Casile: la nostra opera prosegue quella iniziata da Dio
Il cuore del pensiero del cardinale Bagnasco è qui, nel «vangelo del lavoro». Così monsignor Angelo Casile, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro, commenta il terzo paragrafo della prolusione con cui il presidente della Cei ha aperto lunedì scorso i lavori del Consiglio permanente. È quel «vangelo del lavoro» che, afferma Bagnasco, i vescovi intendono «annunciare oggi con particolare persuasione». Perché questa scelta tanto decisa? «Vangelo del lavoro» è un’espressione che troviamo formulata, con di- verse sfumature, nella Laborem exercens di Giovanni Paolo II, 32 anni fa... Gesù, uomo, sperimenta della bottega di falegname fatica, servizio e dedizione alla sua famiglia e alla comunità. Papa Wojtyla usa questa espressione affinché si prenda coscienza che Dio lavora: «Creò il cielo e la terra...». Il lavoro del Figlio altro non fa che riflettere il lavoro del Padre, il lavoro per eccellenza: la creazione. E a questo punto entriamo in gioco noi. Noi? Con il nostro lavoro? Il lavoro del Padre e del Figlio non è concluso. La creazione continua a compiersi attraverso il nostro operare. Noi partecipiamo all’opera creatrice di Dio e allo stesso lavoro di Gesù. Il quale, a pensarci bene, avrebbe potuto scegliere di fare lo scriba, insomma l’intellettuale del tempo. Invece Gesù sceglie la fatica del lavoro manuale. Perché? Per sottolineare che non è il lavoro a dare dignità all’uomo ma, viceversa, l’uomo a dare dignità al lavoro. E ogni tipo di lavoro serve alla società. Il lavoro umile, in particolare, richiama alla nobiltà del lavoro in sé. Anche la nostra fatica, in questa prospettiva, è partecipazione al lavoro stesso di Dio e di Gesù. Ma occorre il trasporto del cuore. Prendiamo uno spaccapietre. Può dire: «Il mio è lavoro da bestia da soma», ma anche: «Con queste pietre si costruiscono le cattedrali». L’uomo che lavora, e fatica, sale alla dignità stessa di Dio. E di fatica se ne fa sempre di più, in tutti i sensi. È per questo che Bagnasco invoca addirittura una «rivoluzione », ricorrendo a una parola indubbiamente forte? Leggo la parola «rivoluzione» alla luce della parola «conversione»: convertitevi, cambiate rotta, mutate mentalità; siete sull’orlo del precipizio, tornate indietro. Bagnasco auspica un nuovo modo di pensare, agire, spendere, consumare. È la rivoluzione del figliol prodigo che apre gli occhi e si accorge d’essersi ridotto a cibarsi di ghiande, e decide di tornare alla casa del padre. Una «rivoluzione». Il cardinale dà molto spazio alla disoccupazione giovanile, manifesta grande preoccupazione e la definisce «epidemia», un’altra espressione molto forte. È il contagio dell’inedia. La disoccupazione, alla lunga, priva di forze. Non sai più che cosa fare e rischi di cedere alla disperazione. La Caritas in veritate ricorda: i giovani, disoccupati nel lavoro, possono finire «disoccupati » nella vita. È così. La disoccupazione diffusa genera giovani senza fiducia, speranza, futuro. Ma senza sogni, senza futuro, non si va da nessuna parte. Sì, rischiamo di precipitare in un’epidemia di disperazione. E quindi il nostro primoannuncio non può essere che un annuncio di speranza. Bagnasco dice ai giovani: siamo con voi. Che cosa può voler dire concretamente? Un solo esempio, non l’unico. Il Progetto Policoro è appunto un annuncio di speranza. Non dà ai giovani un lavoro bell’e fatto. Dà qualcosa di diverso e più importante ancora: la dignità che proviene da Gesù che dice «alzati e cammina». Dà quello che per Dante è Virgilio: nella «selva oscura», simile alla morte, è la guida, colui che accompagna. Oggi diremmo: il tutor. Accompagniamo i giovani a scoprire dignità e talenti affinché si organizzino, per sé e per la società. Per poter «sperare, pensare e osare», ossia impegnare cuore, mente e braccia, tutti assieme. DI UMBERTO FOLENA |
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