sabato 4 ottobre 2014

Omelia di don Carlo Venturin - 6^ dopo il martirio di S. Giovanni – 5/10/2014

6^ dopo il martirio di  S. Giovanni – 5/10/2014
Giobbe 1, 13-21          il Signore ha dato, il Signore ha tolto: “Sono scampato solo io per                                   raccontartelo”
Salmo 17                    “Volgiti a me, Signore: ascolta la mia preghiera”
2 Tim 2, 6-1                come un lavoratore che non deve vergognarsi
Lc 17, 7-10                  la ricompensa dello schiavo, “ servo inutile”

Servi senza pretese
Il dialogo, o i dialoghi, che la Liturgia offre, a una semplice lettura sembrano inattuali per la nostra sensibilità, o cultura contemporanea. Già il libro di Giobbe contraddice il buon senso, i fatti raccontati hanno dell’incredibile nella sequenza : la distruzione, momento per momento, della vita di benessere, di vita felice; tutto questo a opera di Dio. C’è una frase emblematica (7, 6): “I miei giorni scorrono veloci come una spola, svaniscono senza più un filo di speranza”, compresi i miei beni, gli affetti più cari, la fede in Dio, che premia chi ha agito secondo i suoi criteri. Tutto svanisce. Il libro di Giobbe punta l’indice contro le contraddizioni della storia: il male celebra i suoi trionfi, mette in crisi la fede in un Dio buono e grande nell’amore.
Ugo Foscolo in una lettera del 1908 esalta con queste parole questo capolavoro sapienziale:

Ora sto rileggendo e copiando in un libricciuolo tutto il libro di Giobbe… Sublime libro! Come è pieno di grande e magnanimo dolore! Come parla con Dio senza superstizione e con le proprie sciagure senza bassezza!”. Il protagonista vede la sua vita sgretolarsi. Il testo non dà il tempo di ascoltare i sentimenti di chi reca la notizia, né permette di cogliere le sue reazioni. Improvvisamente tutto tace. Una calma irreale a fronte delle notizie terrificanti. Egli non rimane impietrito dal dolore. Addirittura si alza e compie dei gesti rituali. Non si accascia, si solleva. Non resta impietrito, nessuna resa disperata al corso degli eventi. Sa che tutto viene da Dio, perciò l’umile accettazione: “Sia benedetto il nome del Signore”. E’ il “servo senza pretese”. Domanda ai lettori di entrare nel suo dramma, con la preghiera del Salmo: “Saggia il mio cuore, scrutalo nella notte, provami al fuoco: non troverai malizia…mi  affido alla tua destra”. Sulla stessa linea S. Paolo: “La parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa”. Anche tu, ascoltatore e discepolo,  “sforzati di presentarti a Dio come una persona degna, un lavoratore che non deve vergognarsi”.

La “sinfonia” si avvia alle battute finali, ancora più contraddittorie: “servi, per di più inutili”. E’ la parabola della “non ricompensa” come per Giobbe: sembra dire, con un linguaggio arcaico: “Siamo schiavi/e a cui nessuno deve qualcosa, cioè gratitudine e ricompensa, amicizia e solidarietà, lavora, compi il tuo dovere e basta, senza tante storie che accampino diritti”. Gesù sta istruendo gli Apostoli e i discepoli, quindi noi; essi poco prima avevano rivolto una supplica al Maestro: “aumenta la nostra fede”. Egli risponde con una iperbole: “Se aveste fede… potreste dire al sicomoro: sradicati e trapiantati in mare (una pianta plurisecolare, con radici profonde)”. La parabola prende lo spunto da fatti dell’epoca, non richiama visioni sociologiche, insegna a svolgere con diligenza e con umile spirito di servizio il proprio compito, senza ricompensa. Luca riporta la prassi della chiesa primitiva: servire, pascolare, mangiare e bere = Eucaristia. Il servo è  immagine di chi ha responsabilità nella Chiesa, i suoi compiti all’interno della “casa” = la comunità cristiana, che sono il compimento dell’attività svolta all’esterno=campi. Mettersi a servire dopo aver “stretto le vesti ai fianchi” (Gesù alla lavanda dei piedi, vero servo “inutile”, perché morirà). Per comprendere la parabola, occorre lo sguardo su Gesù, “che è venuto non per essere servito, ma per servire”; fu “SERVO INUTILE”, “UN INUTILE MESSIA”, “IL FARE SENZA UTILE”.

Gli Apostoli nella Chiesa,  benché investiti di autorità, non possono pensare che il loro servizio, reso al Signore e alla comunità, costituisca una sorta di “bonus”, che dà diritto alla ricompensa (Giobbe). L’Apostolo-Annunciatore non è padrone del proprio lavoro, né ha diritti sulle persone a cui porta l’annuncio, tanto meno su Dio (Giobbe): gli Apostoli compiono ciò che è loro richiesto: “consegnati a Dio e alla Parola della sua grazia” (Atti 20, 32 ). Si è lontani dall’atteggiamento del Fariseo che vanta le sue buone azioni. Nel Regno di Dio non ci sono registri di benemerenze, né orari di servizio, né limiti di attività, né diritti acquisiti. Il servo della parabola non poteva aspettarsi che il contadino gli dicesse: “Vieni subito, mettiti a tavola”, oppure gli chiedesse il conto delle opere compiute. Allo stesso modo Dio non ha obblighi; nella logica del Vangelo tutto è gratuità, le fatiche degli operai della vigna del Signore non presentano alcuna pretesa (così Giobbe ), così il Messia “inutile”, ma solo la supplica: “Sia fatta la tua volontà”.
Don Carlo 

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