venerdì 13 maggio 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 6 aprile 2011

Testo di riferimento: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova», suppl. a Tracce-Litterae
Communionis, n. 5 (2011), Società Coop. Ed. Nuovo Mondo, Milano 2011, pp. 4-10.
• Ballata dell’uomo vecchio
• Silenzio cantatore
Gloria
Riprendiamo il nostro percorso. Incomincio leggendo due lettere che mi avete mandato. «Guardarel’io-in-azione per me, ora, significa riconoscere una profonda smemoratezza. L’ultima volta hai detto: “Voi raccontate i fatti e poi aggiungete quello che volete”; hai fotografato in modo straordinario molti dei miei ultimi anni...». Questo è decisivo per renderci conto del perché noi, malgrado tutto quanto ci diciamo, non facciamo esperienza. E non è che se adesso raccontiamo dei fatti senza giudicare siamo meno ideologici di prima – cioè quando davamo giudizi senza i fatti –: è un’altra forma di ideologia, è un altro modo di far fuori l’esperienza, che resta inutile per la vita.
Perché ci sono due atteggiamenti: o fatti senza giudizio o giudizio senza fatti. Potete scegliere... Che cosa accomuna tutti e due? La mancanza di esperienza. Per questo dico che una cosa è seguire don Giussani e un’altra cosa l’intenzione di seguirlo; questo è un esempio, parliamo di “esperienza”, ma
senza dare a questa parola il senso e il significato vero. Gli esiti li vedremo dopo. «...Posso però dire che se non avessi preso sul serio il lavoro di Scuola di comunità e quello di seguirti così come posso ora, alle sette e trenta del mattino nel mio ufficio credo che non avrei neppure questo barlume di coscienza. Vivo di parentesi e ora è chiarissimo, direi carnale, cosa tu intendessi per spaccatura tra
sapere e credere. Mi sono trovato di recente davanti alla domanda: ma Cristo cosa c’entra con il fatturato, con i semiconduttori [cioè con il lavoro]? E non so rispondermi. Ma mentre prima questa miseria riconosciuta mi bloccava, ora mi rilancia, mi fa friggere, sono fatto di desiderio e quando ti ascolto sento un amico che mi pungola, che mi richiama e che mi vuol bene». Renderci conto di
questo ci fa capire perché don Giussani, come abbiamo richiamato all’inizio degli Esercizi, dice che l’unica modalità di fare la strada è non “fatti senza giudizio” o “giudizio senza fatti”, ma un’esperienza vera. La conseguenza del non fare una strada si vede subito, e canta come il “silenzio cantatore”. Ascoltate quest’altra testimonianza: «Ti scrivo per raccontarti cosa ho scoperto di me in
quest’ultimo periodo. A Pasqua è venuta da noi una coppia di sposi che non conoscevamo direttamente, che è stata invitata grazie ad alcuni amici in comune. Sapevamo però la loro storia. A settembre hanno perso una bimba di dodici anni malata di tumore. Durante il pranzo questi nuovi amici ci raccontavano del loro dolore in alcuni tratti disperato, e allora qualcuno domanda con interessante provocazione: “Si può essere ancora felici dopo un dramma così, dopo un dolore
così?”. Alcuni di noi hanno cercato di rispondere a partire da esperienze viste o vissute, ma a poco serviva. A un certo punto, un amico ci incita: “Dai, forza, rispondiamo!”. Si è creato tra noi un silenzio per me troppo lungo, quasi imbarazzante. Non ricordo poi come si è rotto questo silenzio,
ricordo che mi sono alzata e con la scusa di controllare qualche figlio che giocava in giardino sono uscita dalla sala da pranzo. In un primo momento, parlando con qualcuno che era in giardino con me, trovavo tutte le scuse possibili per giustificare il mio comportamento: “Non si può essere così incalzanti, è successo tutto da così poco tempo, il dolore è ancora così vivo e qualsiasi cosa uno
possa dire non servirà a molto”. E anche dicevo: “Il tempo aiuterà, sono sicura”. Ma dentro di me [non è che noi scherziamo] non ero tranquilla. E una tristezza sempre più pungente si faceva sentire.
Il giorno dopo ho la possibilità di confrontarmi con gli amici che erano a pranzo con me, e scopro che quel silenzio era stato significativo non solo per me. Qualcuno dice: “Quell’incapacità di non saper rispondere alla domanda di ieri sulla felicità fa pensare”. Ma la mia non era una tristezza legata alla mia incapacità di risposta, ma a una mancanza di certezza [l’esito del non fare la strada che ci indica don Giussani è che non si arriva mai alla certezza]. Se mi avessero detto: “Tuo figlio è
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tonto”, non avrei esitato un attimo a rispondere, non sarebbe trascorso neppure un attimo di incertezza, avrei gridato e dimostrato che non era vero. In quel giorno di Pasqua [in quel giorno di Pasqua, non il venerdì, in quel giorno di Pasqua!] io non è che non sapevo rispondere alla domanda (ne conosco tante di belle frasi e anche di esperienze che possano essere di aiuto, anche se non le ho
vissute in prima persona), il mio silenzio nasceva dal fatto che io non sono così certa che Gesù può tutto, può rendere felice anche dopo un dolore così forte [e di questo si accorge non per un ragionamento, ma attraverso il paragone tra come avrebbe reagito davanti all’affermazione che il figlio è tonto e come ha reagito davanti alla domanda sulla felicità di quella donna: si vede nell’azione, in come noi ci mettiamo davanti al reale], altrimenti non avrei mollato [osservazione
molto acuta]; non avrei mollato, non mi sarei sentita imbarazzata. Questa mia tristezza, però, mi sta facendo compagnia perché prima mi accontentavo e dicevo: “Pazienza, imparerò”. Ora mi sento come quando litigo con mio marito – che amo molto e soffro quando gli dico cose che non avrei voluto dirgli perché arrabbiata, e sento un fortissimo desiderio di chiedergli scusa e di tornare a essere in pace con lui –. Mi viene in mente Pietro quando ha tradito Gesù, e Tommaso che non
credeva che fosse veramente risorto. Eppure sono diventate creature nuove come tu dicevi agli Esercizi, non hanno mollato perché Cristo “investiva la loro vita”. Mi domando cosa mi stia accadendo. Perché accorgermi di questa tristezza che non si accontenta di soddisfazioni a buon mercato? Perché non mi comporto sempre con Lui come mi comporto con mio marito, come una donna innamorata?». Questo mostra la pertinenza di quello che ci ha detto don Giussani nel mitico episodio del figlio di Manzù, ché se uno non fa questo percorso non potrà capire, perché non
arriverà mai a questa certezza. E questo “canterà” alla prima occasione. Per questo sembra che Giussani ci complichi la vita facendoci fare questa strada; in realtà, è l’unico che ha sfidato la nostra mentalità, il nostro bisogno, che ci offre un percorso per venire fuori da questa malattia che ci troviamo addosso a causa della situazione culturale in cui viviamo, della incapacità di raggiungere
una certezza sulle cose. Per questo insiste sempre che è un problema di conoscenza. Noi continuiamo a spostare il problema sulla morale, sulla coerenza, ma questo non è niente in paragone alla mancanza di certezza che poi ci paralizza e ci rovina.
Dalla presentazione de Il senso religioso agli Esercizi devo dire che è nato un gran movimento che non mi lascia assolutamente più tranquillo, che anzi, oserei dire, mi mette dentro una certa inquietudine. Scopro finalmente, dopo tanti anni di vita nel movimento, alcune cose che pensavo di sapere e che tentavo faticosamente di applicare.
Vedete? Per noi il cristianesimo è questo: qualcosa che pensiamo di sapere e poi applichiamo. Ma in nessun caso partiamo dall’esperienza. Prego.
Racconto due o tre episodi che mi sono capitati in questo periodo per spiegare che cosa sta succedendo. Innanzitutto il silenzio. Io ho sempre rispettato il silenzio agli Esercizi nei vari trasferimenti, però mai come quest’anno ho sperimentato che il silenzio non è un momento vuoto che io devo faticosamente riempire con pensieri e riflessioni anche nobili, giuste, importanti, ma
finalmente mi sono reso conto che il silenzio è il momento in cui io posso guardare quello che sta accadendo. La seconda questione è che in questi Esercizi finalmente mi sono lasciato provocare da quello che tu dicevi, e non a pensare che sono d’accordo con quello che tu dici, ma in fondo in fondo mi tocca fino a un certo punto. Per cui arrivo in albergo il sabato, pranzo con gli amici e, forte di questa provocazione, di questa inquietudine che avevo dentro, domando: «Ma come è
andata oggi?». Silenzio un po’ imbarazzato. Interviene un mio amico e mi dice: «Bene». Io rincalzo sulla questione e dico: «Ma cosa vuol dire bene?», perché evidentemente non mi poteva bastare più parlare in un certo modo di quello che stava accadendo nella vita. Silenzio di nuovo. Poi questo amico chiede alcune questioni sulle due lettere che tu avevi letto la mattina, e io dico: «Ma la
lettera che ha letto Carrón dell’amica rivolta all’amico mi pare talmente importante che io mi sono domandato e domando a voi: “Ma tra di noi siamo amici così?”». Silenzio…Silenzio cantatore!
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Silenzio, rotto soltanto da un fatto banale che accade a tavola: mi sporco un po’ la camicia e per qualche minuto si parla di quella questione; silenzio di nuovo e poi, finalmente, si riprende a parlare di questa questione. E qui fioccano le ipotesi, le interpretazioni, le posizioni. C’è chi dice:
«Ma le tue percezioni potrebbero non esser giuste», oppure… Attenzione, eh! Oppure: «Tra di noi siamo amici, ci aiutiamo, preghiamo per noi, per i nostri bisogni, per i nostri familiari, andiamo a Roma». Che cosa si può chiedere di più?
Oppure l’ultima domanda, ancora più impressionante da questo punto di vista: «Ma forse c’è qualcosa di più?». Questa questione mi ha lasciato triste, da un certo punto di vista, e ancora di più non tranquillo su quello che c’era in gioco. Dopo gli Esercizi torno in ufficio e riparlo con alcuni miei colleghi, durante la pausa, del problema dell’immigrazione, di cui si parla in continuazione perché è drammatico, importante, ma in fondo in fondo fino ad allora io pensavo: mi tocca, ma fino a un certo punto, perché è lontano. Però lì mi accorgo di non poter più sopportare di discutere io stesso negli stessi termini della questione, e mi scopro a cogliere lo stesso bisogno che hanno gliimmigrati – e loro hanno bisogni infiniti che io non ho perché sto bene, ho una casa, ho da mangiare, ho un lavoro dove mi stimano, insomma, ho sostanzialmente tutto –. Da queste tre
questioni che sinteticamente ho raccontato emerge un imperioso bisogno per la mia vita di essere portato via dal nulla in cui inevitabilmente mi trascino o vengo trascinato dalla realtà, dalle questioni che succedono, dalle tensioni che ci sono. Se non accade qualcosa di potente che mi porta via dal nulla…
«Ma forse c’è qualcosa di più?». Basta che uno prenda consapevolezza del proprio bisogno, e parla diversamente della vita, dell’immigrazione e di qualsiasi altra cosa. Non è un ragionamento:succede che parliamo delle stesse cose con una intensità e con una profondità che prima non ci sognavamo! Proprio su questo tema leggo una lettera (perché tante volte c’è tanta confusione sull’io-in-azione): «Ho iniziato a lavorare sugli Esercizi e mi sono reso conto che da alcuni mesi
sono concentrato su queste domande: ma io, davvero, in fondo, da che cosa mi sento costituito? Da che cosa mi aspetto davvero la soddisfazione? Che cosa mi fa respirare? Ma davvero a cinquantatre anni ancora mi aspetto di essere felice, soddisfatto? O mi sto già accontentando? Sino a poco tempo fa ho pensato che cogliere l’io-in-azione volesse dire scoprire che cosa ero capace io di immettere
nel reale, avendo una certa esperienza della vita, del lavoro, della famiglia, di Cl». Tante volte l’ioin-azione lo riduciamo a questo, a un giudizio moralista su quello che noi non riusciamo a fare. Ma questo non è uno dei fattori costitutivi dell’io, questa è tutt’altra questione: in che cosa sono capace?
È significativo, come termina la lettera: «Invece ora penso: cogliere l’io-in-azione significa ammettere quale sia il bene della mia vita nel quale trovo soddisfazione». Ma ha saltato il punto! Perché prima di sapere che cosa può essere il bene della mia vita la questione è sapere che cosa sono io! Cioè: le cose più elementari noi le diamo per scontate, le saltiamo in continuazione. Chi mi scrive non è che non stia cercando di fare un lavoro, ma è come se non riuscisse a spostarsi da quel
che ha in testa lui alla proposta che ci fa Giussani. Occorre questo paragone serrato con quello che dice Giussani, perché se uno rilegge il capitolo IV de Il senso religioso, vede che negli esempi che fa non è mai in gioco la nostra capacità! Ma è come se noi già sapessimo: abbiamo sentito la frase, la interpretiamo secondo i nostri pensieri, e non vengono mai fuori gli aspetti costitutivi dell’io. E
questo fa sì che poi – come dice Giussani – non vediamo la pertinenza di quello che propone la fede alle esigenze che ho scoperto nel mio io. E possiamo celebrare la Pasqua – come diceva prima la lettera – e non sorprendere la pertinenza di questa festa alle esigenze del mio io. E poi ci chiediamo se è possibile essere felici dopo che una bimba di dodici anni è morta... Ma questo c’entra qualcosa con la Risurrezione o no?! Ma che non si leghino in noi queste cose indica fino a che punto l’esperienza di quello che propone la fede ci è estranea. Sapere e credere non si incontrano.La settimana di Pasqua naturalmente per noi preti è abbastanza impegnativa, molto intensa, seguita dal fatto che c’era subito dopo la settimana degli Esercizi, poi io non sono potuto andare a
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Roma perché bisognava preparare una iniziativa dove sono parroco. Passata la domenica di Roma – diciamo così –, il lunedì è come calata la tensione. E mi ha colpito:c’era stata la Pasqua, c’erano stati gli Esercizi, c’era stata la beatificazione di Giovanni Paolo II; e invece io ero triste e malinconico. E mi ha colpito ciò che ho pensato: sono malinconico, proprio come Carrón ci ha
detto agli Esercizi, e per la prima volta in modo chiaro non ne ho avuto paura, cioè non mi sono chiesto: che cosa devo fare? come me la cavo? come combattere la malinconia per recuperare? No, ho detto: la malinconia vuol dire che io Ti conosco, vuol dire che io ho bisogno di Te. E per la prima volta, invece di lottare contro questa malinconia, ho cominciato a guardare tutta la settimana, quello che capitava, partendo da questa malinconia, cioè attendendo Lui. La cosa che mi ha impressionato di più è di non avere paura.
La cosa che lo ha impressionato di più è di non avere paura.
Alla fine di un lungo percorso lavorativo al quale tenevo tantissimo, il 22 marzo c’è stato un doppio esame del mio lavoro che è andato oltre ogni aspettativa. Però ero molto memore di quell’esperienza, che tu dicevi, della tua amica di Barcellona che aveva ottenuto il successo alla mostra dei suoi quadri, e mentre il 22 marzo si avvicinava ero costretto dal lavoro a fare tutto
benissimo, a fare anche il famoso seven-eleven (cioè dalle sette di mattina alle undici di sera). E lì ho detto: è proprio una maledizione, cioè la vita è una maledizione perché se le cose vanno male,tanto devono andare male, quindi vanno sempre male, e se vanno bene è uguale.
Qual è il criterio di giudizio che hai usato per dire che la vita è una maledizione?
Perché non c’era niente che avrebbe potuto soddisfarmi, sia che le cose andassero bene sia che andassero male, niente mi avrebbe riempito, niente. Però non potevo mandare tutti a quel paese…Perché non potevano riempirti? Come lo sai questo? Perché tu stavi cercando di riempire il tuo desiderio con quel che tu facevi.
Sì. Sì! Questo è il pedaggio che noi paghiamo ogni volta che nella vita non capiamo di che cosa siamofatti. Tu dici che la vita è una maledizione proprio perché tu non sei in grado di fare qualcosa, neanche con il seven-eleven, per rispondere a tutta la tua insoddisfazione! E noi possiamo essere qua per anni e non aver capito questo; e questo non è legato al fatto che siamo tutti malati o peccatori, ma che non capiamo. Non capiamo di che cosa si tratta, perché se avessimo capito di che
cosa si tratta, non diremmo queste cose! Invece continuiamo a dirle come tutti, come tutti, e possiamo dire tutta la logica de Il senso religioso, ma non abbiamo capito niente, e lo si vede ogni volta che parliamo. Quando dico che manca il senso del Mistero sto dicendo questo, perché se tu avessi capito qual è la natura del tuo io, non ti saresti mai sognato di pensare che quello che tu facevi nel seven-eleven avrebbe potuto rispondere al tuo desiderio di soddisfazione, e così non
avresti perso il tempo. Tu non cerchi di salire questa parete a mani nude, non lo fai, sono cose irragionevoli, non le facciamo; se continuiamo a farle non è perché siamo scemi, ma perché non conosciamo ciò di cui parliamo. E se non si introduce una nuova conoscenza, quella unica, reale, noi continueremo a dire, malgrado anni di movimento e di vita cristiana, che la vita è una maledizione, e non ci pioverà sopra, non ci sarà nessuno in grado di convincerci del contrario,
perché il problema è a monte. Riesco a spiegarmi? Seconda puntata. Vengo il 23 marzo a Scuola di comunità e, diciamo, il cuore era proprio fermo, convinto, e tu continuavi a dire: «Ok, c’è una Presenza che ci accompagna, ma che cos’è che ci
impedisce di fermarci?». Il 6 aprile sei andato ancora più a fondo: «E tu? E tu?», e io, Carrón, ho incominciato a piangere come un matto. Perché? Perché mentre tornavo a casa mi sono sorpreso a dire: il mio cuore prima non batteva, adesso batte. E dicevo, anche meglio di Luzi – però perché seguivo te... –: ma di che cosa è presenza questa presenza? Ma non è finita perché, siccome tu continuavi a dire: «Non andate avanti, non andate avanti», io non volevo dire “Gesù”, però mi
ha… Non è Gesù quello che manca. Non volevo dirlo!
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Meno male. Perché non volevo dirlo? Perché doveva essere Lui a presentarsi, e Lui si è presentato. L’ho capito dopo. Era davanti a te. Non lo vedevi. Se Gesù non fosse e non accadesse in noi, non potremmo dire queste cose. Quello che dice il Volantone è vero: Cristo è qualcosa che sta accadendo ora, capisci?
Non l’immagine che tu hai in testa di come deve apparire, perché se il tuo cuore non batteva e poi batteva, chi te lo faceva battere, io? Ma siamo matti?! Come dice il Vangelo: siamo stolti perché non capiamo quel che succede davanti ai nostri occhi! Parole e immagini, mai un’esperienza!
Tranne quando per caso diciamo qualcosa dell’esperienza: «Il cuore prima non batte e poi batte» è l’unica cosa dell’esperienza che diciamo; ma una volta che l’abbiamo detto, incominciamo subito ad appiccicare quello che abbiamo in testa, tutto al di fuori dell’unità dell’esperienza che ci fa battere il cuore. Per questo per tanti il cristianesimo è qualcosa che già sappiamo e che adesso dobbiamo applicare. No, tu non hai applicato niente per far battere il cuore, ti sei sorpreso che
batteva, sentendolo battere! Allora? Allora agli Esercizi ho riso e ho pianto. Ho riso quando hai detto che la liturgia per noi non è ancora aprire gli occhi e riconoscerLo. Le due domeniche prima di Pasqua le letture presentavano gli episodi del cieco nato e della samaritana. Il cieco nato che Gli dice: «Ma Tu dimmi chi è il Messia», e Lui: «Sono Io che ti sto parlando». Lo stesso con la samaritana: «Dimmi dove trovo quest’acqua», «Sono Io che ti sto parlando». E a me non è mai successo di commuovermi a Messa. Poi viene la tentazione del moralismo, ma questa volta l’ho sconfitta. Allora voglio dirti grazie, perché io non so più niente di me, però ho me, adesso ho me.
Partiamo dal “me” che hai. Giussani ci dice: partiamo dal “me”, partiamo dall’io-in-azione; lascialo venire fuori sorprendendoti di che cosa sei. Fa male.
Non fa male! Ascolta che cosa dice questa lettera: «Le due ultime settimane sono state strazianti, taglienti e lancinanti. Sono stata sovrastata dalla delusione. Forse ti sto dicendo una cosa terribile, ma tu mi hai insegnato a essere leale e quindi lo sarò. Il giorno del mio primo incontro con te, di quello sguardo e del mio risveglio, si sta allontanando e io sempre di più mi rendo conto che non
posso vivere di un ricordo. Avevo riposto le mie speranze in te, ma tu non mi dai risposte e spesso, per problemi di entrambi, facciamo fatica a sentirci o a vederci. Un giorno mi sono accorta che più ti pensavo più mi arrabbiavo, perché neanche tu bastavi più. Ho pensato che fosse un’altra fregatura, e dopo l’entusiasmo di un periodo sarebbe tornato tutto come prima. Di nuovo, confusa,insicura, incerta, senza un appiglio. Se mi avessi visto! Mi sentivo come se cercassi una cosa in una
stanza buia, come se andassi a tentoni, come quando non c’è luce e non vedi e non sai cos’è quello che tocchi, in cui ogni mobile, ogni spigolo è un pericolo. C’erano dei rari e brevi momenti di gioia: due risate con gli amici, l’aperitivo, un complimento che ti fa una persona cara e così via. Insomma, la mia vita in queste due settimane è stata come una luce intermittente: gioia che va, tristezza che viene; soddisfatta un momento, e dopo due minuti amareggiata; un secondo attenta, e dopo persa in
mille pensieri; convinta, e poi delusa. Un susseguirsi di stati d’animo contrastanti e contraddittori, finché a un certo punto mi sono proprio stufata di quello che sentivo. Sbattuta a destra e a sinistra da questi sentimenti, scaraventata, vagante senza meta, impotente, schiava dei miei pensieri, prigioniera di me stessa, perché io ho un’idea di me, ho un’immagine dei miei bisogni o delle risposte che mi voglio dare che sono totalmente distorte. I miei innumerevoli tentativi di concepirmi
e di soddisfarmi continuano solo a ingannarmi, a strangolarmi, a reprimermi, a soffocarmi, sono io che faccio violenza su me stessa. Io da sola non mi basto, non basto al mio desiderio e neanche me lo spiego. Come diceva Emily Dickinson: “Per colmare un vuoto devi inserire ciò che l’ha causato, se lo riempi con altro, ancora di più spalancherà le fauci; non si chiude un abisso con l’aria”. Infatti,
più cercavo di spiegarmi e più ricadevo nella confusione. Tre mattine fa mi sono alzata e mi sono sorpresa con questa domanda: ma in tutto questo caos c’è una cosa, anche una sola cosa, che resta, qualunque essa sia? C’è una cosa che posso dire su di me con certezza che permane come un segno indelebile? Il mio cervello ha iniziato a elaborare un milione di cose, la maggior parte senza senso e
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le restanti assolutamente insufficienti. Allora mi sono ricordata della promessa che ti ho fatto: non dirò mai niente senza prima essermi guardata in azione. Mi sono osservata tutta la giornata cercando di capire cosa mi muovesse, perché facevo tutto: il pranzo con quell’amica, lo studio fatto in un certo modo... In ogni mia azione c’era un denominatore comune: una costante ricerca di qualcosache colmasse la mia nostalgia. Su di me, sulla vita, ho solo una certezza: che il mio cuore è pieno di nostalgia, è pieno di attesa, di tensione, è pieno della promessa che la vita non è vuota, che cerco qualcosa che c’è, altrimenti smetterei di cercare. Il mio cuore cerca, quindi afferma con certezza costante un Altro. Improvvisamente, senza nessun calcolo, senza nessuna formula e nessun ragionamento, di nuovo è tornato quel Tu. Irrompendo mi ha sovrastata, mi ha investita, mi ha coinvolta, abbracciata. Eravamo io e questo Tu, e basta. E ho ripreso a respirare. Un rapporto così intimo e tenero da togliere le parole. Che chiarezza! Un lampo nel buio. Posso fallire, cadere,
sbagliare, fare mille passi indietro dopo averne fatto solo uno avanti, posso rimanere delusa, trattare male le persone a cui tengo, posso rendermi conto della mia nullità, di quanto posso arrivare in fondo, posso finalmente guardarmi fino alla fine, guardare quanto sono meschina, poca, infima, perché tanto non è questo che regge la mia vita, non è questo che mi determina, non è la mia confusione, la mia amarezza o la mia tristezza. C’è solo una cosa che resta, da cui posso ripartire
ogni volta ed è questo Tu che io, inconsciamente o consciamente, ogni volta, ogni giorno, in ogni gesto, desidero e affermo. Questo è un ritratto di me, questo posso dire di me con certezza [e se non facciamo questo percorso, non lo potremo dire mai con certezza], semplicemente guardandomi.
Non ho imparato, non l’ho imparato, non l’ho deciso, non l’ho voluto, ma lo vedo con chiarezza, si impone [questo è il punto di non ritorno!]: il mio senso religioso, la certezza di un Altro e del rapporto privilegiato che posso vivere con Lui. Non so bene Chi sia, che volto abbia, ma è lì che mi guarda e mi chiama. Per la prima volta nella mia vita riesco a voler bene. Il mio dolore, l’attesa,
l’inquietudine: riesco a voler bene a quella parte di me che mi ha sempre reso insofferente; capisco che la mia nostalgia e la mia vertigine sono il veicolo di questo rapporto, e io sono sempre con il fiato sospeso fin quando non dico “Tu” e allora respiro. Volevo dirtelo perché adesso la mia vita ha delle radici». Qualche giorno dopo mi manda questo messaggio. «Ti voglio ringraziare perché mi hai lasciato fare ogni passo da sola, e hai lasciato venir fuori tutta la mia coscienza senza paura del dolore che avrei dovuto affrontare. Grazie perché mi educhi, mi introduci alla profondità delle cose e alla bellezza della vita. Spero di poter avere sempre un amico accanto come te che mi fa essere me stessa sino in fondo». È possibile o no? È possibile se uno prende minimamente sul serio l’ipotesi che ci è stata offerta; lei non sa qualcosa in più di quello che sappiamo tutti, ma ha seguito e ha
verificato. E questo è un punto di non ritorno. Ciascuno può decidere.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 25 maggio alle ore 21.30. Cominceremo a riprendere la prima lezione degli Esercizi della Fraternità.
È uscito il libro di don Giussani Ciò che abbiamo di più caro (1988-1989), che raccoglie le equipes del Clu degli anni 1988 e 1989.
È provvidenziale poter leggere in questo periodo il testo di questi dialoghi con don Giussani e sentirci sfidare dalla domanda: «Che cosa avete di più caro nel cristianesimo?»; ma per poter capire questo, se non facciamo questo lavoro, lo sentiremo sempre appiccicato, non potremo dire che è la cosa più cara. E quando la vita ci stringe rimarremo in silenzio (in silenzio!)... ma non rimarremmo
in silenzio davanti al figlio più caro. Quando don Giussani ci dice questo è per una tenerezza verso di noi, perché senza questo percorso tutto questo non ce lo sogniamo neanche. Per poter dire con lo starets Giovanni che «quello che di più caro abbiamo, […] è Cristo e tutto ciò che deriva da Lui», per poterlo dire con la stessa certezza dello starets Giovanni che percorso occorre fare! È impressionante vedere come Giussani con questi testi ci accompagna ora e ci fa capire quello che ha cercato di fare per anni, per anni con noi. Non è mai troppo tardi!
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Domenica ci sono le elezioni, non in tutte le città. È un’occasione di verifica della certezza che abbiamo, e di come parliamo delle cose, anche delle elezioni, secondo la novità di quello che ci è capitato. E se non lo facciamo, uno che non fa questo non arriverà alla certezza; non è un problema di “militanza”, sarebbe niente, perché quello che mi raccontavano ieri gli universitari, come potete vedere voi stessi, è che quando vanno ai mercati quello che prevale è lo scetticismo, non soltanto
sulla politica, ma su tutto, sulla vita. E questo scetticismo tutti sappiamo che tante volte, come vediamo, non è problema degli altri, ma ci riguarda, eccome, lo abbiamo in casa. Per questo, non possiamo perdere questa occasione per verificare quello che ci è capitato.
Veni Sancte Spiritus

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