Grazie per il vostro amore e il vostro sostegno. Possiate sperimentare sempre la gioia di mettere Cristo al centro della vostra vita. 28/02/2013 ore 17.00
giovedì 28 febbraio 2013
La Chiesa si risveglia nelle anime
Tra voi c'è il futuro Papa al quale prometto la mia incondizionata reverenza e obbedienza
Nella mattina di giovedì 28 febbraio, ultimo giorno del suo pontificato, Benedetto XVI ha voluto incontrare nella Sala Clementina i cardinali presenti a Roma per un saluto di congedo. Queste le sue parole.
Venerati e cari Fratelli!
Con grande gioia vi accolgo e porgo a ciascuno di voi il mio più cordiale saluto. Ringrazio il Cardinale Angelo Sodano che, come sempre, ha saputo farsi interprete dei sentimenti dell'intero Collegio: Cor ad cor loquitur. Grazie Eminenza di cuore. E vorrei dire - riprendendo il riferimento all'esperienza dei discepoli di Emmaus - che anche per me è stata una gioia camminare con voi in questi anni, nella luce della presenza del Signore risorto.
Come ho detto ieri davanti alle migliaia di fedeli che riempivano Piazza San Pietro, la vostra vicinanza e il vostro consiglio mi sono stati di grande aiuto nel mio ministero. In questi otto anni, abbiamo vissuto con fede momenti bellissimi di luce radiosa nel cammino della Chiesa, assieme a momenti in cui qualche nube si è addensata nel cielo. Abbiamo cercato di servire Cristo e la sua Chiesa con amore profondo e totale, che è l'anima del nostro ministero. Abbiamo donato speranza, quella che ci viene da Cristo, che solo può illuminare il cammino. Insieme possiamo ringraziare il Signore che ci ha fatti crescere nella comunione, e insieme pregarlo di aiutarvi a crescere ancora in questa unità profonda, così che il Collegio dei Cardinali sia come un'orchestra, dove le diversità - espressione della Chiesa universale - concorrano sempre alla superiore e concorde armonia.
Vorrei lasciarvi un pensiero semplice, che mi sta molto a cuore: un pensiero sulla Chiesa, sul suo mistero, che costituisce per tutti noi - possiamo dire - la ragione e la passione della vita. Mi lascio aiutare da un'espressione di Romano Guardini, scritta proprio nell'anno in cui i Padri del Concilio Vaticano II approvavano la Costituzione Lumen gentium, nel suo ultimo libro, con una dedica personale anche per me; perciò le parole di questo libro mi sono particolarmente care. Dice Guardini: La Chiesa "non è un'istituzione escogitata e costruita a tavolino..., ma una realtà vivente... Essa vive lungo il corso del tempo, in divenire, come ogni essere vivente, trasformandosi... Eppure nella sua natura rimane sempre la stessa, e il suo cuore è Cristo". È stata la nostra esperienza, ieri, mi sembra, in Piazza: vedere che la Chiesa è un corpo vivo, animato dallo Spirito Santo e vive realmente dalla forza di Dio. Essa è nel mondo, ma non è del mondo: è di Dio, di Cristo, dello Spirito. Lo abbiamo visto ieri. Per questa è vera ed eloquente anche l'altra famosa espressione di Guardini: "La Chiesa si risveglia nelle anime". La Chiesa vive, cresce e si risveglia nelle anime, che - come la Vergine Maria - accolgono la Parola di Dio e la concepiscono per opera dello Spirito Santo; offrono a Dio la propria carne e, proprio nella loro povertà e umiltà, diventano capaci di generare Cristo oggi nel mondo. Attraverso la Chiesa, il Mistero dell'Incarnazione rimane presente per sempre. Cristo continua a camminare attraverso i tempi e tutti i luoghi.
Rimaniamo uniti, cari Fratelli, in questo Mistero: nella preghiera, specialmente nell'Eucaristia quotidiana, e così serviamo la Chiesa e l'intera umanità. Questa è la nostra gioia, che nessuno ci può togliere.
Prima di salutarvi personalmente, desidero dirvi che continuerò ad esservi vicino con la preghiera, specialmente nei prossimi giorni, affinché siate pienamente docili all'azione dello Spirito Santo nell'elezione del nuovo Papa. Che il Signore vi mostri quello che è voluto da Lui. E tra voi, tra il Collegio Cardinalizio, c'è anche il futuro Papa al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza. Per questo, con affetto e riconoscenza, vi imparto di cuore la Benedizione Apostolica.
Come i discepoli di Emmaus
il testo del saluto rivolto a Benedetto XVI dal cardinale decano Angelo Sodano durante l'incontro nella Sala Clementina.
Santità,
Con grande trepidazione i padri cardinali presenti a Roma si stringono oggi intorno a lei, per manifestarle ancora una volta il loro profondo affetto e per esprimerle la loro viva gratitudine per la sua testimonianza di abnegato servizio apostolico, per il bene della Chiesa di Cristo e dell'intera umanità.
Sabato scorso, al termine degli esercizi spirituali in Vaticano, ella ha voluto ringraziare i Cardinali e i suoi collaboratori della Curia romana, ricorrendo a queste commoventi parole: "Miei amici - così ci ha chiamati -, vorrei ringraziare tutti voi non solo per questa settimana, ma per questi otto anni, durante i quali avete portato con me, con grande competenza, affetto, amore e fede, il peso del ministero petrino". Analoghe e commoventi parole ha rivolto ieri in Piazza San Pietro al popolo presente come ai suoi Collaboratori.
Amato e venerato successore di Pietro, siamo noi che dobbiamo ringraziare lei per l'esempio che ci ha dato in questi otto anni di Pontificato. Il 19 aprile del 2005 ella veniva a inserirsi in una lunga catena di successori dell'apostolo Pietro e oggi, 28 febbraio del 2013, ella si accinge a lasciarci, in attesa che il timone della barca di Pietro passi ad altre mani. Si continuerà così quella successione apostolica, che il Signore ha promesso alla sua santa Chiesa, fino a quando si udirà sulla terra la voce dell'angelo dell'Apocalisse che dirà: Tempus non erit amplius... consummabitur mysterium Dei (Ap 10, 6-7), "il tempo ormai non c'è più... è compiuto il mistero di Dio!". Terminerà allora la storia della Chiesa, insieme alla storia del mondo, con l'avvento di cieli nuovi e terra nuova.
Padre Santo, con profondo amore noi abbiamo cercato di accompagnarla nel suo cammino, rivivendo l'esperienza dei discepoli di Emmaus, i quali, dopo aver camminato con Gesù per un buon tratto di strada, si dissero l'un l'altro: "Non era forse ardente il nostro cuore, quando ci parlava lungo il cammino?" (Lc 24, 32). Sì, Padre Santo, sappia che ardeva anche il nostro cuore quando camminavamo con lei in questi ultimi anni. Oggi vogliamo ancora una volta esprimerle tutta la nostra gratitudine.
In coro le ripetiamo un'espressione tipica della sua cara terra natale: Vergelt's Gott, che Dio la ricompensi!
mercoledì 27 febbraio 2013
«Non sottraiamoci al dono della misericordia dispensato nella confessione sacramentale!»
Via
Crucis con l’Arcivescovo
Stabat Mater dolorosa
«Il
Figlio che sostiene la madre!» (Stazioni IV-VIII)
Lam 1,11b-12.13c; Lc 23,26; Sal(27[26],7-9;
Sal 69, 2-4; Lu 23,27-29
Testi di Paul Claudel, papa Paolo VI, Charles Péguy, don Primo Mazzolari,
san Bonaventura
Duomo
di Milano, 26 febbraio 2013
Martedì
della seconda Settimana di Quaresima
Catechesi di S.E.R.
Card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano
«è il Cristo che sostiene la Madre. Ella
gli grava sulle spalle ed Egli se la carica tendendo le braccia, appena
abbozzate, all’indietro come per avvolgerla tutta e portarla con sé» (Dalla
presentazione artistica iniziale). La Vergine Maria Lo aveva portato nei nove
mesi della gravidanza e poi sostenuto nei primi passi, Lo aveva pazientemente
accompagnato, presenza discreta, autorevole e nello stesso tempo obbediente,
lungo gli anni della sua giovinezza fino questa Sua ora.
Anche noi – magari costretti come il Cireneo, o
invece protesi nello slancio dell’amore, come la Veronica; o scossi da un
pianto straziato come le donne di Gerusalemme – cerchiamo di sostenerLo nella
Sua passione. Ma in realtà è Lui che sostiene e porta noi, in questa immensa
gravidanza dell’uomo nuovo «perché si
riveli in noi la potenza della sua resurrezione» (Orazione iniziale).
Immedesimiamoci quindi, ora, con tutto il cuore,
con tutta la mente e con tutto noi stessi nell’amata figura di Gesù lungo la via dolorosa.
IV Stazione - Gesù incontra la Madre
«Voi tutte
che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio
dolore» (Lam 1,12). La tradizione
della Chiesa mette in bocca alla Vergine queste parole con cui Gerusalemme
manifesta il proprio strazio: «Osserva,
Signore, e considera come sono disprezzata!» (Lam 1, 11b). Altro che benedetta
tra le donne come l’aveva salutata Elisabetta, assecondando quel misterioso
esultare del bimbo nel suo seno..!
Quel Figlio a cui le folle, affamate di pane e di
verità, accorrevano piene di speranza, quel Figlio fino a pochi giorni prima
osannato e acclamato come re, avanza verso il Calvario come agnello immolato,
sfigurato sotto i colpi della violenza brutale, quasi irriconoscibile, eppure
non c’è fibra del Suo essere che non voglia andare fino in fondo in quel dono
totale di Sé. E questo Suo sì deciso,
incrollabile sostiene il sì della
Madre. Il fiat di trentatre anni
prima avanza verso il suo compimento finale. «Non c’è nulla nel suo cuore che si rifiuti o s’arrenda. Neppure una
fibra nel suo cuore trafitto che non accetti o consenta» (Claudel).
Che ne è del nostro sì? Non dimentichiamo che la
nostra vita è risposta a Dio!
V Stazione - Gesù è aiutato da Simone
di Cirene
«Fermarono
un certo Simone… che tornava dai campi e gli misero addosso la croce» (Lc 23,26).
Anche a noi spesso la croce arriva addosso così,
inaspettata. Ci coglie di sorpresa, mentre torniamo
dai campi dell’ “umana avventura”. Piomba come un rapace sul nostro quieto
quotidiano, fatto di affetti e di lavoro, e lo sconvolge. Pensiamo alla
malattia, alla morte, alla perdita del lavoro, alle ferite dell’amore…
All’improvviso ci cambia la vita. Niente è più come prima.
Anche noi ci troviamo di fronte all’aut-aut
drammatico del Cireneo: o rimanere «ignari
e ribelli» (Paolo VI), puntando i piedi nel disperato tentativo di opporci,
o abbandonarci a questo misterioso modo con cui il Signore ci si avvicina per
amarci: «Tu l’hai amato certamente, o
Signore, cedendogli il peso della tua croce» (Paolo VI), e balbettare le parole dell’apostolo Paolo: «do compimento a ciò, che dei patimenti del Cristo,
manca nella mia carne» (Col
1,24).
Così, misteriosamente ma realmente, Simone di
Cirene divenne testimone, aprendo la strada a tutti coloro che, dall’inizio
della Chiesa fino a noi, accettano di portare la croce di Cristo.
«Cominciò in quel momento la
diffusione della tua passione. Tu allargasti il nostro cuore a soffrire e ad
amare negli altri che con Te e per Te sarebbero stati crocifissi» (Paolo
VI). Ecco la sorgente inesauribile della carità della Chiesa manifestata
capillarmente in migliaia di opere presenti nel nostro territorio.
VI Stazione - Gesù incontra Veronica
«Il mio
cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio volto!” Il tuo volto; Signore, io
cerco» (Sal 27).
Questo invito
è scolpito nel cuore di ogni uomo. Fin dalla nascita l’io cerca il volto del tu.
Il bimbo, anche piccolissimo, cerca il volto della madre per imparare quanto è
bene che egli sia. L’amato, tra le centinaia di volti anonimi delle nostre
metropoli, cerca il volto dell’amata, lo sposo della sposa, il figlio della
madre… Fino all’ultimo respiro, ogni io
si riconosce e ritrova nella relazione con il tu. Perché è così nell’inesauribile mistero d’amore della Trinità,
e noi siamo fatti a Sua immagine.
Per questo ogni volto ed ogni relazione – secondo
il posto che il Padre, nel suo Disegno imperscrutabile ma buono, gli ha
assegnato – diventa segno del Suo volto e via a Lui. Con tutta la fisicità, ma
anche la fragilità e la piccolezza del segno. «Un fazzoletto per soffiarsi il naso», dice con familiarità
dissacratoria Péguy, «un vero fazzoletto»,
che però diventa preziosissimo, «un
fazzoletto imperituro”» segnato dal per sempre, perché «asciugò la sua vera faccia».
«Cercate il
mio volto». «Nel volto di Gesù
splende l’amore del Padre», abbiamo pregato nelle Invocazioni. L’infinito –
in cui solo si quieta il nostro cuore inquieto – si è fatto finito per farsi
incontrare e amare da noi.
Ma, per poterLo vedere, occorre un cuore limpido,
senza schermature, come quello dei bambini: «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio» (Mt 5,8).
Come la Veronica, ciascuno di noi, asciugando «la polvere di tutti, la polvere sulla sua
faccia; incollata dal sudore» (Péguy), partecipa alla Sua passione per
tutti i fratelli uomini. Pensiamo alla cura amorevole con cui Madre Teresa
asciugava il volto dei moribondi… O a quella, per me indimenticabile, dei padri
e delle madri che ho visto accudire i loro figli, ammalati terminali o in stato
vegetativo.
VII Stazione -
Gesù cade la seconda volta
«Nelle
cadute di Gesù», durante il suo doloroso e obbediente procedere verso il
Calvario, «ci siamo tutti noi»
(Mazzolari) piegati sotto il peso della nostra debolezza fino a venir meno,
perché – come scrive genialmente don Mazzolari – «il caduto non è un disertore, ma uno che “viene meno per via”: e Gesù
l’attende, chino a sua volta sotto la croce, perché nessuno si senta solo
nell’ora più buia».
Al nostro grido ormai sfinito – «Salvami, o Dio: l’acqua mi giunge alla gola.
Sono caduto… e la corrente mi travolge» (Sal 69) – Gesù risponde raggiungendoci “per terra” da dove stavamo
perdendo la speranza di rialzarci e ci as-sicura: “Non temere, il mio amore non
verrà meno e ti salverà”. Quale speranza contro ogni speranza.
Le cadute di Gesù durante la Via Crucis
anticipano, in un certo senso, la Sua discesa agli inferi, quando – come
vediamo nelle potenti raffigurazioni dell’Anàstasi
– dopo aver compiuto fino in fondo il Suo sacrificio, Egli afferrò con la sua
mano vigorosa le mani deboli e imploranti di tutti i giusti ‘caduti’
dell’Antico Testamento e della storia umana per trascinarli con Sé nella sua
resurrezione.
VIII Stazione -
Gesù incontra le donne di Gerusalemme
«Non
piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli» (Lc 23,28).
Di fronte al dolore, soprattutto al dolore
innocente causato dalla malvagità umana, la chiesa nostra Madre ci educa a non
fermarci alle pur umanissime lacrime di compassione, ma ci conduce fino alla
radice personale di questa responsabilità, che è sempre corresponsabilità col
male. Siamo chiamati a confessarlo con cuore contrito: «Tra gli atti del penitente, la contrizione occupa il primo posto. Essa
è “il dolore dell’animo e la riprovazione del peccato commesso, accompagnati
dal proposito di non peccare più in avvenire” (Concilio di Trento)»
(Catechismo Chiesa Cattolica, 1451).
E la contrizione attraversa tutta la mossa del
sentimento («facevano lamenti su di lui»
Lc 23,27) per attingere al giudizio e
alla decisione della libertà. Lo sguardo di Gesù che corregge le donne di
Gerusalemme è lo sguardo di un amore tanto severo quanto misericordioso, lo
sguardo che, incrociando quello di Pietro dopo il tradimento lo mosse a «piangere amaramente» (cf Mt 26,75)
sopraffatto dal prodigio del suo amore
infinito di cui San Bonaventura scrive: «Anima mia ammira, ringrazia, ama, loda e adora!… Gesù fu schernito, perché tu sia onorata; fu
flagellato perché tu abbia conforto; fu crocifisso per darti la libertà; venne
immolato come agnello per nutrirti di grazia; venne ucciso per ridarti la vita».
Non sottraiamoci al dono della misericordia dispensato nella confessione
sacramentale!
Dal profondo a Te grido, Signore.
Dal profondo della mia debolezza mortale,
del mio peccato ostinato.
Dal profondo e buio gorgo della mia dimenticanza.
Signore, Ti incontriamo ogni giorno
sulla Via
Crucis che Tu compi fino alla fine
con noi e per noi.
Aiutaci ad acconsentire al Tuo sacrificio,
imitando l’amore della Tua santissima Madre
e quello della Veronica,
o almeno la forzata accettazione del Cireneo.
Aiutaci e perdonaci. Amen.
SIAMO PER SERVIRE - GRAZIE, SANTO PADRE
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P oche ore ancora e il Pontificato di Benedetto XVI chiuderà il suo corso. L’anello del pescatore verrà frantumato e la memoria dell’evento lascerà carico di commozione il cuore di chi ha amato Joseph Ratzinger, e non solo. Provocherà riflessioni di senso anche in chi ha imparato a conoscerlo nei suoi ultimi giorni di pastore della Chiesa universale, in chi, benché lontano dalle sue parole per diversa sensibilità, non ha potuto che apprezzare il coraggio profetico di un vecchio Papa che ha trasformato il tempo di una rinuncia, dolorosa e sofferta, in un potente grido di futuro, carico di responsabilità e impegno per tutta la Chiesa. Grido potente di speranza, impastato di verità evangelica. Dall’11 febbraio, dopo la prima scossa emozionale, quasi una perdita di orientamento, giorno dopo giorno sembra emergere nella Chiesa sempre più chiara la consapevolezza di una precisa e strutturata volontà di Benedetto di accompagnare la sua uscita, di voler raccontare senza enfasi il suo percorso e consegnarsi al giudizio di Dio e degli uomini nella verità che rende liberi. La consegna di un Papa che, non senza motivazioni, cerca – nei segni e nelle parole – di congedarsi senza clamore, benché il suo gesto resti naturalmente senza enfasi, come lo stile di tutto il pontificato. Le ultime omelie e le espressioni a braccio possono ben definirsi una 'catechesi del congedo', e forse nel tempo qualcuno potrebbe ritrovare tra le righe l’ultima enciclica che per impeto e affetto potremmo intitolare: Sumus ad servandum, rievocando le parole pronunciate domenica da Benedetto nell’ultimo Angelus a piazza San Pietro. Carezze di profondo significato le sue parole vestite di sobrietà, capaci di trapassare il luogo dell’apparenza e comunicare una forza inaudita nonostante il Papa stesso confessi la sua mancanza di vigore. Una nuova luce circonda la sua persona, mai come in questi giorni luminosa, che trasmette serenità e pace. Gesti e parola di consegna passati con la certezza che faranno il loro corso nella nostra storia individuale, affidati alla riflessione della Chiesa che non potrà che farne tesoro per ripartire da dove Benedetto si congeda. Un testamento, le sue ultime parole, che tracciano un confine tra il prima e dopo e indicano un percorso: la preghiera, la vocazione, la gratitudine, l’abbandono a Cristo che guida la sua barca. Non è possibile organizzare il tempo della comunità cristiana senza un recupero della sua ascesi credente, la preghiera come spazio di fede e come offerta di nuova sostanza di appartenenza. La vocazione è memoria di un incontro, rimando al primo 'sì' dato al Maestro di Galilea, che ogni credente deve tenere sempre presente, che deve tener presente la Chiesa per dare risposta alla sua stessa vita. Come non vivere la fede e la storia con gratitudine, originando uno stile rivoluzionario di vita che nella Chiesa offra al mondo la sua testimonianza di impegno alla gioia. Il tempo ci dirà quanto di ciò che ci sta consegnando in questi giorni Benedetto resterà, in un’epoca capace di emozionarsi velocemente e velocemente dimenticare. La storia futura di sicuro non dimenticherà Benedetto, non dimenticherà che un uomo, il successore di Pietro, ha avuto il coraggio della profezia, mentre parole di fumo avanzano nel consesso degli uomini. Domani sera il Santo Padre lascerà il pontificato, e si comincerà a parlare del dopo Ratzinger. Nel frattempo, c’è ancora spazio per raccogliere la sua testimonianza e fare tesoro di tanta ricchezza. Nel frattempo, il successore di Pietro, Vicario di Cristo, è Benedetto XVI, e chi ascolta lui ascolta il Maestro di Galilea: dopo ci attrezzeremo al dopo, ora è tempo di godere – e soffrire – il presente che ci è concesso.
GENNARO MATINO
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«È Lui che conduce la barca della Chiesa»"Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso"
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UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 27 febbraio 2013
Mercoledì, 27 febbraio 2013
[Video]
Distinte Autorità!
Cari fratelli e sorelle!
Vi ringrazio di essere venuti così numerosi a questa mia ultima Udienza generale.
Grazie di cuore! Sono veramente commosso! E vedo la Chiesa viva! E penso che dobbiamo anche dire un grazie al Creatore per il tempo bello che ci dona adesso ancora nell’inverno.
Come l’apostolo Paolo nel testo biblico che abbiamo ascoltato, anch’io sento nel mio cuore di dover soprattutto ringraziare Dio, che guida e fa crescere la Chiesa, che semina la sua Parola e così alimenta la fede nel suo Popolo. In questo momento il mio animo si allarga ed abbraccia tutta la Chiesa sparsa nel mondo; e rendo grazie a Dio per le «notizie» che in questi anni del ministero petrino ho potuto ricevere circa la fede nel Signore Gesù Cristo, e della carità che circola realmente nel Corpo della Chiesa e lo fa vivere nell’amore, e della speranza che ci apre e ci orienta verso la vita in pienezza, verso la patria del Cielo.
Sento di portare tutti nella preghiera, in un presente che è quello di Dio, dove raccolgo ogni incontro, ogni viaggio, ogni visita pastorale. Tutto e tutti raccolgo nella preghiera per affidarli al Signore: perché abbiamo piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, e perché possiamo comportarci in maniera degna di Lui, del suo amore, portando frutto in ogni opera buona (cfr Col 1,9-10).
In questo momento, c’è in me una grande fiducia, perché so, sappiamo tutti noi, che la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita. Il Vangelo purifica e rinnova, porta frutto, dovunque la comunità dei credenti lo ascolta e accoglie la grazia di Dio nella verità e nella carità. Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia.
Quando, il 19 aprile di quasi otto anni fa, ho accettato di assumere il ministero petrino, ho avuto la ferma certezza che mi ha sempre accompagnato: questa certezza della vita della Chiesa dalla Parola di Dio. In quel momento, come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi chiedi? E’ un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche con tutte le mie debolezze. E otto anni dopo posso dire che il Signore mi ha guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua presenza. E’ stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è colmo di ringraziamento a Dio perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore.
Siamo nell’Anno della fede, che ho voluto per rafforzare proprio la nostra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano. Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: «Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano…». Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo il Signore di questo ogni giorno, con la preghiera e con una vita cristiana coerente. Dio ci ama, ma attende che anche noi lo amiamo!
Ma non è solamente Dio che voglio ringraziare in questo momento. Un Papa non è solo nella guida della barca di Pietro, anche se è la sua prima responsabilità. Io non mi sono mai sentito solo nel portare la gioia e il peso del ministero petrino; il Signore mi ha messo accanto tante persone che, con generosità e amore a Dio e alla Chiesa, mi hanno aiutato e mi sono state vicine. Anzitutto voi, cari Fratelli Cardinali: la vostra saggezza, i vostri consigli, la vostra amicizia sono stati per me preziosi; i miei Collaboratori, ad iniziare dal mio Segretario di Stato che mi ha accompagnato con fedeltà in questi anni; la Segreteria di Stato e l’intera Curia Romana, come pure tutti coloro che, nei vari settori, prestano il loro servizio alla Santa Sede: sono tanti volti che non emergono, rimangono nell’ombra, ma proprio nel silenzio, nella dedizione quotidiana, con spirito di fede e umiltà sono stati per me un sostegno sicuro e affidabile. Un pensiero speciale alla Chiesa di Roma, la mia Diocesi! Non posso dimenticare i Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, le persone consacrate e l’intero Popolo di Dio: nelle visite pastorali, negli incontri, nelle udienze, nei viaggi, ho sempre percepito grande attenzione e profondo affetto; ma anch’io ho voluto bene a tutti e a ciascuno, senza distinzioni, con quella carità pastorale che è il cuore di ogni Pastore, soprattutto del Vescovo di Roma, del Successore dell’Apostolo Pietro. Ogni giorno ho portato ciascuno di voi nella preghiera, con il cuore di padre.
Vorrei che il mio saluto e il mio ringraziamento giungesse poi a tutti: il cuore di un Papa si allarga al mondo intero. E vorrei esprimere la mia gratitudine al Corpo diplomatico presso la Santa Sede, che rende presente la grande famiglia delle Nazioni. Qui penso anche a tutti coloro che lavorano per una buona comunicazione e che ringrazio per il loro importante servizio.
A questo punto vorrei ringraziare di vero cuore anche tutte le numerose persone in tutto il mondo, che nelle ultime settimane mi hanno inviato segni commoventi di attenzione, di amicizia e di preghiera. Sì, il Papa non è mai solo, ora lo sperimento ancora una volta in un modo così grande che tocca il cuore. Il Papa appartiene a tutti e tantissime persone si sentono molto vicine a lui. E’ vero che ricevo lettere dai grandi del mondo – dai Capi di Stato, dai Capi religiosi, dai rappresentanti del mondo della cultura eccetera. Ma ricevo anche moltissime lettere da persone semplici che mi scrivono semplicemente dal loro cuore e mi fanno sentire il loro affetto, che nasce dall’essere insieme con Cristo Gesù, nella Chiesa. Queste persone non mi scrivono come si scrive ad esempio ad un principe o ad un grande che non si conosce. Mi scrivono come fratelli e sorelle o come figli e figlie, con il senso di un legame familiare molto affettuoso. Qui si può toccare con mano che cosa sia Chiesa – non un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti. Sperimentare la Chiesa in questo modo e poter quasi toccare con le mani la forza della sua verità e del suo amore, è motivo di gioia, in un tempo in cui tanti parlano del suo declino. Ma vediamo come la Chiesa è viva oggi!
In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi.
Qui permettetemi di tornare ancora una volta al 19 aprile 2005. La gravità della decisione è stata proprio anche nel fatto che da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore. Sempre – chi assume il ministero petrino non ha più alcuna privacy. Appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata. Ho potuto sperimentare, e lo sperimento precisamente ora, che uno riceve la vita proprio quando la dona. Prima ho detto che molte persone che amano il Signore amano anche il Successore di san Pietro e sono affezionate a lui; che il Papa ha veramente fratelli e sorelle, figli e figlie in tutto il mondo, e che si sente al sicuro nell’abbraccio della vostra comunione; perché non appartiene più a se stesso, appartiene a tutti e tutti appartengono a lui.
Il “sempre” è anche un “per sempre” - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio.
Ringrazio tutti e ciascuno anche per il rispetto e la comprensione con cui avete accolto questa decisione così importante. Io continuerò ad accompagnare il cammino della Chiesa con la preghiera e la riflessione, con quella dedizione al Signore e alla sua Sposa che ho cercato di vivere fino ad ora ogni giorno e che vorrei vivere sempre. Vi chiedo di ricordarmi davanti a Dio, e soprattutto di pregare per i Cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’Apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito.
Invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria Madre di Dio e della Chiesa perché accompagni ciascuno di noi e l’intera comunità ecclesiale; a Lei ci affidiamo, con profonda fiducia.
Cari amici! Dio guida la sua Chiesa, la sorregge sempre anche e soprattutto nei momenti difficili. Non perdiamo mai questa visione di fede, che è l’unica vera visione del cammino della Chiesa e del mondo. Nel nostro cuore, nel cuore di ciascuno di voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il suo amore. Grazie!
sabato 23 febbraio 2013
«Dovete essere innamorati di Cristo»

- Padre Piero Gheddo.
di Stefano Filippi - Alla vigilia degli 84 anni (e ai 60 di sacerdozio), padre Piero Gheddo è in piena attività. Libri, conferenze, articoli, viaggi, trasmissioni radio, blog. È il missionario italiano più famoso, ed è un uomo che ancora si commuove quando incontra persone che si convertono alla fede cristiana in ogni angolo del mondo. Da giovane prete del Pime (Pontificio istituto missioni estere) frequentò assiduamente don Giussani, e la loro amicizia rimase negli anni. Gli inviò una cartolina dall’India pochi giorni prima che morisse: aveva pregato per lui e per il movimento nel più grande santuario mariano dell’India, a Vailankanni, dove ogni anno si recano oltre cinque milioni di pellegrini.
Padre Gheddo, quando conobbe don Giussani?
«Era la fine degli Anni Cinquanta, tra il 1955 e il ’58. Avevo ricevuto l’ordinazione nel ’53. Entrai in contatto con lui attraverso monsignor Aristide Pirovano, a quel tempo vescovo della diocesi brasiliana di Macapà, in Amazzonia. Don Gius – già allora lo chiamavamo così – voleva mandare i primi volontari di Gioventù Studentesca in missione in America Latina e aveva chiesto aiuto a quel vescovo del Pime e al dottor Marcello Candia».
Che cosa la colpì di lui?
«Era un prete travolgente, pieno di passione. Mi invitò alle catechesi che teneva in via Statuto a Milano, la prima sede del movimento. Andavo con un confratello del Pime, padre Giacomo Girardi, suo grande amico. Eravamo affascinati. Giussani era un uomo innamorato di Cristo, e continuava a ripeterlo anche a noi: dovete essere innamorati di Cristo, egli non è un uomo del passato ma una persona presente, di cui ci si può innamorare. Ci colpiva la forza della sua fede, l’insistenza su Gesù Cristo presente e sul valore della cultura. La fede che diventa cultura, che non è un fatto privato ma incide su tutti gli aspetti della vita».
Lei avvertiva quelle parole come un fatto nuovo per lei?
«Grazie a Giussani il mio sacerdozio divenne più pieno e più vero. Intendiamoci, ero già ben instradato: ero stato tirato su da due genitori che – a Dio piacendo – sono avviati alla beatificazione, e poi c’era stato il Pime. Da don Gius ho imparato la fede come militanza. Lo ripeteva sempre: se la fede non cambia e non rende più umana la vita dell’uomo e della società, non conta nulla. I ragazzi, e anche noi giovani preti, eravamo posti con forza davanti alla bellezza della fede, e alla responsabilità di aver ricevuto da Dio questo dono di cui tutti hanno bisogno. Era un modo vivo, originale, appassionante, di intendere l’essere cristiano».
Che aiuto ebbe da don Giussani?
«Volevo partire per l’India ma ero stato trattenuto dai miei superiori per lavorare nella stampa missionaria. La sua insistenza sulla fede che diventa cultura fu fondamentale per i compiti che mi erano stati affidati. Per me fu un baluardo anche nel Sessantotto, gli anni della contestazione che colpirono duramente la Chiesa. Don Gius la difendeva con vigore. Ha sempre obbedito - e fatto obbedire - al Papa e ai vescovi, ma in quel periodo lo fece in modo particolare. Il Sessantotto non se la prendeva tanto con Cristo: Gesù era considerato il primo socialista, una sorta di capo rivoluzionario. Piuttosto i contestatori attaccavano la Chiesa, la presenza fisica di Cristo, che invece Giussani difendeva con tutte le sue forze. Per me che appartengo a un istituto pontificio, l’attaccamento del don Gius al Papa me lo rese ancora più caro».
Vi frequentaste ancora negli anni in cui il Pime ospitò la sede di Cl.
«In via Mosé Bianchi l’istituto aveva costruito un’ala nuova e dal 1973 al 1993 ospitammo volentieri Cl, che faticava a trovare una sede nelle strutture della diocesi. Sempre attraverso padre Girardi, cedemmo in comodato tutto il terzo piano, 18 locali. Il mio ufficio era proprio sotto a quello di Giussani. Il sabato pomeriggio teneva le lezioni di catechesi: non ho mai visto i nostri saloni così pieni. Voleva molto bene all’istituto, ci indirizzava i suoi giovani con la vocazione per le missioni. Furono una trentina i ragazzi di Gs entrati nel Pime: ricordo in particolare il grande padre Massimo Cenci, morto l’anno scorso, che fu sottosegretario di Propaganda Fide, e monsignor Giuliano Frigeni, oggi vescovo di Parintins in Brasile».
E in quegli anni di vicinanza in via Mosé Bianchi che cos’altro scoprì in don Giussani?
«Ebbi conferma della sua apertura alla missione universale della Chiesa. Erano tempi difficili per la presenza cristiana nella società. Giussani sostenne con entusiasmo le veglie missionarie organizzate a Milano da padre Girardi: si andava dal Castello Sforzesco al Duomo, e via Dante, teatro abituale di scontri e sassaiole, diventava un fiume di giovani cristiani. Ho in mente le campagne di opinione pubblica, da quella per accogliere in Italia i “boat people” di Vietnam e Cambogia alle manifestazioni per la pace in Libano. Anni dopo don Giussani mi invitò al Consiglio nazionale del movimento, all’istituto Sacro Cuore, quando voleva mandare qualcuno in Giappone. L’Asia è un continente difficile, gli dissi che ci volevano almeno vent’anni di presenza per cominciare a capirci qualcosa».
Lei si trovava proprio in Asia, in India, il giorno in cui don Giussani morì.
«Sì, stavo visitando le popolazioni colpite dallo tsunami negli stati del Tamil Nadu e dell’Andhra Pradesh. Mi telefonò nel cuore della notte italiana padre Bernardo Cervellera, un altro dei giessini del Pime. Giorni prima avevo spedito a Giussani una cartolina dalla città di Chennai scrivendogli che avevo pregato per lui e per Comunione e liberazione al santuario della Madonna di Vailankanni, la Lourdes indiana».
E oggi come giudica l’eredità di Giussani?
«Giussani è sempre presente, vedo che è un riferimento continuo nelle catechesi di Cl. Ricordo bene quando nacque il Movimento popolare con Formigoni e Buttiglione: egli ne era felice ma disse subito che Cl non era coinvolta perché lasciava piena responsabilità ai singoli. Comunione e Liberazione, come altri movimenti, è una risposta dello Spirito alla crisi di fede che ha colpito la Chiesa. La vita e l’insegnamento di Giussani dovrebbero far riflettere la Chiesa italiana e noi missionari sul carisma di ciascuno e sulla fedeltà alla nostra vocazione».
Padre Gheddo, quando conobbe don Giussani?
«Era la fine degli Anni Cinquanta, tra il 1955 e il ’58. Avevo ricevuto l’ordinazione nel ’53. Entrai in contatto con lui attraverso monsignor Aristide Pirovano, a quel tempo vescovo della diocesi brasiliana di Macapà, in Amazzonia. Don Gius – già allora lo chiamavamo così – voleva mandare i primi volontari di Gioventù Studentesca in missione in America Latina e aveva chiesto aiuto a quel vescovo del Pime e al dottor Marcello Candia».
Che cosa la colpì di lui?
«Era un prete travolgente, pieno di passione. Mi invitò alle catechesi che teneva in via Statuto a Milano, la prima sede del movimento. Andavo con un confratello del Pime, padre Giacomo Girardi, suo grande amico. Eravamo affascinati. Giussani era un uomo innamorato di Cristo, e continuava a ripeterlo anche a noi: dovete essere innamorati di Cristo, egli non è un uomo del passato ma una persona presente, di cui ci si può innamorare. Ci colpiva la forza della sua fede, l’insistenza su Gesù Cristo presente e sul valore della cultura. La fede che diventa cultura, che non è un fatto privato ma incide su tutti gli aspetti della vita».
Lei avvertiva quelle parole come un fatto nuovo per lei?
«Grazie a Giussani il mio sacerdozio divenne più pieno e più vero. Intendiamoci, ero già ben instradato: ero stato tirato su da due genitori che – a Dio piacendo – sono avviati alla beatificazione, e poi c’era stato il Pime. Da don Gius ho imparato la fede come militanza. Lo ripeteva sempre: se la fede non cambia e non rende più umana la vita dell’uomo e della società, non conta nulla. I ragazzi, e anche noi giovani preti, eravamo posti con forza davanti alla bellezza della fede, e alla responsabilità di aver ricevuto da Dio questo dono di cui tutti hanno bisogno. Era un modo vivo, originale, appassionante, di intendere l’essere cristiano».
Che aiuto ebbe da don Giussani?
«Volevo partire per l’India ma ero stato trattenuto dai miei superiori per lavorare nella stampa missionaria. La sua insistenza sulla fede che diventa cultura fu fondamentale per i compiti che mi erano stati affidati. Per me fu un baluardo anche nel Sessantotto, gli anni della contestazione che colpirono duramente la Chiesa. Don Gius la difendeva con vigore. Ha sempre obbedito - e fatto obbedire - al Papa e ai vescovi, ma in quel periodo lo fece in modo particolare. Il Sessantotto non se la prendeva tanto con Cristo: Gesù era considerato il primo socialista, una sorta di capo rivoluzionario. Piuttosto i contestatori attaccavano la Chiesa, la presenza fisica di Cristo, che invece Giussani difendeva con tutte le sue forze. Per me che appartengo a un istituto pontificio, l’attaccamento del don Gius al Papa me lo rese ancora più caro».
Vi frequentaste ancora negli anni in cui il Pime ospitò la sede di Cl.
«In via Mosé Bianchi l’istituto aveva costruito un’ala nuova e dal 1973 al 1993 ospitammo volentieri Cl, che faticava a trovare una sede nelle strutture della diocesi. Sempre attraverso padre Girardi, cedemmo in comodato tutto il terzo piano, 18 locali. Il mio ufficio era proprio sotto a quello di Giussani. Il sabato pomeriggio teneva le lezioni di catechesi: non ho mai visto i nostri saloni così pieni. Voleva molto bene all’istituto, ci indirizzava i suoi giovani con la vocazione per le missioni. Furono una trentina i ragazzi di Gs entrati nel Pime: ricordo in particolare il grande padre Massimo Cenci, morto l’anno scorso, che fu sottosegretario di Propaganda Fide, e monsignor Giuliano Frigeni, oggi vescovo di Parintins in Brasile».
E in quegli anni di vicinanza in via Mosé Bianchi che cos’altro scoprì in don Giussani?
«Ebbi conferma della sua apertura alla missione universale della Chiesa. Erano tempi difficili per la presenza cristiana nella società. Giussani sostenne con entusiasmo le veglie missionarie organizzate a Milano da padre Girardi: si andava dal Castello Sforzesco al Duomo, e via Dante, teatro abituale di scontri e sassaiole, diventava un fiume di giovani cristiani. Ho in mente le campagne di opinione pubblica, da quella per accogliere in Italia i “boat people” di Vietnam e Cambogia alle manifestazioni per la pace in Libano. Anni dopo don Giussani mi invitò al Consiglio nazionale del movimento, all’istituto Sacro Cuore, quando voleva mandare qualcuno in Giappone. L’Asia è un continente difficile, gli dissi che ci volevano almeno vent’anni di presenza per cominciare a capirci qualcosa».
Lei si trovava proprio in Asia, in India, il giorno in cui don Giussani morì.
«Sì, stavo visitando le popolazioni colpite dallo tsunami negli stati del Tamil Nadu e dell’Andhra Pradesh. Mi telefonò nel cuore della notte italiana padre Bernardo Cervellera, un altro dei giessini del Pime. Giorni prima avevo spedito a Giussani una cartolina dalla città di Chennai scrivendogli che avevo pregato per lui e per Comunione e liberazione al santuario della Madonna di Vailankanni, la Lourdes indiana».
E oggi come giudica l’eredità di Giussani?
«Giussani è sempre presente, vedo che è un riferimento continuo nelle catechesi di Cl. Ricordo bene quando nacque il Movimento popolare con Formigoni e Buttiglione: egli ne era felice ma disse subito che Cl non era coinvolta perché lasciava piena responsabilità ai singoli. Comunione e Liberazione, come altri movimenti, è una risposta dello Spirito alla crisi di fede che ha colpito la Chiesa. La vita e l’insegnamento di Giussani dovrebbero far riflettere la Chiesa italiana e noi missionari sul carisma di ciascuno e sulla fedeltà alla nostra vocazione».
Esercizi spirituali. Il Papa: il male sporca la bellezza di Dio, ma chi crede vede la verità e l'amore
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In un mondo che “sporca” la bellezza di Dio, credere significa “toccare” la Sua mano e vedere il Suo amore. Lo ha affermato stamattina Benedetto XVI, al termine degli esercizi spirituali della Quaresima, predicati nel corso della settimana al Papa e alla Curia Romana dal cardinale Gianfranco Ravasi. Il Pontefice ha poi ringraziato i suoi collaboratori per aver condiviso in questi anni le responsabilità del ministero petrino.
Buio e sporcizia. Il male è all’opera per mettere in ombra, per sporcare la bellezza di Dio. Ma da oscurità e fango si emerge con la fede, la bussola che aiuta a trovare, fra le tenebre, la mano di Dio, a riscoprirne l’amore e la verità. È semplice e potente l’immagine che Benedetto XVI trova per dare voce all’esperienza spirituale vissuta in questi giorni, ascoltando e riflettendo sulle meditazioni quaresimali del cardinale Gianfranco Ravasi. Già nel momento stesso in cui Dio crea il mondo per poi constatare alla fine che tutto “è molto bello”, proprio quel “molto bello”, afferma il Papa…
“…è permanentemente contraddetto dal male di questo mondo, dalla sofferenza, dalla corruzione ... quasi che il maligno voglia permanentemente sporcare la creazione, per contraddire Dio e per rendere irriconoscibile la sua verità e la sua bellezza”.
Poco prima, nel ricordare che il filo conduttore degli esercizi spirituali era “Arte di credere, arte di pregare”, Benedetto XVI ha detto di aver pensato che i teologi medievali hanno tradotto la parola greca Logos, non solo con Verbum, ma anche con ars, cioè “arte”, ritenendole “intercambiabili”. Questo per dire, ha proseguito, che...
“Il Logos non è solo una ragione matematica: il Logos ha un cuore; il Logos è anche amore. La verità è bella e la verità e la bellezza vanno insieme: la bellezza è il sigillo della verità”.
Eppure, a Cristo – amore, bellezza e verità di Dio, il “Logos” diventato carne – il mondo riserva una corona di spine. È una bellezza oscurata, una verità sporcata. E tuttavia, ripete il Papa, “è proprio così: in questa figura sofferente del Figlio di Dio cominciamo a vedere la bellezza più profonda del nostro Creatore e Redentore”:
“Possiamo, nel silenzio della 'notte oscura', ascoltare tuttavia la Parola. E credere non è altro che, nell’oscurità del mondo, toccare la mano di Dio e così, nel silenzio, ascoltare la Parola, vedere l’amore”.
All’inizio, Benedetto XVI aveva ringraziato il cardinale Ravasi per aver proposto, attraverso i Salmi, un percorso bello “nell’universo della fede”. “Siamo rimasti affascinati – aveva spiegato – dalla ricchezza, dalla profondità, dalla bellezza di questo universo della fede e rimaniamo grati perché la Parola di Dio ci ha parlato in nuovo modo, con nuova forza”. Ma anche le ultime parole del Papa sono di gratitudine. Una gratitudine che supera i confini della Cappella Redemptoris Mater, di una settimana di ritiro spirituale, e che vuole ribadire che la fine e il nuovo inizio ormai imminenti avranno sempre nel cuore del Papa l’accento della continuità:
“Alla fine, cari amici, vorrei ringraziare tutti voi e non solo per questa settimana, ma per questi otto anni, in cui avete portato con me, con grande competenza, affetto, amore, fede, il peso del ministero petrino. Rimane in me questa gratitudine e anche se adesso finisce l’esteriore visibile comunione - come ha detto il cardinal Ravasi - rimane la vicinanza spirituale, rimane una profonda comunione nella preghiera. In questa certezza andiamo avanti, sicuri della vittoria di Dio, sicuri della verità della bellezza e dell’amore”.
Nella Lettera indirizzata al cardinale Ravasi per congratularsi per il lavoro "brillantemente svolto" nell'elaborazione delle meditazioni quaresimali, Benedetto XVI mette in risalto il "duplice movimento", ascendente e discendente, che è possibile cogliere nei Salmi. essi, scrive, "orientano anzitutto verso il Volto di Dio, verso il mistero in cui la mente umana naufraga, ma che la stessa Parola divina permette di cogliere secondo i diversi profili in cui Dio stesso si è rivelato. E, al tempo stesso - nota - proprio nella luce che promana dal Volto di Dio, la preghiera salmica ci fa guardare al volto dell’uomo, per riconoscere in verità le sue gioie e i suoi dolori, le sue angosce e le sue speranze". In questo modo, sottolinea il Papa, "la Parola di Dio, mediata dall’ars orandi antica e sempre nuova del Popolo ebraico e della Chiesa, ci ha permesso di rinnovare l’ars credendi: un’esigenza sollecitata dall’Anno della fede e resa ancora più necessaria dal particolare momento che io personalmente e la Sede Apostolica stiamo vivendo. Il Successore di Pietro e i suoi Collaboratori - conclude - sono chiamati a dare alla Chiesa e al mondo una chiara testimonianza di fede, e questo è possibile soltanto grazie ad una profonda e stabile immersione nel dialogo con Dio". Il servizio di Alessandro De Carolis
Buio e sporcizia. Il male è all’opera per mettere in ombra, per sporcare la bellezza di Dio. Ma da oscurità e fango si emerge con la fede, la bussola che aiuta a trovare, fra le tenebre, la mano di Dio, a riscoprirne l’amore e la verità. È semplice e potente l’immagine che Benedetto XVI trova per dare voce all’esperienza spirituale vissuta in questi giorni, ascoltando e riflettendo sulle meditazioni quaresimali del cardinale Gianfranco Ravasi. Già nel momento stesso in cui Dio crea il mondo per poi constatare alla fine che tutto “è molto bello”, proprio quel “molto bello”, afferma il Papa…
“…è permanentemente contraddetto dal male di questo mondo, dalla sofferenza, dalla corruzione ... quasi che il maligno voglia permanentemente sporcare la creazione, per contraddire Dio e per rendere irriconoscibile la sua verità e la sua bellezza”.
Poco prima, nel ricordare che il filo conduttore degli esercizi spirituali era “Arte di credere, arte di pregare”, Benedetto XVI ha detto di aver pensato che i teologi medievali hanno tradotto la parola greca Logos, non solo con Verbum, ma anche con ars, cioè “arte”, ritenendole “intercambiabili”. Questo per dire, ha proseguito, che...
“Il Logos non è solo una ragione matematica: il Logos ha un cuore; il Logos è anche amore. La verità è bella e la verità e la bellezza vanno insieme: la bellezza è il sigillo della verità”.
Eppure, a Cristo – amore, bellezza e verità di Dio, il “Logos” diventato carne – il mondo riserva una corona di spine. È una bellezza oscurata, una verità sporcata. E tuttavia, ripete il Papa, “è proprio così: in questa figura sofferente del Figlio di Dio cominciamo a vedere la bellezza più profonda del nostro Creatore e Redentore”:
“Possiamo, nel silenzio della 'notte oscura', ascoltare tuttavia la Parola. E credere non è altro che, nell’oscurità del mondo, toccare la mano di Dio e così, nel silenzio, ascoltare la Parola, vedere l’amore”.
All’inizio, Benedetto XVI aveva ringraziato il cardinale Ravasi per aver proposto, attraverso i Salmi, un percorso bello “nell’universo della fede”. “Siamo rimasti affascinati – aveva spiegato – dalla ricchezza, dalla profondità, dalla bellezza di questo universo della fede e rimaniamo grati perché la Parola di Dio ci ha parlato in nuovo modo, con nuova forza”. Ma anche le ultime parole del Papa sono di gratitudine. Una gratitudine che supera i confini della Cappella Redemptoris Mater, di una settimana di ritiro spirituale, e che vuole ribadire che la fine e il nuovo inizio ormai imminenti avranno sempre nel cuore del Papa l’accento della continuità:
“Alla fine, cari amici, vorrei ringraziare tutti voi e non solo per questa settimana, ma per questi otto anni, in cui avete portato con me, con grande competenza, affetto, amore, fede, il peso del ministero petrino. Rimane in me questa gratitudine e anche se adesso finisce l’esteriore visibile comunione - come ha detto il cardinal Ravasi - rimane la vicinanza spirituale, rimane una profonda comunione nella preghiera. In questa certezza andiamo avanti, sicuri della vittoria di Dio, sicuri della verità della bellezza e dell’amore”.
Nella Lettera indirizzata al cardinale Ravasi per congratularsi per il lavoro "brillantemente svolto" nell'elaborazione delle meditazioni quaresimali, Benedetto XVI mette in risalto il "duplice movimento", ascendente e discendente, che è possibile cogliere nei Salmi. essi, scrive, "orientano anzitutto verso il Volto di Dio, verso il mistero in cui la mente umana naufraga, ma che la stessa Parola divina permette di cogliere secondo i diversi profili in cui Dio stesso si è rivelato. E, al tempo stesso - nota - proprio nella luce che promana dal Volto di Dio, la preghiera salmica ci fa guardare al volto dell’uomo, per riconoscere in verità le sue gioie e i suoi dolori, le sue angosce e le sue speranze". In questo modo, sottolinea il Papa, "la Parola di Dio, mediata dall’ars orandi antica e sempre nuova del Popolo ebraico e della Chiesa, ci ha permesso di rinnovare l’ars credendi: un’esigenza sollecitata dall’Anno della fede e resa ancora più necessaria dal particolare momento che io personalmente e la Sede Apostolica stiamo vivendo. Il Successore di Pietro e i suoi Collaboratori - conclude - sono chiamati a dare alla Chiesa e al mondo una chiara testimonianza di fede, e questo è possibile soltanto grazie ad una profonda e stabile immersione nel dialogo con Dio". Il servizio di Alessandro De Carolis
venerdì 22 febbraio 2013
HA GUIDATO LE PERSONE NON A SÉ MA A CRISTO
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L’allora cardinale Ratzinger durante l’omelia ai funerali di mons. Luigi Giussani la folla che gremiva il Duomo di Milano il 24 febbraio 2005 "don Giussani realmente voleva non avere per sé la vita, ma ha dato la vita, e proprio così ha trovato la vita non solo per sé, ma per tanti altri. (...) Servendo così, dando la vita, questa sua vita ha portato un frutto ricco, è divenuto realmente padre di molti e, avendo guidato le persone non a sé, ma a Cristo, proprio ha guadagnato i cuori, ha aiutato a migliorare il mondo, ad aprire le porte del mondo per il cielo"
Omelia del cardinale Joseph Ratzinger ai funerali di Luigi Giussani, Duomo di Milano, 24 febbraio 2005
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Otto anni fa, il 22 febbraio del 2005, moriva don Luigi Giussani. Due giorni dopo, nel Duomo di Milano gremito di folla, il cardinale Ratzinger – che Giovanni Paolo II, gravemente malato, aveva inviato come suo delegato personale – lo ricordava in un’omelia pronunciata a braccio dalla quale traspare l’amicizia che li legava e la stima per il fondatore di Comunione e liberazione. «Don Giussani era cresciuto in una casa - come disse lui stesso - povera di pane, ma ricca di musica; e così, sin dall’inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza; non si accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza banale; cercava la Bellezza stessa, la Bellezza infinita; così ha trovato Cristo, in Cristo la vera bellezza, la strada della vita, la vera gioia». Non sono frasi di circostanza, quelle pronunciate dal decano del collegio cardinalizio, ma parole che denotano la stima e la profonda conoscenza del carisma del sacerdote lombardo: «Sempre ha tenuto fermo lo sguardo della sua vita e del suo cuore verso Cristo. Ha capito in questo modo che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che il cristianesimo è un incontro, una storia d’amore; è un avvenimento».
È stato un rapporto intenso, quello tra Ratzinger e Giussani, un’amicizia umana e intellettuale che si è dipanata per più di trent’anni. Gli inizi risalgono agli anni Settanta. Il loro incontro è tra i fattori che portano a un’iniziativa che lascerà un segno importante nel dibattito teologico post-conciliare: la rivista internazionale Communio ,alla fondazione della quale partecipano tra gli altri Von Balthasar e De Lubac. Negli anni Ottanta sono numerosi gli incontri che si tengono a Roma, come ha raccontato in più di un’occasione monsignor Massimo Camisasca, oggi vescovo di Reggio Emilia e all’epoca uno dei più stretti collaboratori di Giussani: «Per iniziativa di don Angelo Scola e in mia presenza, Giussani veniva una o due volte all’anno a Roma per cenare con il cardinale Ratzinger. L’appuntamento era alle Cappellette di San Luigi, vicino alla basilica di Santa Maria Maggiore, si svolgeva sempre allo stesso modo: Giussani chiedeva a Ratzinger conferma dell’ortodossia delle proprie posizioni e riceveva da lui sempre nuove ragioni, che ne sostenevano la verità e la fecondità ». Di questi incontri rimane traccia anche nel libro Dal temperamento un metodo , che raccoglie le conversazioni del sacerdote con alcuni gruppi di Memores Domini, i laici consacrati di Cl. In una di queste, Giussani ricorda: «Il cardinale Ratzinger, tre sere fa, a cena con don Massimo , ci diceva che ciò che lo fa sentire più legato a noi è la concezione del cristianesimo come avvenimento hic et nunc, come avvenimento qui ed ora».
Nel 1986 il cardinale, su invito del fondatore di Cl, predica gli esercizi spirituali per i sacerdoti del movimento a Collevalenza, successivamente raccolti e pubblicati dall’editrice Jaca Book nel libro Guardare Cristo. Esercizi
di fede, speranza e carità .
Nel 1993 Ratzinger firma la prefazione del volume Un avvenimento di vita, cioè una storia, che raccoglie conversazioni e interviste rilasciate nel corso di 15 anni, e sottolinea la necessità indicata da Giussani di passare dall’utopia post-sessantottina a un’altra parola-guida: presenza. «Il cristianesimo è presenza, il qui ed ora del Signore,
che ci sospinge nel qui ed ora della fede. E così diventa chiara la vera alternativa: il cristianesimo non è teoria né moralismo, né ritualismo, bensì avvenimento, incontro con una presenza, con un Dio che è entrato nella storia e che continuamente vi entra».
Nel 1994 viene pubblicato un testo fondamentale di Giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno (che la Rizzoli ha rimandato in libreria il mese scorso). Nella prefazione, il cardinale lo definisce un libro «che dovrebbe essere letto anche da coloro che accolgono con scetticismo l’annuncio della fede cristiana. (…) Giussani ci mostra come nelle semplici esperienze fondamentali di ogni uomo sia contenuta la ricerca di Dio, che continua a rimanere presente anche nell’ateismo. (…) Con questo piccolo libro ho capito ancora una volta e in modo nuovo perché monsignor Giussani è potuto diventare maestro di un’intera generazione e padre di un vivace movimento».
Due anni dopo la morte del 'Gius', il 24 marzo 2007 – davanti a 100mila ciellini convenuti in piazza San Pietro da 53 Paesi per il venticinquesimo anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Cl – Benedetto XVI comincia così il suo discorso: «Il mio primo pensiero va al vostro fondatore, Luigi Giussani, al quale mi legano tanti ricordi, e che mi era diventato un vero amico». La testimonianza più recente risale a pochi giorni fa, quando il Papa riceve in udienza i partecipanti all’assemblea generale della Fraternità San Carlo, accompagnati dal nuovo superiore don Paolo Sottopietra, dal predecessore monsignor Camisasca, neo-vescovo di Reggio Emilia, e dal presidente della Fraternità di Cl, don Julian Carron. Parlando a braccio, rievoca gli incontri avvenuti lungo gli anni: «Mi ricordo bene delle mie visite accanto a Santa Maria Maggiore, dove ho conosciuto personalmente don Giussani, ho conosciuto la sua fede, la sua gioia, la sua forze e la ricchezza delle sue idee, la creatività della fede. È cresciuta una vera amicizia, così, tramite lui, ho conosciuto anche meglio la comunità di Comunione e liberazione». GIORGIO PAOLUCCI
domenica 17 febbraio 2013
Il bivio nella vita: vogliamo seguire l’io o Dio?
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Il Papa all’Angelus: smascherare le tentazioni che strumentalizzano Dio per il potere
BENEDETTO XVI
ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 17 febbraio 2013
Domenica, 17 febbraio 2013
Cari fratelli e sorelle!
mercoledì scorso, con il tradizionale Rito delle Ceneri, siamo entrati nella Quaresima, tempo di conversione e di penitenza in preparazione alla Pasqua. La Chiesa, che è madre e maestra, chiama tutti i suoi membri a rinnovarsi nello spirito, a ri-orientarsi decisamente verso Dio, rinnegando l’orgoglio e l’egoismo per vivere nell’amore. In questo Anno della fede la Quaresima è un tempo favorevole per riscoprire la fede in Dio come criterio-base della nostra vita e della vita della Chiesa. Ciò comporta sempre una lotta, un combattimento spirituale, perché lo spirito del male naturalmente si oppone alla nostra santificazione e cerca di farci deviare dalla via di Dio. Per questo, nella prima domenica di Quaresima, viene proclamato ogni anno il Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto.
Gesù infatti, dopo aver ricevuto l’“investitura” come Messia – “Unto” di Spirito Santo – al battesimo nel Giordano, fu condotto dallo stesso Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. Al momento di iniziare il suo ministero pubblico, Gesù dovette smascherare e respingere le false immagini di Messia che il tentatore gli proponeva. Ma queste tentazioni sono anche false immagini dell’uomo, che in ogni tempo insidiano la coscienza, travestendosi da proposte convenienti ed efficaci, addirittura buone. Gli evangelisti Matteo e Luca presentano tre tentazioni di Gesù, diversificandosi in parte solo per l’ordine. Il loro nucleo centrale consiste sempre nello strumentalizzare Dio per i propri interessi, dando più importanza al successo o ai beni materiali. Il tentatore è subdolo: non spinge direttamente verso il male, ma verso un falso bene, facendo credere che le vere realtà sono il potere e ciò che soddisfa i bisogni primari. In questo modo, Dio diventa secondario, si riduce a un mezzo, in definitiva diventa irreale, non conta più, svanisce. In ultima analisi, nelle tentazioni è in gioco la fede, perché è in gioco Dio. Nei momenti decisivi della vita, ma, a ben vedere, in ogni momento, siamo di fronte a un bivio: vogliamo seguire l’io o Dio? L’interesse individuale oppure il vero Bene, ciò che realmente è bene?
Come ci insegnano i Padri della Chiesa, le tentazioni fanno parte della “discesa” di Gesù nella nostra condizione umana, nell’abisso del peccato e delle sue conseguenze. Una “discesa” che Gesù ha percorso sino alla fine, sino alla morte di croce e agli inferi dell’estrema lontananza da Dio. In questo modo, Egli è la mano che Dio ha teso all’uomo, alla pecorella smarrita, per riportarla in salvo. Come insegna sant’Agostino, Gesù ha preso da noi le tentazioni, per donare a noi la sua vittoria (cfr Enarr. in Psalmos, 60,3: PL 36, 724). Non abbiamo dunque paura di affrontare anche noi il combattimento contro lo spirito del male: l’importante è che lo facciamo con Lui, con Cristo, il Vincitore. E per stare con Lui rivolgiamoci alla Madre, Maria: invochiamola con fiducia filiale nell’ora della prova, e lei ci farà sentire la potente presenza del suo Figlio divino, per respingere le tentazioni con la Parola di Cristo, e così rimettere Dio al centro della nostra vita.
mercoledì scorso, con il tradizionale Rito delle Ceneri, siamo entrati nella Quaresima, tempo di conversione e di penitenza in preparazione alla Pasqua. La Chiesa, che è madre e maestra, chiama tutti i suoi membri a rinnovarsi nello spirito, a ri-orientarsi decisamente verso Dio, rinnegando l’orgoglio e l’egoismo per vivere nell’amore. In questo Anno della fede la Quaresima è un tempo favorevole per riscoprire la fede in Dio come criterio-base della nostra vita e della vita della Chiesa. Ciò comporta sempre una lotta, un combattimento spirituale, perché lo spirito del male naturalmente si oppone alla nostra santificazione e cerca di farci deviare dalla via di Dio. Per questo, nella prima domenica di Quaresima, viene proclamato ogni anno il Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto.
Gesù infatti, dopo aver ricevuto l’“investitura” come Messia – “Unto” di Spirito Santo – al battesimo nel Giordano, fu condotto dallo stesso Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. Al momento di iniziare il suo ministero pubblico, Gesù dovette smascherare e respingere le false immagini di Messia che il tentatore gli proponeva. Ma queste tentazioni sono anche false immagini dell’uomo, che in ogni tempo insidiano la coscienza, travestendosi da proposte convenienti ed efficaci, addirittura buone. Gli evangelisti Matteo e Luca presentano tre tentazioni di Gesù, diversificandosi in parte solo per l’ordine. Il loro nucleo centrale consiste sempre nello strumentalizzare Dio per i propri interessi, dando più importanza al successo o ai beni materiali. Il tentatore è subdolo: non spinge direttamente verso il male, ma verso un falso bene, facendo credere che le vere realtà sono il potere e ciò che soddisfa i bisogni primari. In questo modo, Dio diventa secondario, si riduce a un mezzo, in definitiva diventa irreale, non conta più, svanisce. In ultima analisi, nelle tentazioni è in gioco la fede, perché è in gioco Dio. Nei momenti decisivi della vita, ma, a ben vedere, in ogni momento, siamo di fronte a un bivio: vogliamo seguire l’io o Dio? L’interesse individuale oppure il vero Bene, ciò che realmente è bene?
Come ci insegnano i Padri della Chiesa, le tentazioni fanno parte della “discesa” di Gesù nella nostra condizione umana, nell’abisso del peccato e delle sue conseguenze. Una “discesa” che Gesù ha percorso sino alla fine, sino alla morte di croce e agli inferi dell’estrema lontananza da Dio. In questo modo, Egli è la mano che Dio ha teso all’uomo, alla pecorella smarrita, per riportarla in salvo. Come insegna sant’Agostino, Gesù ha preso da noi le tentazioni, per donare a noi la sua vittoria (cfr Enarr. in Psalmos, 60,3: PL 36, 724). Non abbiamo dunque paura di affrontare anche noi il combattimento contro lo spirito del male: l’importante è che lo facciamo con Lui, con Cristo, il Vincitore. E per stare con Lui rivolgiamoci alla Madre, Maria: invochiamola con fiducia filiale nell’ora della prova, e lei ci farà sentire la potente presenza del suo Figlio divino, per respingere le tentazioni con la Parola di Cristo, e così rimettere Dio al centro della nostra vita.
«Benedetto XVI, una limpida testimonianza di fede»
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Lettera dell'Arcivescovo ai fedeli ambrosiani, letta all’inizio delle celebrazioni eucaristiche della prima domenica di Quaresima.
Milano, 17 febbraio 2013
I Domenica di Quaresima
I Domenica di Quaresima
Carissime sorelle, carissimi fratelli in Cristo Gesù nostro Signore,
di fronte all’inaspettato ed umile gesto di rinuncia al Pontificato da parte di Benedetto XVI non sono importanti i sentimenti che, sul momento, hanno occupato il nostro cuore. Conta la limpidezza del gesto di fede e di testimonianza del nostro caro Papa. Esso si è subito imposto, a noi e a tutto il mondo.
È impossibile non rievocare con speciale gratitudine il dono della Visita di Benedetto XVI alla nostra Diocesi in occasione del VII Incontro Mondiale delle Famiglie. In quei giorni siamo stati veramente confermati nella fede dal Successore di Pietro: la sua presenza tra noi è stata il segno visibile della vicinanza di Dio al Suo popolo.
Anche attraverso questa Sua decisione, presa in coscienza davanti a Dio, in totale libertà e motivata unicamente dal bene della Chiesa, Benedetto XVI continua a confermare la nostra fede. Nell’Udienza generale del 13 febbraio scorso, Egli ha ribadito che «la Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura».
La testimonianza del Papa ci ha mostrato che cosa sia una vita piena, capace di stare di fronte a Gesù, destino dell’uomo.
A ciascuno personalmente e a tutti noi insieme tocca ora la responsabilità di accompagnare il Collegio dei Cardinali nell’accogliere l’iniziativa dello Spirito Santo per la scelta del nuovo Papa.
Siamo all’inizio della Santa Quaresima: dedichiamoci con più energia alla preghiera personale, familiare e comunitaria. Vigiliamo sull’uso del nostro tempo, dando spazio a gesti di penitenza e di carità che dispongano il nostro cuore alla grazia redentrice di Cristo. Raccomando in modo particolare la recita quotidiana del Santo Rosario, la confessione e, nella misura del possibile, la partecipazione ad un gesto liturgico infrasettimanale.
«Pietro ed Ambrogio, una sola fede»: è questa la fonte della nostra fiducia.
Con affetto vi benedico.
Angelo cardinale Scola
venerdì 15 febbraio 2013
Scola: dal Papa un esempio di libertà e fede
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Migliaia di ragazzi hanno seguito a Malpensa e collegati via web il secondo incontro del Dialogo della fede
B enedetto XVI, con le sue dimissioni, ha offerto una «testimonianza di libertà che viene da una fede solida, dall’umiltà », dal «dono di una profondissima intelligenza della fede». Joseph Ratzinger «è un uomo al quale sono chiare l’origine e la meta della vita». Perciò «ha il coraggio della libertà per fare una scelta epocale», spiega il cardinale Angelo Scola al migliaio di ragazzi giunti da diverse zone pastorali della diocesi e raccolti al terminal 1 dell’aeroporto di Malpensa per partecipare al secondo Dialogo della fede promosso dalla Pastorale giovanile. E annuncia di aver scritto una lettera, rivolta ai fedeli ambrosiani, da leggere alle Messe di domani e di domenica. Ieri sera lo scalo di Malpensa. A gennaio l’aula magna dell’Università statale, a Milano. Luoghi insoliti per un evento ecclesiale. Scelti «per dire che tutto ha a che fare con Cristo», scandisce l’arcivescovo. Ed è un luogo ulteriore, e fecondo, lo scenario 'crossmediale' che nell’intreccio di social media e media tradizionali permette a tanti ragazzi di partecipare al dialogo di Malpensa, di mandare domande e provocazioni. Come quella dei seminaristi di Venegono: che interrogano il loro vescovo sulle dimissioni del Papa, «per noi qualcosa di mai udito», scrivono, «un mistero di libertà enorme. Come illumina la fede questo evento epocale?». Un evento che alcuni giovani di Besana Brianza chiedono all’arcivescovo di leggere nell’orizzonte dell’Anno della fede. La scelta di Ratzinger «mi sta mettendo alla prova», confessa Scola. «Ma col passare dei giorni questo pugno allo stomaco invece di farmi abbassare la testa, me l’ha fatta tirare su, aiuta a rompere il mio 'io narciso'». Quell’«io» che impedisce di mettere al centro della propria vita «la relazione costitutiva con Gesù», sola via affidabile alla felicità, all’amore, alla libertà vera, aveva detto l’arcivescovo in fasi precedenti del dialogo. Solo partendo da quella «relazione costitutiva, originaria» con Cristo, capace di illuminare «l’origine e la meta della nostra esistenza», solo vivendo «la vita come vocazione », e scoprire così che c’è «un Dio che ci ama e che dà a ciascuno un destino irripetibile », è possibile abitare il tempo e la storia non da vagabondi in balia delle circostanze, ma da pellegrini che sanno il senso della vita. Chi poggia la propria esistenza sulla roccia di Cristo «non teme il dinamismo della vita e laliquidità della nostra società». Mai soli, in questo: ma nella compagnia dellacomunità cristiana, in parrocchia, in oratorio, nei gruppi, nei movimenti. «Troppo spesso dimentichiamo la relazione costitutiva con Cristo – insiste Scola –. Diventiamo distratti. Ma quale è il contrario di distrazione ?
È attenzione ? No: l’antidoto alla distrazione è l’ attrazione . Ecco la forza del testimone! Ed ecco – scandisce l’arcivescovo – ciò che siamo chiamati ad essere come cristiani nel mondo, in questo tempo pieno di apertura al futuro, dove dobbiamo mostrare come il cristianesimo è l’umanesimo umano». Nella casistica degli antropologi della postmodernità, l’aeroporto è non luogo per antonomasia. Così non è stato, ieri sera a Malpensa. Al terminal 1, area check-in numero 1, si è svolto un incontro autentico. Che la «rete» ha dilatato. A moderare, com’era stato a gennaio alla Statale, don Bortolo Uberti, cappellano dell’ateneo di via Festa del Perdono. Monsignor Pierantonio Tremolada, vicario episcopale per l’evangelizzazione, in un 'tempio' della mobilità come è un hub internazionale, ha parlato del viaggio secondo la Bibbia. Gli interventi di Ernesto da Ferrandina (Matera) e di Miriam da Magenta, di Giacomo da Concorezzo, di Maurizio da Arcisate, di Alice da Gavirate, assieme alle mail, ai tweet, agli sms, hanno offerto a Scola le tessere per comporre un mosaico dove parlare di male e di peccato (anche quello che «si incrosta in tante strutture della vita sociale, e anche in tanti uomini di Chiesa», ha sottolineato Scola), di dolore, morte, ingiustizia, ma anche di amore, famiglia, lavoro. «Non crediamo in Gesù perché abbiamo paura di morire, ma perché vogliamo vivere », dice Scola. E vivere da pellegrini, non da vagabondi, prendendo sul serio la domanda chiave del romanzo Sulla strada di Kerouac, che l’arcivescovo consegna ai giovani: «Andate da qualche parte di preciso, voi ragazzi, o viaggiate senza meta?».
COME UN INNO D’AMORE ALLA CHIESA - LA LUCE ALTA
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A ragionare sulle parole di ieri del Papa come se fossero solo una testimonianza del (e sul) Concilio Vaticano II, benché altissima, si farebbe un errore. Così come lo si farebbe a considerare il rivolgersi del Vescovo di Roma ai preti della 'sua' diocesi come una lezione, e lezione, altrettanto alta e bellissima, pure è stata. Raramente, infatti, l’incrociarsi stretto di ricordi e di sapienza – amalgamati non in un testo scritto, ma in un discorso a braccio, e in una lingua non nativa, e per oltre quarantacinque minuti – ha saputo tradursi in una sintesi tanto lucida e, allo stesso tempo, efficace, di quel grandissimo evento di Chiesa.
Ma le due categorie citate, della testimonianza e dell’accademia, pur suscitando ammirazione, non bastano. Perché il discorso che Benedetto XVI ha pronunciato ieri nel tradizionale incontro col clero di Roma – l’ottavo del suo pontificato, e l’ultimo – è stato prima ancora e soprattutto il discorso di un innamorato. Di un uomo, di un teologo, di un prete, innamorato della Chiesa, di quella Chiesa che non sopporta nella maniera più assoluta di vedere deturpata dalle piccolezze umane, perché la Chiesa è di Dio. E va amata e curata. È un bene prezioso, insostituibile, unico. E per questo va difesa, dalle correnti esterne, certo, ma prima di tutto da quelle interne.
Benedetto XVI, per questo, ieri ha raccontato di nuovo e con impressionante freschezza di quella grande stagione. E, come i veri innamorati, ha raccontato senza nascondere i difetti dell’amata, le divergenze esistenti all’epoca, e come queste si siano a poco a poco, un passo alla volta, ricomposte mentre il grande affresco di quell’Assise andava definendosi, mentre prendevano corpo i documenti che sarebbero diventati le pietre miliari di una Chiesa aperta al mondo, aperta alle sue sfide, decisa a custodire il proprio tesoro, rinnovandosi e di rinnovando, consapevole di avere la sua da dire al mondo contemporaneo.
Protagonista e interprete di quella stagione, Papa Benedetto ha levato di nuovo il suo inno d’amore per la Chiesa, convinto, appunto, che questa non sia «un’organizzazione, qualcosa di strutturale», quanto piuttosto «un organismo, una realtà vitale che entra nella mia anima, così che io stesso divento un elemento costruttivo della Chiesa come tale». Ed è per questo, dunque, che occorre lavorare perché «il vero Concilio, con la forza dello Spirito Santo, agisca e sia rinnovata la Chiesa». Non un auspicio, ma una convinzione incrollabile, la «certezza» che, sempre, «vince il Signore ». Anche per questo, il suo ricordare le responsabilità dei media – per i quali «il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa» – circa le distorsioni del senso del Vaticano II, e i guasti causati, più che un j’accuse o un lamento su tic informativi del resto duri a passare, è una rammaricata constatazione; un dire avremmo dovuto fare meglio . E un invito per l’oggi a fare meglio .
È di questo amore traboccante, di questa certezza che «vince il Signore», che il discorso di ieri è stato sintesi perfetta. Un amore e una certezza che Benedetto XVI ha vissuto e insegnato giorno dopo giorno, che hanno dato senso e ragione a ogni suo atto, fino a una rinuncia al ministero petrino che solo entro quelle due coordinate può essere compresa. Perché la sfida vera non è affrontare la somma dei problemi che si hanno di fronte; la sfida vera è essere Chiesa. E il noi siamo Chiesa non può mai essere preso come principio di esclusione o di polemica ma, al contrario, «esige proprio il mio inserimento nel grande 'noi' dei credenti di tutti i tempi e luoghi». Solo così, alla fine, i problemi, le storture, le sporcizie, si possono emendare. La luce si può tenere alta, il cammino dietro a Cristo fare spedito. Tutti insieme, uniti. Per fare bella la Chiesa di Dio. Perché solo una Chiesa bella può essere casa per tutti. Ma le due categorie citate, della testimonianza e dell’accademia, pur suscitando ammirazione, non bastano. Perché il discorso che Benedetto XVI ha pronunciato ieri nel tradizionale incontro col clero di Roma – l’ottavo del suo pontificato, e l’ultimo – è stato prima ancora e soprattutto il discorso di un innamorato. Di un uomo, di un teologo, di un prete, innamorato della Chiesa, di quella Chiesa che non sopporta nella maniera più assoluta di vedere deturpata dalle piccolezze umane, perché la Chiesa è di Dio. E va amata e curata. È un bene prezioso, insostituibile, unico. E per questo va difesa, dalle correnti esterne, certo, ma prima di tutto da quelle interne. Benedetto XVI, per questo, ieri ha raccontato di nuovo e con impressionante freschezza di quella grande stagione. E, come i veri innamorati, ha raccontato senza nascondere i difetti dell’amata, le divergenze esistenti all’epoca, e come queste si siano a poco a poco, un passo alla volta, ricomposte mentre il grande affresco di quell’Assise andava definendosi, mentre prendevano corpo i documenti che sarebbero diventati le pietre miliari di una Chiesa aperta al mondo, aperta alle sue sfide, decisa a custodire il proprio tesoro, rinnovandosi e di rinnovando, consapevole di avere la sua da dire al mondo contemporaneo. Protagonista e interprete di quella stagione, Papa Benedetto ha levato di nuovo il suo inno d’amore per la Chiesa, convinto, appunto, che questa non sia «un’organizzazione, qualcosa di strutturale», quanto piuttosto «un organismo, una realtà vitale che entra nella mia anima, così che io stesso divento un elemento costruttivo della Chiesa come tale». Ed è per questo, dunque, che occorre lavorare perché «il vero Concilio, con la forza dello Spirito Santo, agisca e sia rinnovata la Chiesa». Non un auspicio, ma una convinzione incrollabile, la «certezza» che, sempre, «vince il Signore ». Anche per questo, il suo ricordare le responsabilità dei media – per i quali «il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa» – circa le distorsioni del senso del Vaticano II, e i guasti causati, più che un j’accuse o un lamento su tic informativi del resto duri a passare, è una rammaricata constatazione; un dire avremmo dovuto fare meglio . E un invito per l’oggi a fare meglio . È di questo amore traboccante, di questa certezza che «vince il Signore», che il discorso di ieri è stato sintesi perfetta. Un amore e una certezza che Benedetto XVI ha vissuto e insegnato giorno dopo giorno, che hanno dato senso e ragione a ogni suo atto, fino a una rinuncia al ministero petrino che solo entro quelle due coordinate può essere compresa. Perché la sfida vera non è affrontare la somma dei problemi che si hanno di fronte; la sfida vera è essere Chiesa. E il noi siamo Chiesa non può mai essere preso come principio di esclusione o di polemica ma, al contrario, «esige proprio il mio inserimento nel grande 'noi' dei credenti di tutti i tempi e luoghi». Solo così, alla fine, i problemi, le storture, le sporcizie, si possono emendare. La luce si può tenere alta, il cammino dietro a Cristo fare spedito. Tutti insieme, uniti. Per fare bella la Chiesa di Dio. Perché solo una Chiesa bella può essere casa per tutti.
SALVATORE MAZZA
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