giovedì 14 febbraio 2013

Per addentrarci nella situazione politica attuale



Appunti dall’intervento di Julián Carrón
alla Scuola di comunità del 30 gennaio 2013
Voglio proporre cinque punti come percorso per addentrarci nella situazione
politica attuale.
1) Il nostro bisogno. Siamo chiamati a votare. Sappiamo già chi votare?
Di fronte alla situazione attuale, la cosa che ci facilita di più è partire ciascuno
dal proprio bisogno, che è bisogno di chiarezza, di comprendere i dati della
situazione, il che non è assolutamente scontato. Innanzitutto,dunque, occorre
questa umiltà, perché questa volta, data la complessità della situazione, i conti
non tornano immediatamente. Ma questo bisogno relativo a come vivere la
circostanza delle elezioni, noi lo viviamo come un soggetto che ha la fede, un
soggetto cristiano, ecclesiale. Da qui il secondo punto.
2) La fede e la sua verifica. Come l’esperienza della fede che vivo mi aiuta
ad affrontare questo bisogno di raggiungere una chiarezza? Ciascuno di noi
ha un punto di verifica della pertinenza della fede alla esigenza di chiarezza
circa le elezioni: come ha accolto e usato la Nota di Cl del 2 gennaio.
In tanti sono passati sopra i primi due punti della Nota (in sintesi, il primo
punto afferma che «il primo livello di incidenza politica di una comunità
cristiana viva è la sua stessa esistenza», il secondo che «la comunità cristiana
 non può non tendere ad avere una sua idea e un suo metodod’affronto
dei problemi comuni, sia pratici che teorici, da offrire come sua specifica
collaborazionea tutto il resto della società»), dandoli per scontati, perché
quello che premeva loro era arrivare in fretta a decifrare per chi votare.
In questa impostazione troviamo un esempio di quello che dice don
Giussani (l’ho citato nella Lettera alla Fraternità al termine dell’ultimo Sinodo):
«Per molti di noi che la salvezza sia Gesù Cristo e che la liberazione della vita
e dell’uomo, qui e nell’aldilà, sia legata continuamente all’incontro con lui è
diventato un richiamo “spirituale”. Il concreto sarebbe altro: è l’impegno
sindacale, è far passare certi diritti, è la organizzazione, […] e perciò le
riunioni, ma non come espressioni di una esigenza di vita, piuttosto come
mortificazione della vita, peso e pedaggio da pagare ad una appartenenza
che ci trova ancora inspiegabilmente in fila» (Il rischio educativo, SEI,
Torino 1995, p. 61). Che Gesù Cristo sia la salvezza è un richiamo spirituale,
il concreto sarebbe altro. Per cui l’importante non è tutto quello che viene
prima, ma per chi devo votare (come traduzione banale del “concreto”).
Il resto sarebbe un richiamo spirituale: «Certo, van bene il primo e il secondo
punto della Nota, ma quel che mi interessa è che qualcuno mi dia
l’indicazione di voto». Non ci accorgiamo che in questo modo stiamo
svuotando la fede come contenuto di un’esperienza!
Cosa si nasconde infatti dietro questa posizione? La sfiducia che
dall’esperienza del movimento possa nascere un soggetto capace di giudizio
critico e di azione consapevole, fino alla politica: la fiducia, cioè, che la fede
possa generare un soggetto realmente in grado di esercitare una responsabilità,
di giudicare e di prendere posizione da sé, anche in politica. Ma questo
sarebbe il fallimento dell’esperienza cristiana!
E questa, secondo me, è la grande utilità della circostanza che dobbiamo
affrontare: anche le elezioni sono per la nostra maturazione, perché ciò che
è in questione è se la fede vissuta è in grado di darci un contributo per
affrontare la vita, se è pertinente alle esigenze della vita, come dice la Nota,
cioè se è in grado di educare perfino al giudizio politico oppure no.
Altrimenti noi peschiamo fuori dall’esperienza i criteri per vivere la vita,
compresa la politica. Insomma: è in gioco la ragionevolezza della fede.
Questo tornante elettorale è di nuovo una possibilità per la verifica della
fede, nel senso di vedere in atto che contributo dà la fede, vissuta come
esperienza reale, ad affrontare le circostanze della vita. Mi scrive una di
voi che, vedendo come qualcuno davanti a questa situazione cominciava
già a chiamare l’“esperto”, reagiva così: «Al di là dell’intenzione di 2 chi
ha avanzato questa proposta di chiamare uno che se ne intende, non ti
nascondo come ascoltandola mi sono sentita soffocare e immediatamente
ho pensato: ma possibile che abbiamo sempre bisogno degli ordini di
scuderia, che qualcuno ci dica cosa fare? E ho iniziato a chiedermi: e
perché non tentare un dialogo tra noi sul lavoro che abbiamo iniziato
a fare a partire dal giudizio della Nota? Perché le ragioni dell’agire
dobbiamo sempre pescarle fuori dall’esperienza? Abbiamo bisogno
sempre del guru che finalmente ci convinca o possiamo farcela anche da noi?».
La nostra esperienza ci consente di fare questo o no? Se l’esperienza
cristiana non è in grado di generare un soggetto con una consapevolezza
chiara, matura, sviluppata a partire dall’esperienza stessa, abbiamo già
perso, chiunque vinca le elezioni! «E mi sono domandata: ma io, allora,
quando seguo veramente? Ecco, di schianto ho avvertito tutto il peso della
tua accorata insistenza sulla questione del seguire e della riduzione che ne
faccio. Il cercare conferme fuori dalla propria esperienza è legatissimo
al ridurre la sequela alla ripetizione: di un discorso altrui o all’organizzazione
o al personalismo o al fare i gesti». Questo mi conduce al terzo punto.
3) La Nota di Comunione e Liberazione. Essa esprime proprio questo,
cioè che la fede, non svuotata del suo significato, per il fatto stesso di
porsi nel reale non può non avere a che fare con tutto, anche con la politica.
È questo che dobbiamo cercare di chiarirci. Vediamo fra noi persone in
grado di stare davanti alla morte della moglie o di un figlio, al punto che
rimaniamo tutti a bocca aperta, e poi diciamo che davanti alla politica
siamo smarriti! Come è possibile? Il movimento è in grado di educare a
stare davanti alla morte e non è in grado di educare a stare davanti alla
politica? La mortenon ci viene risparmiata, e se noi ci risparmiamo il
giudizio sulla vita, sulla morte e sulla politica, se ci risparmiamo il percorso
che ci conduce a esso, mai potremo essere educati. Per questo il Mistero
non ci risparmia alcunché. E noi non siamo amici tra noi se ci evitiamo la
provocazione che questa circostanza elettorale rivolge a ciascuno; al
contrario, siamo amici se ci aiutiamo a prendere sul serio il nostro
bisogno e a dire, in prima persona: «Io lo vivo così, tu che cosa dici?
Perché mi interessa il tuo giudizio».
All’interno di questo impegno con il contenuto della Nota, poi, si
incontrano numerosi spunti, come il volantino della Cdo, che rappresenta
un contributo a un chiarimento sulla situazione, così come ci
possono offrire spunti l’intervento di un politico o un dato dell’economia,
per poter continuare a fare quel lavoro che riguarda la comunità cristiana
in quanto tale (in vista di «una sua idea ed un suo metodo di affronto dei
problemi comuni»), in continuità con il quale ognuno è chiamato ad
assumersi una responsabilità personale. Perché altrimenti ci affidiamo
a criteri e metodi che nascono altrove o al guru di turno che ci dice che
cosa fare. Conseguenza: più il soggetto è sostituito da altro, più si
deprime, si rattrappisce. Invece, meno viene sostituito, più viene fuori
come soggetto. Come mi diceva uno di voi: «Mi sono  attivato come
mai mi era capitato prima!
Urge che io dia un giudizio, per me ora è chiaro, e desiderato».
E veniamo al quarto punto.
4)  La questione dell’unità e della politica. Vorrei leggervi un 
passaggio del libro dell’allora cardinale Ratzinger  Fede, Verità, Tolleranza,
che mi sembra decisivo per capire: «Nell’ambito politico […] non esiste
un’opzione politica che sia l’unica giusta [questa è la laicità: non esiste
un’opzione politica che sia l’unica giusta]. L’elemento relativo, la costruzione
della convivenza umana ordinata secondo libertà, non può essere assoluto
[si tratta di tentativi contingenti, per loro natura opinabili, aperti a nuovi
sviluppi, sempre rivedibili] – il crederlo fu appunto l’errore del marxismo
e delle teologie politiche. Però [attenzione: questo non vuol dire
abbracciare il relativismo assoluto, come se si trattasse di un “liberi tutti”,
di una «scelta religiosa», perché una cosa sarebbe uguale all’altra] anche
nella sfera politica con il relativismo totale non se ne viene a
capo. V’è dell’ingiustizia che non può diventare mai giustizia […]; v’è
giustizia che non può divenire mai ingiustizia. Di conseguenza non si
può disconoscere un certo diritto al relativismo nell’area politico-sociale.
Il problema sta nel suo concepire se stesso come illimitato [invece di
intenderlo come non assoluto]» (p. 122).  3 Così si capisce il decisivo
passaggio della Nota dottrinale sull’impegno dei cattolici in politica,
promulgata nel 2002 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede:
«Non è compito della Chiesa formulare soluzioni concrete – e meno
ancora soluzioni uniche – per questioni temporali che Dio ha
lasciato al libero e responsabile giudizio di ciascuno, anche se è suo
diritto e dovere pronunciare giudizi morali su realtà temporali quando
ciò sia richiesto dalla fede o dalla legge morale. Se il cristiano è tenuto
ad “ammettere la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali”,
egli è ugualmente chiamato a dissentire da una concezione del pluralismo
in chiave di relativismo morale, nociva per la stessa vita democratica, la
quale ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire, di principi etici
che per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale
non sono“negoziabili”. Sul piano della militanza politica concreta, occorre
notare che il carattere contingente di alcune scelte in materia sociale, il
fatto che spesso siano moralmente possibili diverse strategie per realizzare
o garantire uno stesso valore sostanziale di fondo, la possibilità di
interpretare in maniera diversa alcuni principi basilari della teoria politica,
nonché la complessità tecnica di buona parte dei problemi politici, spiegano
il fatto che generalmente vi possa essere una pluralità di partiti
all’interno dei quali i cattolici possono scegliere di militare per esercitare –
particolarmente attraverso la rappresentanza parlamentare – il loro
diritto-dovere nella costruzione della vita civile del loro Paese.
Questa ovvia constatazione non può essere confusa però con un indistinto
pluralismo nella scelta dei principi morali e dei valori sostanziali a cui si fa
riferimento» (II, 3). Questa è la parola della Chiesa, che giudica lo
specifico della realtà politica e il proprio rapporto con essa. In nome
della fede puoi forse imporre a tutti la tua opzione politica? Per questo,
chiedere che il movimento “scenda in campo” dicendo chi votare
significa saltare tutto quanto abbiamo appena richiamato.
Immaginate che, non raggiungendo la pur desiderabile unità nella scelta
politica, i cattolici chiedessero al Papa o al presidente di una conferenza
episcopale nazionale di scendere in campo dicendo chi votare! È evidente
perché la Chiesa non fa, salvo una situazione d’emergenza, una cosa del
genere: se noi vogliamo salvaguardare la nostra identità ecclesiale a questo
livello, non possiamo non tenere conto di questo, aiutandoci a capire
quanto sia decisivo. Così come non mandiamo gli “ispettori” in ciascuna
opera che sorge a partire dall’appartenenza ecclesiale.
Ma allora, se non si “scende in campo” con una indicazione di voto vuol
dire che siamo divisi?
Rispondo con una lettera che ho ricevuto da un universitario:
«Ti volevo raccontare un fatto molto semplice accaduto in questi giorni a
riguardo della sfida che ci hai rivolto di verifica della fede attraverso la
Nota del movimento sulla situazione politica. Giovedì scorso è venuto
per la prima volta a Scuola di comunità un ragazzo che ci ha conosciuto
da una settimana. La Scuola di comunità è stata tutta sul paragone con
la Nota del movimento. È stata un’ora veramente esplosiva: un sacco
di domande, di botta e risposta di amici vivaci, desiderosi di entrare in
merito alle questioni per scoprire qualcosa per sé, non in modo analitico
ma verificando nell’esperienza quel primo punto fondamentale della
Nota: “Il primo livello di incidenza politica di una comunità cristiana viva
è la sua stessa esistenza”. Ci chiedevamo: è vero che la comunità cristiana,
per il solo fatto di esserci, pone la presenza che cambia, che incide nella storia?
Cosa cambia il cuore e quindi cosa cambia il mondo? Nonostante questa
forte provocazione, guardando il ragazzo che era venuto per la prima volta,
io da moralista pensavo: chissà cosa penserà, magari si aspettava un’ora
spirituale, che si parlasse dei Vangeli, invece sente parlare tutto il tempo di
gente che guarda la circostanza delle elezioni politiche per crescere.
Dentro di me pensavo: rimarrà scandalizzato e non verrà più.
Quel che mi ha stupito è stato che il giorno dopo mi hanno raccontato le
reazioni di questo nuovo amico a questi giorni con noi. Ha detto:
 “Comunque, quel che mi stupisce è che io immagino la Chiesa come tante
regole da rispettare, invece leggendo la Nota e guardandovi mi accorgo
che tra voi c’è una compagnia che non ha paura di sfidare tutta la vostra
libertà, che voi siete liberi e che ve la giocate fino in fondo personalmente
fino al voto politico”. Sono rimasto spiazzato dal fatto che lui con semplicità
si è accorto meglio di me che veramente l’unità della nostra esperienza è
prima,prima di qualsiasi mossa, prima di qualsiasi crocetta sulla scheda,
che l’unità vera è possibile se c’è uno che unisce, uno che non ha paura
di sfidarmi, anzi, che vuole sfidarmi perché ha a cuore la mia crescita più
della compattezza politica. Questa unità è una presenza, tanto che
permette a uno che non ci conosce e che ha idee diverse dalle nostre di
riconoscere che in questa compagnia vale la pena starci, che qui c’è
quella promessa di cui parlavi dopo il Sinodo. Ha chiesto di poter venire
alla Scuola di comunità mercoledì sera. Ti ringrazio perché questa
circostanza elettorale per niente limpida, spesso da me considerata
come una situazione da sopportare tappandosi il naso, sta diventando
occasione di educazione in cui è amata la mia libertà fino all’ultima
implicazione, il voto, e in cui a tema veramente c’è la mia esperienza
cristiana, c’è la mia fede, ma non la fede come alibi per disinteressarmi
delle cose concrete, bensì l’incontro cristiano come la cosa più concreta
per entrare libero e desideroso e affamato. La mattina  mi alzo e mi
chiedo: oggi cosa aspetto veramente? Cosa cerco? Io aspetto lo sguardo
di Cristo che ha a cuore tutta la mia umanità.
Solo questo mi rende libero».
5) Scopo dell’educazione. «Scopo della educazione è quello di formare
un uomo nuovo; perciò i fattori attivi della educazione debbono tendere a
far sì che l’educando agisca sempre più da sé [cioè, che non dipenda
passivamente da altri, ma affronti sempre più da sé l’ambiente, cioè le
sfide della vita]. Occorrerà quindi da un lato metterlo sempre più a contatto
con tutti i fattori dell’ambiente, dall’altro lasciargli sempre più la
responsabilità  della scelta» (L. Giussani,  Il rischio educativo, Rizzoli,
Milano 2005, pp. 103-104). Non facciamo il contrario!
Non togliamo il rischio della scelta, come se avessimo già risolto noi
la questione! Già la politica è svuotata di ogni partecipazione; resta
soltanto la possibilità di andare a votare, ma se anche questa decisione
ce la risparmiamo (o se la vogliamo risparmiare agli altri), che tipo di
educazione stiamo dando? Invece di riempire di contenuto il punto
uno della Nota, da cui trarre tutta la chiarezza per il punto due, noi
di fatto svuoteremmo educativamente l’uno e il due scivolando
subito sul punto tre. Se questo fosse lo scopo del movimento, a me
non interesserebbe. Per questo a me sembra che questa tornata
elettorale sia un’occasione preziosa, in questo Anno della Fede,
per capire la natura stessa della fede. Come ho già detto
nell’intervista al Corriere della sera di un anno fa, noi teniamo a
una esperienza di fede che ha a che vedere con tutto, fino alla
politica, proprio per la natura della fede. Ma affermare questo
non implica “saltare” quel relativismo di cui parlava Ratzinger,
che è della natura stessa della politica. Aiutarci a capire questo
può essere un passo importante, perché qui ci giochiamo la natura
stessa dell’esperienza cristiana. Ascoltate cosa ci dice il beato
Giovanni Paolo II nella Christifideles Laici: «Nella loro esistenza non
possono esserci due vite parallele: da una parte, la vita cosiddetta
“spirituale”, con i suoi valori e con le sue esigenze; e dall’altra, la
vita cosiddetta “secolare”, ossia la vita di famiglia, di lavoro, dei
rapporti sociali, dell’impegno politico e della cultura. Il tralcio,
radicato nella vite che è Cristo, porta i suoi frutti in ogni settore
dell’attività e dell’esistenza. Infatti, tutti i vari campi della  vita
laicale rientrano nel disegno di Dio, che li vuole come “luogo storico”
del rivelarsi e del realizzarsi della carità di Gesù Cristo a gloria
del Padre e a servizio dei fratelli. Ogni attività, ogni situazione,
ogni impegno concreto – come, ad esempio, la competenza e
la solidarietà nel lavoro, l’amore e la dedizione nella famiglia e
nell’educazione dei figli, il servizio sociale e politico, la proposta
della verità nell’ambito della cultura – sono occasioni
provvidenziali per un “continuo esercizio della fede, della
speranza e della carità”» (Esortazione Apostolica Christifideles
laici, n. 59). Per questo partire dal nostro bisogno di chiarezza
aiuta, in tutte le discussioni, a sfidarci l’un l’altro a un uso non
razionalistico della ragione, ponendo domande, dando ragione
della nostra scelta, per vedere se è in grado di stare in piedi
davanti alle obiezioni di chi − come me − è alla ricerca del bene
comune. Allora forse scopriremmo che quello che pensiamo di
aver capito non è così evidente, che forse non abbiamo capito,
che occorre ripartire dal punto uno, due, tre della Nota.
Riempirli di carne, di ragioni, di esperienze.
E se incontriamo alcuni che non hanno fatto questo percorso
perché pensano che tutto è già risolto, non è che rifacciamo
loro la lezione; no, occorre entrare in merito a quello che dice
uno, a quello che dice un altro sfidando con le ragioni, i dati,
la loro posizione, per aiutarci insieme a fare chiarezza.
Ma se non facciamo noi per primi il percorso, se non prendiamo
sul serio le domande (per esempio: «Ma siamo veramente
sicuri di sapere come stanno le cose?», «Abbiamo avuto presente
questo o quel fattore?»), non ci aiutiamo. Non è che il primo
che passa  per la strada, chiunque sia, mi può dire che è tutto
chiaro senza darmi le ragioni, perché in questa materia l’unico
argomento di autorità sono le ragioni che porti. In questo ambito,
possiamo dire per analogia, non c’è un «diritto rivelato» (neanche
per i più esperti), neppure la Chiesa ce l’ha.
Guardate cosa ha detto Benedetto XVI nel famoso discorso del
Bundestag: «Ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei
stessa i criteri per il proprio orientamento». E perché deve farlo?
Perché «contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo
non ha mai [mai!] imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato.
Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali fonti vere
del diritto […], riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti
[che poi è la chiave, secondo me,di tutto quanto] la ragione e la
natura nella loro  correlazione» (Benedetto XVI, Discorso al
Parlamento Federale di Berlino, 22 settembre 2011), riconoscendo
cioè come fonte di conoscenza l’esperienza (per questo Giussani
ha insistito sempre che «la realtà si rende trasparente» nella
esperienza). Se la fonte per decidere non viene dall’esperienza
stessa che facciamo nella comunità cristiana, noi stiamo riconoscendo
di fatto che la fede non è capace di generare un soggetto in grado
di chiarirsi su queste cose, e inevitabilmente la fonte del giudizio la
prenderemo altrove, al di fuori della fede.
Così torniamo all’origine del movimento. Perché questo ha fatto
don Giussani: «Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee
che vi do  io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose
che io vi dirò» (Il rischio educativo, p. 20). Quale era il metodo?
L’esperienza: paragonare tutto con le esigenze del cuore.
Se non arriviamo a questo, a me degli schieramenti non interessa niente,
perché vorrebbe dire che noi alla fine attingiamo i criteri per la
scelta elettorale al di fuori dell’esperienza stessa che facciamo.
È questo che è in gioco oggi. Se l’esperienza della fede ci aiuta a
raggiungere un giudizio, pur contingente, anche in politica, questo
giudizio, pieno di ragioni, può diventare l’inizio di un dialogo con
gli altri. È solo in questa comunicazione delle proprie ragioni che
manteniamo quella tensione «nella ricerca dell’unità» anche nella
politica in funzione della testimonianza della fede, di cui don Giussani
ci ha sempre parlato.
Ma questo è il problema educativo nostro, questo è il problema del
movimento, perché per noi il tornante elettorale è un’occasione per
dire che cos’è la fede e che il contributo della fede ha anche un valore
civile e politico, altrimenti noi finiamo col considerare la fede un
richiamo spirituale, una cosa interna − “per noi” −, ma poi nell’agone
politico dobbiamo usare altri criteri. Questo è il nostro principale
contributo culturale in questo frangente: il porsi di un soggetto
ecclesiale. È molto significativo l’esempio che don Giussani
propone riguardo al primo livello della Nota: «La moltiplicazione
e la dilatazione di comunità cristiane vitali e autentiche non può che
determinare la nascita e lo sviluppo di un movimento il cui influsso
sulla società civile tende inevitabilmente ad essere di sempre
maggior rilievo […]. Se è lecito ancora paragonare le cose
piccole con quelle grandi, vorrei richiamare qui l’esempio del
movimento benedettino. […] Questo movimento giunse fino a
influenzare “il codice della vita civile di allora” grazie al moltiplicarsi,
a centinaia e migliaia, della sue comunità di preghiera e di lavoro,
attorno alle quali la vita civile stessa si ricoagulava e riprendeva
consistenza» (L. Giussani,  Il Movimento di Comunione e
Liberazione, Jaca Book, Milano 1987, p. 119). Altro che scelta
religiosa! Invece, quanto più il cristianesimo è svuotato del suo
spessore storico, vale a dire quanto più la fede è vissuta in modo
ridotto, rifiutata nella sua capacità di investire la totalità del soggetto,
tanto più si riversano sulla “politica” (in senso stretto) le nostre
aspettative di cambiamento, di incidenza. Come mi diceva sempre
un amico, nessuno di noi ricorda chi era il re al tempo di san
Benedetto, ma tutti si ricordano di san Benedetto. Questa è
l’incidenza storica della comunità cristiana.

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