto elevato. Che cosa ci libera da questo rischio?
Anche Pietro ha corso il rischio del personalismo, ma alla fine ha 
conosciuto Cristo realmente. Qual è la sottile linea di demarcazione tra 
seguire la presenza e seguire la persona? E perché questa differenza è 
così importante?
Carrón. Vedete che non è un problema solo nostro? Anche Pietro 
correva il rischio di seguire una sua idea di Dio o di seguire una sua idea 
di Gesù (di che cosa convenisse a Gesù); il vangelo lo documenta, come 
abbiamo visto ieri. Questo in noi è inevitabile, come ci dice don Giussani: è inevitabile che uno, appena conosce qualcosa, si formi un’immagine, si faccia un’idea di quella cosa; perciò non dobbiamo spaventarci di 
questo. La vera questione è che, quando mi trovo davanti a una irriducibilità come quella di Cristo – così come Pietro –, io ceda. Anche Pietro, Venerdì sera
71
subito dopo che era stato lodato perché aveva confessato che Gesù era il 
Cristo, ha sentito tutto il Suo rimprovero: «Tu non la pensi come Dio!». 
Anche Pietro si era fatto un’idea di Dio. Chi ci libera costantemente 
da questo? Questa è la questione, oggi come duemila anni fa. Ci libera soltanto una Presenza irriducibile. Per questo la fede cristiana non è 
possibile senza una oggettività davanti a sé, senza qualcosa al di fuori di 
me in cui mi imbatto, che non posso ridurre alle mie immagini, alle mie 
idee, al mio sentimento, alla mia reazione, alla mia interpretazione. La 
fede cristiana sarà sempre l’imbattersi in una Presenza che ti libera dalle 
tue misure, ti libera dalla tua gabbia, ti libera dal tuo bunker (per usare 
un’immagine di Benedetto XVI). Il cristianesimo permane nella storia 
perché continua ad accadere la sua Presenza e perciò questa liberazione 
da me stesso, dalla mia gabbia, dal mio bunker, perché con le mie interpretazioni posso affossarmi e con i miei pensieri posso soffocare. In 
che cosa percepisco che Cristo è presente? Nel fatto che davanti a Lui 
faccio una esperienza tale di liberazione, di respiro, che dico: «EccoLo!». Come la persona che ha detto: «Questo avvenimento è riaccaduto 
ieri». Quante volte stando insieme, partecipando a qualcosa, ci troviamo 
davanti alla testimonianza di qualcuno, davanti a qualcosa che succede, 
e noi siamo liberati! Sappiamo che Cristo è presente non perché lo diciamo noi, ma perché sorprendiamo accadere in noi questo respiro, questa 
liberazione dalla nostra misura, dal soffocamento, dalla gabbia. E quando succede è uno stupore così enorme che a uno viene da dire: «Grazie, 
grazie che ci sei, o Cristo, oggi, presente in mezzo a noi, nel Tuo corpo 
che è la Chiesa, nella Tua visibilità storica, irriducibile a tutte le mie 
misure». Basta che ciascuno pensi se è successo qualcosa durante questi 
tre giorni, come è arrivato qui e se è successo qualcosa. Come mi ha 
scritto qualcuno: uno arriva ingarbugliato, preoccupato da tante cose, e 
si trova davanti a qualcosa di irriducibile; non perché parliamo delle preoccupazioni del lavoro, di cosa ha lasciato a casa, no! Si trova immerso 
in una irriducibilità. Perché, altrimenti, dobbiamo venire qui, se non per 
questo? Perché dobbiamo essere cristiani, se non per questo? Perché 
dobbiamo appartenere al movimento, se non per questo? Tutto il nostro 
tentativo è affinché il movimento sia un luogo dove riaccade la liberazione: non un’agenzia di attività o un’organizzazione non governativa, 
come diceva papa Francesco, ma un luogo dove riaccade la novità del 
mio io, così che uno possa tornare a casa diverso. Allora, essere liberati 
è vivere il cristianesimo come un avvenimento. Possiamo viverlo secondo la sua natura, solo se riaccade costantemente come avvenimento. 
Altrimenti perde di interesse. Invece, se succede ogni volta, allora uno 
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
72
si attacca sempre di più, uno si riempie sempre di più di ragioni. Per 
questo abbiamo ripetuto, fino a stancarci, che se il cristianesimo non è 
un’esperienza presente, dove io trovo la conferma che esso risponde alle 
esigenze del vivere, la fede non potrà resistere in un mondo in cui tutto 
dice il contrario. Questo è il nostro problema. Per questo, se Giussani 
insiste nel denunciare le riduzioni del movimento o della sequela, secondo tutte le varianti di cui abbiamo parlato in questi giorni, non è per 
un gusto analitico o per rimproverarci qualcosa: è per salvarci! Perché 
tutte queste varianti non saranno mai il cristianesimo, non saranno mai 
il movimento. Il movimento sarà ed è il contraccolpo dell’inizio, anche 
con persone come noi piene di fragilità: è il contraccolpo dell’inizio che 
ci ha liberati. Se non è questo, nel tempo non ci interesserà più.
Prosperi. Le ultime due domande si riferiscono ad esperienze particolari, che però pongono questioni che ci riguardano tutti.
Dopo l’esperienza significativa del Clu, sono tornato al mio paese e 
sperimento una grossa difficoltà con la comunità locale del movimento, 
che mi sembra molto diversa dalla vita del Clu. Davanti a questa difficoltà mi si dice che sono io che non riesco a valorizzare ciò che c’è. È in 
questo caso che Carrón dice che il problema è mio? In questa condizione 
che cosa significa la sequela?
Carrón. La prima cosa che occorre dire è che la Fraternità è una, e il 
movimento è uno, così come la Chiesa è una. Occorre aprire le finestre 
delle comunità e dei gruppetti perché, se in ogni comunità non corre tutta l’aria della totalità del movimento, se in ogni gruppetto non corre tutta 
l’aria della Fraternità, allora tutto diventa soffocante, come lo diventa 
ogni gruppo di amici. Nessuno adesso, qualsiasi sia la situazione in cui 
si trova, può non avere a portata di mano tutta la ricchezza della vita del 
movimento, anche se è nel luogo più sperduto della Terra. Quindi, tutto 
ciò che la vita del movimento è arriva fino là. Alla fine della prima lezione, ho fatto il paragone con la Chiesa. Questo tipo di autoreferenzialità 
di ogni comunità può capitare, infatti, anche rispetto al movimento; e 
non ce la caviamo cambiando strategia. No! Per fare uscire gli apostoli 
dalla riduzione che operavano, Cristo non ha cambiato strategia: ha dato 
la vita per loro, è morto ed è risorto per loro. Occorre accettare di partecipare alla totalità della vita della Chiesa, che si comunica non soltanto 
ritrovandosi a mangiare insieme con gli amici: la vita della Chiesa è 
molto più ricca di tutti i nostri tentativi e se noi riduciamo la nostra compagnia ai nostri tentativi, dove andiamo? Se noi non abbiamo il respiro Venerdì sera
73
della totalità della Chiesa e non sentiamo tutta la urgenza di partecipare 
a questa oggettività molto più grande di noi, che ci perdona, che costantemente ci alimenta con l’Eucarestia, che costantemente ci offre la Sua 
parola, ci offre tutta la ricchezza della Sua testimonianza e della Sua 
compagnia, noi come possiamo non soccombere? Lo sottolineo perché 
ciò che capita con la Chiesa capita con il movimento. Se in ogni gruppo 
la vita non è aperta a questa totalità, soffochiamo. Ciascuno ha tutto ciò 
che occorre per vivere lì dove si trova. «Nessun dono di grazia più vi 
manca»142 diceva san Paolo alla comunità di Corinto, in mezzo a tutto 
l’Impero romano, quando erano “tre gatti”. «Nessun dono di grazia più 
vi manca.» E allora a nessuno è impedito di vivere, in qualsiasi situazione, in qualsiasi comunità, in qualsiasi luogo: può perfino valorizzare 
tutto quel che c’è, senza ridurre la comunità a quel che c’è, ma spalancandola. Tu puoi arrivare lì con tutta la ricchezza di quello che hai vissuto nel Clu e perturbare la comunità per la perturbazione che è accaduta 
in te, come dicevamo: se può succedere la perturbazione nell’ambiente 
di lavoro, può avvenire anche nelle nostre comunità. Speriamo anzi che 
qualcuno continui a perturbare le comunità. Altrimenti siamo finiti! Per 
questo nessuno ci impedisce di vivere, qualsiasi sia la situazione in cui 
il Mistero ci ha collocato.
Prosperi. Ci hai detto che l’avvenimento non è generato dal nostro 
fare. Però il movimento ci richiama a gesti (caritativa, tende Avsi, Colletta Alimentare, ecc.) che sono uno strumento educativo. Come questo 
fare non si riduce ad attivismo?
Carrón. Ciò che ci è successo non è stato il prodotto del nostro fare. 
L’Avvenimento non è generato dal nostro fare, e fin dall’inizio non è 
stato generato dal nostro fare. Ci siamo imbattuti in qualcosa di diverso 
che non avevamo creato noi e che ha cambiato la nostra vita. Tutto ciò 
che facciamo, i gesti sono espressione di quella novità che il movimento 
ha introdotto, della novità che Cristo ha introdotto nella vita. Il problema 
è quando i gesti, invece di essere espressione di quella novità, diventano 
cose da fare. Tutte le donne lo capiscono. Quando si sposano e hanno a 
cuore di mantenere la casa bella e in ordine, o di fare un pranzo appetitoso, affinché la casa sia un luogo in cui uno desideri tornare, perché lo 
fanno? Per l’impeto che quel che è successo loro riempia tutto. E allora 
ogni gesto è espressione di un amore, di una passione per la vita della 
142 1 Cor 1,7.
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
74
propria famiglia. Che disgrazia quando questo si perde e tutto diventa 
“cose da fare”! Ciò che era l’espressione di un amore diventa allora un 
lamento: «Ma devo ancora fare questo? Tu vai sempre via, e io qui a 
pulire!». Che può avere un suo senso, non lo discuto. Che i mariti non 
prendano spunto da questo per sentirsi giustificati, perché capita lo stesso agli uomini!
I gesti possono essere espressione di un avvenimento, espressione di un 
amore, di una passione, o essere semplicemente ridotti a cose da fare: invece di generare continuamente il rapporto, di essere espressione del rapporto 
e facilitare l’incrementarsi del rapporto, diventano solo cose da fare.
Il rischio è sempre questa duplice riduzione: attivismo o intimismo. 
Di questa contrapposizione micidiale, l’esempio più palese è l’episodio 
di Marta e Maria. Marta si dà da fare, e tanto! Chi di noi non sarebbe 
stato contento e onorato di fare delle cose per Gesù, di averlo ospite a 
casa sua? Ma uno può avere a casa Gesù, avere la fortuna di servirLo, 
e fare prevalere, comunque, il lamento. «Guarda, Maria non mi dà una 
mano!»: prevale il lamento. E allora, quando Gesù dice a Marta: «C’è 
una sola cosa importante», non sta dicendo che è meglio la contemplazione dell’attività; no, sta sottolineando che Marta non coglie che, 
qualsiasi cosa faccia, ciò che deve prevalere è il fatto di Cristo, il fatto 
di essere onorata di essere con Lui, che tutto quanto è per Lui. Quando 
Gesù le dice questo, non è per un rimprovero. «Se tu non ti rendi conto 
di questo, carissima Marta, il tuo fare non ti basta; e si vede dal lamento.» Quando don Giussani ci invita a non soccombere all’attivismo, 
non lo fa perché non vuole che facciamo delle attività; e quando noi 
ci diciamo queste cose, non è per insistere sull’intimismo invece che 
sull’attivismo. No, non confondetevi! Il fatto è che l’attività, quando 
non è vissuta secondo la sua vera natura, genera il lamento, perché non 
è espressione di un amore, perché non aiuta a fare memoria di quell’amore, perché non mi rende consapevole di quell’amore. Infatti, anche se 
fossi in atteggiamento intimista e non Lo riconoscessi, sarebbe lo stesso: 
lamento! Il problema non è l’attivismo o l’intimismo, il problema è se 
prevale la Sua presenza o meno. L’alternativa non è tra il fare o il nonfare, ma è tra il lasciare entrare una Presenza ed esserne colpito, tanto 
che domina la vita, o no. Se Lui non prevale, possiamo fare o non fare, 
ma il lamento, il disagio, domina. Tante volte la gente si ritaglia degli 
spazi per non complicarsi la vita. Ma questo risponde? Qualsiasi forma 
di questa contrapposizione risponde? Il problema è che a volte pensiamo 
che facendo così possiamo cavarcela. No! Occorre che il nostro fare sia 
tutto investito dalla Sua presenza, così come il nostro riposare. Perché Venerdì sera
75
quel che succede nel fare, succede nel riposo. Così, anche quando non 
facciamo niente, Lui non ci manca: la stessa riduzione che trasforma 
l’attività in attivismo si realizza nel riposo, per cui andiamo in vacanza 
come i pagani, aspettandoci soltanto quel che si aspettano tutti, invece 
di vivere anche la vacanza come occasione della memoria di Lui, dell’esasperata tensione a dire il Suo nome.
La questione, alla fin fine, è sempre la fede: se prevale questa Presenza come avvenimento nella vita. Attenzione! Non confondiamoci, 
come se questo volesse dire che occorre non so che razza di coerenza o 
di irreprensibilità. No, no, no! Lo vediamo bene quando l’avvenimento 
dell’innamorarsi è vivo. Possiamo continuare a fare gli sbagli di prima, 
ma prevalgono l’urgenza, la gratitudine e la gioia della presenza della 
persona amata. Sono contento perché Tu vivi, Cristo, perché Tu ci sei; 
non sono costretto a soffocare in qualsiasi cosa io faccia, nell’attività o 
nel riposo, perché Tu ci sei! È la questione della fede, perché per noi la 
fede è qualcosa che ha a che vedere con tutto, non qualcosa che si ritaglia un pezzo di vita. La fede è qualcosa che ha a che vedere con tutto.
Per questo continuiamo il nostro cammino cercando di seguire ciò 
che la Chiesa ci propone nell’Anno della fede, affinché possiamo riscoprire la bellezza della fede, per vivere, per vivere di più, per vivere più 
intensamente, per vivere con vera intensità la vita, in modo da rispondere a quel «quotidiano che taglia le gambe». Altrimenti la fede avrà 
una data di scadenza; e non per una cattiveria nostra, ma perché non ci 
interesserà più. Il nostro interesse si sposterà altrove. Uno può stare qui 
e il suo interesse essersi già spostato altrove. Non è così difficile capire 
che – come diceva don Giussani – possiamo essere del movimento senza 
che la fede sia al centro del nostro interesse. Non perché don Giussani 
pensi che diciamo delle eresie contro la fede, no, ma perché il centro 
affettivo del nostro io è già spostato altrove: non ci aspettiamo più tutto 
da Lui. Questo è il problema della fede. 
Vivendo l’esperienza del riconoscimento della sua Presenza, attraverso ciò che Cristo genera in noi, potremo testimoniarLo in tutto quel 
che dovremo fare, in tutti i gesti che compiremo. Accompagniamoci in 
questo. Per questo esiste la Fraternità.
Domenica mattinaAvviSi
Dico alcune cose sulla Fraternità che ci possono aiutare a ricordarne 
lo scopo. Sono stato molto colpito da alcune richieste di iscrizione, che 
ridicono lo spunto, la preoccupazione per cui don Giussani è partito nel 
fare la Fraternità.
Dice una di queste richieste: «Oggi, dopo più di due anni nel movimento, ho la certezza che è la strada giusta, perché il metodo che mi offre mi aiuta nella vita; mi aiutano i giudizi che ci diamo, la condivisione 
dell’esperienza che impariamo alla Scuola di comunità. Imparo a capire 
che la consistenza della mia libertà e della mia felicità non si basano su 
una mia individuale indipendenza, ma in un rapporto con il Tu, nella 
coscienza che sto camminando sulla strada al mio destino. L’amicizia 
e la comunione che viviamo in comunità fanno necessariamente parte 
di questa strada, di questo rapporto e anche della mia felicità e libertà. 
Per questo vorrei chiederti di entrare nella Fraternità di Comunione e 
Liberazione, perché il Signore mi ha fatto capire che è la mia strada».
Un altro amico scrive: «Vorrei entrare nella Fraternità di Comunione 
e Liberazione, perché mi rendo conto che è l’unica strada che mi rende veramente felice e attraverso la quale Cristo da me si fa conoscere. 
È proprio il movimento il modo con cui si fa conoscere. Quando ho 
conosciuto Cl ero un grande individualista [questo è il punto: uno può 
partire così, individualista, ma poi desidera appartenere perché ha fatto 
l’esperienza di una liberazione dalla sua gabbia], un uomo che voleva 
riuscire in tutto da solo, a modo proprio. Cl era un mio progetto, e non 
solo Cl, ma tutta la mia vita era un mio progetto [quando abbiamo questa 
impostazione, facciamo anche del movimento un progetto] e su questo 
mi intestardivo. Poi dovevo cercare dei compromessi, e quando non funzionava iniziavano i problemi. Ma poco alla volta, in tutto quello che 
vivevo, sia nel bene che nel male, ho imparato che ciò di cui ho bisogno 
è un luogo dove continuamente posso incontrare Cristo vivo [uno incomincia come può, siamo poveracci; la questione è che, a un certo punto, 
si trova davanti a qualcosa di irriducibile]». «Ho imparato ciò di cui ho 
bisogno: un luogo dove posso incontrare Cristo vivo [nell’esperienza lui 
sa che cosa viveva all’inizio e che cosa sta succedendo vivendo dentro 
un luogo come il movimento]. Per me questo luogo è diventato la comunità delle persone di Cl dove si rinnova in me la memoria di ciò che nella 
mia vita è importante. È anche il luogo dove continuamente imparo, 
dove mi sento a casa.» 
All’ultima diaconia della Fraternità, lo scorso mese, un amico ci di-
76Venerdì sera
77
ceva che in poco tempo sono morti tre amici a Montreal, in Canada. 
Uno di loro, malato di tumore, aveva premura di iscriversi alla Fraternità 
prima di morire, tanto da chiedere di poter essere accettato il più presto 
possibile. È stato sepolto con la tessera di iscrizione alla Fraternità nel 
taschino, vicino al cuore, come un tesoro. Voleva morire appartenendo 
al luogo dove Cristo si era fatto a lui vicino.
Don Giussani, in un’intervista del 1992, diceva: «L’iscrizione alla Fraternità è un atto personale, di totale iniziativa del singolo, non una scelta 
operata da un gruppo. Nasce come necessità personale per la propria fede 
[come abbiamo visto] e per il realizzarsi della propria fisionomia cristiana. Il suo scopo [...] è quello di partecipare a una compagnia che aiuti nel 
cammino alla santità; cioè nella conoscenza di Cristo, nell’amore a Cristo 
per il bene degli uomini, per il regno di Dio sulla terra».143
Dovremmo leggerle spesso queste frasi, perché ci dicono che cosa è 
la Fraternità, di fronte a tutte le nostre riduzioni. «Nasce come necessità 
personale per la propria fede», cioè per la propria vita, come un «partecipare a una compagnia che aiuti nel cammino alla santità».
Quando questo non si capisce, quando uno ha ridotto il suo bisogno e la sua necessità, allora nemmeno si capisce veramente che cosa 
è la Fraternità. A gennaio, per esempio, al raduno dei responsabili degli 
Stati Uniti, alcuni dei partecipanti mi hanno raccontato della fatica che 
alcuni fanno a partecipare alla Fraternità. Perché? Perché la Fraternità 
è una proposta che riguarda la totalità della vita, per la natura stessa 
dell’avvenimento cristiano. Spesso noi – è un problema dappertutto – 
accettiamo di appartenere a un club, ad associazioni che rispondono a 
certi bisogni particolari, e a volte la Fraternità è uno tra i tanti luoghi o 
club di appartenenza. Gli amici americani mi domandavano il perché di 
questa fatica. E io ho risposto: «Appartenendo alla Fraternità così, qual 
è il problema? Fate la Fraternità come un club; qual è il problema? Va 
tutto bene, così?». E allora hanno incominciato a intervenire, uno dopo 
l’altro, dicendo: «No, non va bene. Manca questo alla mia vita, manca 
quest’altro...». «Ah, allora ridurre la Fraternità a uno dei tanti club non 
risolve la vita, non aiuta. Per questo la Fraternità è una proposta diversa 
da un club, perché voi avete le tessere di tanti club, e uscite uno dopo 
l’altro a dire che cosa non va. È per questo che la Fraternità, se è vissuta 
come un club in più, non interessa.» Invece la proposta della Fraternità 
è diversa. Per questo, chi può appartenervi davvero? Chi può desiderar-
143 L. Giussani, «Per una fede matura», intervista a cura di P. Colognesi, Litterae communionisCL, febbraio, 1992, p. 26.
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
78
la? Chi non si accontenta di meno del tutto! Cioè, chi sente l’urgenza 
dentro di sé di questa necessità personale. Se non scatta l’ipotesi della 
Fraternità, non scatta perché manca questo desiderio della santità, cioè 
questo desiderio della pienezza di cui parla Giussani, quel desiderio del 
compimento totale della propria vita. Chi ha questo desiderio sente il 
bisogno di mettersi insieme ad altri per essere sostenuto nel proprio tentativo, essendo consapevole della propria fragilità. È l’amicizia come 
compagnia guidata al destino. Che scatti come ipotesi è la conseguenza 
di questo desiderio, di questo seguire. Per questo basterebbe essere leali 
con le nostre necessità, per capire l’urgenza che abbiamo di un luogo 
reale, vero, irriducibile dove siamo veramente aiutati.
Come diceva ancora don Giussani: «Poiché lo scopo della Fraternità 
è l’impegno della responsabilità personale di fronte alla santità e al destino, il vero problema è la capacità di amicizia, la vita in comune [nel 
senso di compagnia guidata al destino]. È una condivisione da vivere 
senza pretese, senza misura, senza sentimentalismi [diceva don Giussani] e che giunge fino all’aiuto sociale e materiale. Scuola di comunità e 
missione sono gli scopi cui dedicarsi».144
Sempre in America mi facevano una domanda sui primi gruppi che 
nascevano, con questa preoccupazione: «Essendo cresciuti molto in tutto 
il territorio i gruppetti di Fraternità, vogliamo capire qual è l’importanza 
di essere fedeli al fondo comune, di seguire una regola che permetta di 
dare una certa struttura a questa amicizia». Qui vediamo, come dicevamo 
prima, che fare un gesto, darsi una minima regola di preghiera, invitarsi 
a essere fedeli al fondo comune, sono piccole cose, è un impegno minimo, ma è l’espressione più semplice di questo desiderio di appartenere 
all’unica Fraternità. Capire il significato di questi semplici gesti è decisivo per non viverli in modo formale, ma come espressione della nostra 
appartenenza. In questo c’è tanto cammino da fare ancora. Se li viviamo 
in maniera vera, questi gesti aiutano a incrementare la consapevolezza di 
appartenere e quindi generano costantemente questa appartenenza, sono 
il modo di nutrire la consapevolezza di appartenere, sono un aiuto. 
E nella Lettera che inviava ai nuovi iscritti, don Giussani scriveva: «La Fraternità di CL vuole essere espressione consapevole e 
impegnata, cioè matura, della storia del Movimento di CL. Essa vuole essere il livello in cui tutte le intuizioni, che per grazia di Dio ci 
hanno animato e ci animano, siano realizzate, sia nel senso di “ren-
144 L. Giussani, «Per una fede matura», op. cit., p. 26.Venerdì sera
79
dersi conto” di esse, sia nel senso di dare loro una effettualità».145
In questo senso, anche avere cura degli aspetti “formali” della vita 
della Fraternità è importante. Mi ha colpito, per esempio, l’intervento 
del responsabile dell’America Latina, alla scorsa Diaconia, quando 
diceva quale occasione di educazione possano essere anche gli adempimenti formali a cui ogni tanto siamo chiamati. Dovendo occuparsi 
della elezione dei responsabili diocesani della Fraternità nelle varie 
nazioni – come sapete, ogni tre anni gli iscritti delle diocesi dove la 
Fraternità è istituita sono chiamati a eleggere i responsabili diocesani 
della Fraternità –, il responsabile dell’America Latina raccontava che 
sembrava una cosa formale e diceva: «Inizialmente non aveva molta importanza per noi. Invece, avendolo preso sul serio, capisco che 
anche un particolare così giuridico può diventare un aspetto molto 
educativo. Questo fatto ha implicato per me una serietà con la libertà 
delle persone che partecipano all’elezione e un tentativo di giudizio 
sulla situazione del movimento, una richiesta del parere delle persone». Tutti questi strumenti li possiamo vivere formalmente o possono 
diventare un’occasione di educazione per capire che cosa è la nostra 
compagnia, la nostra Fraternità.
Diceva ancora don Giussani: «La Fraternità di CL ha lo scopo di 
assicurare il futuro dell’esperienza del Movimento, e la sua utilità per 
la Chiesa e per la società, attraverso la continuità dell’educazione e 
la costruzione di opere, come esito di tale educazione, nelle strutture 
della società ecclesiastica civile. A questo livello io intendo prendere 
in considerazione la gente che ci sta fino in fondo».146 È questo che 
costruisce la nostra Fraternità: gente che vuole starci «fino in fondo».
Fondo comune
Da ultimo, risottolineo l’importanza del fondo comune. Come 
ho avuto modo di dire anche pubblicamente all’Assemblea generale 
della Compagnia delle Opere, il 25 novembre scorso: «Fin dall’inizio il movimento è vissuto esclusivamente grazie ai sacrifici economici delle persone che vi aderiscono. Chi appartiene al movimento, 
si impegna a versare mensilmente una quota di denaro liberamente 
stabilita, il cosiddetto “fondo comune”, che don Giussani ha sempre 
indicato come gesto educativo a una concezione comunionale di ciò 
che si possiede, alla coscienza della povertà come virtù evangelica 
145 L. Giussani, L’opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, op. cit., p. 250.
146 Ivi.
Domenica mattinaEsercizi della Fraternità
80
e come gesto di gratitudine per quello che si vive nel movimento. 
Proprio per la ragione educativa detta, non è rilevante l’entità della 
quota che ciascuno versa, ma la serietà con la quale si rimane fedeli 
all’impegno preso. Per sostenere la vita delle nostre comunità in Italia e nel mondo e le iniziative caritatevoli, missionarie e culturali, il 
movimento di Comunione e Liberazione non ha bisogno d’altro [e 
lo devo gridare a tutti che noi non abbiamo bisogno d’altro!]; e per 
questo siamo liberi da tutto e da tutti nello svolgere il nostro compito 
come movimento».147
Ma su questo facciamo ancora fatica. Così come altri gesti nella 
vita del movimento “entrano” sempre di più (per esempio, la caritativa, perché uno percepisce il bene che è per lui partecipare al gesto di 
caritativa per poi vivere tutto), riguardo al fondo comune dobbiamo 
fare ancora molta strada, tanto che ci sono ancora – qui! – tremila 
persone che non danno nulla al fondo comune. E questo perché? Non 
è un problema economico, perché il fondo comune non è una questione di quantità, ma di fedeltà. Questa cosa non la capiamo ancora 
nella sua portata educativa, nella sua capacità di generare una modalità nuova di vivere. E per questo facciamo fatica. Perché la prima 
ragione del fondo comune è educarci a vivere tutto come ricevuto da 
un Altro. Per questo ci conviene non perdere la consapevolezza di 
questo. La seconda ragione è collaborare alla missione della Chiesa, 
costruendo il movimento. Quanto più uno ne capisce la portata, tanto 
più vorrà che possa diffondersi, che possiamo testimoniarlo in tutti i 
luoghi (dove nasce costantemente il movimento).
Alcuni di noi vivono questa fedeltà al fondo comune anche nelle 
difficoltà. Leggo una lettera: «Purtroppo questa sera non vi scrivo 
quello che da qualche anno a questa parte mi sarei aspettata di scrivervi, e cioè che avevo fatto un bonifico a saldo di tutte le quote di 
fondo comune che non ero più riuscita a pagare, ma vi devo dire che 
non ce la faccio proprio a recuperare le quote non versate [tra di noi 
è possibile anche dire questo, con la mortificazione che uno vive, 
tra di noi possiamo dirci le cose con questa libertà]. Man mano che 
tentavo di mettere da parte qualcosa da mandare al fondo comune, 
arrivava una spesa improvvisa. Inutile dirvi che sono tempi difficili. 
Mio marito ha lavorato tanto con un basso guadagno e, pur facendo 
grandi sacrifici per poter pagare il mutuo e affrontare tutte le spese 
che abbiamo, non sempre riusciamo a onorare i nostri impegni se non 
147 J. Carrón, «Con l’audacia del realismo», Tracce-Litterae communionis, dicembre 2012, p. VI.fosse per l’aiuto dei nostri genitori. Fino a oggi non vi avevo mai 
scritto, e neanche avevo abbassato la quota, seppur già bassa, perché 
mi vergognavo di non riuscire a rispettare il mio impegno. Ora invece mi vergogno d’aver ceduto all’orgoglio e d’aver perso così tanto 
tempo in pensieri, anziché partecipare a un’opera, anche se con poco 
[non importa la quantità, è un problema di appartenenza, di consapevolezza dell’appartenenza, di amore a quel che viviamo tra di noi]. 
Spero un giorno di poter recuperare e riuscire a fare una donazione». 
Che uno possa sperimentare questo struggimento dice di più di quanto possa dare.
Anno della fede - Pellegrinaggio a Roma
Vi ricordo l’importanza del pellegrinaggio a Roma del prossimo 18 
maggio, proposto per l’Anno della fede dal Pontificio Consiglio per la 
promozione della nuova evangelizzazione, che sarà il primo incontro di 
papa Francesco con i Movimenti ecclesiali e le nuove comunità.
Libri
È uscito il nuovo libro di don Giussani, che riprende le Equipe 
degli universitari degli anni 1990-91, dal titolo Un evento reale nella vita dell’uomo. È sorprendente vedere come don Giussani descrive la natura del cristianesimo: «L’evento reale nella vita d’un uomo 
è il riconoscimento e l’adesione a Cristo, è l’accettare di essere stati 
scelti».148 E ancora: «Il cristianesimo non è il legame che tu stabilisci con Cristo, ma è il legame che Cristo stabilisce con te».149 Solo 
chi accetta di lasciarti plasmare da questo evento reale può diventare 
un protagonista in grado di vivere l’interminabile fatica del vivere 
quotidiano, senza essere sconfitto dalle circostanze.
Il libro del mese di maggio-giugno è Il potere dei senza potere
di Václav Havel (Prefazione di Marta Cartabia). Il testo originale è 
stato arricchito di altri discorsi di Havel molto interessanti, successivi al 1978. Adesso possiamo percepire molto di più la potenza di 
questi scritti. Basta ricordare il famoso esempio dell’ortolano, che è 
la documentazione dell’aspetto conoscitivo, culturale, «rivoluzionario» di un io che si pone nella realtà. Questa è l’unica nostra risorsa, 
ci diceva don Giussani.
148 L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo..., op. cit., p. 163.
149 Ibidem, pp. 326-327.
Telegrammi inviati
Domenica mattina
81Esercizi della Fraternità
82
Tracce
Raccontava recentemente don Pino di come sia sbalordito dal fatto 
che tutte le mattine, in Università Cattolica a Milano, un gruppetto 
di ragazzi vende Tracce, e che il tutto è nato dall’iniziativa di una 
ragazza che ha detto: «Questa non è la rivista di Cl. Questa è la “mia” 
rivista». Ne ha parlato con cinque, dieci amici. Per alcuni è stata 
l’occasione di un incontro, come è avvenuto, per esempio, vendendo 
Tracce di marzo con la copertina su papa Benedetto: alcune persone 
volevano capire perché era così importante per noi.


SANTA MESSA
Letture della Santa Messa: At 13,14.43-52; Sal 99; Ap 7,9.14-17; Gv 10,27-30
OmELiA Di DOn michELE BERchi
«Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla Mia mano.» Questo è ciò che desidera Cristo 
per me, per ciascuno di noi: stare con me, stare con ciascuno di noi 
per l’eternità. Tu mi vuoi Tuo per l’eternità. Questa è la vita eterna. 
Potremmo dire che Gesù muore dalla voglia di stare con me. È morto dalla voglia di stare con me, di farmi Suo per sempre. 
Ma chi sono io per Te? Perché solo davanti alla fedele e inimmaginabile affermazione di Cristo, anzi, solo davanti a questa vera dichiarazione d’amore, il primo amore: «Le mie pecore», mie – che Gesù 
dica di ciascuno di noi: «Mia pecora» è come la mamma e il papà che 
lo dicono del loro bambino, come l’uomo innamorato lo dice della 
donna che gli ha detto di sì – «le mie pecore ascoltano la mia voce e io 
le conosco ed esse mi seguono»; solo davanti a questa dichiarazione 
d’amore possiamo cominciare a capire chi siamo. Chi sono io coincide con il chi sono io per Te; chi sono io per Te, o Signore.
Nessuno ci strapperà più via questa esperienza, nessuno potrà 
strapparci dalla Tua mano, nessuno. La forma che Tu hai impresso 
nel nostro cuore, incontrandoci uno a uno, non potremo mai più togliercela di dosso, perché tutte le migliaia di persone che siamo qui, 
tutti siamo stati incontrati uno a uno; questa moltitudine immensa 
che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua, 
è stata radunata uno a uno. Chi di noi può dire che il Signore non 
l’ha condotto qui, asciugando ogni lacrima dai suoi occhi? Tu ci hai 
fatti Tuoi, e da quel momento nessuno potrà mai più strapparci di 
dosso questo incontro che ci ha fatti Tuoi. 
C’è solo un pericolo, quello stesso dei giudei, che – come dicono 
gli Atti degli Apostoli – non si giudicavano degni della vita eterna. Si può essere anche gelosi di questa appartenenza, eppure non 
aderire. Si può appartenere al popolo eletto, e non aderire. Questo 
punto di resistenza incredibile, eppure sempre possibile; come lo 
sappiamo bene, come lo conosciamo bene quel maledetto orgoglio, 
quell’amor proprio fino alla rovina di noi stessi. Però, guardandolo 
bene, questo punto di resistenza ci rende ancora più pieni di stupore, 
perché Tu, Signore, preferisci rischiare che io Ti dica di no, piuttosto Esercizi della Fraternità
84
che comperare la mia libertà. Ma perché ci ami così tanto? Perché?
Domandiamo in questa santa messa che lo Spirito, attraverso la 
carne della Madonna da cui è nata questa compagnia, ci mantenga 
questo stupore, perché è attraverso di questo che diventa vero che 
nulla ci separerà mai dall’amore di Suo Figlio.


MESSAGGI RICEVUTI
Carissimi, 
il tema degli Esercizi di quest’anno: «Chi ci separerà dall’amore di 
Cristo?» prende di petto la modalità con cui l’annuncio cristiano debba 
essere proposto a tutti, in particolare agli uomini e alle donne della nostra affaticata Europa.
Infatti, solo la certezza di essere stati definitivamente afferrati dal 
Suo amore rende possibile l’appassionata apertura nei confronti di 
quello che don Giussani chiamava «tutto l’esistente e tutta l’esistenza».
Assicuro la mia vicinanza nella preghiera e nell’affetto in questi 
giorni di straordinaria portata per la vita di Comunione e Liberazione.
Vi saluto tutti e Vi benedico.
S.E.R. cardinale Angelo Scola
Arcivescovo di Milano
Carissimo don Julián Carrón,
mi unisco a tutti voi riuniti per gli Esercizi Spirituali della Fraternità in questo tempo straordinario in cui abbiamo partecipato a grandi fatti di grazia come la rinuncia al ministero petrino di Benedetto 
XVI e l’inizio del pontificato di papa Francesco nuovo “Vescovo di 
Roma”. Il Signore ci ha sorpreso con la sua presenza e con la qualità 
della sua vicinanza. Come abbiamo sentito la paternità intensa e bella 
di Benedetto sento particolarmente, grazie ai ventisette anni vissuti in 
missione in Brasile, la familiarità con il cuore e lo stile immediato e 
semplice di Francesco. Averlo incontrato, in Argentina ed in Brasile 
ad Aparecida, è stata una grazia che ci apre il cuore ad una sequela 
totale che comporta intelligenza e piena disponibilità come sempre 
abbiamo vissuto con i Sommi Pontefici, secondo quanto ci ha insegnato don Giussani. 
Per questo il tema degli Esercizi «Chi ci separerà dall’amore di 
Cristo?» (Rm 8,35) ci apre alla scuola del carisma e ci riempie di fiducia nel cammino che il Signore offre oggi a tutti noi e alla sua Chiesa. 
Chiedo allo Spirito la grazia di vivere questi esercizi come una vera 
opportunità, come un tempo favorevole per la nostra persona e per la 
nostra missione nel mondo. Nell’“Anno della fede” e dinanzi a tanti Esercizi della Fraternità
86
prodigi della misericordia di Dio, la Madonna ci renda come lei aperti 
ad accogliere il dono di Dio, a consegnarci totalmente al suo disegno 
e a comunicare a tutti con franchezza quanto ci è accaduto.
Invocando su di voi la benedizione del Signore e la protezione 
della Gran Madre di Dio,
vi saluto cordialmente
S.E.R. monsignor Filippo Santoro
Arcivescovo di TarantoTELEGRAMMI INVIATI
Sua Santità
Francesco
Santo Padre, 24.000 aderenti alla Fraternità di Comunione e Liberazione, radunati a Rimini per gli annuali Esercizi spirituali e altre migliaia in videocollegamento da 21 nazioni, hanno meditato sul tema «Chi ci 
separerà dall’amore di Cristo?».
Grati per la Vostra benedizione, che ci fa sperimentare la maternità 
della Chiesa, abbiamo approfondito la consapevolezza che «il Signore 
è vivo e cammina con noi» perché il cristianesimo è l’esperienza di un 
avvenimento, Cristo risorto, come ci ha testimoniato con la sua vita don 
Giussani e come vediamo nelle parole e nei gesti di Vostra Santità, sorgente continua di stupore e di affezione. 
In un tempo nel quale la fede non è più «un presupposto ovvio» (Porta fidei), abbiamo sentito come rivolta a noi la domanda di Gesù: «Ma 
il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». L’inizio 
del Vostro pontificato ci spinge a riscoprire che la fede non è una teoria o 
un insieme di regole, ma il riconoscimento di una Presenza «attraente e 
persuasiva perché risponde al bisogno profondo dell’esistenza umana».
Nella memoria di don Giussani, desideriamo rivivere la sua stessa 
esperienza per essere così pieni dello sguardo di Cristo da essere una presenza diversa, soprattutto nelle «periferie esistenziali» di questo mondo.
In questo Anno della fede riconsegniamo tutte le nostre persone e le 
nostre comunità sparse nel mondo nelle mani della Santità Vostra, col 
desiderio di testimoniare la gioia di essere cristiani per aiutare i nostri 
fratelli uomini a trovare in Cristo la misericordia che salva.
All’augurio per l’imminente ricorrenza del Vostro santo patrono 
uniamo la preghiera alla Madonna di rendere “dulces pondus” il mandato di Successore di Pietro, in cammino con il Suo popolo.
In attesa di incontrare Vostra Santità il 18 maggio in piazza San Pietro.
Grazie, Santità.
87Esercizi della Fraternità
88
Sua Santità papa emerito Benedetto XVI
Santità, a Rimini insieme a tutti i 24.000 amici della Fraternità di Comunione e Liberazione, radunati per gli Esercizi spirituali, e altre migliaia in videocollegamento da 21 nazioni, meditando sul brano di san Paolo 
«Chi ci separerà dall’amore di Cristo?» ho pensato alla Sua persona. Tutti 
domandiamo alla Madonna di accompagnarLa nella immedesimazione 
con Cristo, l’Amico che non ci abbandona mai. Nascosto al mondo, ma 
non ai nostri cuori affezionati a Lei, Le chiedo una preghiera per tutte le 
nostre persone, affinché possiamo riscoprire la gioia di essere cristiani 
in questo Anno della fede da Lei indetto con la premura di un padre, per 
testimoniare la bellezza di essere cristiani nella vita quotidiana.

Illustrissimo Giorgio Napolitano
Presidente della Repubblica italiana
Illustrissimo Signor Presidente, 24.000 aderenti alla Fraternità di 
Comunione e Liberazione, radunati a Rimini per gli annuali Esercizi 
spirituali, hanno appreso la notizia della Sua rielezione.
«Mi muove in questo momento il sentimento di non potermi sottrarre 
a un’assunzione di responsabilità verso la nazione, confidando che vi 
corrisponda una analoga collettiva assunzione di responsabilità.» Il suo 
gesto di libertà aumenta l’ammirazione per la Sua persona.
In questo drammatico momento Lei ci appare come una risorsa per 
l’Italia, di fronte all’urgenza di riprendere la strada di una vera pacificazione che ottenga quel bene così necessario per la vita personale e sociale.
Pur consapevoli dei nostri limiti, come credenti educati da don Giussani alla passione per il destino dei fratelli uomini, desideriamo offrire la 
nostra testimonianza, insieme a ogni uomo di buona volontà, come contributo per sbloccare la situazione, affermando il valore dell’altro nella 
ricerca del bene comune al di sopra di qualsiasi interesse particolare.
Comprendendo il peso enorme della nuova responsabilità, Le auguriamo di ottenere ciò per cui ha accettato questo grande sacrificio. 

S.E.R. cardinale Angelo Bagnasco
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
24.000 aderenti alla Fraternità di Comunione e Liberazione, radunati a 
Rimini per gli annuali Esercizi spirituali, meditando sul tema «Chi ci sepa-rerà dall’amore di Cristo?», nella certezza che il Signore risorto è l’Unico 
in grado di colmare il bisogno infinito del cuore, confermano l’impegno a 
vivere una fede sempre più personalizzata, seguendo Papa Francesco che 
ci invita a darne testimonianza nelle «periferie esistenziali» della nostra 
società, soprattutto in questo momento di grande incertezza.

S.E.R. cardinale Stanisław Ryłko
Presidente Pontificio Consiglio per i Laici
Eminenza carissima, 24.000 aderenti alla Fraternità di Comunione e 
Liberazione, a Rimini per gli Esercizi spirituali e altre migliaia in videocollegamento da 21 nazioni, meditando sul tema «Chi ci separerà dall’amore 
di Cristo?», rinnovano l’impegno a vivere il Battesimo come testimonianza 
della gioia di essere cristiani, nella sequela a Papa Francesco.

S.E.R. cardinale Angelo Scola
Arcivescovo di Milano
Carissimo Angelo, grati per il tuo messaggio ti diciamo che in questi 
giorni abbiamo fatto di nuovo l’esperienza di Cristo presente, che ci afferra 
attraverso quella forma di insegnamento alla quale siamo stati consegnati. 
Ti domandiamo di pregare per ciascuno di noi, affinché siamo sempre 
più pieni del Suo sguardo attraente e persuasivo − e irriducibile a ogni nostra misura − per essere testimoni nel mondo della pertinenza della fede alle 
esigenze della vita
.
S.E.R. monsignor Filippo Santoro
Arcivescovo di Taranto
Carissimo Filippo, il tuo messaggio ci aiuta a essere più consapevoli 
della grazia che abbiamo ricevuto ad avere don Giussani come padre 
nella fede.
Nella volontà di seguire Papa Francesco, torniamo alle nostre case 
più certi che niente e nessuno potrà separarci dall’amore di Cristo se 
saremo così semplici da stupirci ogni volta dell’avvenimento della Sua 
presenza che riaccade tra di noi ora










Nessun commento: