domenica 9 febbraio 2014

Parolin: in Curia con lo stile di Francesco

«La Segreteria di Stato, essendo l'organo che coadiuva da vicino il Sommo Pontefice nell'esercizio della sua suprema missione, dovrà assumere con cordiale e totale disponibilità la conversione pastorale proposta da Papa Francesco; anzi, diventarne, in un certo senso, un modello per l'intera Chiesa».
Lo dice il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin in una lunga intervista esclusiva ad Avvenire, firmata da Stefania Falasca.
L’ avventura di Pietro Parolin alla guida della Segreteria di Stato vaticana è iniziata da pochi me­si. Ma le coordinate che guidano il suo modus procedendi già si profilano. Nel lavoro intenso e riservato, alieno da esi­bizionismi clericali, la scommessa in gio­co è quella di riplasmare anche gli stru­menti della diplomazia vaticana sulla 'conversione pastorale' che Papa Ber­goglio suggerisce a tutta la Chiesa. In que­sta intervista adAvvenire – la prima di ampio orizzonte rilasciata dal futuro car­dinale vicentino – è presente lo scenario del mondo. E ciò che anche la Santa Se­de, seguendo il Vangelo, può fare al ser­vizio di tutti. 
 Il suo ritorno in Vaticano per assolvere l’incarico di Segretario di Stato è stato segnato da un intervento chirurgico e u­na convalescenza: un inizio davvero sin­golare. Che pensieri le ha suscitato?

 Ho pensato che non c’è stato alcun ri­tardo nell’assumere il compito di Segre­tario di Stato, sebbene sia arrivato in Va­ticano un mese circa dopo la data previ­sta del 15 ottobre, giorno in cui, invece, sono stato ricoverato in ospedale, a Pa­dova. La Chiesa si serve non solo con la nostra attività, pur necessaria, ma anche, e forse di più, con la nostra debolezza e la nostra fragilità, accolte nella fede e con amore e unite al sacrificio redentore di Cristo sulla croce. Vorrei che questo pen­siero non mi lasciasse mai finché durerà il mio incarico.
 
 Lei ha detto di conoscere poco Papa Ber­goglio e di non sapere i motivi per i qua­li è stato nominato Segretario di Stato. Nel frattempo è stato nominato anche cardinale. Adesso può dire cosa signifi­ca lavorare con Francesco e con quale stile intende far procedere il suo lavoro?

 Effettivamente conoscevo poco Papa Francesco. Ad alcuni mesi dall’inizio del lavoro considero la collaborazione con lui una grande, immeritata grazia e, nel­lo stesso tempo, una seria responsabi­­lità, in riferimento soprattutto a quel rin­novamento della Chiesa a cui egli tutti ci
 chiama, con insistenza. Lo stile non può essere che il suo, nel quale mi sento profondamente identificato: semplicità, apertura, vicinanza, serenità e gioia. U­no stile il più possibile simile a quello di Gesù Buon Pastore. 
 E per il ruolo specifico della Segreteria di Stato cosa comporta adesso la con­versione pastorale suggerita da Papa Francesco a tutta la Chiesa?

 La Segreteria di Stato, essendo l’organo che coadiuva da vicino il Sommo Ponte­fice nell’esercizio della sua suprema mis­sione, dovrà assumere con cordiale e to­tale disponibilità la conversione pasto­rale proposta da Papa Francesco; anzi, diventarne, in un certo senso, un mo­dello per l’intera Chiesa. E far brillare in modo particolarmente intenso, nelle persone che la compongono e nelle at­tività che svolge, quelle dimensioni, da sempre valide, che il Papa ha indicato il 21 dicembre scorso come indispensabi­li per la Curia Romana: professionalità, servizio e santità di vita.
 
 Qualcuno contrappone diplomazia e proclamazione della fede, realismo dia­logante e intransigenza nella difesa dei princìpi. Sono contrapposizioni vere?
 Che senso hanno queste contrapposi­zioni? A me hanno insegnato fin da pic­colo che il cattolico è la persona dell’'et­et' e non dell’'aut-aut', anche se tale sin­tesi, a livello personale, può risultare tal­volta difficile, perfino lacerante. Trovo a riguardo illuminatrici le parole della pri­ma lettera di san Pietro: siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi do­mandi ragione della speranza che è in voi, ma fatelo con dolcezza, rispetto e ret­ta coscienza. Circa la diplomazia, la Chie­sa, nella sua storia, l’ha considerata uno strumento a servizio della sua missione, in relazione alla sua libertà, alla libertà religiosa e alla pace nel mondo.
 
 La prospettiva aperta da Papa France­sco di una Chiesa 'della prossimità' quale riflesso trova nel lavoro della di­plomazia vaticana?

 In un mondo plurale, che anzi rischia la frammentazione, la diplomazia vaticana può e deve affiancarsi a­gli uomini e ai popoli per aiutarli a rendersi conto che le loro dif­ferenze sono una ricchezza e una risorsa, e per contribui­re a far convergere tali diffe­renze, nella maniera più ar­moniosa possibile, alla co­struzione di un mondo u­mano e fraterno, nel quale ci sia posto per tutti, soprattut­to per i più deboli e i più vulnerabili. Que­sto appello che il Papa rivolge a coloro che hanno responsabilità politiche e agli uomini di buona volontà, deve tro­vare speciale eco in quan­ti, nella Chiesa, operiamo in ta­le ambito.
 
 Dal suo osservatorio particola­re, a suo giudizio, quali sono le modalità e le finalità di un’ef­fettiva riforma della Curia?

  Renderla uno strumento agile e snello, meno burocratico e più efficace, al servizio della comu­nione e della missione della Chiesa nel mondo di oggi, che è profondamente cambiato rispetto al passato. Uno stru­mento a servizio del Papa e dei Vescovi, della Chiesa universale e delle Chiese particolari. In questo senso, dovranno trovare sempre più puntuale applicazio­ne le indicazioni ecclesiologiche del Con­cilio Vaticano II, continuando sulla stra­da delle costituzioni apostoliche
 Regi­mini Ecclesiae Universae di Paolo VI e Pa­stor Bonus di Giovanni Paolo II.
 
 In sostanza cosa deve essere la Curia per la Chiesa? Una centrale di comando? Un organo di controllo?
 Né l’una né l’altro. Ma una realtà di ser­vizio, lo ripeto. C’è sempre il pericolo di abusare del potere, grande o piccolo, che abbiamo nelle nostre mani, e da questo pericolo non è sfuggita e non sfugge la Curia. Però, «tra voi non sia così», ci am­monisce il Vangelo, e su questa Parola, così esigente ma anche così liberante, cerchiamo di modellare la nostra attività nella Curia romana, nonostante limiti e
 difetti. Vorrei sottolineare che non basta una riforma delle strutture, che pure ci deve esse­re, se non è accompagnata da una permanente conversione personale. 
 Un ruolo rilevante sembra es­sere stato assunto dalle Com­missioni che hanno interpel­lato anche società di consulen­za esterne. A quali criteri ri­sponde e a quali obiettivi mira il contributo di questi organi­smi?

  Le Commissioni sono due: la Pontificia Commissione referente di stu­dio e di indirizzo sull’organizzazione del­la struttura economico-amministrativa della Santa Sede, e la Pontificia Com­missione referente sull’Istituto per le O­pere di Religione. I loro ruoli e le loro fun­zioni sono quelli definiti a suo tempo nel documento con cui sono state istituite.
 Da parte mia, rilevo che tali Commissio­ni hanno un mandato limitato nel tem­po e un carattere 'referente', cioè la lo­ro finalità consiste nel sottoporre al Pa­pa e al Consiglio degli otto Cardinali sug­gerimenti e proposte nell’ambito della loro competenza. 
 Il Papa ha diverse volte parlato del «di­screto e silenzioso lavoro dei vecchi cu­riali
 »: a chi si riferisce?
 Nella Curia romana ci sono stati e ci so­no santi. Varie volte, negli incontri per­sonali, il Papa me ne ha parlato, aggiun­gendo anche nomi e cognomi di eccle­siastici che sono rimasti fissi nella sua memoria. Lo affermo anch’io, sulla base della mia esperienza personale. È moti­vo di sincero rammarico quando, con pennellate che ritengo troppo sbrigative e violente, si presenta un’immagine e­sclusivamente negativa della Curia, co­me luogo dove prevalgono cospirazioni e giochi di potere. Dobbiamo, d’altra par­te,
lavorare e lavorare so­do per diventare più u­mani, più accoglienti, più evangelici, come ci vuole Papa Francesco. 
  Considera chiusa la stagione Vatileaks?

  Quella è stata una stagione dolorosissi­ma, che mi auguro e spero con tutto il cuore sia definitiva­mente tramontata. La lezione? La vicen­da ha fatto soffrire ingiustamente Papa Benedetto XVI e con lui moltissime altre persone, moltissime ne ha scandalizzate e ha danneggiato non poco la causa di Cristo.
  Credo che gli avveni­menti in questione non debbono cessare di interro­garci sulla nostra effettiva fe­deltà
 al Vangelo. 
  Secondo lei quale profilo dovrebbe assumere lo Ior?

  Non entro in merito alle soluzioni tec­niche, che sono ancora allo studio, ma certamente vanno sottolineati quegli aspetti di trasparenza e di conformità alla normativa internazionale che de­vono guidare l’individuazione del pro­filo dello Ior. Sottolineo pure che mol­to è stato fatto in questo senso, secon­do le indicazioni di Papa Francesco, e che si continuerà risolutamente nella stessa direzione, affinché la gestione del denaro e le attività di natura economica e finanziaria finalizzate alle necessità del­la vita e della missione della Chiesa sia­no permeate dai princìpi del Vangelo.
 
 Sono molte le vicende problematiche in atto sugli scenari del mondo. La San­ta Sede, ora chiamata da molti anche ad assumere un ruolo rispetto alle crisi, che interessi e finalità persegue in questi contesti?

 Il Papa stesso è il primo 'agente' diplo­matico della Santa Sede. Siamo stati te­stimoni di come abbia assunto vigoro­samente tale ruolo nella crisi in Siria. Per questo è diventato un interlocutore ri­cercato
 e autorevole a livello mondiale. I compiti e gli obiettivi della diplomazia pontificia sono quelli da lui stesso indi­cati nel primo incontro con gli amba­sciatori accreditati presso la Santa Sede nel marzo 2013: costruire ponti, nel sen­so di promuovere il dialogo e il negozia­to come mezzo di soluzione dei conflit­ti, diffondere la fraternità, lottare contro la povertà, edificare la pace. Non esisto­no altri 'interessi' e 'strategie' del Papa e dei suoi rappresentanti quando agi­scono sulla scena internazionale. 
 E come valuta l’esito di Ginevra 2 sulla tragedia siriana?

 Il primo round della Conferenza di Gi­nevra 2, alla cui inaugurazione a Mon­treux ha partecipato anche la Santa Se­de, si è conclusa, purtroppo, senza risul­tati concreti, come ha dichiarato il me­diatore Lakhdar Brahimi. Ciò nonostan­te, non hanno perduto di valore le indi­cazioni espresse dalla stessa Santa Sede come passi di una
 
  road map
 realistica per la fine del con­flitto e la realizza­zione di una pace duratura: la cessa­zione immediata della violenza, l’av­vio della ricostru­zione, il dialogo tra le comunità, i pro­gressi nella risolu­zione dei conflitti regionali e la parte­cipazione di tutti gli attori locali e globa­li al processo di pace di Ginevra 2. Il fat­to che le due parti in lotta si siano parla­te per la prima volta in tre anni è certa­mente un segnale positivo. Ma c’è biso­gno che crescano la fiducia reciproca e la volontà politica di trovare una solu­zione negoziata. 
 Nello 'statement' della Pontificia Ac­cademia delle Scienze sulla Siria si ri­conosce che «il conflitto in Siria ha a­vuto a che fare più spesso con le rivalità dei poteri regionali e internazionali che non con i conflitti all’interno della co­munità siriana stessa». Questo riconoscimento cosa suggeri­sce rispetto al fenomeno delle cosiddette primavere arabe?

 Fenomeno complesso quello delle primavere arabe, che, pur­troppo, non ha raggiunto quegli obiettivi di maggior democrazia e giustizia sociale che sembra­vano esserne i motivi ispiratori. È lecito, tuttavia, chiedersi quan­to a questo fallimento abbia con­tribuito, a livello di comunità in­ternazionale, la ricerca di inte­ressi economici e geo-politici particolari.
 
 Tra le popolazioni sofferenti del Medio Oriente ci sono i cristiani. La sol­lecitudine per i cristiani di questa re­gione è anche un punto di prossimità tra la Santa Sede e altri Paesi. Quali stra­de nuove questa comune premura può aprire anche al dialogo ecumenico?

 La situazione dei cristiani in Medio O­riente è una delle grandi preoccupazio­ni della Santa Sede, sulla quale essa non cessa di sensibilizzare quanti hanno re­sponsabilità politiche, perché ne va del­la pacifica convivenza in quella regione e nel mondo intero. Mi pare che questo è pure un ambito di particolare rilevan­za a livello ecumenico, dato che i cristia­ni possono cercare e trovare vie comuni per aiutare i fratelli nella fede che soffro­no in varie parti del mondo.
 
 Il viaggio del Papa in Terra Santa potrà influire sulla questione dell’accordo tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele?

 Si tratta dell’Accordo economico e fi­nanziario che si sta negoziando da pa­recchi anni. Certamente, il prossimo viaggio di Papa Francesco in Terra Santa
 costituirà una tappa di avvicinamento alla sua firma. Si tratta di risolvere alcu­ne questioni burocratiche che ancora ne­cessitano di tempo. 
 Lei come valuta le critiche su alcuni punti dell’«Evangelii gaudium» prove­nienti da ambienti conservatori statu­nitensi, che accusano addirittura il Pa­pa
 di essere marxista?
 Leggendo le pagine della
 Evangelii gau­dium pensavo a molte situazioni di mi­seria, di disuguaglianza e di esclusione presenti in America Latina, che ho potu­to osservare con i miei occhi e che han­no riempito di tristezza e, direi, di indi­gnazione il mio cuore. Esse giustificano, a mio parere, il forte intervento di Papa Francesco in tema di economia. Ma nes­suna parte del mondo ne è, purtroppo, esente. Mi domando allora: si può non essere d’accordo con l’affermazione del Papa che il denaro deve servire e non go­vernare? E ancora: è marxismo esortare alla solidarietà disinteressata e a un ri­torno dell’economia e della finanza a un’etica in favore dell’essere umano? 
 Negli ultimi anni del suo servizio in Se­greteria di Stato come sottosegretario lei ha seguito da vicino i contatti diret­ti fra la Santa Sede e la Cina popolare. Quali percorsi può ora prendere il rap­porto tra Santa Sede e Cina?

 La Santa Sede guarda con molta simpa­tia al grande Paese che è la Cina e al suo popolo. Recentemente, pure dalla Cina provengono segnali di rinnovata atten­zione nei confronti della Santa Sede, le­gati alla elezione di Papa Francesco, un Papa che, tra l’altro, è confratello di Mat­teo Ricci. Speriamo vivamente che au­mentino la fiducia e la comprensione tra le parti e che ciò si possa concretizzare nella ripresa di un dialogo costruttivo con le autorità politiche, del resto sempre au­spicato dalla Santa Sede e ribadito da Pa­pa Benedetto XVI nella lettera del 2007 ai cattolici cinesi.
 
 Torniamo dalle nostre parti. Rispetto all’Italia, in ambienti ecclesiali si è di­scusso spesso se la gestione dei rappor­ti con la politica italiana sia una prero­gativa della Cei o della Segreteria di Sta­to.
 Cosa pensa a riguardo?
 Un’indicazione forte è venuta da Papa Francesco, il quale, ricevendo i vescovi italiani nel maggio scorso, ricordava, tra i compiti della Chiesa in Italia, il dialo­go con le istituzioni culturali, sociali, politiche. Non ritengo, tuttavia, che ta­le indicazione significhi la negazione di un ruolo della Santa Sede e che nessu­no – Segreteria di Stato o Cei – debba o possa rivendicare in esclusiva i rappor­ti con la politica italiana. Si deve proce­dere in sinergia, nel rispetto delle ri­spettive competenze, come avviene ne­gli altri Paesi del mondo, attraverso le Nunziature. La formula vincente è la collaborazione, attraverso la quale si potrà contribuire efficacemente al be­ne comune, che è l’aspirazione sincera della Chiesa nei confronti del Paese. E non dimenticando mai che, come af­ferma il Concilio Va
ticano II, l’anima­zione cristiana dell’ordine temporale è compito specifico dei laici. 

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