lunedì 10 febbraio 2014

Dalle “veline” del Minculpop a quelle del Dpo: l’ideologia transgender come cultura ufficiale del governo Letta

    
La pratica liberticida delle “veline”  del tempo del fascismo –  che sembrava appartenere a un passato che non torna  — è invece sorprendentemente ricomparsa sulla  scena con l’uscita, a cura del Dipartimento per le Pari Opportunità dell’attuale governo, di un fascicolo  intitolato Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT (ovvero lesbiche, gay, bisessuali, transessuali), redatto con l’esclusiva consulenza di ben 29 associazioni e club del mondo LGBT. In democrazia non compete al governo stabilire preventivamente di che cosa e come devono scrivere i giornalisti. L’Ordine nazionale dei Giornalisti e la Federazione nazionale della Stampa avrebbero perciò dovuto opporsi a questa iniziativa già in linea di principio. Che l’abbiano invece addirittura patrocinata la dice lunga sull’attuale decadenza degli organismi che dovrebbero tutelare la nostra professione. Ispirate al medesimo criterio di fondo che stava alla base delle “veline” del regime fascista, le Linee guida di cui sopra fissano preventivamente nel dettaglio, fin nei modi e nella scelta tanto delle immagini quanto delle parole, ciò che la stampa dovrà scrivere sull’ argomento. E’ una prossimità davvero paradossale se si pensa alle discriminazioni e spesso alle persecuzioni che gli omosessuali purtroppo subirono in epoca fascista.
Le “veline”, diremo per chi non sapesse di che cosa precisamente si trattasse, erano dei fogli dattiloscritti, contenenti delle perentorie linee guida, che il Ministero per la Cultura Popolare (Minculpop) dell’Italia fascista, cui competeva il controllo della stampa, spediva nelle redazioni. In un tempo in cui non c’erano né fotocopiatrici, né fax, né tanto meno Internet, esse consistevano in copie di un originale dattiloscritto riprodotte grazie alla carta-carbone su fogli appunto di leggerissima carta velina. Caduto il fascismo, raccolte di  “veline” furono pubblicate e  divennero  anche oggetto di studi. Oggi se ne ritrovano delle raccolte pure su Internet.  
Nel caso delle Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT ovviamente lo stile e l’argomento sono ben diversi ma il criterio di fondo è, dicevamo, il medesimo. Facciamo il caso di «Se le immagini dicono più delle parole», punto n.10 del capitolo-decalogo dal titolo “Comunicare senza pregiudizi: 10 punti dal ricordare”.  Vi si lamenta come siano “purtroppo numerosi i casi in cui a testi che riguardano l’omofobia, le discriminazioni, i diritti, le trasformazioni sociali sono associate immagini del tutto inappropriate. Queste normalmente ritraggono parate o altri momenti di esibizione pubblica di corpi, nudità (…)”. Così non va bene, ammoniscono le Linee guida governative, deprecando che in occasione dei “Gay Pride” (nel documento scrupolosamente definiti “LGBT Pride”) “ad attirare giornalisti e fotografi sono state sempre le figure più trasgressive, luccicanti, svestite, ed è così che si è prodotto e riprodotto un immaginario intorno a queste manifestazioni che di anno in anno, già attraverso le immagini che le annunciano, mette in secondo piano il tema dei diritti”. Fotocronisti e direttori sono avvisati: personaggi del genere anche se ci sono non si devono fotografare, immagini del genere non si devono pubblicare.
Con riguardo alla parola “famiglia” le indicazioni delle Linee guida sono stringenti. Innanzitutto non si deve più usare tale termine al singolare bensì al plurale a testimonianza “di un punto di vista inclusivo di tutte le differenze”. Quindi chi insiste ancora a scrivere famiglia al singolare è avvisato. Lo stesso dicasi per la parola “matrimonio”: anche qui il plurale è di rigore. Basta poi con l’espressione “matrimoni gay”. “Come è inappropriato denominare il matrimonio tra due anziani matrimonio di anziani”, si legge nel documento, altrettanto lo è “denominare il matrimonio di una coppia gay o lesbica matrimonio gay, dal momento che l’espressione suggerisce l’idea di un istituto a parte, diverso da quello tradizionale”. Riguardo alla parola “famiglia”, anzi “famiglie”, i giornalisti sono anche invitati a stare più attenti agli aggettivi: non si deve parlare di “famiglie gay” o di “famiglie omosessuali”, ma caso mai di “famiglie omogenitoriali” oppure (se proprio si vuol usare un’espressione più terra, terra) di “famiglie con due papà, due mamme”. Possibile? Purtroppo sì.  Vedere per credere  il documento, che si trova anche in Internet.
A monte di tutto questo c’è una precisa scelta di campo. Il primo punto del già citato capitolo-decalogo, dal significativo titolo “1. Cominciamo dalle basi…”, è infatti una stringata ma perentoria sintesi della cosiddetta cultura transgender a partire dall’affermazione secondo cui il sesso è una realtà biologica che “può essere distinto dal genere, che è il complesso di elementi psicologici, sociali e culturali che determinano l’essere uomo o donna”. L’ideologia transgender è insomma divenuta cultura ufficiale del governo Letta; quindi (almeno per il momento) della Repubblica italiana. Siamo di fronte a qualcosa che cozza frontalmente con la nostra democrazia. In un Paese libero non è compito del governo fare scelte specifiche su questioni del genere; e tanto più farle a porte chiuse con strumenti giuridicamente ambigui, e al di fuori di qualsiasi dibattito e mandato parlamentare.
Le Linee guida si concludono con un dettagliato «Glossario». Limitiamoci a citare qui tre delle sue voci: eterosessismo, omofobia interiorizzata e transfobia interiorizzata. Il primo sarebbe la “visione del mondo che considera come naturale solo l’eterosessualità, dando per scontato che tutte le persone siano eterosessuali. L’eterosessismo rifiuta e stigmatizza ogni forma di comportamento, identità e relazioni non eterosessuali (…) ed è la causa principale dell’omofobia”. Le altre due sarebbero forme di omofobia o rispettivamente di transfobia “spesso non cosciente, risultato dell’educazione e dei valori trasmessi dalla società, di cui a volte sono vittime le stesse persone omosessuali” o transessuali.  Vale la pena di considerare da vicino queste tre definizioni anche perché sono un’ottima testimonianza involontaria del carattere neo-autoritario di questa cultura. Cominciamo dall’”eterosessismo”: la sua definizione consiste nel collegamento arbitrario di  elementi che non hanno alcun nesso obbligato tra loro. Uno può tenere per certo che solo l’eterosessualità sia secondo natura (non c’è bisogno di una grande mente per questo, un po’ di buon senso è sufficiente), ma non perciò essere tanto babbeo da ignorare che l’omosessualità esiste; e soprattutto senza che tale convincimento implichi da parte sua alcun odio verso gli omosessuali. Pretendere che queste tre cose siano tra loro necessariamente interconnesse è una pura e semplice mistificazione. Il culmine di tale autoritarismo viene però raggiunto con i due concetti di omofobia e di transfobia “interiorizzate”. E’ noto che sono molto numerosi  gli omosessuali e i transessuali che non condividono affatto il progetto di istituzionalizzazione dell’omosessualità e della transessualità che sta dietro la cultura transgender. Il concetto di omofobia e transfobia “interiorizzata” serve evidentemente a delegittimare a priori la loro posizione. Insomma, coloro che difendono la sessualità secondo natura odiano gli omosessuali ipso facto anche se non li odiano per nulla. Gli omosessuali e transessuali che non sono d’accordo con l’ideologia transgender  vengono bollati a priori come degli utili idioti. Ergo in nome della… coesione sociale il potere è tenuto a imporre  d’autorità la cultura transgender come pensiero unico.

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