venerdì 6 maggio 2011

ESERCIZI DELLA FRATERNITA' DI COMUNIONE E LIBERAZIONE 2011


In copertina: La chiamata di Zaccheo (particolare), Capua, basilica di Sant’Angelo in Formis. Per gentile concessione del rettore della basilica.Città del Vaticano, 29 aprile 2011


Reverendo
Don Julián Carrón
Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

Occasione Esercizi spirituali Fraternità di Comunione e
Liberazione sul tema «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova»
Sommo Pontefice rivolge at partecipanti affettuoso pensiero et mentre
auspica che provvido incontro susciti rinnovato ardore missionario
at servizio Vangelo invoca copiosa effusione lumi celesti et invia
at Lei et convenuti tutti implorata benedizione apostolica.

Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di Sua Santità



Venerdì 29 aprile, sera
All’ingresso e all’uscita:
Wolfgang Amadeus Mozart, Concerto per pianoforte n. 27 in si bemolle maggiore, K 595
András Schiff, pianoforte
Sándor Vegh - Camerata Academica Salzburg,
Decca

INTRODUZIONE
Julián Carrón

All’inizio di questo nostro gesto degli Esercizi credo che nessuno senta una urgenza più grande
di quella di chiedere, di domandare la disponibilità alla conversione. Ciascuno di noi sa benissimo
quanto resiste a questa conversione, quante volte il nostro cuore è indurito, quanto non siamo
disponibili fino in fondo a lasciarci attrarre da Lui. Quanto più siamo consapevoli di questo, di
questa guerra in cui siamo ingaggiati e di qual è la nostra fragilità e la nostra debolezza, tanto più
sentiamo l’urgenza di domandare allo Spirito che sia Lui a lavare quel che è immondo, a irrigare
quel che è arido, a risanare quel che è ferito.

Discendi Santo Spirito


Saluto ciascuno di voi qui presenti e tutti gli amici che sono collegati con noi da diversi Paesi, e
tutti coloro che faranno gli Esercizi in differita nelle prossime settimane.

Comincio leggendo il telegramma inviato da Sua Santità:
«Occasione Esercizi spirituali Fraternità di Comunione e Liberazione sul tema “Se uno è in
Cristo, è una creatura nuova” Sommo Pontefice rivolge at partecipanti affettuoso pensiero et
mentre auspica che provvido incontro susciti rinnovato ardore missionario at servizio Vangelo
invoca copiosa effusione lumi celesti et invia at Lei et convenuti tutti implorata benedizione
apostolica.
Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di Sua Santità».

«Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova», 1 perché Cristo è qualcosa che mi sta
accadendo. Cerchiamo di immedesimarci con i discepoli dopo la Pasqua. Che cosa prevaleva
nei loro cuori, nei loro occhi,
_______________
1- 2 Cor 5,17.




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Venerdì sera
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nella coscienza di se stessi, se non la Sua presenza viva? Per loro era talmente evidente
che non potevano strapparla via, era una Presenza che vinceva qualsiasi dubbio, qualsiasi
ombra: si imponeva. Per essi Cristo era qualcosa che stava succedendo in loro. Non era
una dottrina, un elenco di cose da fare, un sentimento. Era, sì, una presenza esterna,
diversa, ma che investiva la loro vita. La risurrezione di Cristo, la Sua presenza viva
introduceva una novità che rendeva la vita finalmente vita, riempiendola di una intensità
che non potevano generare da soli. Era talmente evidente che essi l’hanno chiamata
«vita nuova».2E chi la viveva? Una creatura nuova. La vita nuova – ma possiamo
dire semplicemente: la vita nel suo senso più pieno, che si svela per la prima volta
con tutta la sua intensità – definiva talmente le loro persone che i cristiani erano chiamati
i «viventi».3 Che razza di esperienza hanno fatto e che razza di esperienza gli altri si
trovavano a guardare in loro per definirli i viventi! È questo che Cristo ha introdotto
per sempre nella realtà: una possibilità di vivere la vita a un livello per noi
assolutamente sconosciuto prima, un “di più”, appunto, e san Paolo non ha trovato
altro modo di esprimere questo fatto che la frase che abbiamo scelto come titolo
dei nostri Esercizi.Questa è la novità che introduce la risurrezione di Cristo. Non è un
ritorno alla vecchia vita precedente; è una vita che implica un salto, un incremento
di vita prima sconosciuto. È così reale, ma allo stesso tempo così oltre qualsiasi
immaginazione, che l’unica cosa che si può fare è testimoniarla nell’azione,
comunicarla attraverso la radiosità del volto, attraverso l’intensità dello sguardo,
attraverso il rapporto con la realtà, nel modo di trattare tutto. Non è qualcosa che
prima si era imparato e poi si cercava di applicare: non si sapeva prima, per questo
sarebbe stato impossibile cercare di applicare qualcosa che non si sapeva. Era una
sorpresa, si è incominciato a sapere perché Cristo la faceva succedere: era
l’Avvenimento che faceva conoscere la novità. «Quando fu a tavola con loro, prese
il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli
occhi e lo riconobbero».4 Era Lui che la generava costantemente: «Non ci ardeva
forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci
spiegava le Scritture?».5 Era qualcosa – Cristo, Cristo risorto – che stava succedendo
in loro, tanto faceva ardere il cuore!
___________________
2 Rm 6,4.
3 Rm 6,11.
4 Lc 24,30-31.
5Lc 24,32.

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Esercizi della Fraternità
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Afferma don Giussani: «È nel mistero della Risurrezione il culmine e il colmo dell’intensità
della nostra autocoscienza cristiana, perciò dell’autocoscienza nuova di me stesso, del modo
con cui guardo tutte le persone e tutte le cose: è nella Risurrezione la chiave di volta della
novità del rapporto tra me e me stesso, tra me e gli uomini, tra me e le cose. Ma questa è la
cosa da cui noi rifuggiamo di più. È come la cosa più, se volete, anche rispettosamente,
lasciata da parte, rispettosamente lasciata nella sua aridità di parola intellettualmente percepita,
percepita come idea, proprio perché è il culmine della sfida del Mistero alla nostra misura».6
Chi di noi non desidererebbe una intensità di vita così? Ma se noi paragoniamo quello che hanno
vissuto i discepoli quella settimana di Pasqua con quello che abbiamo vissuto noi, tutti
riconosceremo la lontananza, la distanza abissale che ci separa dall’esperienza che hanno
fatto loro. Questo vale anche per quanto riguarda la partecipazione alla Liturgia: per loro è
stato il momento di riconoscerLo (si aprono i loro occhi e Lo riconoscono), per noi tante volte
è ridotta a rito.Ma questa lontananza che ci troviamo addosso – questo dolore che si
impone – negli apostoli è stata vinta: e questa è la speranza per ciascuno di noi. Quello che
noi attendiamo è già un fatto in loro, è già successo nella storia. Questa novità è già stata
un’esperienza nell’uomo, in certi uomini, e può diventare anche nostra se noi siamo disponibili
a lasciarci generare attraverso la modalità che ha preso noi: il carisma. Affinché questo accada



dobbiamo renderci disponibili a continuare la strada tracciata da don Giussani. Affinché il
cristianesimo diventi talmente “nostro” da superare quella distanza che ci separa
dall’esperienza degli apostoli, e la vita si riempia di quella novità che vince qualsiasi aridità,
occorre continuare il percorso che stiamo facendo, di cui abbiamo dato ancora le ragioni il 26
gennaio scorso alla presentazione de Il senso religioso.È indicativa del problema in cui ci
troviamo incagliati la domanda che tante volte in diversi modi sta venendo fuori, e che diventa
più accanita facendo la Scuola di comunità: ma perché insistiamo che Cristo è venuto a risvegliare
e a educarci al senso religioso, che la natura dell’esperienza cristiana si vede dal fatto che è in
grado di suscitare il senso del mistero nell’io, di suscitare la domanda umana? Non sarebbe stato
più facile parlare di Cristo senza questo accanimento sul risveglio dell’io, sull’insistenza su ciò
che abbiamo scoperto in noi? E tante volte mi ripetete: «Ma dove ci vuoi portare? Non è una
complicazione il cammino che don Giussani ci fa fare?».
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6- L. Giussani, La familiarità con Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2008, pp. 71-72.

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Venerdì sera
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Mi sembra di sentire oggi la stessa identica obiezione che don Giussani si sentiva rivolgere da
un suo studente. Lo racconta lui stesso: «Adesso la gente non percepisce più in che cosa
consista la corrispondenza fra la proposta cristiana nella sua originalità, fra l’avvenimento
cristiano e la vita di tutti i giorni. E quando io mi sforzo, e quando voi vi sforzate di farlo
capire: “Ma come sei complicato, come sei complicato!”. In liceo, quando dettavo quel che
studiate a Scuola di Comunità, avevo in classe il figlio di Manzù, il quale aveva un prete da
cui andava sempre. Questo prete l’ha aizzato contro quel che leggeva nei miei appunti e gli
diceva: “Vedi, questo complica, mentre la religione è semplice”. Vale a dire “le ragioni
complicano” – e quanti direbbero così! –, “la ricerca delle ragioni complica”. Invece illumina!
È per quella impostazione che Cristo non è più autorità, ma un oggetto sentimentale, e Dio è
uno spauracchio e non un amico».7
Don Giussani sapeva bene dove portava quel tipo di modalità di vivere la fede apparentemente
meno complicata: «In una situazione apparentemente ottimale per la trasmissione di un contenuto
cattolico teorico ed etico – parrocchie efficienti con offerta di corsi di catechismo “per tutte le
stagioni”; lezione di religione obbligatoria in ogni ordine di scuola fino alla media superiore;
tradizione almeno formalmente ben salvaguardata nei criteri familiarmente trasmessi; un certo
non ancora sconfessato pudore di fronte a indiscriminata critica o informazione irreligiosa; una
buona percentuale di prassi di Messa festiva [e adesso, sessant’anni dopo, tutto è molto
ridimensionato...] – un primo contatto con i giovani studenti delle medie superiori forniva un
triplice fattore di rilievo che colpiva l’osservatore interessato. Innanzitutto una immotivazione
ultima della fede. [...] In secondo luogo, una scontata inincidenza della fede sul comportamento
sociale in generale, e scolastico in particolare. Infine, un clima decisamente generativo di scetticità».8
Per questo ha ragione il pensatore ebreo Heschel: «È consueto incolpare la scienza secolare e la
filosofia antireligiosa dell’eclisse della religione nella società moderna, ma sarebbe più onesto
incolpare la religione delle sue stesse sconfitte. La religione è declinata non perché è stata confutata,
ma perché è divenuta priva di rilevanza, monotona, oppressiva e insipida».9
Questa irrilevanza, questa insipidezza della fede può verificarsi anche in una situazione come
quella descritta prima da
_________________
7 - L. Giussani, «Tu» (o dell’amicizia), Bur, Milano 1997, pp. 40-41.
8 - L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, pp. 41-42.
9 -A.J. Heschel, Crescere in saggezza, Gribaudi, Milano 2001, p. 157.


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Esercizi della Fraternità

don Giussani, in cui la religiosità era onnipresente, o come in quella immaginata da Nietzsche,
dove la religione dilagava, ma era incapace di ridestare l’io. «Nietzsche ci ha avvertito da tempo
che la morte di Dio è perfettamente compatibile con una “religiosità borghese” [...]. Egli non
ha pensato neppure per un momento che la religione fosse finita. Ciò che egli metteva in
discussione è la capacità della religione di muovere la persona [cioè di risvegliare l’io] e aprire
la sua mente [...]. La religione è divenuta un prodotto di consumo, una forma di intrattenimento
tra le altre, una fonte di conforto per i deboli [...] o una stazione di servizi emotivi, destinata ad
appagare alcuni bisogni irrazionali che essa è in grado soddisfare meglio di ogni altra cosa. Per
quanto possa suonare unilaterale, la diagnosi di Nietzsche colpiva nel segno». 10
Un cristianesimo che non è in grado di muovere la persona, di suscitare l’umano, ha portato a un
disinteresse verso il cristianesimo stesso, facendolo diventare irrilevante. In tanti casi non è stata
una ribellione contro la proposta cristiana; nella maggioranza dei casi il cristianesimo ha
semplicemente perso di interesse, è diventato irrilevante, appunto. Questo documenta che il risveglio
dell’io, che il senso religioso, non è qualcosa di utile soltanto prima della fede, ma qualcosa di
decisivo in qualsiasi momento: è la sua vera verifica. E noi, senza questa verifica, pensiamo di
poter fare diversamente dagli altri? O finiremo come tutti? Non finiremo anche noi disinteressati
alla proposta cristiana se non facciamo la strada che don Giussani ci propone?Per questo, amici,
in una frase veramente sintetica ci dice quale sfida abbiamo davanti: «Mi ero profondamente
persuaso che una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata
da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un
mondo dove tutto, tutto, diceva e dice l’opposto».11 Ecco la questione decisiva: la necessità di
mettere a fuoco un’esperienza che possa resistere. Per questo, nella frase che ho appena citato,
don Giussani ci offre una triplice chiave per capire se stiamo facendo la strada giusta: che la fede
sia un’esperienza presente (non il racconto di fatti cui poi ciascuno appiccica sopra qualcosa),
un’esperienza giudicata, non una ripetizione di formule o di frasi o commenti; che la fede trovi
conferma della sua utilità per la vita nell’esperienza presente, nell’esperienza stessa (altrimenti
avremo sempre bisogno di un
_________________
10 - E.L. Fortin, «The regime of Separatism: Theoretical Considerations on the Separation of Church
and State», in Id. Human Rights, Virtue, and the Common Good, U.S.A. 1996, p. 8.
11- L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., p. 20.


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supplemento di certezza “dal di fuori”); che la fede si ritrovi in grado di resistere in un mondo
in cui tutto dice l’opposto. Soltanto se noi ci rendiamo conto di qual è la lotta in cui siamo
ingaggiati, possiamo prendere sul serio il lavoro che stiamo facendo e capire le ragioni per cui
Giussani ha fatto quello che ha fatto. Tutta la ragionevolezza della fede è qui: nella sua capacità
di esaltare l’umano per poter cogliere la pertinenza della fede alle esigenze della vita.
Cristianesimo e uomo condividono la stessa sorte!Questa esperienza presente della fede è
decisiva perché la novità introdotta nella storia e nella nostra vita dal Battesimo possa durare,
possa resistere in noi come coscienza, come ci ha ricordato il Papa di recente nella Messa del
Crisma: «San Pietro, nella sua grande catechesi battesimale, ha applicato tale privilegio e tale
incarico di Israele all’intera comunità dei battezzati, proclamando: “Voi (invece) siete stirpe
eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere
ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. Un tempo voi
eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio” (1Pt 2,9s). Battesimo e Confermazione
costituiscono l’ingresso in questo popolo di Dio, che abbraccia tutto il mondo; l’unzione nel
Battesimo e nella Confermazione è un’unzione che introduce in questo ministero sacerdotale
per l’umanità. I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere
visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui. Quando parliamo di questo
nostro comune incarico, in quanto siamo battezzati, ciò non è una ragione per farne un vanto.
È una domanda che, insieme, ci dà gioia e ci inquieta: siamo veramente il santuario di Dio nel
mondo e per il mondo? Apriamo agli uomini l’accesso a Dio o piuttosto lo nascondiamo?



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Non siamo forse noi – popolo di Dio – diventati in gran parte un popolo
dell’incredulità e della lontananza da Dio? Non è forse vero che l’Occidente, i Paesi centrali
del cristianesimo sono stanchi della loro fede e, annoiati della propria storia e cultura, non
vogliono più conoscere la fede in Gesù Cristo? Abbiamo motivo di gridare in quest’ora a Dio:
Non permettere che diventiamo un non-popolo! Fa’ che ti riconosciamo di nuovo! Infatti, ci
hai unti con il tuo amore, hai posto il tuo Spirito Santo su di noi. Fa’ che la forza del tuo
Spirito diventi nuovamente efficace in noi, affinché con gioia testimoniamo il tuo messaggio!
Nonostante tutta la vergogna per i nostri errori, non dobbiamo, però, dimenticare che anche
oggi esistono esempi luminosi di fede; che anche oggi vi sono persone che, mediante la loro
fede e il loro amore, danno speranza al mondo.
Quando il prossimo 1° maggio verrà beatificato Papa Giovanni Paolo II,
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Esercizi della Fraternità
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penseremo pieni di gratitudine a lui quale grande testimone di Dio e di Gesù Cristo nel nostro
tempo, quale uomo colmato di Spirito Santo».12 Il beato Giovanni Paolo II è il testimone
d’eccezione per affrontare questi giorni, e ci rende presente che è possibile vivere da cristiani
oggi. Noi abbiamo evidenti ragioni per sentire l’evento della beatificazione della sua persona
particolarmente vicino, per la storia che ci ha uniti a lui, perché possiamo rispondere a quello
che lui stesso ci aveva raccomandato: «Quando un movimento è riconosciuto dalla Chiesa, esso
diventa uno strumento privilegiato per una personale e sempre nuova adesione al mistero di Cristo.
Non permettete mai che nella vostra partecipazione alberghi il tarlo dell’abitudine, della routine,
della vecchiaia [l’esatto contrario della vita nuova]! Rinnovate continuamente la scoperta del
carisma che vi ha affascinati ed esso vi condurrà più potentemente a rendervi servitori di
quell’unica potestà che è Cristo signore!».13 Come non sentire particolarmente vivo questo
suo richiamo in un momento come questo, che coincide con la sua beatificazione? Chi di noi
non sente queste parole come una chiamata particolarmente pressante alla conversione?
Potremo rispondere adeguatamente a questo incarico solo se continuiamo a seguire il carisma
che ci ha affascinati, come cercheremo di fare durante questi Esercizi.
Chiediamo a Giovanni Paolo II e a don Giussani di renderci disponibili, all’inizio di questo
gesto, alla grazia di Cristo che continua a venirci incontro, per poter diventare – come loro-
testimoni.Un gesto di queste dimensioni è impossibile senza il contributo e il sacrificio di
ciascuno di noi, nell’attenzione agli avvisi, al silenzio, alle indicazioni. Ognuna di queste
cose è una modalità immediata della nostra domanda a Cristo affinché abbia pietà del nostro
niente, affinché non diventiamo non-popolo. Perché questa è la lotta, amici, non è cercare di
mettere a posto qualche cosa, perché il rischio è che noi perdiamo l’interesse, che diventiamo
non-popolo, come tanti intorno a noi. E tutti sappiamo il bisogno che abbiamo di silenzio,
che consente di lasciare penetrare fino al midollo ogni cosa che ci viene detta, e di fare
diventare questo silenzio grido, domanda a Cristo che abbia pietà di noi, del nostro niente.
______________
12 Benedetto XVI, Santa Messa Crismale, 21 aprile 2011.
13 Giovanni Paolo II, Discorso ai sacerdoti partecipanti all’esperienza del Movimento «Comunione e Liberazione», 12 settembre 1985.

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SANTA MESSA
OMELIA DI DON STEFANO ALBERTO
«Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli» (Gv21,14). Praticamente
ogni giorno la Sua presenza fisica, reale, questa vita nuova, aveva fatto irruzione nella
vita degli apostoli; eppure quella sera erano tristi, quella notte era stata infeconda.
Soprattutto Pietro pensava di poter entrare in rapporto lui, con quella nuova presenza del
Signore, secondo quello che già sapeva, secondo quello che era capace di fare:
«Vado a pescare». Non accade nulla, una infecondità totale.È solo l’iniziativa di Cristo,
è solo l’accadere reale della novità della Sua presenza che rispalanca tutta la nostra
umanità. Ma c’è un particolare: questo essere afferrati da Cristo, da Lui, non dalle nostre
immagini, non da quello che già sappiamo, neanche dalla ricchezza del patrimonio
di tanti anni di storia con Lui nel movimento, questo essere afferrati da Cristo accade,
per Pietro e per gli altri, attraverso colui che viveva fino in fondo il dramma della sua umanità,
che era il più attento: Giovanni è il primo ad accorgersi della Sua presenza. Il suo grido
squarcia la nostra sonnolenza, la nostra presunzione, la nostra distrazione: «È il Signore!».
Per noi Giussani è questo, il carisma è questo: la possibilità concreta di essere riacciuffati,
ma riacciuffati ora, perché è una voce che grida ora – mare di Tiberiade o mare di Rimini,
è lo stesso, non c’è nessuna differenza –, è un volto, è una mano che ci indica questa Presenza
che ci afferra a uno a uno. «È il Signore!».Chiediamo alla Madonna la grazia per ciascuno
di noi di non dormire e di non resistere.

Esercizi della Fraternità
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Sabato 30 aprile, mattina
All’ingresso e all’uscita:
Wolfgang Amadeus Mozart, Concerto per pianoforte e orchestra n. 23 in la maggiore, KV488
Wilhelm Kempff, pianoforte
Ferdinand Leitner - Bamberger Symphoniker, Decca

Don Pino. Chi è in Cristo è una creatura nuova, perché Cristo è qualcosa che mi sta accadendo ora.
Angelus
Lodi

PRIMA MEDITAZIONE
Julián Carrón

Il «misterio eterno dell’esser nostro»

Se avessimo chiesto alla Madonna come aveva iniziato a concepirsi sorprendendosi in
azione dopo l’annuncio dell’angelo, avrebbe usato parole simili a queste di don Giussani:
«Tutta la personalità della Madonna scaturisce dall’istante in cui le è stato detto: “Ave,
Maria”, quando cioè ha percepito quel segno, quel richiamo. Dall’istante dell’annuncio
ha assunto il suo posto nell’universo e di fronte all’eternità. Si è stabilita una sorgente
totalmente nuova di moralità nella sua vita. È scaturito un sentimento di sé profondo,
misterioso: una venerazione di sé, un senso di grandezza pari soltanto al senso del suo
niente a cui non ha mai pensato così».14 A chi di noi non piacerebbe vivere la vita tutta
dominata da questo sentimento di sé così profondo e misterioso, da questo senso di
grandezza, quanto più è cosciente del proprio niente? E se la stessa domanda l’avessimo
rivolta ad Andrea dopo l’incontro con Gesù avrebbe potuto guardare sua moglie e i suoi
bambini per intuire quello che gli stava accadendo e che lo aveva riempito di silenzio
sulla strada del ritorno: «E quando son tornati, la sera, sul finir della giornata –
ripercorrendo molto probabilmente la strada in silenzio, perché mai si erano parlati tra
loro come in quel
________________
14 - L. Giussani, Tutta la terra desidera il Tuo volto, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2000, pp. 146-147.

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Sabato mattina
grande silenzio in cui un Altro parlava, in cui Lui continuava a parlare e riecheggiava
dentro di loro –, e sono arrivati a casa, la moglie di Andrea, guardandolo, gli ha detto:
“Ma che hai, Andrea, che hai?”. E i figlioletti, stupiti, guardavano il padre: era lui, sì,
era lui, ma era “più” lui, era diverso. Era lui, ma era diverso. E quando – come abbiamo
detto una volta, commossi, con una immagine facile a pensarsi perché così realistica – lei
gli ha chiesto: “Che cosa è successo?”, lui l’ha abbracciata, Andrea ha abbracciato la sua
donna e ha baciato i suoi bambini: era lui, ma mai l’aveva abbracciata così! Era come
l’aurora o l’alba o il crepuscolo di una umanità diversa, di una umanità nuova, di una
umanità più vera. Quasi dicesse: “Finalmente!”, senza credere ai propri occhi. Ma era
troppo evidente perché non credesse ai propri occhi!».15 Che intensità umana! A chi non
piacerebbe sentire tutta la vibrazione di una umanità così nuova da poter abbracciare la
propria moglie così? E a quale moglie non piacerebbe sentirsi abbracciata così? Non un
discorso! Sentirsi abbracciata così! Non il marito che le ripete il discorso corretto, ma che
le fa fare esperienza di quello che le dice abbracciandola così! E a quale figlio non piacerebbe



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guardare suo padre quando tutto già incomincia a decadere per la logica normale della vita,
e dire stupito: «È lui, ma è più lui adesso che quando era giovane».Ma qualcuno può pensare
che la Madonna e Andrea potevano sperimentare l’altro mondo in questo mondo perché
era la prima volta. Poi sarebbe loro successo come a tutti, si sarebbero appiattiti. E questo
è come se ci confermasse nel nostro scetticismo: fu così, ma poi tutto decade. Che non
finisce così l’abbiamo visto tutti – tutti – con i nostri occhi! Chi non ricorda l’imponenza
della testimonianza di don Giussani in piazza San Pietro verso la fine della sua vita?!
«“Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?”.
Nessuna domanda mi ha mai colpito, nella vita, così come questa. C’è stato solo un
Uomo al mondo che mi poteva rispondere, ponendo una nuova domanda: “Qual vantaggio
avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà se stesso? O che cosa l’uomo
potrà dare in cambio di sé?”. Nessuna domanda mi sono sentito rivolgere così, che mi
abbia lasciato il fiato mozzato, come questa di Cristo! Nessuna donna ha mai sentito
un’altra voce parlare di suo figlio con una tale originale tenerezza e una indiscutibile
valorizzazione del frutto del suo seno, con affermazione totalmente positiva del suo
destino; è solo la voce dell’Ebreo Gesù di Nazareth. Ma più ancora, nessun uomo può
sentire se stesso affermato con dignità di valore assoluto, al di
_____________________
15- L. Giussani, “Il tempo si fa breve”, Cooperativa editoriale Nuovo Mondo, Milano 1994, p. 25.
13
Sabato mattina
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Esercizi della Fraternità

là di ogni sua riuscita. Nessuno al mondo ha mai potuto parlare così! Solo Cristo si prende
tutto a cuore della mia umanità. È lo stupore di Dionigi l’Areopagita (V secolo): “Chi ci
potrà mai parlare dell’amore all’uomo proprio di Cristo, traboccante di pace?”. Mi ripeto
queste parole da più di cinquant’anni!».16Ciascuno può fare il paragone con se stesso,
tra la sua esperienza umana e quella che ci testimoniano questi uomini e donne. Non
per sentirlo come l’ennesimo rimprovero al fatto che noi non siamo all’altezza – per la
nostra abituale tendenza a ridurre tutto in termini moralistici –, ma per renderci conto
di che cosa ci stiamo perdendo. È questa intensità che ci perdiamo, è questa vibrazione!
E ciascuno di noi sa che è vero, l’abbiamo sperimentato in certi momenti della vita.
Ma che distanza, tante volte, tra loro e noi. Altro che vivere col fiato sospeso di fronte
a Cristo: che riduzione ci troviamo addosso tante volte! Noi siamo insieme, amici,
per accompagnarci, per sostenerci, per testimoniarci a vicenda che in mezzo a tutti
i nostri limiti – i limiti non c’entrano, smettiamola, non c’entrano! – è possibile
vivere così.Ora, la prima cosa da capire, con la compagnia insostituibile di don
Giussani, è perché siamo così ridotti.

1. La confusione dell’io
«Dietro la parola “io” c’è oggi una grande confusione, eppure la comprensione di cosa
è il mio soggetto è il primo interesse. Infatti, il mio soggetto è al centro, alla radice di
ogni mia azione (è un’azione anche un pensiero). L’azione è la dinamica con cui io
entro in rapporto con qualsiasi persona o cosa. Se si trascura il proprio io, è impossibile
che siano miei i rapporti con la vita, che la vita stessa (il cielo, la donna, l’amico, la
musica) sia mia [...]: ormai la stessa parola “io” evoca per la stragrande maggioranza
un che di confuso e fluttuante, un termine che si usa per comodità con puro valore
indicativo (come “bottiglia” o “bicchiere”). Ma dietro la paroletta non vibra più nulla
che potentemente e chiaramente indichi che tipo di concezione e di sentimento un
uomo abbia del valore del proprio io. Per questo si può dire che viviamo tempi in cui
una civiltà sembra finire: l’evoluzione di una civiltà, infatti, è tale nella misura in cui
è favorito il venire a galla e il chiarirsi del valore del singolo io. Siamo
___________________
16 - L. Giussani, «Nella semplicità del mio cuore lietamente ti ho dato tutto», in L. Giussani – S.
Alberto – J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, pp. III-IV.

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Sabato Mattina
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in un’età in cui è favorita, invece, una grande confusione riguardo al contenuto della
parola io».17 È quel che descrive – per fare un esempio fra tanti – questo brano del
recente romanzo La controvita, di Roth: «Tutto ciò che posso dirti con certezza è che
io, per esempio, non ho un io, e che non voglio o non posso assoggettarmi alla buffonata
di un io. Quella che ho al posto dell’io è una varietà di interpretazioni in cui posso produrmi,
e non solo di me stesso: un’intera troupe di attori che ho interiorizzato, una compagnia
stabile alla quale posso rivolgermi quando ho bisogno di un io, uno stock in continua
evoluzione di copioni e di parti che formano il mio repertorio. Ma sicuramente non
possiedo un io indipendente dai miei ingannevoli tentativi artistici di averne uno. E non
lo vorrei. Sono un teatro e nient’altro che un teatro».18 Un’esperienza che non risponda
a questa mentalità diffusa, anche se facciamo tante riunioni e prendiamo tante iniziative,
è sconfitta! È l’eclissi dell’umanità, come dice ancora Heschel: «L’incapacità di percepire
il nostro valore [...] è di per sé una terribile punizione»,19 che noi paghiamo sulla nostra
pelle ogni giorno. Ma come mai è accaduto questo? «La prima constatazione all’inizio
di ogni seria indagine circa la costituzione del proprio soggetto è che la confusione che
oggi domina dietro la fragile maschera (quasi un flatus vocis) del nostro io viene, in parte,
da un influsso esterno alla nostra persona. Occorre tenere ben presente l’influsso decisivo
che ha su di noi quello che il Vangelo chiama “il mondo” e che si mostra come il nemico
del formarsi stabile, dignitoso e consistente di una personalità umana. C’è una pressione
fortissima da parte del mondo che ci circonda (attraverso i mass-media, o anche la scuola,
la politica) che influenza e finisce per ingombrare – come un pregiudizio – qualsiasi
tentativo di presa di coscienza del proprio io».20 Questo influsso esterno, questo “mondo”,
che cos’è? È il potere – come ci ha detto in tante occasioni don Giussani –, che non resta
fuori di noi (come dice Bernanos, parlando della opinione dominante: «Di fronte
a essa le energie si logorano, i caratteri si impoveriscono, le sincerità perdono la loro
chiarezza»),21 ma al contrario ci penetra così profondamente che diventiamo estranei a
noi stessi. Magari fosse soltanto una persecu-
_________________________
17 L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano 1995, pp. 9-10.
18 P. Roth, La controvita, Einaudi, Torino 2010, p. 388.
19 A.J. Heschel, Chi è l’uomo?, Se, Milano 2005, p. 43.
20 L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, op. cit., p. 10.
21 G. Bernanos, Un uomo solo, La Locusta, Vicenza 1997, p. 41.

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Esercizi fraternità
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zione esteriore e rimanesse intatta la nostra autocoscienza, magari! «Ciò che ci
circonda, la mentalità dominante, la cultura invadente, il potere, realizza un’estraneità
da noi stessi [ci strappa l’anima!]: è come se non ci fosse più nessuna evidenza reale
se non la moda, perché la moda è un progetto del potere».22 Ascoltiamo ancora don
Giussani: «La mentalità comune, creata dai mass-media e da tutta la trama di strumenti
che ha il potere – che vanno sempre più ispessendosi, tanto da fare dire a Giovanni
Paolo II che il pericolo dell’epoca che stiamo attraversando è l’abolizione dell’uomo
da parte del potere –, altera il senso di se stessi, il sentimento di sé, più precisamente,
atrofizza il senso religioso, atrofizza il cuore, meglio ancora, lo anestetizza totalmente
(un’anestesia che può diventare coma, ma è un’anestesia)».23 Segno di questa alterazione
del senso di sé, di questa estraneità, è la conseguente lettura che noi facciamo dei nostri
bisogni. Per questo don Giussani ci avverte: «Bisogna stare molto attenti perché troppo
facilmente non partiamo dalla nostra esperienza vera, cioè dalla esperienza nella sua
completezza e genuinità. Infatti spesso identifichiamo l’esperienza con delle impressioni
parziali, riducendola così a un moncone, come frequentemente avviene nel campo affettivo,
negli innamoramenti, o nei sogni sull’avvenire. E più spesso ancora noi confondiamo
l’esperienza [anche se l’abbiamo sempre sulle labbra] con dei pregiudizi o degli
schemi magari inconsapevolmente assimilati dall’ambiente [“coincidono” così tanto
con noi stessi che pensiamo siano nostri: fino a questo punto arriva l’incidenza del
potere!]. Per cui, invece di aprirci in quell’atteggiamento di attesa, di attenzione sincera,
di dipendenza, che profondamente l’esperienza suggerisce ed esige, noi imponiamo



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all’esperienza categorie e spiegazioni che la bloccano e la angustiano, presumendo di
risolverla [noi imponiamo gli schemi all’esperienza: si raccontano dei fatti, che non
portano alcuna chiarezza su di sé, ma solo commenti, il che vuol dire che non c’è
esperienza]. Il mito del “progresso scientifico che risolverà un giorno tutti i nostri
bisogni” è la formula moderna di questa presunzione, una presunzione selvaggia e
ripugnante: non li considera neanche i nostri bisogni veri, non sa neanche cosa siano;
si rifiuta di osservare l’esperienza con occhio chiaro, e di accettare l’umano in tutto
quello che esige. Per cui la civiltà di oggi ci fa muovere ciecamente fra questa esasperata
presunzione e la più oscura disperazione».24
___________________________
22 -L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), Bur, Milano 2010, p. 182.
23 Ibidem, pp. 364-365.
24 L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, pp. 84-85.
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Dice lo studioso francese Rey: «Siamo così abituati a questa miseria che il più delle
volte non la sentiamo neanche più»:25 ci accontentiamo.Ma Giussani ci avverte che
questo influsso del potere è in proporzione diretta con la nostra impotenza. Perché
dice questo? Perché «nessun esito umano può essere imputato esaustivamente a mere
circostanze esteriori, poiché la libertà dell’uomo, pure infragilita, resta contrassegno
indelebile della creatura di Dio».26 Il peccato originale ha debilitato il mio io, ma io
resto creatura di Dio, non mi identifico con un pezzo del meccanismo delle circostanze
del potere. Questo vuol dire che una incidenza così forte del potere su di noi si realizza
anche per una nostra connivenza. Quella che potrebbe sembrare un’ulteriore accusa di
Giussani in realtà diventa per lui la risorsa per la riscossa. L’uomo non è definitivamente
sconfitto. E per questo dice: «Non parliamo del potere perché abbiamo paura, parliamo
del potere perché abbiamo a svegliarci dal sonno. La forza del potere è la nostra impotenza.
[...] Comunque sia, noi non abbiamo paura del potere, abbiamo paura della gente che
dorme e, perciò, permette al potere di fare di loro quel che vuole. Dico che il potere fa
addormentare tutti, il più possibile. Il suo grande sistema, il suo grande metodo è quello
di addormentare, di anestetizzare, oppure, meglio ancora, di atrofizzare. Atrofizzare che
cosa? Atrofizzare il cuore dell’uomo, le esigenze dell’uomo, i desideri, imporre un’immagine
di desiderio o di esigenza diversa da quell’impeto senza confine che ha il cuore. E così
cresce della gente limitata, conclusa, prigioniera, già mezzo cadavere, cioè impotente».27
È quella «sonnolenza dei discepoli [che] rimane lungo i secoli l’occasione favorevole
per il potere del male»28 di cui parla il Papa nel suo recentissimo libro.
Come facciamo a sapere che il potere non ha ragione? «Tu sai che cosa c’è nel cuore
dell’uomo, perché è in te. Qual è il criterio per capire la verità sull’uomo (vedi Il
senso religioso)? È la riflessione su se stessi in azione [non il discorso corretto e pulito!].
Non ce n’è un altro».29 Non ce n’è un altro! Ma come ci ricorda Hannah Arendt:
«Purtroppo, sembra che sia più facile convincere gli uomini a comportarsi nel modo
più impensabile e
___________________
25 O. Rey, Itinéraire de l’égarement, Seuil, Paris 2003, p. 17.
26 L. Giussani, Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2003, p. 45.
27 L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), op. cit., pp. 173-174.
28 Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, LEV,
Città del Vaticano 2011, p. 172.
29 L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), op. cit., p. 365.

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oltraggioso, piuttosto che convincerli a imparare dall’esperienza, a pensare e a giudicare
veramente, invece di applicare categorie e formule precostituite nella nostra testa».30
Che aiuto potremmo darci se veramente ci accompagnassimo in questo! Mi scrive
un’amica: «Caro Julián, giovedì scorso ci siamo trovati a
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mangiare con alcuni amici del nostro gruppetto e con il nostro responsabile.
Abbiamo cercato di riprendere il lavoro sul quarto capitolo de Il senso
religioso. Raccontavamo dei fatti accaduti in quella settimana, fatti che ci
avevano colpito particolarmente, sia per ragioni positive che negative, e che
avevano suscitato in noi un certo tipo di stupore, gioia o dolore. Il nostro
responsabile ci esortava però a cercare in ciò che era accaduto “i fattori costitutivi
del nostro io”, senza scivolare in risposte già sapute e accomodanti
[mi consola che non capiti soltanto con me...]. Non ti nascondo che è stato
un lavoro molto provocante e, per quanto mi riguarda, anche doloroso. Mi
sono accorta che spesso tutto il grido e la domanda di bontà, giustizia e bellezza,
di fronte alle circostanze della vita, viene soffocato e sono tentata di
lasciarlo soffocare. Il mio grido autentico, il mio. Non quello dei colleghi
di lavoro, il mio. Non quello degli amici del movimento, il mio. Il mio, che
è assolutamente originale e mi fa percepire quella sproporzione immensa,
quella mancanza, quell’attesa. È come essere allo scoperto, non ti puoi più
nascondere dietro a il già saputo o dietro gli amici che “tanto la pensano
come te”. Ci sei tu e quel mistero immenso che è il tuo grido di fronte alle
circostanze, nelle circostanze a cui tieni di più. È un grido vertiginoso e io
spesso ho paura a starci di fronte. Paradossalmente ho avuto bisogno di un
amico per starci di fronte. Ho avuto bisogno della testimonianza di questo
mio amico, che ci ha sfidato tutti: lui era “da solo” contro tutti, eppure non
l’ho mai sentito così amico. Il lavoro è appena iniziato».Amici, dobbiamo
decidere in continuazione se seguire davvero don Giussani o soltanto avere
l’intenzione di seguirlo per poi appiccicare ai fatti i nostri pensieri.
Perché è soltanto sorprendendoci in azione, come lui ci insegna, che possiamo
far venire fuori tutto quello che noi siamo. In questo lavoro ci aiuta il capitolo
quinto de Il senso religioso (per continuare il nostro percorso), dove Giussani
descrive la vera natura dell’io, di un io non ridotto. Ciascuno può fare il paragone
tra quella vibrazione umana e l’appiattimento del desiderio che tante volte ci
troviamo addosso e nel quale, come dice don Giussani, hanno l’origine «lo
smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti».31

______________________________
30 H. Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2004, p. 31.
31 L. Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, p. 168.

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2. Il «misterio eterno dell’esser nostro»
«Nulla è così affascinante come la scoperta delle reali dimensioni del
proprio “io”, nulla così ricco di sorprese come la scoperta del proprio
volto umano»,32 ci dice ancora don Giussani. Per questo è un’avventura
appassionante, ma – come abbiamo appena sentito – per lanciarsi in
questa avventura e vincere quella estraneità da noi stessi occorre uno con
cui guardare il nostro umano, uno che non si spaventi del mio umano.
Come scrive una ragazza a un amico: «In questo momento sento proprio
il bisogno di parlare con te, adesso che quelle domande che per tanto
ho tenuto nascoste dentro di me, rinchiuse e incatenate, sono finalmente
esplose. Finalmente... Tutto ha cospirato e cospira contro di me, tutto,
persino mia madre mi diceva: “Stai tranquilla, passerà questa tristezza”;
oppure: “Non ci pensare”... Ma non è mai passata e non ho mai smesso
di pensarci perché è una necessità di senso attanagliante, che non mi
lascia e senza demordere mi tormenta ogni giorno, in ogni momento,
senza tregua. Tutti hanno cercato di addomesticarmi, di tranquillizzarmi,
di non farmi soffrire e rendere tutto più sopportabile, di sedare un cuore
inquieto che però non ha mai avuto intenzione di smettere di desiderare
e di chiedere di più. Poi sei arrivato tu. Io non ho mai avuto un amico
come te. Solo tu non ti sei spaventato né scandalizzato davanti al mio
dolore e davanti alla mia richiesta di infinito. Nessuno mi ha mai guardata
così. Il mio cuore ha tremato, ha vibrato come non mai. Sono stata
improvvisamente invasa dall’amara consapevolezza che finora nessuno
mi ha mai guardata come desideravo davvero, tutti hanno messo da parte
la mia scomoda urgenza, condividendo con me tutto tranne ciò che era
indispensabile. Ma una vita che non considera la mia umanità, le mie
richieste più viscerali e intime, non è vita, e non è neanche morte, è solo
un pianto disperato. Io non posso mettere da parte la mia ricerca di senso,
altrimenti soffoco, non posso proprio andare avanti, tutto è uguale,
piatto, inutile, noioso e terribilmente insopportabile. L’incontro con te
ha creato in me una pretesa nei confronti della mia vita intera, di ogni
secondo, e io non voglio più vivere per nulla di meno. Hai accesso in me
una passione, un gusto mai assaporato. Io ho bisogno accanto a me di
persone che siano all’altezza del pensiero che domina la mia vita, con le
quali io possa in ogni momento mettere a tema ciò che realmente vale. Io
voglio stare con te perché non mi riduci, non mi neghi, non mi mortifichi,
non mi consoli e non cerchi di darmi una risposta, non cerchi di distrarmi
__________________
32L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, op. cit., p. 9.

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o di tirarmi su il morale, ma condividi con me l’attesa, la domanda, la
nobiltà del nostro dolore, la grandezza di questo desiderio sconfinato e
la sproporzione che crea. Io ho bisogno di te perché mi fai guardare in
faccia e mi fai stare di fronte a questo terribile ma caro dolore, a questo
terribile ma caro pensiero che mi rende così umana».Pensiamo alla Samaritana:
lo sguardo di quell’Uomo ha svelato proprio – come è stato per questa ragazza
quel suo amico – la vera natura della sua «sete».33Perciò «la partenza per una indagine,
come quella che ci interessa, è dalla propria esperienza, da se-stessi-in-azione. [...]
Il fattore religioso rappresenta la natura del nostro io in quanto si esprime in certe
domande: “Qual è il significato ultimo dell’esistenza?”, “Perché c’è il dolore, la
morte, perché in fondo vale la pena vivere?”».(34)La prima caratteristica di queste
domande è di essere inestirpabili: «Queste domande si attaccano al fondo del nostro
essere: sono inestirpabili,perché costituiscono come la stoffa di cui è fatto».(35)
Afferma ancora Heschel: «Malgrado i fallimenti e le frustrazioni, continuiamo a sentirci
ossessionati da questa domanda inesprimibile e non sappiamo accettare l’idea che la
vita sia vuota, priva di significato».(36)E, come dice Leopardi, malgrado il naufragio
universale, la domanda permane: «Siccome torre / In solitario campo, / Tu stai solo,
gigante, in mezzo a lei».(37) Quel pensiero dominante «terribile, ma caro» (38) è
l’indizio di qualcosa che non annega nel contrasto accennato, che riemerge dal
naufragio universale, che «l’infinita vanità del tutto» (39) non riesce a togliere.
Pensiamo al figliol prodigo: quando si rende conto dell’infinita vanità delle cose,
l’urgenza umana diviene ancora maggiore di prima.Per questo, la seconda
caratteristica di queste domande è che esse sono inesauribili, hanno dentro una
esigenza di totalità: «In quelle domande l’aspetto decisivo è offerto dagli aggettivi e
dagli avverbi: qual è il senso ultimo della vita, in fondo in fondo di che cosa è
fatta la realtà? Per che cosa vale veramente la pena che io sia, che la realtà sia?
Sono domande che esauriscono l’energia, tutta l’energia di ricerca della ragione.
Sono domande che esigono una risposta totale che copra l’intero oriz-
______________________
33 Gv 4,15.
34 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p. 59.
35Ibidem, p. 61.
36A.J. Heschel, Chi è l’uomo?, op. cit., p. 71.
37 G. Leopardi, «Il pensiero dominante», vv. 18-20.
38Ibidem, v. 3.
39G. Leopardi, «A se stesso», v. 16.
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zonte della ragione, esaurendo tutta la “categoria della possibilità”. C’è
una coerenza della ragione infatti che non si arresta, se non arrivando a
una esaurienza totale. “Sotto l’azzurro fitto / del cielo qualche uccello di
mare se ne va; / né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: /
‘più in là!’”». (40)
Cominciare a riconoscere questo diventa luce per la strada della vita.
Guardate che cosa dice don Giussani commentando questo
passaggio di Montale: «Il problema è, infatti, non vivere i rapporti come
se fossero “dei”, come se fossero rapporti con il divino; sono rapporti
con il segno, perciò non possono compiere, possono diventare strada,
passaggio, segno, possono rimandare, come diceva Clemente Rebora
nella poesia che ho citato ne Il senso religioso: “Non è qui, non è per
questo”; tutte le cose che prendi ti dicono: “Non è qui, non è per questo,
non è per questo!”. E Montale, da un punto di vista pagano, ateo, dice:
tutte le cose stranamente gridano, portano scritto, “più in là”. E allora si
trattano non come se dicessero: “Io sono tutto”; e questo fa godere di più
le cose, le persone, perché, per esempio, è molto più affascinante l’essere
compagni di un cammino che complici di un godimento provvisorio».(41)
Ciascuno di noi può scegliere.Per questo una persona veramente attenta
all’esperienza non può non riconoscere la sproporzione strutturale che
costituisce il nostro io, e che Leopardi ha descritto in modo insuperabile in
questo testo: «Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per
dir così, della terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il
numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino
alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e
l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora
più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e
di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno
di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana».(42)Che sentimento
di grandezza! «L’inesauribilità delle domande esalta la contraddizione fra
l’impeto della esigenza e la limitatezza della misura
umana nella ricerca. Eppure noi leggiamo volentieri un testo in quanto
la vibrazione di quelle domande e la drammaticità di quella sproporzione ne
sottende la tematica».
___________________________________
43 Questa contraddizione irrisolvibile è il
40 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 61.
41 L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), op. cit., p. 385.
42 G. Leopardi, Poesie e prose, Mondadori, Milano 1980, Vol. II, p. 321.
43 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 63.

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«Misterio eterno / Dell’esser nostro», (44) che è la cosa che manca di più tra
noi proprio per la ragione detta: per l’influsso che il potere ha su di noi,
con la nostra connivenza. Non manca Dio, manca il mistero del nostro io,
questo eterno mistero del nostro essere! Per cui non abbiamo bisogno di
Lui e perciò cerchiamo la risposta dove la cercano tutti.



22
Ma quando uno incomincia a sperimentare riflessivamente questo
eterno mistero del proprio essere, allora inizia a vincere quella confusione
che rovina la vita e si scopre addosso una chiarezza di giudizio unica.
Ecco l’esempio drammatico di un amico che mi scrive: «Caro Julián,
ti voglio raccontare un fatto che mi sta sconvolgendo la vita. Lo faccio
dopo il tuo richiamo all’ultima Scuola di comunità, in cui, citando il testo
del canto Il mio volto, dicevi: “‘Guardo il mio fondo e vedo il buio senza
fine’. Se noi non sorprendiamo questo, è perché quello che ci manca di
più – ci ritornerò agli Esercizi della Fraternità – è il senso del Mistero.
E lo si vede dal fatto che noi, alla fine, cerchiamo la soddisfazione della
vita dove la cercano tutti”. Bene: io, in CL da anni, sposato con moglie
e figli, mi sono innamorato di una ragazza. Ci ho messo un po’ a capirlo,
perché in fondo in fondo non volevo ammetterlo, ma è così. Cercavo di
respingere questa evidenza appiccicando “Cristo” alla nostra amicizia,
ma era evidente che era solo una consolazione psicologica per non guardare
la deriva del mio io. Ogni fibra del mio essere vibra per il volto di
quella persona. Se ho preso coraggio e ho deciso di scriverti è perché
dopo la Scuola di comunità sul capitolo “Il senso religioso: il punto di
partenza” ho cominciato a guardare fino in fondo la mia situazione per
sorprendere in azione i fattori costitutivi del mio io, e ho scoperto di essere
veramente un bisogno senza fondo, che non può appagare nemmeno
il volto così bello e puro di quella ragazza. È bastato un istante in cui ho
riconosciuto questa evidenza che subito la confusione alimentata da questa
situazione si è dissolta, senza togliere il sacrificio enorme del distacco
da lei e il dolore che provo quando penso a mia moglie a cui voglio un
bene dell’anima, ai miei dolcissimi bimbi, ai miei amici e testimoni. Per
la prima volta percepisco fino in fondo il mistero del mio essere, la sua
vastità infinita e allo stesso tempo la sua nullità e piccolezza. La sorpresa
è che, dentro tutto questo dolore, vedo davanti a me la bellezza e la
convenienza della strada veramente umana che ci stai proponendo, con
una decisione e una franchezza che sono per me il segno più grande della
tenerezza di Dio per il mio niente. Se Cristo non fosse una presenza reale

(44) G. Leopardi, «Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento
sepolcrale della medesima», vv. 22-23.

22

Sabato mattina

23
per me, non sarei in grado di guardarmi così e di questo sono veramente
grato, perché non devo buttare via niente del mio umano, anzi, tutto quello
che mi sta accadendo è una provocazione a chiedermi di Chi sono io,
a Chi voglio dare tutta la mia vita. Non voglio più vivere come se avessi
l’elettroencefalogramma piatto».
È soltanto così che la vita può essere risolta al di fuori di un moralismo sterile.
Se noi siamo in grado di guardare fino in fondo il mistero del
nostro essere, allora tutto è piccino per la capacità dell’animo – quante
complicazioni della vita per non capire questo... –, perché non risolve
niente andare dietro alla prima che passa, non risolve niente, complica
ancor di più tutto, per poi ritrovarsi da capo. E a questo non possiamo
rispondere soltanto moralisticamente: «Perché è proibito», per poi dire a
noi stessi: «Ma in fondo ci perdiamo il meglio». Significa che non abbiamo
capito niente! Come dice Gertrud von le Fort: ogni cosa considerata
dal punto di vista religioso acquista lucidità e chiarezza.
Allora, guardarci per il mistero che siamo ci fa capire ciò che ci troviamo
addosso (e che tante volte ci sconcerta), come per esempio la
tristezza, «la grande tristezza, carattere fondamentale della vita consapevole
di sé, “desiderio di un bene assente”, diceva san Tommaso».(45)
Quando sento tristezza è perché desidero un bene che è ancora assente.
Per questo essere consapevole del valore di tale tristezza si identifica con
la coscienza della statura della vita e con il sentimento del suo destino.
E allora uno può sentire la verità di questa tristezza come ce la descrive
Dostoevskij (altro che una disgrazia!): «Quella eterna santa tristezza che
qualche anima eletta, una volta che l’abbia assaporata e conosciuta, non
scambierà poi mai più con una soddisfazione a buon mercato».(46)
E riferendosi ancora a Dostoevskij, don Giussani prosegue: «Se la
tristezza è scintilla che scatta dalla vissuta “differenza di potenziale” tra
la destinazione ideale e l’incompiutezza storica, l’appiattimento di quella
“differenza” – comunque avvenuto – crea l’opposto logico della tristezza,
la disperazione: “Già la sola idea costante, ch’esista qualcosa di
infinitamente più giusto e più felice di me, mi riempie tutto di smisurata
tenerezza e di gloria, oh, chiunque io sia, qualunque cosa abbia fatto!
All’uomo assai più indispensabile della propria felicità, è sapere e ad
ogni momento credere che c’è in un certo luogo una felicità perfetta e
calma, per tutti e per tutto... Tutta la legge della esistenza umana consiste
solo in ciò: che l’uomo possa sempre inchinarsi dinanzi all’infinitamente
_______________________
(45) L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 67.
(46) Cfr. F. Dostoevskij, I demoni, Garzanti, Milano 1993, Vol. I, p. 43.
23
Esercizi della Fraternità
24
grande. Se gli uomini venissero privati dell’infinitamente grande, essi
non potrebbero più vivere e morrebbero in preda alla disperanza”».(47)
Per questo l’io sorpreso in azione si rivela come promessa, come ha
descritto in modo geniale Pavese: «Ciò che un uomo cerca nei piaceri
è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire
questa infinità»,(48)perché «l’attesa è la struttura stessa della nostra natura,
[...] strutturalmente la vita è promessa».(49) Non lo decidiamo noi, è così.
Perciò, quanto più uno entra nel mistero del proprio essere tanto più
si rende conto di che cosa è la vera solitudine – che non è il sentimento
passeggero del sentirsi soli, questo non sarebbe niente –: «Si può
benissimo dire che il senso della solitudine nasce nel cuore stesso di ogni serio
impegno con la propria umanità [quanto più uno è serio con la propria
umanità, tanto più si rende conto della natura dei propri bisogni e sente
tutta l’impotenza a rispondere a essi]. Può capire bene tutto ciò chi abbia
creduto di aver trovato la soluzione di un suo grosso bisogno in qualcosa
o in qualcuno: e questo gli sparisce, se ne va, o si rivela incapace. Siamo
soli coi nostri bisogni, col nostro bisogno di essere e di intensamente
vivere. Come uno, solo, nel deserto, l’unica cosa che possa fare è aspettare
che qualcuno venga. E a risolvere non sarà certo l’uomo; perché da
risolvere sono proprio i bisogni dell’uomo».(50)
Allora è proprio a questo punto che possiamo incominciare a intravedere
qual è la vera compagnia: «Il filosofo americano Alfred N.
Whitehead definisce così la religione: “Quello che l’uomo fa nella sua
solitudine”. La definizione è interessante anche se non dice tutto il valore
da cui parte l’intuizione che l’ha generata. Infatti questa domanda



23
ultima è costitutiva dell’individuo, e in tal senso l’individuo è totalmente
solo: lui stesso è quell’interrogativo, e nient’altro. Perciò se si guarda
un uomo, una donna, un amico, un passante senza che echeggi in noi il
riverbero di quella domanda, di quella sete di destino che lo costituisce,
il nostro non sarebbe un rapporto umano, e tanto meno potrebbe essere
un rapporto amoroso a qualunque livello: non rispetterebbe infatti la
dignità dell’altro, non sarebbe adeguato alla dimensione umana dell’altro.
La stessa domanda, però, nel medesimo istante in cui definisce la mia
solitudine pone la radice della mia compagnia, perché significa che io
sono costituito da un’altra cosa, sia pur misteriosa. Dunque, se si volesse
______________________________
(47) L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 69.
(48) C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1973, p. 190.
(49) L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 71.
(50)L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, op. cit., pp. 85-86.

Esercizi della Fraternità
25
completare la definizione del filosofo americano, la religione è sì ciò che
l’uomo fa nella sua solitudine, ma è anche ciò in cui scopre la sua essenziale
compagnia. Tale compagnia è poi più originale della solitudine, in
quanto quella struttura di domanda non è generata da un mio volere, mi
è data. Perciò, prima della solitudine sta la compagnia, che abbraccia la
mia solitudine, per cui essa non è più vera solitudine, ma grido di richiamo
alla compagnia nascosta».(51) Per questo, chi vive questa solitudine,
questa impotenza, questa mancanza, non può non gridare, come nella
poesia di Luzi: «Di che è mancanza questa mancanza, / cuore, / che a un
tratto / ne sei pieno? / di che?».(52)

3. La nostalgia del Tu
Questo è il culmine della ricerca, questo è il culmine che sorprendiamo
in noi, dove l’io esprime ciò che è, se non viene ridotto. Come
documenta meravigliosamente la poesia di Lagerkvist: «Uno sconosciuto
è il mio amico, uno che io non conosco [non so cosa cerco, non lo conosco].
/ Uno sconosciuto lontano lontano. / Per lui il mio cuore è colmo di
nostalgia. / Perché egli non è presso di me. / Perché egli forse non esiste
affatto? Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? / Che colmi
tutta la terra della tua assenza?».(53)Con questa parola – nostalgia –
Lagerkvist descrive in un modo semplice quel che Giussani scrive alla
fine del capitolo quinto: «L’affermazione della esistenza della risposta,
come implicata nel fatto stesso della domanda». (54)
La nostalgia è un’esperienza umanissima attraverso cui tutti
possiamo capire che il fatto stesso di averla implica che esista l’altro di
cui ho nostalgia, altrimenti non ci sarebbe la nostalgia come esperienza,
non sentiremmo la mancanza di nessuno. Pensate se avete provato nostalgia
di qualcosa, di qualcuno, se non è perché già c’era e c’è.
Allora un io che non è ridotto è un io che ha questa nostalgia dentro,
questa nostalgia di un Tu reale e misterioso, una nostalgia che è dentro lo
stesso identico slancio con cui entra in rapporto con il reale. Come i Salmi
testimoniano in un modo unico: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti
cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra de-
______________________
(51)L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., pp. 74-75. - (52)M. Luzi, «Di che è mancanza», vv. 1-5.
53 P. Lagerkvist, «Uno sconosciuto è il mio amico», in Poesie, Guaraldi-Nuova Compagnia
Editrice, Rimini-Forlì 1991, p. 111.
54L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 76.
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Esercizi della Fraternità
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serta, arida, senz’acqua. Così nel santuario ti ho cercato, per contemplare
la tua potenza e la tua gloria. Poiché la tua grazia vale più della vita, le
mie labbra diranno la tua lode. Così ti benedirò finché io viva, nel tuo
nome alzerò le mie mani. Mi sazierò come a lauto convito, e con voci di
gioia ti loderà la mia bocca. Quando nel mio giaciglio di te mi ricordo e
penso a te nelle veglie notturne, a te che sei stato il mio aiuto, esulto di
gioia all’ombra delle tue ali. A te si stringe l’anima mia e la forza della
tua destra mi sostiene».(55)Oppure: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua,
così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio
vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?».(56)Non manca Dio, manca
un io così! Che abbia dentro tutta la nostalgia, tutta la sete… Capite perché
Gesù dice: «Beati quelli che hanno fame e sete»? (57)Beati! Soltanto un vero
io ridestato può riconoscerLo, commosso. E questo conferma la ragionevolezza
del percorso che ci fa fare don Giussani – mi sembra! –, e che non ce lo
risparmi è decisivo: è una grazia.
La lotta con il potere è a questo livello. Un io così è la vittoria sul
potere, sul tentativo del potere di ridurlo nello slancio del suo desiderio,
di appiattirlo. Per un io così le offerte del potere sono briciole, perché sa
che nessuna elargizione può bastare, nessun posto al sole è sufficiente per
un io cosciente del proprio bisogno, perché un uomo così sa dove trovare
il suo riposo, un riposo all’altezza del suo bisogno, ed è l’unico che veramente
riposa: «Ci hai fatto, Signore, per Te e il nostro cuore è inquieto fin quando
non trovi riposo in Te».(58)Più un essere umano è cosciente che solo Lui può
costituire il suo vero riposo, più è commosso del fatto stesso checi sia Dio.
Non può evitare di essere invaso dalla commozione che ci sia, come ripeteva
tanto spesso don Giussani: «Il mio cuore è lieto perché Cristo vive».(59)
Per questo la Sua presenza ci riempie di silenzio: «Al tuo nome e al
tuo ricordo si volge tutto il nostro desiderio». (60) Ma questo desiderio non
può sopravvivere neanche pochi minuti se non diventa domanda, perché
la vera forma del desiderio è la domanda: si chiama preghiera.

_____________________________________
(55) Sal 63,2-9.
(56) Sal 42,2-3.
(57)Mt 5,6.
(58)Sant’Agostino, Confessioni, I, 1.
(59)L. Giussani, L’Alleanza, Jaca Book, Milano 1979, p. 106.
(60)Is 26,8.

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Sabato 30 aprile, pomeriggio
All’ingresso e all’uscita:
Wolfgang Amadeus Mozart, Concerto per pianoforte in do minore n. 24, K 491
Clara Haskil, pianoforte
Igor Markevitch - Orchestre des Concerts Lamoureux
“Spirto Gentil” n. 32, Philips

SECONDA MEDITAZIONE
Julián Carrón
«Ubi fides ibi libertas»





«È bella la strada per chi cammina».(61) E camminare è una decisione
che ciascuno deve prendere in continuazione perché, malgrado la stoffa
dell’umano di cui siamo stati fatti sia accessibile all’uomo veramente
attento all’esperienza e all’io che si osserva in azione, tutti sappiamo
quanto siamo lontani dall’avere questa chiarezza. Solo alcuni uomini, in
alcuni momenti culminanti, riescono a cogliere il fondo di sé, a diventare
veramente coscienti di sé. Di solito quello che prevale – lo sappiamo
bene, basta osservare come ci muoviamo tante volte –, per l’influsso del
potere o per la nostra connivenza e distrazione, è la confusione, e allora
uno non cammina.Le conseguenze di questo non-camminare le descrive
don Giussani in modo stupefacente nel capitolo ottavo de Il senso religioso.
Sono micidiali, basta un sommario elenco: lo svuotamento della personalità (che
resta in balìa della reattività), l’aridità nei rapporti, il dialogo ridotto a
chiacchiera, la solitudine come assenza di significato (di cui i sintomi
più gravi sono l’esasperazione, la violenza e l’essere sempre più vulnerabili).
Perciò chi si rende veramente consapevole di questo capisce qual è la
drammatica situazione in cui tante volte ci troviamo. Dice von Balthasar:
«Siccome una gran parte di ciò che è più profondo nell’uomo è rimasto coperto
e dimenticato a causa dell’allontanamento da Dio, quella profondità [dell’essere,
quella venerazione di sé, quella autocoscienza vera] può essere elevata alla luce
della memoria e dell’autocomprensio-
__________________________
(61) C. Chieffo, «La strada», in Canti, Società Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 2002, p. 245.


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Esercizi della Fraternità
ne dell’uomo soltanto attraverso l’incarnazione di Dio».(62)
Questa è la ragione per cui Dio si è messo alla ricerca dell’uomo:
«Egli viene incontro all’inquietudine del nostro cuore, all’inquietudine
del nostro domandare e cercare».63
È in questa situazione che il cristianesimo deve mostrare la sua capacità di risvegliare l’io, questo io tante volte già rassegnato, convinto
di bastare a se stesso tanto è ridotto. Se riesce a ridestarlo, questa sarà la
verifica più potente della fede.

1. Solo Cristo salva l’umano
«Solo il divino può “salvare” l’uomo, cioè le dimensioni vere ed
essenziali dell’umana figura e del suo destino solo da Colui che ne è
il senso ultimo possono essere “conservate”, vale a dire riconosciute,
conclamate, difese»,64 ci ha insegnato don Giussani.
«È un avvenimento la positiva risposta alla drammatica dispersione
in cui la società ci fa vivere. È solo un avvenimento [...] che può rendere
chiaro e consistente l’io nei suoi fattori costitutivi. È questo un paradosso
che nessuna filosofia e nessuna teoria – sociologica o politica – riesce
a tollerare: che sia un avvenimento, non una analisi, non una registrazione
di sentimenti, il catalizzatore che permette ai fattori del nostro io
di venire a galla con chiarezza e di comporsi ai nostri occhi, davanti
alla nostra coscienza, con limpidità ferma, duratura, stabile. [...]
È l’avvenimento cristiano infatti il catalizzatore adeguato della conoscenza
dell’io, ciò che rende possibile una chiara e stabile percezione dell’io,
che permette all’io di diventare operativo come io. Al di fuori
dell’avvenimento cristiano non si può capire che cos’è l’io.


28
E l’avvenimento cristiano è – secondo quanto è già emerso a riguardo dell’avvenimento
come tale – qualcosa di nuovo, di estraneo, che viene dal di fuori, perciò
qualcosa di non pensabile, di non supponibile, di non riconducibile a
una ricostruzione nostra, che fa irruzione nella vita. [...] Quest’incontro
mi apre gli occhi su me stesso, suscita un disvelamento di me, si dimostra
corrispondente a quello che sono: mi fa accorgere di quel che sono,
di quel che voglio, perché mi fa capire che quel che porta è proprio quel
_________________________________
62 Cfr. H.U. von Balthasar, Wenn ihr nicht werdet wie dieses Kind, Johannes Verlag, Einsiedeln 1988.
63 Benedetto XVI, Santa Messa Crismale, 21 aprile 2011.
64 L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, p. 104.

Esercizi della Fraternità- Sabato pomeriggio
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che voglio, corrisponde a quel che sono».65Questa è la conferma della
strada che stiamo cercando di fare, perché è soltanto un avvenimento che
ridesta l’io, non un accanimento nel ripetere certe formule; solo
l’avvenimento cristiano mi fa capire il mio io, e per questo nella Scuola
di comunità abbiamo insistito cercando di testimoniarci a vicenda come
abbiamo sorpreso il Suo accadere in noi, perché è questo risveglio dell’io
che testimonia l’avvenimento cristiano.
Stiamo cercando di capire chi è Cristo osservando che cosa riesce a
destare in noi, per comprendere noi stessi, per diventare più consistenti,
più stabili come coscienza, per essere meno in mano al potere, per avere
una intelligenza più grande del reale, per essere noi stessi, perché nessuno
ci imbrogli. Cristo è così corrispondente a ciò che sono io che quando Lo
incontro posso finalmente capire di Chi è mancanza la mancanza che provo,
di Uno che mi dice: «Io sono il Mistero che manca a ogni cosa che tu
gusti, a ogni promessa che tu vivi. Qualunque cosa tu desideri, cerchi
di raggiungere, io sono il Destino di tutto ciò che fai. Tu cerchi me in
qualsiasi cosa!».(66)L’autore francese Chrétien ha identificato bene che
questa consapevolezza è possibile solo per il cristianesimo: «Che il più
alto desiderio, e quel che fa la grandezza dell’uomo, sia il desiderio all’infinito,
il desiderio che nulla ferma o addormenta, poiché nulla di finito può
soddisfarlo, ciò costituisce un pensiero propriamente cristiano, per il
fatto che il desiderio all’infinito ha per verità il desiderio dell’infinito, il
desiderio di Dio stesso. Un tale pensiero si oppone radicalmente a tutta
la saggezza greca antica, per la quale un desiderio senza limite sarebbe il
segno della dismisura e della follia, il cammino sicuro verso l’infelicità
o la disperazione». (67)E fino a che punto il pensiero antico ritorni si vede
da come tante volte i genitori incominciano a dire ai figli che è una follia
desiderare così: non essendo in grado di capire se stessi, non riescono a
capire i figli (e così i professori con gli studenti). È Cristo che fa venire
fuori tutta la mia umanità, tutto il mio desiderio, perché, come dice
Kierkegaard, «solo quando compare l’oggetto, compare il desiderio».68
Quindi il mio desiderio, così sproporzionato alle mie forze, mi dà una
chiarezza potente sulla mia mancanza; ed è la testimonianza più grande
______________________
65 L. Giussani, «In cammino», in Tracce-Litterae Communionis, n. 2, febbraio 2000, pp. III, VI,VIII.
66 L. Giussani, Avvenimento di libertà, Marietti, Genova 2002, p. 149.
67 J.-L. Chrétien, La Joie spacieuse, Les Éditions de Minuit, Paris 2007, p. 196.
68 S. Kierkegaard, Don Giovanni, M.A. Denti, Milano 1944, p. 87.

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di Cristo, il segno più palese della Sua contemporaneità: non si tratta
di parlare di Cristo, ma di un io con questo desiderio! Noi conosciamo
tante persone che parlano di Cristo, ma quante ne conosciamo che non
siano scettiche, che a una certa età abbiano ancora vivo un desiderio di
vita? Se questo testimonia la contemporaneità di Cristo, quando uno
vede una cosa così, altro che creazione dell’uomo la fede! È impossibile
all’uomo creare la fede, perché un uomo così risvegliato nel proprio
desiderio è la cosa più umanamente impossibile. Una cosa del genere
l’uomo non la poteva neanche sognare, anzi, gli sembrava una follia.
Perciò la nostra umanità risvegliata è l’apologia più grande di Cristo.
È questo che riempie di meraviglia Isacco di Ninive: «Quanto è stupenda
la meditazione della tua costituzione, o uomo! Ma più stupendo
di essa è il mistero del tuo risveglio».69
Il risveglio dell’io mostra che Cristo non risolve il dramma dell’io
eliminando il desiderio umano, bensì esaltandolo, approfondendo il senso
del mistero. Che soluzione sarebbe quella che finisse con l’appiattimento
del desiderio o con la sua soppressione? Chi riconosce Cristo,
invece, vede la sua umanità portata al di là di ogni immaginazione. Per
questo l’approfondirsi in noi del senso del mistero è il segno della Sua
presenza.
Diceva un amico nel corso di una testimonianza pubblica: «Il mio
percorso esistenziale degli ultimi sei anni, il cui punto principale di
novità posso descrivere come l’“esplosione” della sproporzione strutturale,
è stato il radicalizzarsi della percezione del mio bisogno umano,
di una domanda di significato, quasi lancinante in certi momenti, unita
alla percezione dell’impossibilità umana a colmarlo e alla caduta di tante
illusioni. La prima cosa che voglio dirvi è che guardare Carrón in
questi anni ha voluto dire che la mia domanda radicale si risvegliasse,
innanzitutto che mi rendessi conto che io avevo ridotto tutta la storia
precedente, che il mio risveglio non è dipeso dallo “studiare” Il senso
religioso, ma dalla convivenza con l’avvenimento di Cristo che alcuni
amici mi testimoniavano. L’incontro con un testimone vivo non mi
ha reso più granitico; io pensavo che diventare maturi volesse dire un
po’ l’atarassia. Invece mi ritrovo molto più fragile, molto più turbato,
molto più vulnerabile, molto più colpito dalla malattia di qualcuno o
da un progetto che non si realizza, da un desiderio che non si avvera,
dall’angoscia per le sorti di un amico e del mondo. La ferita è molto
più radicale di prima (la ferita esistenziale, personale, psicologica), e
____________________
69 -Isacco di Ninive, Discorsi spirituali, Qiqajon, Magnano (Bi) 2004, pp. 141-142.


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Esercizi della Fraternità
31

le cose e le persone mi turbano molto di più; ma, nello stesso tempo,
la cosa nuova è che percepisco che nessuno può rispondere a questa
voragine, se non Qualcuno non riducibile alla natura. È un’apertura a un
Altro da sé. Cioè: mi sono accorto in questi anni, in questa convivenza,
dell’inganno che è cercare di riempire la domanda umana con qualcosa
di meno di quello che può soddisfarla, che può benissimo essere vissuta –
essendo del Gruppo adulto – fedelmente, come mi sembra di aver
tentato di vivere in questi anni; ma la speranza umana non è in Cristo
presente, e si vivono come vite parallele (il dualismo di cui spesso parliamo):
da una parte, affermi Cristo e pensi di pregare, ma il criterio di
giudizio che usi nel rapporto con la realtà è basato su altro. Se io sono
così bisognoso, non una volta, ma ogni volta ho bisogno di reincontrare
questa Presenza; se non reincontro questa Presenza non sto bene, e certi
giorni è proprio una percezione fisica, come se una ferita ti trapassasse
il cuore, e ho bisogno di vedere i fatti Suoi, perché questi fatti sono il
balsamo del baratro che ho dentro. E così è successa una cosa strana,
che la Presenza ha scatenato la percezione della mia sproporzione, ma
la sproporzione mi ha messo in grado di vedere questa Presenza in cose
a cui prima non badavo».
È un rifiorire così del proprio io la verifica della fede e della vocazione,
davanti alla quale uno non può che provare stupore e una gratitudine
infinita. Gratitudine per che cosa? Perché Lui c’è, perché Cristo c’è ed è
presente. E quanto più uno scopre il proprio bisogno, tanto più si rende
conto che questo bisogno non lo risolve con un discorso, con la teoria
giusta, con l’interpretazione giusta (neanche l’interpretazione giusta di
Giussani), con le opere, con le iniziative, con il lavoro, con la carriera,
con certi rapporti affettivi. Non lo riempie con alcuna cosa. Per trovare
risposta a questo io così percepito, con tutta la sua imponenza di mistero,
occorre reincontrare la Sua presenza, perché niente ci basta. Non
serve altro, e per questo avere rapporto con Lui è l’unica possibilità di
trovare quel che corrisponde.
È soltanto con amici così che siamo in grado di fare una lettura vera
dei nostri bisogni. Abbiamo detto, questa mattina, che tante volte noi riduciamo
i bisogni. «L’incontro libera i tuoi bisogni, li libera dalla ganga
di quella interpretazione riduttiva che tende a funzionalizzare tutta la tua
persona al potere».70
Giussani insiste: «Ora, l’incontro genera, suscita – se è sincero il
cuore, se ha un minimo di sincerità – una compagnia diversa, che si
____________________
70 L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), op. cit., p. 377.

Sabato pomeriggio
32
oppone a quella della società, una compagnia come la nostra! In essa la
lettura dei bisogni è trasformata, la lettura che essa dà dei bisogni vince
la suggestione della società, vince la suggestione del potere, di quello
che il potere ti inculca; in questa compagnia i bisogni si incominciano a
leggere secondo la verità che hai incontrato».71
E più avanti aggiunge:
«Allora, l’incontro, “istintivamente”, genera una compagnia, un’affinità
con la persona che si è incontrata, con altri che l’hanno incontrata; così
nasce un gruppo, nasce una compagnia, nasce un movimento. In questa
compagnia, in questo movimento, si leggono in un modo vero i bisogni
che si hanno. E, perciò, si determina un contrasto, questa compagnia
diventa una “polis parallela”, diventa un’“umanità parallela”; uno incomincia
a capire cosa voglia dire rapporto con la donna, cosa voglia dire
rapporto di amicizia, cosa voglia dire il rapporto con l’uomo come tale,
cosa voglia dire il rapporto con il tempo, cosa voglia dire il passato, cosa
voglia dire l’errore, lo sbaglio, il peccato, cosa voglia dire il perdono.
Insomma, incomincia a capire, a capire che prima non capiva, che gli
altri non capiscono, e gli viene una compassione per tutti. È come uno
che fosse vissuto in una botola, nato e vissuto lì, credendo che il mondo
fosse la botola, e improvvisamente scattasse fuori: “Oddio, è un altro
mondo!”».72Come si genera un io così?

2. La generazione del nostro volto umano
Ascoltiamo don Giussani: «Il potere non può impedire il destarsi
dell’incontro, ma cerca di impedire che diventi storia; vale a dire, non
può impedire totalmente il destarsi dell’incontro, ma appena se ne accorge
tenta di impedire che diventi storia»,(73) cioè che agisca sulla tenuta
nel tempo, sulla durata, sul rimanere di quello che si è svegliato. E come
agisce? Cercando di ridurre i nostri desideri appena sono stati ridestati
dall’incontro. E quante volte ci sorprendiamo tornando alla situazione di
prima: «Basta guardare quali grandi squarci di vuoto si aprono nel tessuto
quotidiano della nostra coscienza e quale sperdutezza di memoria»(74)
ci troviamo addosso tante volte.
____________________________
(71)-Ibidem, pp. 362-363. (72) Ibidem, p. 364. (73) Ibidem, p. 247.
74 - L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, op. cit., p. 9.


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Perché la novità introdotta dall’incontro diventi consistente in modo
tale che non soltanto non ritorniamo alla situazione di prima o, peggio
ancora, diventiamo scettici, ma si approfondisca la percezione del
nostro mistero, occorre fare una strada, una strada affascinante, perché
nulla è così affascinante come la scoperta delle reali dimensioni del nostro
io, nulla è così ricco di sorprese come la scoperta del proprio vero
volto umano.Impressiona leggere il suggerimento che don Giussani dava
ai maturati, anni fa, per incoraggiarli in questa avventura – mi sembra che serva
anche a noi –: «Aspettatevi un cammino, non un miracolo che eluda le
vostre responsabilità, che elida la vostra fatica, che renda meccanica
la vostra libertà. No! Non aspettatevi questo. È questa una differenza
profonda da prima, dal cammino percorso fino adesso: la differenza
profonda è che non potrai seguirmi, non potrai seguirci se non teso a
comprendere. Finora hai potuto seguire anche senza capire, anche senza
essere teso a capire; adesso non potrai più seguirci se non teso a capire.
E finora hai potuto seguire senza amare niente; adesso dovrai incominciare
ad amare realmente, dico, la vita e il suo destino. Altrimenti sì, se
non sei teso a capire e se non sei teso ad amare la vita e il suo destino,
allora ci lascerai: solo in quel caso» (75)Perché tutto dice l’opposto, e se
uno non capisce le ragioni per cui farlo, non durerà, non diventerà storia
quello che ci è successo.
Allora Giussani propone un cammino, una fatica, non un miracolo o
un meccanicismo. Dietro il disagio che tante volte affiora tra di noi c’è
questa confusione: pensiamo sempre a una proposta che produca frutti
senza fatica, senza coinvolgere la nostra libertà, senza impegnare la totalità
del nostro io. Guardate che cosa dice Giussani – non troviamo un
altro compagno di strada che ci descriva in modo così autentico, come
se uno scanner ci passasse sopra! –: «L’aridità, la flaccidità della convivenza,
della convivenza delle comunità [pensate ai gruppi, pensate alle
famiglie, pensate agli amici], da che cosa dipende se non dal fatto che
troppo pochi possono dire di essere impegnati nella esperienza, nella
vita come esperienza? È il disimpegno della vita come esperienza che fa
chiacchierare e non parlare. L’assenza di dialogo vero, questa aridità terribile
nella comunicazione, questa incapacità a comunicare è pari solo
al pettegolezzo».76Pensiamo a certe cene tra di noi: che impressione
avrebbe uno che ci osservasse dall’esterno di che cosa ci sta a cuore?
__________________________
75L. Giussani, Raduno nazionale maturati, Rimini, 28-30 settembre 1982, Archivio CL.
76L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., pp. 114-115.
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34 – Esercizi fraternità
Per questo ritorna la portata del suggerimento della strada che ci
propone don Giussani – e io non ho altro di diverso da proporre –: il
cammino al vero è un’esperienza presente, che conferma l’utilità della
fede per rispondere alle esigenze e ai desideri che urgono in noi in modo
inestirpabile e inesauribile. E tutti sappiamo la fatica che facciamo: diamo
le nostre impressioni, raccontiamo cose, offriamo le nostre opinioni,
ma in quanti siamo impegnati in un’esperienza vera?
La difficoltà che oggi ci troviamo ad affrontare è la stessa che incontrava
Giussani: «Però trent’anni fa, quando incominciavo a dire queste
cose, non credevo che dopo trent’anni avrei dovuto ripeterle tante volte
per farle capire a quelli che da dieci anni già camminano sulla stessa strada!
Perché si leggono, si crede di averle capite, si passa oltre e non si è
seri con le parole che si usano, cioè non si è seri con la realtà che le parole
indicano, non si è seri col soggetto che vive la realtà di cui il suo tempo si
fa, si forma. Qual è il punto di partenza per una indagine umana, per una
inchiesta sulla verità? Il punto di partenza è l’esperienza. Non quel che
si prova, ma l’esperienza, che è quel che si prova giudicato dai criteri del
cuore, i quali, come criteri, sono infallibili (infallibili come criteri, non
come giudizi: può essere un’infallibilità applicata male). I criteri sono
questi, non ce ne sono altri; o i criteri sono quelli del cuore, oppure noi
siamo alienati, venduti sul mercato della politica o della economia».(77)
Don Giussani ci avverte che si può rimanere apparentemente sulla
strada senza fare esperienza: il tapis roulant è sempre in agguato… Se
la nostra strada e la nostra fede non diventano esperienza presente nella
quale troviamo la conferma della sua convenienza umana, non potremo
seguire né farci compagnia: «L’esperienza deve essere veramente tale,
cioè giudicata dalla intelligenza, altrimenti la comunicazione diventa
blaterare parole o vomitare lamenti».(78)
Perciò la verifica se stiamo facendo esperienza o no, è la crescita del
nostro io, la sua maggiore consistenza. Fa parte dell’esperienza – ci è
stato detto sempre – «il fatto dell’accorgersi di crescere».(79)E uno si
rende conto di crescere perché questa resta nella memoria, non si dimentica
più: «L’esperienza è custodita dalla memoria. La memoria è il custodire
l’esperienza; esperienza dunque custodita dalla memoria, perché io non
posso dialogare con te, se la mia esperienza non è custodita in me, protetta
in me come un bambino nel seno della madre, e così cresca in me
____________________________
(77) L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, Bur, Milano 1996, p. 83.
(78) L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 115.
(79) L. Giussani, Il rischio educativo, op. cit., p. 126.

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35 -Esercizi della Fraternità
man mano che il tempo passa».(80) Allora sì che quando parliamo possiamo
comunicare qualcosa di veramente verificato nell’esperienza.
Se noi facciamo questa esperienza, la fede può generare una persona
veramente consistente. «La consistenza del proprio io è un’esperienza
profondamente nuova, è realmente il nascere di nuovo di Nicodemo. Il
miracolo che deve avvenire è la consistenza del proprio io, vale a dire la
dignità, la certezza del destino e la capacità di operare in modo nuovo e
più umano». (81)Perciò è soltanto un cammino ciò che genera una creatura nuova,
che don Giussani descrive così: «Un’esperienza diversa del sentimento di sé,
una percezione diversa delle cose, un’emozione diversa della
presenza altrui, un impeto e una densità diverse nei rapporti, un gusto
diverso nella dinamica travagliata del lavoro, un esito non concepibile,
non immaginabile prima». (82) Se non accade questo, che interesse avrà
per noi la fede? Prima o poi vincerà anche in noi il disinteresse, ma non
sarà – come diciamo tante volte – perché Cristo non compie la promessa che
ci ha fatto nell’incontro, ma perché noi abbiamo ridotto tutto
a meccanicismo, perché non siamo impegnati veramente nella verifica
dell’esperienza! E senza questo, io non ho un volto.
È impressionante il brano finale di una poesia di Rimbaud: «Tutti
quelli che mi hanno incontrato è come se non m’avessero veduto». (83)
Ti imbatti in qualcuno che è senza volto. Invece essere presenza significa
avere un volto, e la fede è ciò che rende significativo il volto.
La forza della nostra presenza è la fede, la fede vissuta come esperienza
presente, e allora si diventa una presenza che non si dimentica:
«Che cosa non può essere dimenticato? […] Quello che non si lascia
dimenticare […], quello che, per se stesso, e quasi anticipatamente, è
risplendente di una chiarezza che niente può spegnere o ricoprire».(84)

3. Ubi fides ibi libertas (sant’Ambrogio)
Se l’individuo non ha consistenza, se la sua personalità è svuotata,
allora resta in balìa delle forze più incontrollate dell’istinto e del pote-
________________________
80 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 115. - 81 L. Giussani, Consiglio nazionale di CL, Milano, 9-10 febbraio 1985, Archivio CL.
82 La fede oggi, Incontro di don Giussani con gli adulti di CL, Torino, 13 giugno 1981, Archivio CL.
83Cfr. A. Rimbaud, «Una stagione in inferno», in Opere, Mondadori, Milano 1975, p. 219.
84J.-L. Chrétien, L’insperabile e l’indimenticabile, Cittadella Editrice, Assisi 2008, p. 123.




36 – Esercizi Fraternità
re: è la perdita della libertà (termina così il capitolo ottavo de Il senso
religioso).
Oggi ci troviamo di fronte a un desiderio enorme di libertà, ma allo
stesso tempo constatiamo l’incapacità di essere veramente liberi, cioè
noi stessi, nella realtà. È come se, di fatto, ognuno si piegasse a quanto
ci si aspetta da noi in ogni circostanza: così uno ha una faccia nel lavoro,
un’altra con gli amici, un’altra in casa… Ma dove siamo veramente
noi stessi? Per non dire quante volte uno si sente soffocare nelle circostanze
della vita quotidiana, senza la minima idea di come liberarsi, se
non aspettando di cambiare le circostanze stesse (questa, spesso, sembra
l’unica strada di liberazione che riusciamo a concepire). Alla fine uno si
trova bloccato, sognando una libertà che non arriva mai. In un momento
storico in cui si parla tanto di libertà, assistiamo al paradosso della sua
mancanza, della sua assenza.
Per questo il fatto che la libertà oggi sia un bene tanto scarso, tanto
raro, è un’altra documentazione della mancanza di un’esperienza reale
della fede, secondo il grande motto di sant’Ambrogio: «Ubi fides ibi
libertas»85 (Dove c’è la fede lì c’è la libertà).
Per questo la libertà è il segno più prezioso e potente della fede, ed
è lì dove noi possiamo veramente verificare se stiamo facendo un’esperienza
di fede in grado di resistere in un mondo dove tutto – ma tutto!
– dice il contrario, l’opposto. Ma ci rendiamo conto di quale sfida ci
troviamo ad affrontare? Se noi, in questa realtà, non abbiamo un volto
e non abbiamo una consistenza, la nostra fede non potrà resistere nella
storia, saremo spazzati via!
Qual è la condizione della libertà? A quale condizione ha senso parlare di
libertà, di irriducibilità dell’io, di consistenza? In un solo caso:
«In un solo caso questo punto, che è l’uomo singolo, è libero da tutto il
mondo, è libero, e tutto il mondo non può costringerlo, e l’universo intero
non può costringerlo; in un solo caso questa immagine di uomo libero
è spiegabile: se si suppone che quel punto non sia totalmente costituito
dalla biologia di suo padre e di sua madre, ma possegga qualche cosa
che non derivi dalla tradizione biologica dei suoi antecedenti meccanici,
ma che sia diretto rapporto con l’infinito, diretto rapporto con l’origine
di tutto il flusso del mondo […]. Solo nella ipotesi che in me esista questo
rapporto, il mondo può fare di me quel che vuole, ma non mi vince,
non mi evince, non mi afferra, io sono più grande, io sono libero. […]
Ecco il paradosso: la libertà è la dipendenza da Dio. È un paradosso,
________________________
(85) Sant’Ambrogio, Epistole, 65, 5.
36
37- Esercizi della Fraternità
ma chiarissimo. L’uomo – l’uomo concreto, io, tu – non c’era, ora c’è,
domani non sarà più: dunque dipende. O dipende dal flusso dei suoi
antecedenti materiali, ed è schiavo del potere; o dipende da Ciò che sta
all’origine del flusso delle cose, oltre esse, cioè da Dio. La libertà si
identifica con la dipendenza da Dio a livello umano, cioè riconosciuta
e vissuta. Mentre la schiavitù è negare o censurare questo rapporto. La
coscienza vissuta di questo rapporto si chiama religiosità. La libertà è
nella religiosità! Per questo l’unica remora, l’unico limite, l’unico confine
alla dittatura dell’uomo sull’uomo, si tratti di uomo o di donna, si
tratti di genitori e di figli, si tratti di governo e di cittadini, si tratti di
padrone e di operai, si tratti di capi partito e di strutture in cui la gente
serve, l’unica remora e l’unico confine, l’unica obiezione alla schiavitù
del potere, l’unica è la religiosità».(86)Guardate quante volte sogniamo di
raggiungere la libertà e su questo paragoniamoci sul serio con Giussani
sottomettendolo alla verifica dell’esperienza: «Per questo chi ha il potere
[…] è tentato di odiare la religiosità vera, a meno che sia lui stesso
profondamente religioso […] perché [la religiosità autentica] è limite

al possesso, è sfida al possesso».(87)
E ancora: «La fede è il gesto di libertà fondamentale e la preghiera
è la costante educazione del cuore, dello spirito alla autenticità umana,
alla libertà: perché fede e preghiera sono il riconoscimento pieno
di quella Presenza che è il mio destino, e la dipendenza dalla quale è la
mia libertà».(88)
Ma come è possibile vivere in tutte le circostanze la religiosità, il rapporto
con il Mistero, che mi rende così irriducibile a qualunque potere?
Occorre che l’uomo aderisca sempre al Mistero da cui dipende. A me ha
sempre colpito questa domanda, spesso evocata da don Giussani: come
l’uomo può avere la coscienza chiara e l’energia affettiva per aderire al
Mistero fintanto che questo Mistero resta mistero, come può l’oggetto
ancora oscuro e misterioso destare l’energia della libertà per compierla?
Fino a quando l’oggetto è oscuro ciascuno può immaginare quel che
vuole e può determinarsi nel suo rapporto con quell’oggetto come gli
pare e piace. Pensate all’esperienza amorosa: uno sta desiderando di
amare ed essere amato, ma fin quando il volto è sconosciuto che cosa
facciamo? Quello che ci pare e piace. È soltanto quando il volto com-
________________________
86L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., pp. 124-125.
87Ibidem, pp. 125-126.
88Ibidem, p. 121.

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38 - Esercizi fraternità
pare che introduce realmente una possibilità di calamitare l’io. Perché
io so che desidero l’infinito, che questo infinito c’è perché ho sempre
nostalgia di lui – come diceva Lagerkvist –, ma ogni giorno afferro il
particolare, vado dietro a qualunque oggetto che poi mi lascia insoddisfatto.
E questo è il destino dell’uomo, a meno che capiti quel che ipotizza
Wittgenstein: «Hai bisogno di redenzione, altrimenti ti perdi […].
Occorre che entri una luce, per così dire, attraverso il soffitto, il tetto
sotto cui lavoro e sopra cui non voglio salire. [...] Questo tendere
all’assoluto, che fa sembrare troppo meschina qualsiasi felicità terrena... mi
sembra stupendo, sublime, ma io fisso il mio sguardo nelle cose terrene:
a meno che “Dio” non mi visiti».(89)
Per questo occorre che il Mistero diventi compagno sperimentabile,
che Dio ci visiti. È stato necessario che il Mistero si facesse compagno
alla vita dell’uomo perché nel mondo entrasse un’esperienza compiuta
della libertà. È solo quando il Mistero, come la persona amata, svela il
Suo volto e mi attira tutto, mi calamita tutto, che posso avere la chiarezza e
l’energia affettiva per aderire, cioè per impegnare tutta la mia
libertà.
Con Gesù il Mistero è diventato, per dirlo con una frase insuperabile di
don Giussani, «presenza affettivamente attraente»,(90)al punto di
accendere il desiderio umano e di sfidare come nessun altro la sua libertà,
cioè la sua capacità di adesione. All’uomo basta cedere all’attrattiva
vincente della Sua persona, alla Sua attrattiva, come accade all’uomo
innamorato: è la presenza affascinante della persona amata che desta
in lui tutta la sua energia affettiva. Basta cedere al fascino di chi si ha
davanti. Per questo diceva Betocchi: «Ciò che occorre è un uomo, / non
occorre la saggezza, / ciò che occorre è un uomo / in spirito e verità; /
non un paese, non le cose, / ciò che occorre è un uomo, / un passo sicuro,
e tanto salda / la mano che porge che tutti / possano afferrarla e camminare /
liberi, e salvarsi». (91)
E, come la persona amata, il Mistero presente lo scopro in un incontro
imprevisto, è una sorpresa, come è stato per Giovanni e Andrea: da
quando Lo hanno incontrato sono rimasti attaccati per il resto della loro
vita, perché la loro libertà era stata così sfidata dalla Sua eccezionalità
unica che non hanno potuto andare avanti senza fare i conti con quel-
________________________________
(89) L. Wittgenstein, Movimenti di pensiero, Quodlibet, Macerata 1999, p. 85.
(90) L. Giussani, L’autocoscienza del cosmo, Bur, Milano 2000, p. 247.
(91)C. Betocchi, «Ciò che occorre è un uomo», in C. Betocchi Dal definitivo istante, Bur, Milano
1999, p. 146.
38

39-Esercizi della Fraternità
la Persona. La libertà di quelli che L’avevano incontrato ha trovato un
compimento senza paragone in Lui: il centuplo quaggiù, cioè una
soddisfazione cento volte più grande. Se non troviamo una soddisfazione
cento volte più grande, perché dovrebbe essere ragionevole seguirLo?
Non resisteremmo molto tempo se non fosse per una soddisfazione, una
soddisfazione cento volte più grande, come anticipo di quella piena. E
che i discepoli non erano dei visionari lo dimostra il fatto che sono rimasti,
altrimenti si sarebbero smarriti anche loro, dopo un po’.«Caro cardo salutis»,(92)
come dice acutamente Tertulliano: la carne,
il Verbo fatto carne è il cardine della salvezza. E con questo arriviamo
al punto più acuto del dramma davanti al quale si trova ciascuno di noi.
Allora, se è così, se Cristo è questa presenza attraente, così corrispondente
alle nostre esigenze più profonde, sembrerebbe normale che noi
cedessimo alla Sua attrattiva; è così corrispondente che sembrerebbe
quasi scontato. Ma – di nuovo – un’attenzione all’esperienza ci mostra
che non è così.
Perché in tante occasioni sentiamo una resistenza così viscerale a
lasciarci attrarre da Lui? Non è soltanto debolezza, che pure abbiamo
tutta; è sostanzialmente una sensazione di perderci che ci impedisce di
cedere. Come mai noi ci troviamo addosso questa sensazione di perderci,
quando in realtà è solo cedendo alla Sua attrattiva che ci guadagneremo?
È per l’effetto che il peccato ha su di noi. Il peccato ha
introdotto qualcosa di strano che ha sfuocato la percezione di noi e di
Dio, facendo apparire Dio ai nostri occhi come una sorta di avversario
del nostro compimento, tanto è vero che pensiamo che se cediamo a Lui
ci perdiamo, per cui dobbiamo tenerLo a una certa distanza. E questo
dramma neanche a Gesù, vero uomo, è stato risparmiato, anzi, proprio
perché Lui l’ha affrontato ha potuto vincerlo.
Scrive Benedetto XVI: «La volontà umana, secondo la creazione, tende
alla sinergia (alla cooperazione) con la volontà di Dio, ma a causa del
peccato la sinergia si è trasformata in opposizione. L’uomo, la cui volontà
si compie nell’aderire alla volontà di Dio, ora sente compromessa la sua
libertà dalla volontà di Dio. Vede nel “sì” alla volontà di Dio non la possibilità
di essere pienamente se stesso, ma la minaccia per la sua libertà,
contro cui egli oppone resistenza. Il dramma del Monte degli ulivi consiste
nel fatto che Gesù riporta la volontà naturale dell’uomo […] nella sua
grandezza. Nell’umana volontà naturale di Gesù è […] presente in Gesù
stesso tutta la resistenza della natura umana contro Dio. L’ostinazione
______________________
(92)Tertulliano, De resurrectione mortuorum, VIII, 6-7.
39

40 - Esercizi Fraternità
di tutti noi, l’intera opposizione contro Dio è presente e Gesù, lottando,
trascina la natura ricalcitrante in alto verso la sua vera essenza. [...] La
preghiera: “non la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42) è veramente una
preghiera del Figlio al Padre, nella quale l’umana volontà naturale è stata
tratta totalmente dentro l’Io del Figlio, la cui essenza si esprime appunto
nel “non io, ma tu” – nell’abbandono totale dell’Io al Tu di Dio Padre.
Questo “Io”, però, ha accolto in sé l’opposizione dell’umanità e l’ha
trasformata, così che ora nell’obbedienza del Figlio siamo presenti tutti noi,
veniamo tutti tirati dentro la condizione di figli».(93)
Il Papa lo ha ribadito il Mercoledì Santo: «L’uomo di per sé è tentato
di opporsi alla volontà di Dio, di avere l’intenzione di seguire la propria
volontà, di sentirsi libero solo se è autonomo; oppone la propria autonomia
contro l’eteronomia di seguire la volontà di Dio. Questo è tutto
il dramma dell’umanità. Ma in verità questa autonomia è sbagliata e
questo entrare nella volontà di Dio non è un’opposizione a sé, non è una
schiavitù che violenta la mia volontà, ma è entrare nella verità e nell’amore,
nel bene. E Gesù tira la nostra volontà, che si oppone alla volontà
di Dio, che cerca l’autonomia, tira questa nostra volontà in alto, verso
la volontà di Dio. Questo è il dramma della nostra redenzione, che Gesù
tira in alto la nostra volontà, tutta la nostra avversione contro la volontà
di Dio e la nostra avversione contro la morte e il peccato, e la unisce con
la volontà del Padre: “Non la mia volontà ma la tua”. In questa trasformazione
del “no” in “sì”, in questo inserimento della volontà creaturale
nella volontà del Padre, Egli trasforma l’umanità e ci redime. E ci invita
a entrare in questo suo movimento: uscire dal nostro “no” ed entrare nel
“sì” del Figlio. La mia volontà c’è, ma decisiva è la volontà del Padre,
perché questa è la verità e l’amore». (94)
Questo è il prezzo della nostra redenzione. Altro che giochi di parole!
Ma come questo tirarci su, come questa lotta contro la nostra resistenza,
contro il nostro decadere, continua? L’unica possibilità è che
il cristianesimo continui ad accadere come un avvenimento presente.
Senza il continuo riaccadere dell’Avvenimento cristiano non c’è possibilità
di una libertà reale; per questo il Suo permanere è il segno della Sua verità,
come il vero, esso dura. E questa è la portata del nostro Volantone di Pasqua:
se Cristo non è risorto e non può rimanere presente, la nostra fede è vuota.
Dal patrimonio di Gesù possiamo scegliere
___________________________________
(93) Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, op. cit.,
pp. 181-182.
(94) Benedetto XVI, Udienza Generale, 20 aprile 2011.
40

41- Esercizi della Fraternità

qualche cosa che sia utile, ma questo significa che siamo abbandonati
a noi stessi: «Solo se Gesù è risorto, è avvenuto qualcosa di veramente
nuovo che cambia il mondo e la situazione dell’uomo. Allora Egli,
Gesù, diventa il criterio, del quale ci possiamo fidare. Poiché, allora Dio
si è veramente manifestato».(95)
Perché questo diventi non qualcosa di già saputo, ma diventi costantemente
un’esperienza – ci dice don Giussani – perché ciò che si sa e
ciò che si ha diventi esperienza occorre che quello che si sa e quello
che si ha ci venga dato adesso, ci sia una mano che ce lo porge ora, un
volto che viene avanti ora, un sangue che scorre ora, una resurrezione
che avviene ora. Fuori di questo “ora” non c’è niente!(96)
Che potenza acquistano queste parole davanti a quanto abbiamo descritto!
Perché il nostro io non può essere mosso, commosso, cioè cambiato, se non da
una contemporaneità, da un avvenimento. Cristo è qualcosa che mi sta
accadendo. Allora perché quello che sappiamo, Cristo, sia esperienza
occorre che sia un presente che ci provoca e percuote, un presente come
per Giovanni e Andrea è stato un presente.
Che cosa è la mano che ce lo porge ora? Mi sono reimbattuto in questo
impressionante testo del 1997: «Il mondo umano non ha bisogno di
nient’altro che del popolo nuovo, di quella compagnia che è il flusso di
vita che percorre il deserto del mondo. Ma questo popolo e questa compagnia
sono fatti soltanto da chi è profeta. Voglio accennare a quello che
potrebbe sembrare solo un particolare. Qual è il fattore più importante
nella realtà di popolo cui siamo chiamati, nella realtà di compagnia cui
partecipiamo, nel luogo della profezia e del grido che tutto è Dio? Qual
è il luogo vero del senso religioso? Il fattore più importante nella realtà
di un popolo è quello che chiamiamo autorità. C’è un profondo bisogno che
noi distruggiamo fino all’ultima pietra l’immagine di autorità
o di guida robotica, quasi che si trattasse di individui chiusi dentro una
torre da cui lanciano segnali, da cui guidano l’andamento delle cose.
L’autorità, la guida, è il contrario del potere, non esiste in essa neanche
una virgola della parola potere. Per questo, di fronte al concetto di autorità,
nel popolo di Dio è assente completamente, a qualsiasi livello, ogni
riflesso di timore. Al potere corrisponde il timore e uno per liberarsi dal
timore deve infischiarsi del potere. Che cos’è questa autorità? È il luogo
(anche tu sei un luogo, anche una persona è un luogo) dove la lotta della
_________________________________
(95) -Benedetto XVI, Volantone di Pasqua, Comunione e Liberazione 2011, da Benedetto XVI, Gesù
di Nazaret..., op. cit., p. 270.
(96)Cfr. L. Giussani, Volantone di Pasqua, Comunione e Liberazione 2011.
41
42 - Esercizi Fraternità
profezia e la verifica della profezia sono vissute; dove si svolge la lotta
per affermare – e la verifica per convalidare – la risposta che la proposta
di Cristo è per la percezione del cuore; dove Cristo è sperimentato come
la risposta alle esigenze del cuore. È il luogo dove il senso religioso (il
senso religioso è dato dalle esigenze del cuore che accusano la risposta
che hanno davanti) è più limpido e più semplice; per questo la risposta
non fa timore, è più pacifica. Pasolini in un suo brano dice che i giovani
uno li educa col suo essere, non coi suoi discorsi. L’autorità è il luogo
dove il nesso tra le esigenze del cuore e la risposta data da Cristo è più
limpido e più semplice, più pacifico. L’autorità è un essere, non una sorgente
di discorso. Anche il discorso è parte della consistenza dell’essere,
ma soltanto come riflesso. Insomma, l’autorità è una persona vedendo la
quale uno vede che quel che dice Cristo corrisponde al cuore. Da questo
il popolo è guidato. […] Il problema allora è seguire. Ciò è indicato
meglio dalla parola figliolanza: dell’autorità si è figli».97
Per questo don Giussani ci ha sempre insegnato che la prima cosa
che dobbiamo chiedere è che ci sia sempre un’autorità, persone così;
perché soltanto se Lui ci dà persone così, con questa limpidezza nel vivere
la religiosità, possiamo fare esperienza della sequela, e questo potrà
essere il nostro contributo a uscire dalla confusione.
Solo uomini così possono diventare, poi, strumento della missione,
«perché il movimento nasce, si stabilisce e fruttifica solo come persona:
la mia, la tua. Da soli o insieme non mi interessa: è disegno di Dio che
mi faccia trovare la sorpresa di un fratello o di un compagno.
Il movimento inizia, si stabilisce ed è nelle mani di Dio strumento di una
missione solo dentro e attraverso questa fede mia, questa esperienza della
vita come fede che definisce la mia persona, che mi dà la faccia».98
AVViSi
Julián Carrón
Il lavoro che stiamo facendo insieme sulla Scuola di comunità è un
grande aiuto anche per capire il valore del Fondo comune. Come ci ha
insegnato sempre don Giussani, il Fondo comune è lo strumento per
educarci alla povertà, che non è prima di tutto una generosità, ma il rap-
97
L. Giussani, «Nessuno genera se non è generato», in Litterae Communionis Tracce, n. 6, giugno
1997, p. 11.
98
La fede oggi, op. cit., Archivio CL.
Esercizi della Fraternità
porto vero con le cose. Per questo non è un particolare senza significato
e per questo lo ha richiamato sempre.
Mi scrive un’amica: «Carissimi amici della Fraternità, è un piccolo
aumento di quota del Fondo comune che non ha paragone con la grazia
ricevuta questo anno nel cammino della nostra esperienza. Il desiderio
di starci di più, la domanda costante di essere più fedele al lavoro e
l’abbandono più cosciente a Gesù così come si mostra nella realtà quotidiana,
mi hanno fatto scoprire una umanità nuova, che non credevo
possibile per me stessa. Ne sono proprio grata». Se il Fondo comune
non nasce da questa gratitudine, non durerà, non resisterà in un mondo
in cui tutto, ma proprio tutto, dice l’opposto: «Facciamo i cavoli nostri
con i nostri soldi».
Il Fondo comune non è un problema di soldi, ma educativo, perciò lo
richiamo con questa libertà.
Mi ha colpito un fatto che mi hanno raccontato: un gruppo di universitari
del Brasile è andato nella zona di un’alluvione, vicino a Rio de
Janeiro, dove ha lavorato manualmente per ripulire delle chiese; durante
un’assemblea alcuni hanno testimoniato la scoperta fatta durante quei
giorni, cioè che si può avere l’idea che la caritativa è una cosa molto
buona, ma non vivere un amore alla carità. Si può dire lo stesso del
Fondo comune: si può avere il concetto che esso è un’educazione alla
povertà, ma non viverlo per Cristo; e se non è per Cristo, rimane come
una regola astratta.
Che il Fondo comune è per Cristo ce lo testimonia questo amico:
«Carissimo Julián, con grande entusiasmo oggi ho fatto un piccolissimo
gesto, che però per me è vitale, segno della vittoria di Cristo anche
sulle mille preoccupazioni e resistenze. Nell’aggiornare la scheda anagrafica
sul sito della Fraternità ho chiesto di ricevere il Mav per poter
ricominciare a pagare il Fondo comune, che da cinque anni non pagavo
più. Di fronte al lavoro di Scuola di comunità finalmente preso sul serio
non ho più potuto vivere una vita parallela [questa è la documentazione
che qualcosa si muove nel nostro io, se facciamo la Scuola di comunità
come Dio comanda. E qual è il desiderio che si è ridestato?]. Il desiderio
che il criterio del movimento, che ho riconosciuto affascinante, sia il criterio
con cui guardare tutto ciò che accade nella mia vita, e allora capisco che anche
le difficoltà economiche non sono obiezioni perché anche
io possa, nel mio piccolo, contribuire alla vittoria di Cristo nel mondo.
Grazie perché ho capito che a Cristo o dai tutto oppure è come non dare
nulla. Gli euro che do al mese non sono molti, ma mi riprometto, non
appena possibile, di aumentare la mia quota».
Sabato pomeriggio
43Questo giudizio sul Fondo comune stabilisce anche una gradazione di
importanza delle risposte alle varie sollecitazioni che riceviamo.
Anzitutto la prima cosa da avere presente è il Fondo comune della
Fraternità, perché è il luogo educativo fondamentale che ti fa pensare
al motivo per cui lo versi; poi i bisogni concreti della comunità dove viviamo;
e infine le necessità che Dio ci pone davanti come provocazione,
secondo il discernimento che ciascuno deve attuare.
Questo gesto è talmente personale che è segno di una libertà dell’io
in azione: uno può dare o semplicemente offrire il dolore di non poter
contribuire come vorrebbe.
Tra le altre testimonianze che sono arrivate non posso non accennare a
quanto scrive una persona che è stata sostenuta dalla Fraternità (dei tanti
che riusciamo a sostenere tra di noi): «Sono rimasta molto colpita quando
avete chiesto nostre notizie per sapere se avevamo bisogno, se poteva
servire ancora un aiuto economico come era stato fatto. Pensare che ci
avete così presenti, che pregate per noi, vi interessate al nostro cammino,
è davvero un grande segno della tenerezza, della premura che Gesù ha
per me. Nel ringraziarvi dal profondo del cuore, vi dico che in tanti modi
il Signore si è fatto vicino al nostro bisogno in questi anni, soprattutto
tramite le facce, le mani, il tempo degli amici della Fraternità e che
misteriosamente la nostra vita scorre, si dipana nella serenità in un cammino
che ogni giorno mi insegna ad affidarmi e ad abbandonarmi a Lui».
La rivista Tracce è un aiuto al formarsi del giudizio con cui guardare
i fatti che accadono ed è l’unico strumento, oltre al sito ufficiale di CL,
di cui ci sentiamo responsabili. Vi segnalo anche il sito di Tracce, da
poco rinnovato.
Tutta la ricchezza che altre persone e strumenti esprimono è frutto
della loro libertà e dei loro tentativi, che saranno tanto più ricchi e utili
per tutti nella misura in cui in loro rimane viva, oggi, l’esperienza che li
ha mossi all’inizio.
Prima di concludere do lettura del telegramma che abbiamo inviato a
Benedetto XVI: «Santo Padre, 26.000 aderenti alla Fraternità di
Comunione e Liberazione, radunati a Rimini per gli annuali Esercizi
spirituali conclusi anticipatamente, sono in partenza per Roma per
stringersi a Vostra Santità che ha voluto indicare a tutti i battezzati e
al mondo intero il beato Giovanni Paolo II come esempio di che cosa può fare
Cristo quando un uomo si lascia afferrare da Lui. In questi giorni abbiamo
approfondito la coscienza che «se uno è in Cristo, è una creatura
44
45- Esercizi della Fraternità
nuova» e che Lui è veramente utile per il cammino dell’uomo nel suo
rapporto con le cose e le persone. Abbiamo fatto di nuovo esperienza
che l’incontro con Cristo risorto ha risuscitato e potenziato il senso
originale della nostra dipendenza dal Mistero e il nucleo originale di
evidenze ed esigenze originali (di verità, giustizia, felicità, amore) che
don Giussani chiama «senso religioso». Stupiti per i segni del risveglio
umano che vediamo accadere in noi e nei nostri amici, siamo più
certi che l’avvenimento cristiano salva l’umano dalle conseguenze degli
atteggiamenti irragionevoli di fronte alle domande fondamentali del
cuore. Ben consapevoli dell’enorme debito di riconoscenza che la nostra
Fraternità ha nei confronti di Giovanni Paolo II, giungiamo a Roma
come pellegrini che nella Vostra persona, roccia che si erge di fronte al
mondo, trovano la sicurezza per il proprio cammino di fede, certi che di
Voi ci possiamo fidare».
SANTA MESSA
(At 2, 42-47; Sal 117 2-4. 13-15. 22-24; 1 Pt 1,3-9; Gv 20,19-31)
OMELIA DI DON JAVIER PRADES
Nella liturgia della Seconda Domenica di Pasqua, che stiamo celebrando,
la Chiesa ci propone la festa della Divina Misericordia. È questo
un altro motivo per ringraziare il prossimo beato Giovanni Paolo II che
ha voluto istituire questa festa.
Abbiamo appena ripetuto insieme, con le parole del salmo 117:
«Rendete grazie al Signore perché è buono, il Suo amore è per sempre».
Per poter cogliere la vibrazione, il sentimento del reale che il salmista
ha espresso nella frase, «Ringraziamo Dio perché Lui è buono, il Suo
amore è per sempre», dobbiamo ascoltare – anche solo per un istante
– quanto sia profonda in noi questa esigenza del «per sempre» in ogni
dimensione del nostro vivere, ma soprattutto nell’esperienza affettiva.
Non c’è mai stata una nostra esperienza affettiva che abbia potuto riempire
il cuore se non aveva dentro, se non ha dentro, questo «per sempre»:
amare «per sempre», essere amati «per sempre». Il cuore respira solo
quando si vive in prima persona questa dimensione. Eppure non possiamo
censurare che tantissime volte nella vita ci sorprendiamo a pensare:
«Ma quella persona mi potrà ancora voler bene dopo quello che gli ho
Sabato pomeriggio
45fatto?», oppure: «Ma io potrò tornare a volergli bene dopo quello che
mi ha fatto?»; e questo accade con gli amici, con i colleghi di lavoro,
fra il marito e la moglie, fra i genitori e i figli. Noi, che abbiamo questa
costitutiva esigenza del «per sempre» nell’amore, avvertiamo che nella
nostra fragilità affettiva tale esigenza sembra spesso irraggiungibile.
Soltanto chi coglie fino in fondo la tensione fra questi due aspetti
può capire la coscienza con cui san Pietro ha potuto proclamare oggi:
«Benediciamo Dio che nella Sua grande misericordia ci ha rigenerati».
Utilizza una parola molto forte, «rigenerare», far nascere di nuovo, fino
al punto che ci si può sentire come rinati adesso: anche colui che era
morto, vale a dire che era cinico, che era scettico. «Nella Sua grande
misericordia ci ha rigenerati». La grande misericordia di Dio rende
possibile per noi l’esperienza di un amore «per sempre». Quello che dice
Pietro è molto simile a ciò che dice Paolo quando parla della creatura
nuova.
Don Giussani ci ha ricordato tante volte che la parola «misericordia»
di per sé dovrebbe essere cancellata dal vocabolario, perché è impossibile
da riempire di significato a partire dalle nostre forze. Chi ha conosciuto la
misericordia è ri-generato, tirato fuori dal nulla, potremmo
dire esistenzialmente, per rinascere. E il sintomo di questa misericordia
in atto, il sintomo di questo essere rinati lo indica chiaramente la liturgia di
oggi, che parla diverse volte di «una gioia indicibile», come ha
proclamato lo stesso Pietro e come dicono anche gli Atti degli Apostoli
e san Giovanni. Tutte le letture di oggi concordano su questa gioia, che
è il sintomo inconfondibile, il tratto inconfondibile di chi fa esperienza
della misericordia. Noi lo sappiamo bene nella nostra vita, perché siamo
sempre stati contenti quando siamo stati abbracciati in un modo tale da
rinascere. Non perdiamo mai di vista le persone che riflettono nei loro
volti questa gioia indicibile. È talmente eccezionale questa gioia che
quando uno la vede ci si attacca; e va dietro alle persone che la vivono −
che noi conosciamo perché ci sono fra di noi −, che ce la testimoniano:
sono quelle persone insieme alle quali, anche da poveretti, possiamo ben
dire con il Salmo – secondo quell’accento che ci si è reso familiare col
passare degli anni –: «Mia forza e mio canto è il Signore».

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47 - Esercizi della Fraternità
MESSAGGI RICEVUTI
Carissimi,
in occasione degli annuali Esercizi spirituali mi faccio presente a
Voi, nella preghiera e con affetto, per rinnovare il vincolo di comunione.
“Essere in Cristo”, cui ripetutamente San Paolo ci invita anzitutto
attraverso la sua personale testimonianza, è la migliore identificazione
dell’esistenza cristiana. Il cristiano infatti, al di là dei suoi limiti e delle
sue fragilità, vive ogni atto come invocazione della presenza del Signore
Gesù espressa con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutte le sue forze.
Questo ci insegna anche una bella preghiera della nostra tradizione
nella quale chiediamo al Signore che Egli ispiri ogni nostra azione e
L’accompagni con il Suo aiuto affinché in Lui cominciata, in Lui finisca.
Il fascino del carisma di Monsignor Giussani consiste proprio nel
proporre agli uomini e alle donne di ogni tempo che nella vittoria di
Cristo Risorto avviene un cambiamento di vita. Esso rinnova il rapporto
con Dio, con gli altri e con se stessi e spalanca con umile coraggio alla
realtà tutta intera.
Come ci ripete spesso Benedetto XVI, essere testimoni di questa vertiginosa
posizione umana è nello stesso tempo una grande gioia e una
seria responsabilità. Come non riconoscere nell’imminente beatificazione
di Giovanni Paolo II il fascino di essere testimoni?
A tutti la mia benedizione.
S.E.R. cardinale Angelo Scola
Patriarca di Venezia

Caro don Julián,
alla vigilia della Beatificazione del Servo di Dio Giovanni Paolo II
saluto tutti gli amici della Fraternità di Comunione e Liberazione riuniti a
Rimini per gli Esercizi spirituali. Che gioia abbiamo provato tutti
quando don Giussani ci parlava con entusiasmo dell’elezione a Papa del
Cardinale Karol Wojtyła e come siamo rimasti confermati nel carisma
quando, con un accento di incomparabile certezza il Papa disse “Cristo,
centro del cosmo e della storia”. La sua Beatificazione ci persuade del
47
48 - Esercizi Fraternità
fatto che nell’incontro con Cristo la vita può realizzarsi pienamente
oggi.Cristo salva il Senso Religioso. Vi scrivo per manifestare la mia gratitudine
per il cammino che il Signore sta facendo compiere in questo
momento al movimento, in una provocazione costante al fascino della c
ontemporaneità di Cristo e lavoro della nostra libertà. Vi invio di
cuore il mio saluto e vi accompagno con la preghiera a Nossa Senhora
Aparecida.
S.E.R. monsignor Filippo Santoro
Vescovo di Petrópolis

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49Esercizi della Fraternità
TELEGRAMMI INVIATI
Sua Santità
Benedetto XVI
Santo Padre, 26.000 aderenti alla Fraternità di Comunione e
Liberazione, radunati a Rimini per gli annuali Esercizi spirituali conclusi anticipatamente, sono in partenza per Roma per stringersi a Vostra
Santità che ha voluto indicare a tutti i battezzati e al mondo intero il beato Giovanni Paolo II come esempio di che cosa può fare Cristo quando
un uomo si lascia afferrare da Lui.
In questi giorni abbiamo approfondito la coscienza che «se uno è in
Cristo, è una creatura nuova» e che Lui è veramente utile per il cammino dell’uomo nel suo rapporto con le cose e le persone. Abbiamo fatto
di nuovo esperienza che l’incontro con Cristo risorto ha risuscitato e
potenziato il senso originale della nostra dipendenza dal Mistero e il
nucleo originale di evidenze ed esigenze originali (di verità, giustizia,
felicità, amore) che don Giussani chiama «senso religioso». Stupiti per
i segni del risveglio umano che vediamo accadere in noi e nei nostri
amici, siamo più certi che l’avvenimento cristiano salva l’umano dalle
conseguenze degli atteggiamenti irragionevoli di fronte alle domande
fondamentali del cuore.
Ben consapevoli dell’enorme debito di riconoscenza che la nostra
Fraternità ha nei confronti di Giovanni Paolo II, giungiamo a Roma
come pellegrini che nella Vostra persona, roccia che si erge di fronte al
mondo, trovano la sicurezza per il proprio cammino di fede, certi che di
Voi ci possiamo fidare.
Sac. Julián Carrón
S.E.R. cardinale Tarcisio Bertone
Segretario di Stato di Sua Santità
26.000 aderenti alla Fraternità di Comunione e Liberazione, radunati a Rimini per gli annuali Esercizi spirituali sul tema: «Se uno è in
Cristo, è una creatura nuova», sono grati del messaggio inviato a nome
del Santo Padre. Terminato anticipatamente il ritiro, giungiamo a Roma

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50 - Esercizi Fraternità
per unirci a Benedetto XVI e alla Chiesa universale nel ringraziamento a
Dio che nel beato Giovanni Paolo II ci ha dato un testimone così autentico di Cristo unico salvatore del mondo. Con filiale devozione.
Sac. Julián Carrón
S.E.R. cardinale Angelo Bagnasco
Presidente CEI
Eminenza carissima, 26.000 aderenti alla Fraternità di Comunione
e Liberazione, radunati a Rimini per gli annuali Esercizi spirituali sul
tema: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova», hanno concluso anticipatamente il ritiro per essere tutti a Roma per unirci a Benedetto XVI
che ha deciso di indicare a tutto il mondo il beato Giovanni Paolo II,
esempio di che cosa può fare Cristo quando un uomo si lascia afferrare
da Lui. Nella fedeltà al carisma di don Giussani, continuiamo a testimoniare la novità di vita che Cristo fa fiorire in noi e fra di noi, per il bene
di tutto il popolo che è in Italia.
Sac. Julián Carrón
S.E.R. cardinale Stanisław Ryłko
Presidente Pontificio Consiglio per i Laici
Eminenza carissima, 26.000 aderenti alla Fraternità di Comunione
e Liberazione, radunati a Rimini per gli annuali Esercizi spirituali sul
tema: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova», terminati anticipatamente,
sono in partenza per Roma per unirsi ad altre migliaia di amici
del movimento e a tutta la Chiesa nel giorno in cui Benedetto XVI beatifica
il nostro grande papa Giovanni Paolo II, che ha riconosciuto la
nostra Fraternità come strada verso la santità di ciascuno di noi. Fedeli
al carisma di don Giussani e al mandato missionario del beato Giovanni
Paolo II, «Andate in tutto il mondo a portare la verità, la bellezza e la
pace, che si incontrano in Cristo Redentore», preghiamo la Madonna
Nera di custodire il Suo servizio a Pietro per il bene dei fedeli laici.
Sac. Julián Carrón
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Esercizi della FraternitàS.E.R. monsignor Filippo Santoro
Vescovo di Petropópolis
Eccellenza carissima, le tue parole ci confermano nella coscienza
del debito che tutto il movimento ha nei confronti del nuovo Beato e ci
rendono ancora più consapevoli della responsabilità di testimoniare in
tutto il mondo che «se uno è in Cristo, è una creatura nuova», rinnovando
la fedeltà al mandato missionario di Giovanni Paolo II nel 1984, che
don Giussani ci indicò come il compito della nostra compagnia e che tu
fosti tra i primi ad accogliere partendo per il Brasile. Domanda per noi
alla Madonna Aparecida di camminare sulla strada della santità, sempre
più immedesimati con Cristo che ci ha raggiunti attraverso il carisma di
don Giussani.
Sac. Julián Carrón

S.E.R. cardinale Stanisław Dziwisz
Arcivescovo di Cracovia
Eminenza Reverendissima, 26.000 aderenti alla Fraternità di
Comunione e Liberazione, radunati a Rimini per gli annuali Esercizi
spirituali sul tema: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova», hanno
deciso di terminare anticipatamente il ritiro per recarsi nella notte a Roma,
insieme ad altre migliaia di amici del movimento, alla beatificazione del
nostro carissimo Giovanni Paolo II, gigante di una fede innamorata di
Cristo, che ha riconosciuto la nostra Fraternità e verso il quale abbiamo
un enorme debito di riconoscenza. Sapendo quanto fosse stretto il legame
del Pontefice con don Giussani e CL, fondato su una consonanza
di sguardo di fede a tutta la realtà, nella passione per Cristo «centro del
cosmo e della storia», Le domandiamo di raccomandare al nuovo Beato
tutte le nostre persone. Per parte nostra chiediamo a Giovanni Paolo II
di essere sempre nella Sua vita un protettore potente.
Sac. Julián Carrón

S.E.R. cardinale Angelo Scola
Patriarca di Venezia
Carissimo Angelo, le tue parole ci hanno resi più consapevoli della
portata nella nostra vita della frase di san Paolo: «Se uno è in Cristo,

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è una creatura nuova». Cristo, infatti, è qualcosa che ci sta accadendo
ora, una novità più potente dei nostri limiti e fragilità. Grati di averci
ricordato che in questo consiste il fascino del carisma di don Giussani,
domandiamo al beato Giovanni Paolo II di sostenere il tuo ministero
di testimone del cambiamento di vita che Cristo realizza in chi Lo
riconosce presente, segno potente della Sua risurrezione. Affidando alla
Madonna il buon esito della visita pastorale di Benedetto XVI nella tua
diocesi, ti salutiamo con affetto.
Sac. Julián Carrón

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