venerdì 15 febbraio 2013

COME UN INNO D’AMORE ALLA CHIESA - LA LUCE ALTA

 

 A ragionare sulle parole di ieri del Papa co­me se fossero solo una testimonianza del (e sul) Concilio Vaticano II, benché altissima, si farebbe un errore. Così come lo si farebbe a considerare il rivolgersi del Vescovo di Roma ai preti della 'sua' diocesi come una lezione, e lezione, altrettanto alta e bellissima, pure è stata. Raramente, infatti, l’incrociarsi stretto di ricordi e di sapienza – amalgamati non in un testo scritto, ma in un discorso a braccio, e in una lingua non nativa, e per oltre quaranta­cinque minuti – ha saputo tradursi in una sin­tesi tanto lucida e, allo stesso tempo, efficace, di quel grandissimo evento di Chiesa.
  Ma le due categorie citate, della testimonian­za e dell’accademia, pur suscitando ammira­zione, non bastano. Perché il discorso che Be­nedetto XVI ha pronunciato ieri nel tradizio­nale incontro col clero di Roma – l’ottavo del suo pontificato, e l’ultimo – è stato prima an­cora e soprattutto il discorso di un innamora­to. Di un uomo, di un teologo, di un prete, in­namorato della Chiesa, di quella Chiesa che non sopporta nella maniera più assoluta di vedere deturpata dalle piccolezze umane, per­ché la Chiesa è di Dio. E va amata e curata. È un bene prezioso, insostituibile, unico. E per questo va difesa, dalle correnti esterne, certo, ma prima di tutto da quelle interne.
  Benedetto XVI, per questo, ieri ha raccontato di nuovo e con impressionante freschezza di quella grande stagione. E, come i veri inna­morati, ha raccontato senza nascondere i di­fetti dell’amata, le divergenze esistenti all’e­poca, e come queste si siano a poco a poco, un passo alla volta, ricomposte mentre il grande affresco di quell’Assise andava definendosi, mentre prendevano corpo i documenti che sarebbero diventati le pietre miliari di una Chiesa aperta al mondo, aperta alle sue sfide, decisa a custodire il proprio tesoro, rinno­vandosi e di rinnovando, consapevole di ave­re la sua da dire al mondo contemporaneo.
  Protagonista e interprete di quella stagione, Papa Benedetto ha levato di nuovo il suo in­no d’amore per la Chiesa, convinto, appunto, che questa non sia «un’organizzazione, qual­cosa di strutturale», quanto piuttosto «un or­ganismo, una realtà vitale che entra nella mia anima, così che io stesso divento un elemen­to costruttivo della Chiesa come tale». Ed è per questo, dunque, che occorre lavorare per­ché «il vero Concilio, con la forza dello Spiri­to Santo, agisca e sia rinnovata la Chiesa». Non un auspicio, ma una convinzione incrollabi­le, la «certezza» che, sempre, «vince il Signo­re ». Anche per questo, il suo ricordare le re­sponsabilità dei
 media – per i quali «il Conci­lio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa» – circa le di­storsioni del senso del Vaticano II, e i guasti causati, più che un j’accuse o un lamento su tic informativi del resto duri a passare, è una rammaricata constatazione; un dire avrem­mo dovuto fare meglio . E un invito per l’oggi a fare meglio .
 È di questo amore traboccante, di questa cer­tezza che «vince il Signore», che il discorso di ieri è stato sintesi perfetta. Un amore e una certezza che Benedetto XVI ha vissuto e inse­gnato giorno dopo giorno, che hanno dato senso e ragione a ogni suo atto, fino a una ri­nuncia al ministero petrino che solo entro quelle due coordinate può essere compresa. Perché la sfida vera non è affrontare la som­ma dei problemi che si hanno di fronte; la sfi­da vera è
 essere Chiesa. E il noi siamo Chiesa non può mai essere preso come principio di esclusione o di polemica ma, al contrario, «e­sige proprio il mio inserimento nel grande 'noi' dei credenti di tutti i tempi e luoghi». So­lo così, alla fine, i problemi, le storture, le spor­cizie, si possono emendare. La luce si può te­nere alta, il cammino dietro a Cristo fare spe­dito. Tutti insieme, uniti. Per fare bella la Chie­sa di Dio. Perché solo una Chiesa bella può es­sere casa per tutti.   Ma le due categorie citate, della testimonian­za e dell’accademia, pur suscitando ammira­zione, non bastano. Perché il discorso che Be­nedetto XVI ha pronunciato ieri nel tradizio­nale incontro col clero di Roma – l’ottavo del suo pontificato, e l’ultimo – è stato prima an­cora e soprattutto il discorso di un innamora­to. Di un uomo, di un teologo, di un prete, in­namorato della Chiesa, di quella Chiesa che non sopporta nella maniera più assoluta di vedere deturpata dalle piccolezze umane, per­ché la Chiesa è di Dio. E va amata e curata. È un bene prezioso, insostituibile, unico. E per questo va difesa, dalle correnti esterne, certo, ma prima di tutto da quelle interne.  Benedetto XVI, per questo, ieri ha raccontato di nuovo e con impressionante freschezza di quella grande stagione. E, come i veri inna­morati, ha raccontato senza nascondere i di­fetti dell’amata, le divergenze esistenti all’e­poca, e come queste si siano a poco a poco, un passo alla volta, ricomposte mentre il grande affresco di quell’Assise andava definendosi, mentre prendevano corpo i documenti che sarebbero diventati le pietre miliari di una Chiesa aperta al mondo, aperta alle sue sfide, decisa a custodire il proprio tesoro, rinno­vandosi e di rinnovando, consapevole di ave­re la sua da dire al mondo contemporaneo.  Protagonista e interprete di quella stagione, Papa Benedetto ha levato di nuovo il suo in­no d’amore per la Chiesa, convinto, appunto, che questa non sia «un’organizzazione, qual­cosa di strutturale», quanto piuttosto «un or­ganismo, una realtà vitale che entra nella mia anima, così che io stesso divento un elemen­to costruttivo della Chiesa come tale». Ed è per questo, dunque, che occorre lavorare per­ché «il vero Concilio, con la forza dello Spiri­to Santo, agisca e sia rinnovata la Chiesa». Non un auspicio, ma una convinzione incrollabi­le, la «certezza» che, sempre, «vince il Signo­re ». Anche per questo, il suo ricordare le re­sponsabilità dei media – per i quali «il Conci­lio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa» – circa le di­storsioni del senso del Vaticano II, e i guasti causati, più che un j’accuse o un lamento su tic informativi del resto duri a passare, è una rammaricata constatazione; un dire avrem­mo dovuto fare meglio . E un invito per l’oggi a fare meglio . È di questo amore traboccante, di questa cer­tezza che «vince il Signore», che il discorso di ieri è stato sintesi perfetta. Un amore e una certezza che Benedetto XVI ha vissuto e inse­gnato giorno dopo giorno, che hanno dato senso e ragione a ogni suo atto, fino a una ri­nuncia al ministero petrino che solo entro quelle due coordinate può essere compresa. Perché la sfida vera non è affrontare la som­ma dei problemi che si hanno di fronte; la sfi­da vera è essere Chiesa. E il noi siamo Chiesa non può mai essere preso come principio di esclusione o di polemica ma, al contrario, «e­sige proprio il mio inserimento nel grande 'noi' dei credenti di tutti i tempi e luoghi». So­lo così, alla fine, i problemi, le storture, le spor­cizie, si possono emendare. La luce si può te­nere alta, il cammino dietro a Cristo fare spe­dito. Tutti insieme, uniti. Per fare bella la Chie­sa di Dio. Perché solo una Chiesa bella può es­sere casa per tutti. 


SALVATORE MAZZA 

Nessun commento: