Incontro presso il Consiglio Regionale della Regione
Lombardia
Un nuovo umanesimo: il futuro della Lombardia
Milano, 4 febbraio
2014
Angelo
Card. Scola
Arcivescovo
di Milano
Egregio Signor Presidente del
Consiglio Regionale
Egregio Signor Presidente della
Giunta Regionale,
Onorevoli Membri della Giunta e
del Consiglio Regionale,
vi sono grato
per l’invito a visitare il Consiglio Regionale e a intrattenere questo dialogo
con Voi e mi scuso, una volta ancora, per aver dovuto rinviare l’incontro
fissato prima di Natale. Ritengo questa vostra proposta un gesto di “amicizia
civica”, con cui viene riconosciuto l’apporto che la Chiesa ambrosiana vuole
offrire alla società plurale che oggi caratterizza anche la nostra Regione.
La mia presenza
in questa prestigiosa sede mi rende ben consapevole dei limiti oggettivi del
mio intervento. Esso vuol essere solo un contributo del rappresentante di una
istituzione con rilevanza pubblica, la Chiesa. Un apporto teso a trasmettere il
tesoro di ideali, legami, conoscenze, risorse che i nostri progenitori ci hanno
consegnato. L’umanesimo che ci ha generato ha bisogno di essere non soltanto
trasmesso, ma immesso nella nuova cultura, frutto di un’accelerazione della
tecnica e delle tecnologie che non ha analogie nel passato (penso, ad esempio,
alle nuove frontiere della finanza, della scienza, della comunicazione, della
produzione…).
1. Lombardia e travaglio di civiltà
I cattolici,
come tutti i lombardi, vivono in prima persona il travaglio della nostra
società in questo inizio del Terzo Millennio. La crisi economica che stiamo
vivendo e che segna in profondità il presente della Lombardia è molto più grave
di quanto le nostre previsioni abbiano immaginato: per durata, per estensione,
per capacità di fiaccare la nostra speranza.
Il nostro errore
nella previsione dipende da un difetto nella lettura: la vediamo solo come una
crisi economica, e non per quello che è veramente, un travaglio di civiltà
all’inizio del nuovo millennio. Ne è segno il fatto che, non accettando di
cambiare profondamente i nostri stili di vita, continuiamo ad immaginare
scenari che ci riportino a come eravamo e che, alla fine, ci lasciano paralizzati.
A tale travaglio
si lega l’esigenza di trovare una nuova sinergia tra le capacità, le risorse e
i progetti per una società civile come la nostra che, come ho già avuto
occasione di dire in altre sedi, patisce una frustrante sproporzione tra le sue
grandi potenzialità e le sue effettive possibilità.
Consentitemi di
ritornare con qualche ulteriore approfondimento su questa diagnosi.
Comprendere le
ragioni di tale sproporzione nella prospettiva del bene comune fa parte del
compito che ci attende e costituisce, nello stesso tempo, l’unica strada
realistica per affrontare il futuro. In particolare l’arte della politica, come
già dicevano gli antichi, implica il continuo lavoro per gestire, mediante il compromesso nobile, la sproporzione tra
questi due fattori.
Non posso qui,
né ho la competenza per farlo, richiamare i lineamenti di quella che Edgar
Morin definisce “società complessa”.
Una situazione che non consente semplificazioni né a livello teorico, né a
livello pratico, imposta dalla frammentazione dominante che sembra concedere
solo sintesi parziali. Una società per così dire a schegge di diamante, come la
nostra, mette alla prova l’esperienza singola e collettiva, ma sarebbe un
errore concludere che essa toglie la possibilità di governare. Richiede
piuttosto di ripensare e aggiornare il rapporto tra diversi e complementari
fattori quali identità e pluralità, realtà
e comunicazione, strutture e capacità di iniziativa.
Per descrivere la
sproporzione tra potenzialità e possibilità mi sia permesso, tuttavia, far
riferimento a qualche fenomeno a tutti noto.
In Lombardia ci
troviamo di fronte al paradosso di un’apertura crescente alla dimensione
internazionale per quanto riguarda la crescita economica e la realtà
dell’export, insieme alle forti perplessità, quando non a vere e proprie
resistenze, con cui talora affrontiamo la realtà, destinata a crescere,
dell’immigrazione nelle nostre terre. Un dato, però, è sotto gli occhi di tutti
(Rapporto Caritas-Migrantes 2013): il
processo di invecchiamento viene rallentato soprattutto grazie all’apporto
degli immigrati. Mentre lo sviluppo delle esportazioni mostra la capacità di andare
incontro a mercati lontani e culturalmente differenti – si pensi agli Stati
Uniti ma, soprattutto, all’Asia –, tale capacità sembra venir meno quando si
tratta di affrontare equilibrate politiche di integrazione, nel rispetto della
legalità. Gli immigrati rappresentano quindi una potenzialità, ma se non ci
decidiamo a tradurre questo processo
di meticciato di civiltà in una possibilità effettiva il nostro futuro sarà più
difficile.
Un altro
carattere proprio dell’attuale frangente storico è la situazione in cui versa
la famiglia. I nuclei familiari, secondo gli esperti, aumentano ma sono sempre
più piccoli. Inoltre, cresce il numero delle persone che vivono sole e delle
coppie senza figli, anche se quelle con figli continuano a rappresentare la
struttura familiare più diffusa in Lombardia. Suscita grandissima
preoccupazione l’incidenza della crisi economica sulle famiglie con più figli o
con anziani a carico. Inoltre, il crescente indebolimento del legame
matrimoniale, come dimostra il dato delle separazioni in aumento, infragilisce
il nostro tessuto sociale e crea nuovi poveri. Infine, mi preme fare un cenno
al costante incremento delle famiglie in condizioni di povertà assoluta o di
vulnerabilità. Questa situazione trova in Lombardia una estesa e solida rete di
opere di volontariato e non profit, tra le quali, senz’altro, occupano un posto
significativo le variegate realtà sorte dalla vita della diocesi, delle
parrocchie e delle aggregazioni di fedeli.
La famiglia, nel
senso classico del termine, costituisce quindi una notevole potenzialità ma la
mancanza di adeguate politiche familiari le impedisce di essere una possibilità
efficace per costituire il futuro.
Indubbiamente si
potrebbe, in questa chiave interpretativa legata al binomio potenzialità-possibilità,
far riferimento a molti altri esempi relativi ad aspetti sostanziali della
nostra vita sociale in cui emerge la sproporzione descritta. Penso alla
Università e alla scuola, alla questione del lavoro, soprattutto giovanile,
all’imponente rete culturale di musei, monumenti, biblioteche, teatri,
itinerari della nostra regione, alla questione dell’istruzione con particolar
attenzione alla necessità di favorire una effettiva libertà di educazione, alle
prestazioni sanitarie ed assistenziali, alla cura delle fragilità e delle
emarginazioni e ai centri di eccellenza nell’ambito della ricerca, alla
promozione dell’agricoltura e dell’industria, ai problemi della sicurezza, alle
questioni legate alla mobilità ai trasporti...
2. Superare il disagio di civiltà
Una certa
frustrazione – generata dalla sproporzione accennata, cui si somma la complessità
della vita della nostra Regione – diffonde un disagio palpabile, anche se non
sempre ben identificato, che per il travaglio più che epocale di cui ho parlato
può essere chiamato disagio di civiltà.
Esso non deriva soltanto da condizioni strutturali e istituzionali, locali e
nazionali. Più profondamente nasce da una difficoltà intrinseca al nostro tempo,
in cui né l’energia spirituale e morale per unificare l’esistenza, né la
capacità ideale e affettiva di progettare il futuro sono beni facilmente
reperibili.
Infatti è parte
dell’attuale frangente storico anche il divario tra le sue enormi e nuove
potenzialità e le estese fragilità antropologiche dell’uomo contemporaneo, che
sembra sprovvisto di un’unità di senso per l’esistenza e privato in tal modo di
un’identità di riferimento.
In questa
prospettiva, si può dire che la nostra Regione ha bisogno di un nuovo umanesimo che non disgiunga il
progetto storico da una costruttiva discussione sull’ “umano” e sull’ideale,
discussione impegnativa certo, ma carica di speranza per una effettiva
rinascita.
Oggi, infatti,
ripensare il mondo senza ripensare l’uomo significa affidarsi esclusivamente ad
uno scenario di gestione tecnocratica globale davvero preoccupante. Senza
ripensare l’uomo, senza riproporsi quindi la questione di una comune
“grammatica dell’umano”, significa ridursi all’unico sapere e saper fare di cui l’uomo contemporaneo si sente in
qualche modo certo, il sapere tecno-scientifico. Questo, su grande scala, vuol
dire primato dell’economico-finanziario, della rete e della comunicazione,
della biopolitica, in ultima analisi primato di un regime tecnocratico, in cui
i criteri del potere tecnico condizionano tutti gli altri (politici, sociali,
etici, culturali, religiosi) e li dominano, privandoli della prima e
indispensabile risorsa che è quella di un soggetto umano, personale e
comunitario, capace di mettere continuamente in discussione per migliorare
anzitutto se stesso.
L’unità
dell’esistenza dell’uomo e, prima ancora, l’unità dell’esperienza che egli compie
sono oggi altamente problematiche, non tanto in termini di contenuti, che
vengono astrattamente richiamati, ma di vissuto e di identità reale. La
difficoltà maggiore oggi è interna ad ogni singola persona, è a livello della
stessa “grammatica elementare dell’umano”. Ed invece è qui che sono in gioco la
capacità di “fare esperienza” e di “far fare esperienza” ad altri, e quindi di
comunicare esperienza, di produrre socialità, di generare vita comune.
Lo si vede bene
nei nostri stili di vita: viviamo frammentati in una miriade di informazioni,
conoscenze e saperi a tal punto che quando affrontiamo un aspetto della nostra esistenza
è come se di tutti gli altri non avessimo più memoria, quasi non esistessero.
Viviamo “a compartimenti stagni”, “scheggiati” appunto, facendo riferimento ad esperienze
e logiche autonome fra loro e di fatto non comunicanti, perché non integrate in
un sistema di “ideali” (valori) onnicomprensivo. Ci comportiamo come se non
avessimo un’ipotesi esistenziale che ci renda capaci di interpretare
unitariamente la realtà che viviamo. Siamo così attaccati, quasi ossessivamente,
ad ogni particolare. E per questo ci appoggiamo all’enorme potenza di memoria
quantitativa dei nuovi media, ma a ben vedere non è questa la vera memoria.
Siamo dominati di volta in volta da una “logica etica” (in genere sul piano di
una coscienza che non ammette tribunali), da una “logica economica” (il più
delle volte totalmente sganciata da quella del bene umano), una “logica
tecnica” (in cui la sofisticazione e la complessità sono beni in sé
indipendentemente dalla loro utilità), una “logica artistica” (ars gratia artis, l’arte solo fine a se
stessa), una “logica politica” (del potere per il potere) e così via. Non
possiamo ovviamente negare che, in Occidente, l’espansione di queste logiche
particolari ha favorito un’enorme efficienza di tutti i processi di sviluppo.
Ma ha anche creato un problema nuovo: è venuto a mancare qualsiasi quadro di
riferimento unitario ed onnicomprensivo, almeno ampiamente condiviso, entro il
quale le diverse logiche possano trovare contrappesi e reciproche
compensazioni. Si pensi alla difficoltà che incontriamo nel comporre condotte
razionali e vita affettiva; istanze di etica pubblica (uguaglianza,
solidarietà, giustizia,…) ed ethos privato (individualismo possessivo,
narcisismo…); aperture globali ed egoismi locali; desiderio di dialogo e
settarismi; pretese di verità tecno-scientifica con cui governare il mondo e
scetticismo di fondo sull’idea stessa di verità...
3. La necessaria grammatica
dell’umano
Per tutto questo
affrontare il travaglio di civiltà in atto chiede di ripensare l’uomo.
La Chiesa pensa
umilmente di poter dare un contributo non indifferente di conoscenza circa la
“grammatica dell’umano”. Non per sua capacità e merito, ma in forza dell’evento
di Gesù Cristo in cui – come ha affermato il Concilio Vaticano II – trova vera
luce il mistero dell’uomo (cfr GS 22).
L’umano di cui la Chiesa parla non deriva da un patrimonio dottrinale “ideologico
e cristallizzato” (Papa Francesco), non anzitutto da codici normativi, non da
tradizioni rituali prese in se stesse, non da particolari competenze
concorrenti con altre, ma dal rapporto con una Persona vivente. Per questo la
Chiesa, in tutte le culture e in tutte le circostanze storiche, intende offrire
contributi per il rinnovamento e la ricomposizione dell’unità della persona. La
Chiesa in prima istanza non entra in concorrenza o in contenzioso con nessuno,
ma dà notizia (Evangelo) e rende disponibile a tutti un contributo di
rigenerazione dell’umano, di cui la storia ha sempre bisogno, soprattutto alcuni
decisivi tornanti.
Comunque, per
quanto la nostra sia una “società
complessa”, la Regione Lombardia non manca di grandi risorse. La prima
delle quali è forse rappresentata dalla sensibilità di tutti coloro che,
secondo le più diverse appartenenze e posizioni culturali, avvertono come questione
principale la domanda “Chi vuol essere
l’uomo del terzo millennio?”. È un interrogativo che ha assunto il
carattere di una scommessa: l’uomo di oggi è un io-in-relazione o è solo il “suo
proprio esperimento”? Mi sembra una questione decisiva anche per il
rinnovamento civile in ogni suo settore e livello. Su questo contenuto decisivo
dell’umano convivere la Chiesa ambrosiana è interessata ad approfondire o a
instaurare un confronto e a operare insieme in tutti i modi opportuni e
rispettosi delle debite distinzioni.
L’apertura ad un
ininterrotto paragone circa il bene sociale rappresentato dal fatto che
dobbiamo in ogni caso vivere insieme, domanda la decisione di scelte politiche
che lo rendano un bene ricercato e voluto, tanto più nel contesto contemporaneo
di pluralismo inedito e di identità problematiche.
La verifica di
tale indomabile impegno è la costruzione di una società civile che valorizzi tutte
le realtà in campo, favorendo con regole che esaltino la libertà il confronto
pubblico. Laicità non è costruire spazi neutri, ma ambiti in cui tutti si
raccontino e si lascino raccontare: luoghi di crescita antropologica, di
edificazione delle identità personali, di cura delle relazioni, di aiuto alle
nuove generazioni, come la famiglia e le istituzioni educative, di promozione
di lavoro aggiornato secondo adeguate risorse tecniche ed economiche. Ben
consapevoli che l’esperienza del lavoro, accessibile alle nuove generazioni, non
è solo un fatto tecnico ed economico, ma anche formativo, relazionale e
culturale.
In questa
prospettiva di vita buona la Chiesa parla di opzione preferenziale per i poveri,
dando a questa categoria una valenza «teologica,
prima che culturale, sociologica, politica e filosofica» (Evangelii gaudium, 198). Partire dai
poveri significa riconoscere che essi sono “obbligati” a quella necessaria unificazione
essenziale di vita che noi ricchi, grazie alle nostre possibilità, possiamo
permetterci di rimandare. Dalla loro esperienza possiamo imparare molto.
A proposito di
bene comune e di pace sociale, Papa Francesco nell’esortazione Evangelii gaudium ha richiamato la
necessità di dare la precedenza ai processi – rispettando, quindi, il peso del
tempo –, di far prevalere l’unità sul conflitto e la realtà sull’idea, nonché
il bene del tutto su quello della parte (cfr EG 217-237). In questa affermazione del Santo Padre è ben
identificato il dovere di ogni Istituzione politica, in modo particolare di
quelle che sono a maggior contatto con i cittadini e il territorio. L’Expo 2015
rappresenta, in questo senso, uno straordinario banco di prova.
Mentre rinnovo la
mia riconoscenza per avermi accordato la possibilità di questo incontro,
esprimo la mia vicinanza al vostro delicato compito e assicuro il contributo
della Chiesa ambrosiana e delle chiese appartenenti alla Metropolia di Milano
capillarmente presenti tra il popolo, a tutti gli attori della nostra società
lombarda.
Grazie.
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