giovedì 18 luglio 2013

«Il Papa fa percepire la tenerezza di Dio»

Claudio Maria CelliIntervista con monsignor Claudio Celli sulla «comunicazione» di Francesco e sul ruolo dei social media

ROBERTO PAGLIALONGACITTÀ DEL VATICANO
La comunicazione oggi è tutto. I social media hanno modificato l’ambiente nel quale viviamo dando la sensazione che solo chi si esprime esista veramente. Anche la Chiesa prova a stare al passo, e non solo grazie all’adesione ai moderni strumenti: Papa Francesco, infatti, sembra avere riproposto una capacità di parlare alla gente che, in un’epoca di “nuova evangelizzazione”, risulta vitale. Si tratta di un segnale antropologico concreto: continua a essere l’uomo la linfa anche di una società iper-tecnologica. Alla vigilia della Gmg di Rio de Janeiro, ne parliamo con monsignor Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali.

Monsignor Celli, da Papa Benedetto XVI a Papa Francesco sembra cambiato il mondo. È davvero così, siamo cambiati noi o è la Chiesa che sta riprendendo dinamismo espressivo?


“Dobbiamo prendere atto di cosa sta avvenendo a livello globale, non solo nel campo della comunicazione. La Chiesa ne è consapevole e sa che deve parlare con uomini e donne che vivono in una nuova contestualità non solo comunicativa, ma esistenziale. Oggi uno non utilizza le nuove tecnologie solo per comunicare, ma vi abita. Le reti sociali sono un ambiente di vita, e la Chiesa è consapevole che anche lì deve essere annunciata la parola di Gesù. Per questo, oltre ai contenuti, che sono sempre i medesimi ovviamente, va posta una grande attenzione al linguaggio”.


In cosa sono diversi Papa Benedetto e Papa Francesco?

“Io non amo fare confronti. Come sempre il “carisma petrino” si incarna nel contesto personale di ciascuno. Nella storia abbiamo avuto una serie di pontefici, tutti portatori di quel carisma innegabilmente vissuto con aspetti personali”.


Ma allora dove sta la novità di Papa Francesco?


“Nell’approccio immediato e diretto del suo colloquiare. Papa Francesco riesce a combinare un frasario semplice con la ricchezza del contenuto della fede. Il suo è un linguaggio che viene percepito immediatamente, perché Francesco sa parlare al cuore, e sa stabilire una vicinanza e una sintonia profonda. E in questa vicinanza, a mio parere, sono tre gli elementi da considerare. Il primo è la capacità del Papa di tracciare, nelle sue omelie quotidiane, il profilo essenziale del discepolo del Signore. Se Dio ha pazienza con noi, allora compito dell’uomo è quello di camminare con il Signore, aspettando il momento e cercando di essere irreprensibile. Il Papa ci ricorda che non siamo soli, Dio accompagna l’uomo e lo attira a sé”.


Colpisce molto l’uso delle immagini. Perché?


“È il secondo aspetto essenziale. Papa Francesco usa le immagini perché consentono all’uomo di cogliere subito i contenuti più profondi della fede e del messaggio evangelico. Recentemente ricordava come le lacrime della sofferenza siano le lenti che permettono all’uomo di vedere accanto a sé il Signore; o a noi sacerdoti come il pastore debba avere su di sé l’odore delle sue pecore”.


Qual è il terzo elemento?


“Senz’altro la gestualità. Francesco comunica con i suoi gesti, che sono espressione di simpatia, accoglienza e condivisione. Quando avvicina i malati o i bambini, per esempio, fa percepire la tenerezza di Dio. Questa è la sua comunicazione: e veramente il Papa è un comunicatore particolare”.


Rispetto a questo si riscontrano due interpretazioni: da una parte, coloro che si sentono letteralmente travolti dai messaggi diretti di Papa Francesco; dall’altra, coloro che “lo aspettano al varco”, anche con un po’ di preoccupazione per quanto potrà dire (posto che voglia farlo) sui temi eticamente sensibili e per come le aspettative generate da un Pontefice più in sintonia con la gente, possano poi essere eventualmente deluse. Lei cosa ne pensa?


“Io credo che siano interpretazioni integrabili. E scopriremo come Papa Francesco toccherà anche temi più sensibili e verso i quali c’è una certa aspettativa con un linguaggio nuovo. Determinate problematiche dottrinali non potranno trovare grandi cambiamenti, c’è un insegnamento della Chiesa del quale il Papa è portatore. Tuttavia, spesso, chi è lontano dalla fede sente le difficoltà di una Chiesa che pronuncia valutazioni etiche, direi talvolta quasi non partecipative: Francesco ci aiuterà a capire come la Chiesa non può non dire certe cose, ma nel momento in cui lo farà, cercherà di utilizzare sempre un linguaggio di vicinanza e condivisione. Il Papa apporterà anche qui quel suo tocco profondamente umano”.


Non si rischia di perdere il contenuto del messaggio veritativo in questo modo?

“Direi di no. Al centro della comunicazione c’è sempre l’uomo. Lo diceva anche Papa Benedetto XVI: la comunicazione deve avere come suo riferimento la verità sull’uomo. Il vero, il buono e il bello devono sempre camminare insieme. Papa Francesco lo ha ripetuto nell’incontro con i giornalisti dopo il conclave: anche nella comunicazione non si dà il buono senza verità e bellezza, ma non si dà neppure una bellezza senza bontà e verità”.

Parliamo del ruolo dei laici nella comunicazione di fede. Robert Spaemann in un saggio di qualche anno fa, intitolato “La diceria immortale”, sosteneva che “se Dio c’è, è sempre ora di pensare a Dio”. Compito dei cristiani è però non solo di pensare Dio, o a Dio, ma anche di testimoniarlo e comunicarlo. Come si fa in una società che sembra aver estromesso il discorso religioso dal proprio orizzonte?


“È il mistero dell’uomo. Forse l’uomo di oggi non accoglie una certa religiosità, perché magari non la sente vera o a lui vicina in determinate espressioni. In realtà, però, ancora una volta non possiamo non vedere quanta nostalgia di Dio alberghi nel profondo del suo cuore e della società moderna. Ci sono momenti della vita nei quali l’uomo sperimenta come sia difficile credere, ma anche come sia difficile non credere, e quindi come si manifesti questo bisogno della presenza amorosa di Dio. La “tenerezza di Dio” ci indica proprio che Dio ci ama per primo. Dietrich Bonhoeffer diceva: “Dio non mi ha amato per primo una sola volta, perchè nel cammino della vita quando mi alzo, quando vado a letto, o quando vivo un determinato momento, e penso a Lui, io mi accorgo che Dio è già lì, perché Lui mi ama per primo”. Forse, allora, pur non capendo certe manifestazioni, non significa che l’uomo di oggi non senta profondamente il bisogno di Dio nella sua vita. Per questo, i laici devono riscoprire il senso di Dio per esserne testimoni nella professione, in famiglia, con gli amici.

Il messaggio cristiano si esprime oggi anche attraverso i social media. Come risponde a coloro che criticano la scelta di utilizzarli da parte del Papa e della Chiesa?


“La fede si comunica attraverso un rapporto profondamente personale, e a prima vista sembrerebbe che la mediazione digitale lo impedisca. Ecco perché alcuni preferiscono le forme tradizionali di comunicazione. Io credo che dobbiamo usare saggezza e capire che le due cose si integrano, non si escludono. Dobbiamo valorizzare ciò che di buono c’è nella nostra esperienza pastorale, ma nello stesso tempo dobbiamo avere l’audacia, come diceva Paolo VI nella Evangelii nuntiandi, di utilizzare tutto ciò che è a nostra disposizione per far sì che l’annuncio risuoni più ampiamente. Anche nell’ “ambiente di vita” delle reti sociali è bene che risuoni la voce del Vangelo”.


Certo le “piazze digitali” sono affollate, mentre le chiese spesso sono vuote…


“È vero, ci sono uomini e donne di oggi che forse non entreranno mai in chiesa. Ma essi ugualmente hanno il diritto di poter ascoltare l’annuncio del Vangelo. L’attenzione pastorale della Chiesa è di far sì che anche queste persone possano ritrovare nel “cyberspace” Gesù e il suo messaggio. È qui che intervengono la sensibilità pastorale e l’attenzione della comunità cristiana. Tuttavia, nel contesto delle reti sociali non dobbiamo solo annunciare formalmente il Vangelo, magari attraverso grandi citazioni. Il nostro compito è molto più alto: siamo chiamati alla testimonianza della sinergia tra Vangelo e vita. Paolo VI diceva: “il mondo oggi è più disposto a credere ai testimoni che ai maestri, e se dà ascolto a un maestro lo fa perché questo maestro è anche un testimone”. I giovani hanno bisogno di toccare con mano come altri uomini e donne stanno cercando di trovare convergenze tra i loro stili di vita e il Vangelo che hanno accolto”.


Monsignor Celli, lei è tornato da poco dalla Giordania, dove ha incontrato giornalisti dell’area alle prese con le cosiddette “primavere arabe” e le loro conseguenze. I mezzi di comunicazione, e i nuovi media in particolare, sono sempre strumenti di libertà?


“Il ruolo dei media è fondamentale per uno sviluppo sociale rispettoso dell’uomo. E non possiamo dimenticare che molti giornalisti danno la vita per il loro lavoro. In molte zone – come il Medio Oriente – la comunicazione gioca un ruolo essenziale nella costruzione della pace e nella difesa dei diritti dell’uomo. Questa è la missione che deve essere accolta”.


I mezzi di comunicazione possono essere strumenti di libertà anche per la Chiesa oggi?

“La missione di cui ho appena parlato vale certamente anche per la Chiesa. C’è bisogno ogni volta di riandare ai contenuti portanti della vita della Chiesa e del Vangelo, e dobbiamo confrontarci con questi valori per far sì che la comunità dei credenti sia sempre quell’ambiente di fedeltà al Signore, ma in grado di sviluppare fedeltà anche all’uomo di oggi. È la sfida più ardua, ma deve trovare nella testimonianza la sua espressione più piena”.

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