(tratto da Thomas Merton,
Semi di contemplazione, Garzanti, Milano 1991, pp. 45-47)
Per
diventare me stesso devo cessare di essere ciò che ho sempre pensato di voler
essere, per trovare me stesso devo uscire da me stesso, per vivere devo morire.
Perché
sono nato nell’egoismo e di conseguenza tutti i miei sforzi naturali per
rendermi più reale e più me stesso mi rendono meno reale e meno me stesso, in
quanto gravitano tutti attorno a una menzogna.
Coloro
che nulla sanno di Dio e che basano tutta la vita su se stessi immaginano di
poter trovare se stessi soltanto rivendicando i propri desideri, le proprie
ambizioni ed i propri appetiti in una lotta con il resto del mondo. Essi
cercano di diventare reali imponendosi agli altri, impossessandosi di una parte
della limitata riserva dei beni creati e sottolineando così la differenza fra
loro e gli altri uomini che hanno meno di loro, o non hanno nulla.
Essi
possono concepire un solo modo di diventare reali: staccarsi dagli altri e
innalzare una barriera di contrasto e di distinzione fra se stessi e gli altri.
Non
sanno che la realtà va cercata non nella divisione ma nell’unità, perché noi
siamo «membri gli uni degli altri».
L’uomo
che vive diviso dagli altri non è una persona, è soltanto un individuo.
Io ho
quel che tu non hai. Io sono quel che tu non sei. Io ho preso quello che tu non
sei riuscito a prendere, ho afferrato quel che tu non potrai mai afferrare.
Perciò tu soffri ed io sono felice, tu sei disprezzato e io sono lodato, tu
muori ed io vivo: tu non sei nulla e io sono qualcosa, e tanto più sono
qualcosa in quanto tu non sei nulla. Così passo la vita ad ammirare la distanza
fra te e me; talvolta questo mi aiuta persino a dimenticare gli altri uomini
che hanno quello che io non ho che hanno preso quello che io sono stato troppo
lento a prendere, che hanno afferrato ciò che era fuori dalla mia portata, che
sono lodati quanto io non posso essere lodato e che vivono della mia morte…
L’uomo
che vive così, vive nella morte. Non può trovare se stesso perché è perduto; ha
cessato di essere una realtà. La persona che egli crede di essere è un brutto
sogno. E quando morrà si accorgerà di aver cessato di esistere da molto tempo,
perché Dio, Che è infinita realtà e al Cui cospetto è l’essere di tutto ciò che
esiste, gli dirà: «Non ti conosco».
E ora
penso a quella malattia che è l’orgoglio spirituale. Penso a quella
caratteristica irrealtà che penetra nel cuore dei santi e divora la loro
santità prima che essa sia matura. Vi è qualcosa di questo verme nel cuore di
tutti i religiosi. Appena hanno fatto qualcosa che sanno essere buono agli
occhi di Dio, tendono a impossessarsi della sua realtà per farla propria. Essi
tendono a distruggere le loro virtù reclamandone la proprietà e a rivestirsi
illusoriamente di valori che appartengono a Dio. Chi può sfuggire al segreto
desiderio di respirare un’atmosfera differente da quella degli altri uomini?
Chi può fare cose buone senza cercar di gustare in esse la dolcezza di
distinguersi dalla massa dei peccatori di questo mondo?
Questa
malattia è più pericolosa quando riesce a sembrare umiltà. Quando un uomo
orgoglioso pensa di essere umile, il suo caso è senza speranza.
Ecco
un uomo che ha fatto molte cose che la sua natura ha trovato dure. Egli ha
superato difficili prove, ha compiuto molto lavoro e, per grazia di Dio, è
giunto a possedere una forza morale e uno spirito di sacrificio per cui, alla
fine, fatica e sofferenza diventano facili. La sua coscienza è giustamente in
pace. Ma prima che egli se ne renda conto, la pace pura di una volontà in
comunione con Dio diventa la compiacenza di una volontà che ama la propria
eccellenza.
Il
piacere che è nel suo cuore, quando egli compie cose difficili e riesce a
compierle bene, gli dice in segreto: «Io sono un santo». Al tempo stesso altri
sembrano riconoscerlo diverso da loro stessi. Lo ammirano, o forse lo sfuggono
— dolce omaggio di peccatori! Il piacere arde in un fuoco divoratore. Il calore
di questo fuoco assomiglia molto all’amore di Dio. Lo alimentano le stesse
virtù che nutrono la fiamma della carità. Egli brucia di ammirazione per se
stesso e pensa: «È il fuoco dell’amore di Dio».
Pensa
che il suo orgoglio sia lo Spirito Santo.
Il
dolce calore del piacere diventa l’incentivo di tutte le sue opere. Il gusto
che egli assapora negli atti che lo rendono ammirabile ai suoi propri occhi lo
spinge a digiunare, o a pregare, o a nascondersi in solitudine, o a scrivere
molti libri, o a costruire chiese e ospedali, o a fondare mille organizzazioni.
E quando tutto ciò gli riesce, egli pensa che il suo senso di soddisfazione sia
l’unzione dello Spirito Santo.
E la
voce segreta del piacere canta nel suo cuore: «Non sum sicut caeteri homines».
Quando
si è messo per questa via, non ci sono limiti al male che la sua auto‑soddisfazione
può spingerlo a compiere in nome di Dio e del Suo amore, e per la Sua gloria.
Egli è così soddisfatto di sé, che non può tollerare il consiglio di altri — o
i comandi di un superiore. Quando qualcuno si oppone ai suoi desideri, egli
congiunge umilmente le mani e sembra sottomettersi per il momento, ma in cuor
suo dice: «Sono perseguitato da uomini mondani. Essi non possono comprendere
chi è guidato dallo Spirito di Dio. È sempre stato così per i santi».
E
sentendosi martire egli è dieci volte più ostinato di prima.
È
terribile quando ad un uomo simile viene l’idea di essere un profeta o un
messaggero di Dio o un uomo che abbia avuto la missione di riformare il mondo…
Egli è capace di distruggere la religione e di rendere il nome di Dio odioso
agli uomini.
Io
devo cercare la mia identità, in un certo senso, non solo in Dio, ma anche
negli altri uomini.
Io
non potrò mai trovare me stesso se non mi isolo dal resto dell’umanità, come se
fossi un essere di specie diversa.
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