mercoledì 5 febbraio 2014

«Un nuovo umanesimo: il futuro della Lombardia»

scola consiglio regionale



Incontro presso il Consiglio Regionale della Regione Lombardia

Un nuovo umanesimo: il futuro della Lombardia

Milano, 4 febbraio 2014


Angelo Card. Scola
Arcivescovo di Milano

Egregio Signor Presidente del Consiglio Regionale
Egregio Signor Presidente della Giunta Regionale,
Onorevoli Membri della Giunta e del Consiglio Regionale,

vi sono grato per l’invito a visitare il Consiglio Regionale e a intrattenere questo dialogo con Voi e mi scuso, una volta ancora, per aver dovuto rinviare l’incontro fissato prima di Natale. Ritengo questa vostra proposta un gesto di “amicizia civica”, con cui viene riconosciuto l’apporto che la Chiesa ambrosiana vuole offrire alla società plurale che oggi caratterizza anche la nostra Regione.
La mia presenza in questa prestigiosa sede mi rende ben consapevole dei limiti oggettivi del mio intervento. Esso vuol essere solo un contributo del rappresentante di una istituzione con rilevanza pubblica, la Chiesa. Un apporto teso a trasmettere il tesoro di ideali, legami, conoscenze, risorse che i nostri progenitori ci hanno consegnato. L’umanesimo che ci ha generato ha bisogno di essere non soltanto trasmesso, ma immesso nella nuova cultura, frutto di un’accelerazione della tecnica e delle tecnologie che non ha analogie nel passato (penso, ad esempio, alle nuove frontiere della finanza, della scienza, della comunicazione, della produzione…).

1. Lombardia e travaglio di civiltà
I cattolici, come tutti i lombardi, vivono in prima persona il travaglio della nostra società in questo inizio del Terzo Millennio. La crisi economica che stiamo vivendo e che segna in profondità il presente della Lombardia è molto più grave di quanto le nostre previsioni abbiano immaginato: per durata, per estensione, per capacità di fiaccare la nostra speranza.
Il nostro errore nella previsione dipende da un difetto nella lettura: la vediamo solo come una crisi economica, e non per quello che è veramente, un travaglio di civiltà all’inizio del nuovo millennio. Ne è segno il fatto che, non accettando di cambiare profondamente i nostri stili di vita, continuiamo ad immaginare scenari che ci riportino a come eravamo e che, alla fine, ci lasciano paralizzati.
A tale travaglio si lega l’esigenza di trovare una nuova sinergia tra le capacità, le risorse e i progetti per una società civile come la nostra che, come ho già avuto occasione di dire in altre sedi, patisce una frustrante sproporzione tra le sue grandi potenzialità e le sue effettive possibilità.
Consentitemi di ritornare con qualche ulteriore approfondimento su questa diagnosi.
Comprendere le ragioni di tale sproporzione nella prospettiva del bene comune fa parte del compito che ci attende e costituisce, nello stesso tempo, l’unica strada realistica per affrontare il futuro. In particolare l’arte della politica, come già dicevano gli antichi, implica il continuo lavoro per gestire, mediante il compromesso nobile, la sproporzione tra questi due fattori.
Non posso qui, né ho la competenza per farlo, richiamare i lineamenti di quella che Edgar Morin definisce “società complessa”. Una situazione che non consente semplificazioni né a livello teorico, né a livello pratico, imposta dalla frammentazione dominante che sembra concedere solo sintesi parziali. Una società per così dire a schegge di diamante, come la nostra, mette alla prova l’esperienza singola e collettiva, ma sarebbe un errore concludere che essa toglie la possibilità di governare. Richiede piuttosto di ripensare e aggiornare il rapporto tra diversi e complementari fattori quali identità e pluralità,  realtà e comunicazione, strutture e capacità di iniziativa.
Per descrivere la sproporzione tra potenzialità e possibilità mi sia permesso, tuttavia, far riferimento a qualche fenomeno a tutti noto.
In Lombardia ci troviamo di fronte al paradosso di un’apertura crescente alla dimensione internazionale per quanto riguarda la crescita economica e la realtà dell’export, insieme alle forti perplessità, quando non a vere e proprie resistenze, con cui talora affrontiamo la realtà, destinata a crescere, dell’immigrazione nelle nostre terre. Un dato, però, è sotto gli occhi di tutti (Rapporto Caritas-Migrantes 2013): il processo di invecchiamento viene rallentato soprattutto grazie all’apporto degli immigrati. Mentre lo sviluppo delle esportazioni mostra la capacità di andare incontro a mercati lontani e culturalmente differenti – si pensi agli Stati Uniti ma, soprattutto, all’Asia –, tale capacità sembra venir meno quando si tratta di affrontare equilibrate politiche di integrazione, nel rispetto della legalità. Gli immigrati rappresentano quindi una potenzialità, ma se non ci decidiamo a tradurre questo processo di meticciato di civiltà in una possibilità effettiva il nostro futuro sarà più difficile.
Un altro carattere proprio dell’attuale frangente storico è la situazione in cui versa la famiglia. I nuclei familiari, secondo gli esperti, aumentano ma sono sempre più piccoli. Inoltre, cresce il numero delle persone che vivono sole e delle coppie senza figli, anche se quelle con figli continuano a rappresentare la struttura familiare più diffusa in Lombardia. Suscita grandissima preoccupazione l’incidenza della crisi economica sulle famiglie con più figli o con anziani a carico. Inoltre, il crescente indebolimento del legame matrimoniale, come dimostra il dato delle separazioni in aumento, infragilisce il nostro tessuto sociale e crea nuovi poveri. Infine, mi preme fare un cenno al costante incremento delle famiglie in condizioni di povertà assoluta o di vulnerabilità. Questa situazione trova in Lombardia una estesa e solida rete di opere di volontariato e non profit, tra le quali, senz’altro, occupano un posto significativo le variegate realtà sorte dalla vita della diocesi, delle parrocchie e delle aggregazioni di fedeli.
La famiglia, nel senso classico del termine, costituisce quindi una notevole potenzialità ma la mancanza di adeguate politiche familiari le impedisce di essere una possibilità efficace per costituire il futuro.
Indubbiamente si potrebbe, in questa chiave interpretativa legata al binomio potenzialità-possibilità, far riferimento a molti altri esempi relativi ad aspetti sostanziali della nostra vita sociale in cui emerge la sproporzione descritta. Penso alla Università e alla scuola, alla questione del lavoro, soprattutto giovanile, all’imponente rete culturale di musei, monumenti, biblioteche, teatri, itinerari della nostra regione, alla questione dell’istruzione con particolar attenzione alla necessità di favorire una effettiva libertà di educazione, alle prestazioni sanitarie ed assistenziali, alla cura delle fragilità e delle emarginazioni e ai centri di eccellenza nell’ambito della ricerca, alla promozione dell’agricoltura e dell’industria, ai problemi della sicurezza, alle questioni legate alla mobilità ai trasporti...

2. Superare il disagio di civiltà
Una certa frustrazione – generata dalla sproporzione accennata, cui si somma la complessità della vita della nostra Regione – diffonde un disagio palpabile, anche se non sempre ben identificato, che per il travaglio più che epocale di cui ho parlato può essere chiamato disagio di civiltà. Esso non deriva soltanto da condizioni strutturali e istituzionali, locali e nazionali. Più profondamente nasce da una difficoltà intrinseca al nostro tempo, in cui né l’energia spirituale e morale per unificare l’esistenza, né la capacità ideale e affettiva di progettare il futuro sono beni facilmente reperibili.
Infatti è parte dell’attuale frangente storico anche il divario tra le sue enormi e nuove potenzialità e le estese fragilità antropologiche dell’uomo contemporaneo, che sembra sprovvisto di un’unità di senso per l’esistenza e privato in tal modo di un’identità di riferimento.
In questa prospettiva, si può dire che la nostra Regione ha bisogno di un nuovo umanesimo che non disgiunga il progetto storico da una costruttiva discussione sull’ “umano” e sull’ideale, discussione impegnativa certo, ma carica di speranza per una effettiva rinascita.
Oggi, infatti, ripensare il mondo senza ripensare l’uomo significa affidarsi esclusivamente ad uno scenario di gestione tecnocratica globale davvero preoccupante. Senza ripensare l’uomo, senza riproporsi quindi la questione di una comune “grammatica dell’umano”, significa ridursi all’unico sapere e saper fare di cui l’uomo contemporaneo si sente in qualche modo certo, il sapere tecno-scientifico. Questo, su grande scala, vuol dire primato dell’economico-finanziario, della rete e della comunicazione, della biopolitica, in ultima analisi primato di un regime tecnocratico, in cui i criteri del potere tecnico condizionano tutti gli altri (politici, sociali, etici, culturali, religiosi) e li dominano, privandoli della prima e indispensabile risorsa che è quella di un soggetto umano, personale e comunitario, capace di mettere continuamente in discussione per migliorare anzitutto se stesso.
L’unità dell’esistenza dell’uomo e, prima ancora, l’unità dell’esperienza che egli compie sono oggi altamente problematiche, non tanto in termini di contenuti, che vengono astrattamente richiamati, ma di vissuto e di identità reale. La difficoltà maggiore oggi è interna ad ogni singola persona, è a livello della stessa “grammatica elementare dell’umano”. Ed invece è qui che sono in gioco la capacità di “fare esperienza” e di “far fare esperienza” ad altri, e quindi di comunicare esperienza, di produrre socialità, di generare vita comune.
Lo si vede bene nei nostri stili di vita: viviamo frammentati in una miriade di informazioni, conoscenze e saperi a tal punto che quando affrontiamo un aspetto della nostra esistenza è come se di tutti gli altri non avessimo più memoria, quasi non esistessero. Viviamo “a compartimenti stagni”, “scheggiati” appunto, facendo riferimento ad esperienze e logiche autonome fra loro e di fatto non comunicanti, perché non integrate in un sistema di “ideali” (valori) onnicomprensivo. Ci comportiamo come se non avessimo un’ipotesi esistenziale che ci renda capaci di interpretare unitariamente la realtà che viviamo. Siamo così attaccati, quasi ossessivamente, ad ogni particolare. E per questo ci appoggiamo all’enorme potenza di memoria quantitativa dei nuovi media, ma a ben vedere non è questa la vera memoria. Siamo dominati di volta in volta da una “logica etica” (in genere sul piano di una coscienza che non ammette tribunali), da una “logica economica” (il più delle volte totalmente sganciata da quella del bene umano), una “logica tecnica” (in cui la sofisticazione e la complessità sono beni in sé indipendentemente dalla loro utilità), una “logica artistica” (ars gratia artis, l’arte solo fine a se stessa), una “logica politica” (del potere per il potere) e così via. Non possiamo ovviamente negare che, in Occidente, l’espansione di queste logiche particolari ha favorito un’enorme efficienza di tutti i processi di sviluppo. Ma ha anche creato un problema nuovo: è venuto a mancare qualsiasi quadro di riferimento unitario ed onnicomprensivo, almeno ampiamente condiviso, entro il quale le diverse logiche possano trovare contrappesi e reciproche compensazioni. Si pensi alla difficoltà che incontriamo nel comporre condotte razionali e vita affettiva; istanze di etica pubblica (uguaglianza, solidarietà, giustizia,…) ed ethos privato (individualismo possessivo, narcisismo…); aperture globali ed egoismi locali; desiderio di dialogo e settarismi; pretese di verità tecno-scientifica con cui governare il mondo e scetticismo di fondo sull’idea stessa di verità...

3. La necessaria grammatica dell’umano
Per tutto questo affrontare il travaglio di civiltà in atto chiede di ripensare l’uomo.
La Chiesa pensa umilmente di poter dare un contributo non indifferente di conoscenza circa la “grammatica dell’umano”. Non per sua capacità e merito, ma in forza dell’evento di Gesù Cristo in cui – come ha affermato il Concilio Vaticano II – trova vera luce il mistero dell’uomo (cfr GS 22). L’umano di cui la Chiesa parla non deriva da un patrimonio dottrinale “ideologico e cristallizzato” (Papa Francesco), non anzitutto da codici normativi, non da tradizioni rituali prese in se stesse, non da particolari competenze concorrenti con altre, ma dal rapporto con una Persona vivente. Per questo la Chiesa, in tutte le culture e in tutte le circostanze storiche, intende offrire contributi per il rinnovamento e la ricomposizione dell’unità della persona. La Chiesa in prima istanza non entra in concorrenza o in contenzioso con nessuno, ma dà notizia (Evangelo) e rende disponibile a tutti un contributo di rigenerazione dell’umano, di cui la storia ha sempre bisogno, soprattutto alcuni decisivi tornanti.
Comunque, per quanto la nostra sia una “società complessa”, la Regione Lombardia non manca di grandi risorse. La prima delle quali è forse rappresentata dalla sensibilità di tutti coloro che, secondo le più diverse appartenenze e posizioni culturali, avvertono come questione principale la domanda “Chi vuol essere l’uomo del terzo millennio?”. È un interrogativo che ha assunto il carattere di una scommessa: l’uomo di oggi è un io-in-relazione o è solo il “suo proprio esperimento”? Mi sembra una questione decisiva anche per il rinnovamento civile in ogni suo settore e livello. Su questo contenuto decisivo dell’umano convivere la Chiesa ambrosiana è interessata ad approfondire o a instaurare un confronto e a operare insieme in tutti i modi opportuni e rispettosi delle debite distinzioni.
L’apertura ad un ininterrotto paragone circa il bene sociale rappresentato dal fatto che dobbiamo in ogni caso vivere insieme, domanda la decisione di scelte politiche che lo rendano un bene ricercato e voluto, tanto più nel contesto contemporaneo di pluralismo inedito e di identità problematiche.
La verifica di tale indomabile impegno è la costruzione di una società civile che valorizzi tutte le realtà in campo, favorendo con regole che esaltino la libertà il confronto pubblico. Laicità non è costruire spazi neutri, ma ambiti in cui tutti si raccontino e si lascino raccontare: luoghi di crescita antropologica, di edificazione delle identità personali, di cura delle relazioni, di aiuto alle nuove generazioni, come la famiglia e le istituzioni educative, di promozione di lavoro aggiornato secondo adeguate risorse tecniche ed economiche. Ben consapevoli che l’esperienza del lavoro, accessibile alle nuove generazioni, non è solo un fatto tecnico ed economico, ma anche formativo, relazionale e culturale.
In questa prospettiva di vita buona la Chiesa parla di opzione preferenziale per i poveri, dando a questa categoria una valenza «teologica, prima che culturale, sociologica, politica e filosofica» (Evangelii gaudium, 198). Partire dai poveri significa riconoscere che essi sono “obbligati” a quella necessaria unificazione essenziale di vita che noi ricchi, grazie alle nostre possibilità, possiamo permetterci di rimandare. Dalla loro esperienza possiamo imparare molto.
A proposito di bene comune e di pace sociale, Papa Francesco nell’esortazione Evangelii gaudium ha richiamato la necessità di dare la precedenza ai processi – rispettando, quindi, il peso del tempo –, di far prevalere l’unità sul conflitto e la realtà sull’idea, nonché il bene del tutto su quello della parte (cfr EG 217-237). In questa affermazione del Santo Padre è ben identificato il dovere di ogni Istituzione politica, in modo particolare di quelle che sono a maggior contatto con i cittadini e il territorio. L’Expo 2015 rappresenta, in questo senso, uno straordinario banco di prova.
Mentre rinnovo la mia riconoscenza per avermi accordato la possibilità di questo incontro, esprimo la mia vicinanza al vostro delicato compito e assicuro il contributo della Chiesa ambrosiana e delle chiese appartenenti alla Metropolia di Milano capillarmente presenti tra il popolo, a tutti gli attori della nostra società lombarda.

Grazie.

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