martedì 4 febbraio 2014

Un’invasione profetica - Vita di don Giussani

Dettagli prodottoAttraverso le pagine della biografia, l’archeologo italiano racconta il suo «faccia a faccia» con il fondatore di CL. E con se stesso. Senza averlo mai incontrato, ripercorre l’incidenza del carisma sulla borghesia milanese (e non solo): dal «dialogo in contrappunto» con Montini e Colombo, alla concezione di cultura. Fino a quella frase che gli sembra di sentire rivolta a se stesso: «Tu sei un intellettuale, e non capisci?»

Un libro straordinario per un soggetto straordinario, la Vita di don Giussani di Alberto Savorana. E con un terzo elemento di straordinarietà. Questo è un libro aperto, perché vuole intenzionalmente ingaggiare il lettore in una evocazione personale, una risposta all’incontro che avviene tramite la lettura - proprio come poteva avvenire nel concreto con questo personaggio che, anche se mai incontrato di persona, sembra volerci venire incontro oggi saltando fuori, «di schianto», dalla pagina stampata.

L’incontro avviene perché Savorana riesce ad innestare con una fluidità eccezionale le parole di Giussani in un tessuto narrativo avvincente: senza alcuna cesura, si passa dalla narrazione alla citazione e viceversa, con la naturalezza che si riscontrerebbe, per l’appunto, in un incontro faccia a faccia. Ci sembra così di ripetere l’esperienza di chi lo incontrava, quasi potessimo immedesimarci nell’esperienza degli innumerevoli testimoni qui citati che si sentivano «letti», è una bellissima metafora, dalle sue parole (p. 244).

Proprio così anche per me. La lettura mi ha portato a re-incontrare me stesso, un me stesso molto giovane. L’anno in cui don Giussani iniziava il suo ministero al liceo Berchet di Milano io mi immatricolavo all’Università Cattolica, pure a Milano. Avevo fatto il liceo all’Istituto Gonzaga sempre a Milano (luoghi tutti a brevissima distanza l’uno dall’altro), e lì la tradizione di spiritualità ambrosiana risaliva alla fine degli anni trenta, quando don Carlo Gnocchi iniziò il suo ministero al Gonzaga, per poi portarlo a questi stessi «suoi» ragazzi che erano partiti in guerra - altro vivissimo testimone di quella sana e irresistibile irrequietezza ambrosiana che caratterizzò sempre anche don Giussani. Leggere il libro di Savorana mi ha così invitato a ripercorrere l’itinerario di don Giussani intrecciando la cronistoria della sua vita con quella della società da cui uscivo, quasi un diapason della situazione in cui ero cresciuto.

Quella di don Giussani fu un’invasione profetica. Era di quello che anch’io sentivo il riverbero pur senza averlo mai incontrato di persona. Lo sentivo, per l’appunto, nel contesto dell’epoca, quel contesto che aveva nutrito l’esperienza educativa di don Giussani, la sua esperienza educativa. Era il riverbero di una grande invasione veramente profetica. L’aspetto predittivo è quello che ci vien fatto di associare con il concetto di «profezia». Ma la dimensione profetica va ben oltre. È la capacità di proclamare nel concreto la realtà dello spirito.

È illuminante vedere, a questo riguardo, come il confronto con i cardinali Montini e Colombo dovesse qualificare in modo profondo questa dimensione profetica di don Giussani. Si sviluppa con loro un vero e proprio dialogo in contrappunto, un dialogo che, ben lungi dall’alienare degenerando in uno scontro, nutre invece la spiritualità nelle sue radici più profonde. È impressionante vedere, e il libro lo illustra magnificamente, come il confronto diventi così un’occasione che permette a don Giussani di approfondire, proprio alle radici, le convinzioni che già gli erano proprie. Ne derivano un rafforzamento e una chiarifica che rendono la presenza profetica, per quanto sofferta, tanto più forte, solida e prorompente al tempo stesso. Guardiamo a questi due momenti, il decennio con Montini (1954-63) e il quindicennio con Colombo (1964-79).

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L’arrivo di don Giussani invase prepotentemente la solida compagine sociale della nostra borghesia milanese per dirci che quello di cui avevamo bisogno era un rapporto mistico con Gesù. Proprio così: «mistico»! Era questa la grande novità del suo predicare l’esperienza: un senso religioso che potesse prendere carne come esperienza vissuta coscientemente, e non come «religione», quella dimensione piatta del vivere che si configura semplicemente come parallela alle altre del comune «buon vivere» sociale. Era proprio questa la sfida di fronte alla quale il borghese «cattolico» istintivamente indietreggiava, sentendosi invece confortevolmente inquadrato in un solido assetto sociale, che riservava uno spazio sicuro anche alla casella «religione».

Ma ogni annuncio profetico si muove come sulla cresta di un’onda, con il pericolo intrinseco di affondare da una parte o dall’altra del divario che l’onda si crea avanzando irresistibilmente sulla superficie piatta dell’acqua.
L’affondare, in questo caso, voleva dire il pericolo di proporre un «misticismo» fine a se stesso, un soddisfatto narcisismo (del tipo, per riprendere la mia vicenda personale, di cui avrei poi trovato il prototipo in quella California del «touchy-feely» in cui sarei emigrato alcuni anni dopo). È qui dove si innesta il contrappunto del dialogo con Montini. «Contrappunto», e mai scontro. Dal libro di Savorana emerge come Montini agisse quasi come la voce della coscienza di Giussani: gli diceva quello verso il quale già lui tendeva.

Ed è così che un aspetto basilare del pensiero di Giussani diventa ancora più basilare. Si tratta dell’importanza della verifica. L’afflato mistico non può ridursi a una realtà auto-referenziale. L’esperienza deve confrontarsi con una realtà fuori del soggetto. Di questa realtà dobbiamo definire i contorni con una critica che ne metta in luce la ragionevolezza. In questo, Giussani ci sembra rivivere, di fronte a Montini, l’insegnamento che aveva appreso, piccolo, da suo padre. La commovente filialità del tono con cui Giussani si rivolge al suo cardinale è imbevuta di quella che aveva marcato i suoi primi anni - del che ci sono, nel libro, dei documenti davvero commoventi. (Giussani parlerà di Colombo come il «mio» cardinale, p. 453. E viene in mente il modo in cui don Gnocchi considerava il Cardinale Schuster come un suo padre spirituale, soprattutto nei momenti in cui sembrava esserci una minore sintonia di pensieri). Era proprio l’insegnamento della verifica che Giussani aveva appreso da suo papà, ed è a questa sensibilità che si deve ora rifare di fronte alle accorate esortazioni di Montini.

Il pericolo era, dunque, la fibrillazione, e la sfida era una nuova cultura. Cultura è un termine a doppio senso. C’è un senso negativo, quello in cui si contrappone all’esperienza. Il senso positivo invece è quello, per l’appunto, della cultura come verifica dell’esperienza. Evitare il narcisismo vuol dire capire appieno quali sono i termini del rapporto umano, in modo tale che il rapporto si confronti realmente e lealmente con un interlocutore e non con il se stesso del soggetto. Sembra quasi di intravvedere come una convalida degli aspetti positivi della mentalità milanese o più generalmente lombarda. Il libro ce lo ricorda con forza. Rifuggendo da ogni possibile evanescenza, la «mistica» che Giussani propone è solidamente ancorata alla concretezza della verifica, della ragionevolezza. Il dialogo in contrappunto con Montini lo aiuta a chiarire questa esigenza. Ed è, nella realtà quotidiana, il dialogo con i ragazzi di questa borghesia che lo aiuta a raffinare i termini in cui si afferma un nuovo messaggio: non c’è divorzio fra cultura e mistica.

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Se dal dialogo con Montini era emerso che l’esperienza deve basarsi sulla cultura, dal dialogo con Colombo emerge l’aspetto speculare della questione: la cultura deve basarsi sull’esperienza. Colombo sentiva la necessità di sostenere le strutture portanti della convivenza sociale cristiana, e temeva che una prospettiva eccessivamente individualista potesse portare a uno sfrangiamento delle istituzioni e quindi al loro collasso. Uscendo dal confronto che lo aveva spinto a chiarire le dimensioni culturali dell’esperienza, Giussani si sensibilizzò ancor di più, in questo nuovo confronto, alla necessità di far combaciare individualismo e associazionismo. Quello che emerse con chiarezza fu la convinzione che un’organizzazione deve qualificarsi come organismo, e che un’organizzazione cristiana non può essere altro che l’organismo sacramentale riconducibile, in ogni momento e in ogni aspetto, non solo alla figura, ma alla presenza di Gesù.

Il dialogo con Colombo lo aveva quindi portato a chiarire, a se stesso come agli altri, un’esigenza che, alla luce della prospettiva risultante dal dialogo con Montini, voleva dire non soffocare, con la cultura, l’esperienza. Ciò non vuol dire affatto rigettare il valore di una realtà organizzata. Tutt’altro - e lo dimostra l’enfasi messa, ripetutamente, sulla necessità di un metodo. La cultura associativa è fondamentale, e le strutture che stavano a cuore a Colombo dovevano certo essere potenziate. Bisognava solo saper restar fedeli alla vera linfa vitale del lavorare insieme, che venne a trovare la sua espressione migliore nel termine comunione. E il battito del cuore che sentiamo pulsare in tutte le pagine del libro dichiara con un impegno, una forza, e un realismo sempre maggiore che questa comunione deve riconoscere prima di tutto la presenza di Gesù come il fondamento per tutte le scelte organizzative che ne potranno conseguire.

La dimensione profetica e mistica di Giussani invade così, rilanciando la sfida del suo Cardinale, la nuova realtà non solo milanese o italiana, ma mondiale. La crisi del 1968 tocca Giussani come una lacerazione personale. La tempesta scuote con prepotenza proprio la solidità delle istituzioni, incluse quelle che erano sorte per sua iniziativa. Traspare dalle pagine del libro quel senso di orrore accorato, quella specie di vade retro, con cui confronta la tentazione che il «movimento» da ascensionale possa diventare puramente laterale e autoreferenziale. Giussani non vuole essere risucchiato nel vortice dell’attivismo, non vuole essere il Frankenstein della mistica profetica. Era come una verifica drammatica di quello che istintivamente gli sembrava da sempre un pericolo: quello di una cultura organizzativa fine a se stessa.
C’era invece sempre più bisogno di una cultura comunitaria. Ci fu tutta una gamma di eventi ed interventi che contribuì a far maturare una convinzione da sempre vissuta, quella della comunione come fondamento della realtà associativa, e specificamente della fedeltà leale alla presenza viva, seppure intrisa di mistero, di Gesù. E tutto questo fu vissuto con una straordinaria apertura verso le realtà umane vere anche se diverse, con una sensibilità che incarnava quel «rischio educativo» che si impegnava ad accettare la diversità delle esigenze e delle risposte.

Tutto questo mette in luce un aspetto sorprendente e luminoso di Giussani: il suo entusiasmo di fronte a realtà umane che, quando genuine e profonde, non possono che vedersi in consonanza con l’esperienza cristiana. È l’entusiasmo per Leopardi scoperto da giovane, o l’entusiasmo per Pasolini, così ben descritto nel libro come un momento di rivissuta eccitazione giovanile (p. 536). È in questa stessa luce che mi pare di vedere il suo interagire con la cultura nordamericana. E questo emerge per me dalla lettura del libro con una risonanza particolare, essendomi io ritrovato nel frattempo, da borghese milanese, immerso nel mondo universitario americano. Ironicamente, forse, non era questo un mondo borghese. Vi era una accettazione del valore del singolo più che della posizione sociale; vi era una autenticità, una schiettezza, a volte forse inelegante, ma più libera da inveterate strettezze mentali.
Da questa maggiore valorizzazione dell’individuo emergeva anche un diverso configurarsi del sistema organizzativo, visto in funzione del singolo invece che viceversa. Rieccomi dunque in sintonia con un don Giussani che non avevo, ne avrei, mai conosciuto, ma la cui spiritualità si affondava in radici comuni, come lo era stato prima per me nella realtà ambrosiana.

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L’importanza centrale della «esperienza» si cristallizza in quelle che Giussani chiama le «dimensioni» della vita cristiana, e cioè cultura, carità e missione.
È un trinomio che risale già ai primissimi anni (pp. 240-242), e su cui Giussani riflette con grande profondità in un’intervista con Robi Ronza del 1975 (ripubblicata da Jaca Book nel 1986 con il titolo Il movimento di Comunione e Liberazione, si vedano soprattutto pp. 36-40 e 85-94). La centralità di queste dimensioni viene poi ripresa più brevemente nella seconda versione de Il rischio educativo (Jaca Book 1977).

È impressionante vedere la forte coerenza con cui questi principi rimangono operativi nella vita di Giussani, chiarendosi e approfondendosi in risposta alle circostanze che temprano e modulano l’intuizione originale. Se l’enfasi sulla cultura serve a qualificare con una assidua verifica l’afflato mistico e profetico; se l’enfasi sulla carità serve a mettere in luce quella che deve affermarsi come la vera radice dell’essere insieme, della «comunionalità» come Giussani comincia a chiamarla a un certo punto; così l’enfasi sulla missione trova il suo riflesso nell’urgenza di condividere l’esperienza, di allargare la comunità fuori di ogni limite di gruppo. È una delle prerogative dell’esperienza cristiana di voler proclamare la mistica, invece di rinchiuderla in una scatola solipsistica. È una forza esplosiva quella di riuscire a mantenere tutta la profondità del rapporto personale pur congregando le singole persone in un organismo universale. La Chiesa afferma l’intimità nella folla (una cosa ben diversa dall’intimismo che mira invece a un narcisismo solitario). È in sintonia con questo che Giussani sviluppa il concetto di missione - a cui si richiama, in fondo, il concetto stesso di «liberazione», perché una vera «comunionalità» libera dall’anonimia. Qualunque sia la soglia quantitativa, quanto numeroso cioè sia il gruppo (basta un gruppo di dodici in tutto il mondo per fare comunione, p 612), siamo sempre tutti identificabili personalmente, chiamati individualmente per nome.

La parola «movimento» si presta bene a descrivere questo insieme di fattori. Il termine aveva preso consistenza nel linguaggio comune proprio nella seconda metà del novecento per descrivere gruppi, non solo religiosi, dove il tendere verso un obbiettivo era più importante dell’organizzazione, e continuava a definirla anche quando una tale aggregazione dovesse prendere una forma più o meno organizzata. Vi è come una insofferenza insita nel valore semantico della parola, insofferenza verso una strutturazione fine a se stessa che alla fine agisce come una camicia di forza e «soffoca lo spirito», come diceva san Paolo. Giussani lo usa sempre di più, perché è un termine che viene anche ad esprimere bene quella costante propulsione che vuole comunicare al di fuori la gioia sperimentata al di dentro della comunità. È così un «muoversi» in un senso sia centripeto (afferma l’identità) che centrifugo (si apre al mondo), una dinamica di comunione che ha come presupposto essenziale quello di affermare in primo luogo la qualità dell’interlocutore. Di rimanere, anzi, sempre stupiti della bellezza di una posizione intellettuale diversa o addirittura contraria alla nostra, ove essa sgorghi da una esperienza umana altrettanto autentica come quella a cui ci ispiriamo.

È il grande messaggio della libertà. Vedere il senso religioso, e più generalmente il senso della vita, nella più vasta multiformità delle sue possibili espressioni, è questo il fondamento della testimonianza. Questo emerge con prepotenza leggendo il libro, e una volta di più ho trovato un riscontro puntuale riandando alla mia piccola vicenda personale. Non solo ripensando alla personalità di don Gnocchi, che era così non convenzionale nelle sue posizioni e così intensamente conscio del valore della libertà nella «educazione del cuore». Ma anche rivivendo il mio incontro con la spiritualità islamica - non quella delle letture, ma quella del confronto con tanti amici con cui venni a vivere insieme una lunga vicenda umana nel corso di più di un trentennio di scavi archeologici in Iraq e in Siria. Mi trovai sempre più immerso come in un movimento reciproco, il movimento di chi si protende istintivamente verso l’altro per condividere quello che di più profondo ognuno possiede.

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Quello della cultura è uno dei temi che ricorrono più frequentemente nel libro. A metà strada del suo cammino, nel 1979, in colloquio con Giovanni Paolo II, Giussani ne dà questa bellissima definizione: «Coscienza critica e sistematica di un’esperienza di vita» (p. 578). È la verifica su cui aveva sempre insistito.
C’è poi la cultura come collante sociale, quella mentalità che si basa su costrutti concettuali più o meno sottintesi e comunque condivisi, e che colora istintivamente le nostre reazioni, a volte anche sovrapponendosi alla spontaneità, quasi contrapponendosi all’esperienza. Da un lato la «cultura dominante» e dall’altro quella non meno dominante per essersi ridotta, nei secoli, a un livello numericamente inferiore - la «coscienza religiosa del popolo».
Ma non leggiamo della cultura degli intellettuali. Non che noi, intellettuali, ci si debba sentire esclusi. Però la cosa fa pensare. E fa riandare alla vicenda umana di Gesù. L’unico intellettuale di cui ci viene detto che lo abbia frequentato è Nicodemo. E a quanto dice Giovanni, si incontrarono di notte: questo particolare viene ripetuto due volte, a sottolineare la «prudenza» di questa persona socialmente in vista, potenzialmente borghese. È rincuorante sentire che Gesù non lo ignora, né tanto meno lo rigetta come gli era d’abitudine fare con gli altri farisei. Lo prende invece seriamente. Non so se intenzionalmente, ma troviamo proprio in questa occasione il primo dei lunghi discorsi di Gesù riportati da Giovanni, quasi a volerci suggerire che sia stato il confronto con un intellettuale a stimolare l’aspetto più argomentativo della personalità di Gesù. Almeno, è bello, per un intellettuale, volerlo pensare.

Ma possiamo anche sentire, in questo episodio, un tocco di ironia da parte di Gesù, uno dei pochi di cui si abbia cenno. «Tu sei maestro in Israele - e non capisci?».
Ecco, mi sembra di sentir Giussani dirmi: «Tu sei un intellettuale - e non capisci?».

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