venerdì 1 febbraio 2013

«Il vangelo del lavoro per la dignità dell’uomo»


Casile: la nostra opera prosegue quella iniziata da Dio

 
 Il cuore del pensiero del cardina­le Bagnasco è qui, nel «vangelo del lavoro». Così monsignor An­gelo Casile, direttore dell’Ufficio na­zionale per i problemi sociali e il la­voro, commenta il terzo paragrafo della prolusione con cui il presiden­te della Cei ha aperto lunedì scorso i lavori del Consiglio permanente. 
 È quel «vangelo del lavoro» che, af­ferma Bagnasco, i vescovi intendo­no «annunciare oggi con particola­re persuasione». Perché questa scel­ta
 tanto decisa?
 «Vangelo del lavoro» è un’espressio­ne che troviamo formulata, con di-

 verse sfumature, nella
 Laborem exer­cens di Giovanni Paolo II, 32 anni fa... Gesù, uomo, sperimenta della bot­tega di falegname fatica, servizio e dedizione alla sua famiglia e alla co­munità. Papa Wojtyla usa questa e­spressione affinché si prenda co­scienza che Dio lavora: «Creò il cie­lo e la terra...». Il lavoro del Figlio al­tro non fa che riflettere il lavoro del Padre, il lavoro per eccellenza: la creazione. E a questo punto entria­mo in gioco noi. 
 Noi? Con il nostro lavoro?

 Il lavoro del Padre e del Figlio non è concluso. La creazione continua a compiersi attraverso il nostro ope­rare. Noi partecipiamo all’opera
 creatrice di Dio e allo stesso lavoro di Gesù. Il quale, a pensarci bene, a­vrebbe potuto scegliere di fare lo scriba, insomma l’intellettuale del tempo. 
 Invece Gesù sceglie la fatica del la­voro manuale. Perché?

 Per sottolineare che non è il lavoro a dare dignità all’uomo ma, vicever­sa, l’uomo a dare dignità al lavoro. E ogni tipo di lavoro serve alla società. Il lavoro umile, in particolare, ri­chiama alla nobiltà del lavoro in sé. Anche la nostra fatica, in questa pro­spettiva, è partecipazione al lavoro stesso di Dio e di Gesù. Ma occorre il trasporto del cuore. Prendiamo u­no spaccapietre. Può dire: «Il mio è
 lavoro da bestia da soma», ma an­che: «Con queste pietre si costrui­scono le cattedrali». L’uomo che la­vora, e fatica, sale alla dignità stessa di Dio. 
 E di fatica se ne fa sempre di più, in tutti i sensi. È per questo che Ba­gnasco invoca addirittura una «ri­voluzione », ricorrendo a una paro­la indubbiamente forte?

 Leggo la parola «rivoluzione» alla lu­ce della parola «conversione»: con­vertitevi, cambiate rotta, mutate mentalità; siete sull’orlo del precipi­zio, tornate indietro. Bagnasco au­spica un nuovo modo di pensare, a­gire, spendere, consumare. È la ri­voluzione del figliol prodigo che a­pre
 gli occhi e si accorge d’essersi ri­dotto a cibarsi di ghiande, e decide di tornare alla casa del padre. Una «rivoluzione». 
 Il cardinale dà molto spazio alla di­soccupazione giovanile, manifesta grande preoccupazione e la defini­sce «epidemia», un’altra espressio­ne
 molto forte.
 
 È il contagio dell’inedia. La disoccu­pazione, alla lunga, priva di forze. Non sai più che cosa fare e rischi di cedere alla disperazione. La Caritas in veritate ricorda: i giovani, disoc­cupati nel lavoro, possono finire «di­soccupati » nella vita. È così. La di­soccupazione diffusa genera giova­ni senza fiducia, speranza, futuro. Ma senza sogni, senza futuro, non si va da nessuna parte. Sì, rischiamo di precipitare in un’epidemia di di­sperazione. E quindi il nostro primoannuncio non può essere che un an­nuncio di speranza. 
 Bagnasco dice ai giovani: siamo con voi. Che cosa può voler dire con­cretamente?

 Un solo esempio, non l’unico. Il Pro­getto Policoro è appunto un annun­cio di speranza. Non dà ai giovani un lavoro bell’e fatto. Dà qualcosa di diverso e più importante ancora: la dignità che proviene da Gesù che dice «alzati e cammina». Dà quello che per Dante è Virgilio: nella «selva oscura», simile alla morte, è la gui­da, colui che accompagna. Oggi di­remmo: il tutor. Accompagniamo i giovani a scoprire dignità e talenti affinché si organizzino, per sé e per la società. Per poter «sperare, pen­sare e osare», ossia impegnare cuo­re, mente e braccia, tutti assieme.
 DI UMBERTO FOLENA

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