domenica 29 maggio 2011

BREMBATE E AVETRANA PIÙ FORTE DEL MALE "un amore più forte della morte "

Come quei massi che precipitano dalle mon­tagne, il cui fragore riecheggia più volte, e più scuro nella lontananza, così ci sono fatti di cronaca che non si esauriscono nel primo com­piersi, ma ritornano, in echi dolorosi, ben dopo la loro conclusione. Negli stessi giorni si riparla di Avetrana e di Brembate di Sopra, nomi che so­no rimasti nel cuore di tanti: come un peso, co­me una domanda irrisolta. Da Avetrana viene la notizia dell’arresto di Co­sima, moglie di Michele Misseri e madre di Sa­brina; anche lei, secondo gli inquirenti, conni­vente in un terrificante omicidio 'di famiglia'. A Brembate si seppellisce, sei mesi dopo la scomparsa, Yara Gambirasio, che pochi giorni fa avrebbe compiuto quattordici anni. Di nuovo la cronaca accende i riflettori sul destino di due adolescenti, che in storie molto diverse hanno finito con il condividere un atroce destino.
E sono nel frattempo nel mondo successe tan­te cose, anche tragiche e coinvolgenti, come in Giappone, come in Libia, popoli interi: eppure chi, in Italia, ha dimenticato Sarah e Yara? La biondina uscita per andare al mare, la studen­tessa di terza media che tornava a casa dalla pa­­lestra, in una sera come tante. Non possiamo dimenticarci di loro perché, come ha detto ieri il vescovo di Bergamo Francesco Beschi, «Yara non è semplice­mente morta, ma su di lei ab­biamo visto accanirsi il male». Su Yara, tredicenne ignara e inerme, come su Sarah, fiduciosa in ca­sa degli zii che l’avevano vista bambina, si è abbattuto con mi­cidiale pesantezza tutto il male di cui gli uomini sono capaci.
E il precipitare di questa scure su due figlie così simili a quelle che abbiamo noi in casa, acerbe, sor­ridenti, ci ha lasciati atterriti; e in realtà, nemmeno quando a­vessimo i colpevoli con certezza individuati e condannati, quei nomi – Avetrana, Brembate – smetteranno, nel sentirli nomi­nare, di dolere come un nervo scoperto: che cosa è stato laggiù, e perché tanto spaventevole ma­le.
È questa la domanda attonita che viene da due paesi di pro­vincia lontani fra loro, ma tragi­camente accomunati: perché a qualsiasi latitudine possono ac­cadere queste cose. L’eco cupa che rimbalza contemporanea­mente dal Sud alle valli berga­masche è la opaca consistenza del male. In tempi in cui ogni cer­tezza pare essersi annebbiata e tutto – famiglia, amore, lavoro – sembra fluido, o soggettivamen­te declinabile, o precario, la fine di due ragazzine ingannate e uc­cise afferma con la durezza di u­no schiaffo che almeno il male è qualcosa di terribilmente ogget­tivo. Una radice che c’è negli uo­mini, coriacea, tenace, sempre presente nella storia.
Sei mesi dopo, di nuovo muti davanti alle im­magini di bara bianca, in una mattina di sole. Non sapendo che cosa dire ai figli, di fronte a quella che sembra, della morte, una evidente trionfale vittoria. Eppure quella gran folla, an­che di sconosciuti, anche da lontano, perché è venuta? Non, forse, a cercare una speranza che sia più forte della morte? C’è una domanda ta­cita, magari nemmeno cosciente, sospesa sulla folla di Brembate: diteci che, nonostante tutto il male di cui noi uomini siamo capaci, è ragio­nevole sperare. Diteci che c’è un amore più for­te della morte, ad accogliere Yara e gli altri bam­bini come lei, e anche noi, adulti o vecchi; a spin­gerci ancora a vivere, avere figli, lavorare, fidar­ci l’uno dell’altro. È a questa non detta domanda che il parroco di Brembate ha risposto ieri, paragonando il po­vero corpo di Yara gettato in un campo al chic­co di grano che muore, ma per rinascere. Im­magine di una volontà di bene che nonostante tutto risorge, tenace, dentro un’antica fiducia cristiana. Quella stessa della madre di Yara: che, è stato riferito, da quando sua figlia è stata ri­trovata è più serena, perché, dice, sa che ora è nelle mani del Signore. Una madre testimone, in un paese ammutolito, che il male tuttavia non è l’ultima parola; che c’è, davvero, oltre a tutto il nostro male, un amore più forte della morte.
MARINA CORRADI
Il vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, parlerà sempre a braccio ma senza improvvisare, co­me se avesse ripetuto e pesato le pa­role mille volte: «Ognuno di noi ha un motivo per essere qui – è il suo sa­luto iniziale. – Siamo qui per parte­cipare a un dolore. Siamo qui per pregare. Siamo qui in attesa di una risposta, un segno, un dono: il dono di una speranza che sia più forte del­la morte, del dolore, del peccato. Lui, Cristo, è quel dono, Lui la nostra spe­ranza ».
Tutti corriamo una ten­tazione: «Dobbiamo pensare che bontà, generosità, giustizia e amore siano un errore? Che odio, oscurità, menzogna e violenza siano più for­ti? No. Dobbiamo ripartire: dalla cro­ce di Cristo, dalla croce di Yara, dal­la croce degli innocenti».

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