mercoledì 29 settembre 2010

Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl della Lombardia. Fiera Rho-Pero, 25 settembre 2010



«...un dì si chiese chi era...»
29/09/2010 - Appunti dagli interventi di Davide Prosperi e Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl della Lombardia. Fiera Rho-Pero, 25 settembre 2010
JULIÁN CARRÓN
All’inizio di quest’anno chiediamo allo Spirito il dono della sapienza affinché possiamo capire qual è il problema dei problemi – il senso della vita – e diventiamo veramente disponibili a perseguire la modalità con cui il Mistero ci ha raggiunti e continua a raggiungerci ora.
Discendi Santo Spirito
Saluto tutti voi che siete qui presenti e tutti gli amici che ci seguono collegati in diverse città dall’Italia e dall’estero. Do lettura del telegramma che abbiamo inviato al Papa: Santità, cinquantamila adulti e studenti universitari di Comunione e Liberazione radunati a Milano e collegati da decine di città in Italia e all’estero per la Giornata d’inizio anno, grati a Dio per la bellezza del Vostro viaggio nel Regno Unito, desiderano consegnare nelle Vostre mani tutte le loro persone per essere, come la Vostra Santità, al servizio di un Altro, così da rendere accessibile l’annuncio di Gesù Cristo ai fratelli uomini. In una società indifferente e ostile alla fede, approfondendo il carisma di don Giussani confermiamo l’impegno a essere trasparenti di Cristo risorto, risposta esauriente alle domande del cuore di ciascuno.

DAVIDE PROSPERI
Poiché a me spetta il compito di evidenziare i passi fatti durante l’anno passato, leggo alcune righe di don Giussani, contenute ne Il cammino al vero è un’esperienza, che riassumono efficacemente quello che abbiamo vissuto: «Il cristianesimo non nasce come frutto di una nostra cultura o come scoperta della nostra intelligenza: il cristianesimo non si comunica al mondo come frutto della modernità o della efficacia di nostre iniziative. Il cristianesimo nasce e si diffonde nel mondo per la presenza della “potenza di Dio”: “Deus, in nomine Tuo salvum me fac”. Questa potenza di Dio si rivela in fatti, avvenimenti, che costituiscono una realtà nuova dentro il mondo, una realtà viva, in movimento, e quindi una storia eccezionale e imprevedibile dentro la storia degli uomini e delle cose» (L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, p. 129).
Questo ci aiuta a capire anche il compito di una presenza cristiana nella società. Lo abbiamo appena ascoltato, non si tratta innanzitutto di una nostra sapienza o del frutto di nostre iniziative, per le quali possiamo celebrarci quando questa Presenza viene riconosciuta o, al contrario, correre ai ripari quando è attaccata. Infatti se fosse così, non saremmo più capaci di stupirci di niente, in fondo tutto sarebbe già codificato, già saputo. Invece – abbiamo sentito – la potenza di Dio si rivela in fatti, avvenimenti, che costituiscono una realtà nuova dentro il mondo.
Ecco, noi qui oggi vogliamo dirci che quest’anno siamo stati testimoni e partecipi di fatti, alcuni più evidenti, che hanno coinvolto tutto il movimento, altri che ciascuno può ritrovare nella propria esperienza personale. Ricordo su tutti il gesto di Roma il 16 maggio col Papa, dove già nelle settimane precedenti siamo stati introdotti in un giudizio diverso, non ideologico, sul significato di questo gesto, tanto che molti di noi, magari per impegni presi precedentemente, hanno deciso all’ultimo momento di partecipare anche in mezzo a ostacoli e impedimenti. A questo proposito, tutti ricordiamo che in questo cambiamento, anche rispetto alle decisioni prese, ci ha aiutato quello che ci ha detto Carrón: «Noi non andiamo a Roma innanzitutto per difendere il Papa, ma per riconoscere e affermare la roccia su cui siamo ancorati in questo momento di prova della Chiesa». Questo ha cambiato lo sguardo su quello che stavamo facendo, perché ha introdotto una posizione umana nuova, all’attacco, che entra nelle cose disarmata, per conoscere, per capire di più. Questo è stato senza dubbio uno degli esiti imprevisti del lavoro di Scuola di comunità di quest’anno, e certamente la Scuola di comunità di Carrón (che è stato possibile seguire per tutti, per chi lo desiderasse) è il punto che ci ha raggiunto tutti, mostrandoci questo metodo in atto.
Un riverbero di questa positività davanti alla realtà che si incontra lo abbiamo avuto al Meeting. Pensiamo a cosa hanno significato le tante testimonianze sotto vari fronti, che qui adesso per brevità non cito, ma che potete trovare numerose sul numero di Tracce di questo mese. Sinteticamente possiamo dire che la speranza che viene dall’esperienza cristiana rende sorprendentemente – lasciatemi dire, anche inaspettatamente – capaci di affrontare tutte le condizioni, magari anche le più difficili, sperimentando un’intelligenza di iniziativa e, al tempo stesso, una pienezza di letizia che non ha bisogno di ridurre la drammaticità di quello che si sta vivendo, come magari invece tante volte si è portati a fare per non cedere alla disperazione.
E, allora, viene da chiedersi: da dove viene tutto questo? Cosa c’è sotto? Un mese fa a La Thuile, nel corso dell’Assemblea internazionale responsabili di Comunione e Liberazione, Carrón ha ripreso Giussani che ha detto: «La realtà non va archiviata perché noi [dopo l’incontro cristiano] già sappiamo, abbiamo tutto. Abbiamo tutto, ma che cosa sia questo tutto [cioè che cosa sia Cristo] noi lo comprendiamo nello scontro, meglio, nell’incontro con le circostanze, le persone, con gli avvenimenti» («Vivere è la memoria di Me», Assemblea Internazionale Responsabili di Comunione e Liberazione, suppl. a Tracce-Litterae Communionis, n. 8, settembre 2010, p. 52).
Un esempio straordinario di questo è stato un altro passaggio fondamentale dell’anno trascorso, che non dobbiamo assolutamente perdere, cioè l’articolo di Carrón su la Repubblica (del 4 aprile scorso), riguardante la tempesta sulla pedofilia che ha investito la Chiesa. Davanti alla grande contraddizione che si sperimenta (ma questo è vero per qualunque contraddizione, è vero per il dolore in sé) si impone in noi un bisogno insaziabile di giustizia e di verità, e nulla basta a sanare la ferita che si è aperta, nulla di quello che noi possiamo fare, perché la giustizia che ciascuno di noi attende non è appena che ci sia restituito quello che ci è stato tolto, ciò in cui avevamo riposto la nostra speranza, le nostre attese; la giustizia per cui siamo fatti è molto di più che essere ripagati del nostro, quello che noi attendiamo veramente è di più, è una sovrabbondanza. A questo proposito c’è un episodio molto significativo dei primi tempi di Madre Teresa a Calcutta: la giovane suora si imbatté in un povero moribondo abbandonato in mezzo alla strada, lo accolse in casa sua, lo medicò, si prese cura di lui. Poco dopo l’uomo morì, ma prima di morire pronunciò queste parole: «Ho vissuto tutta la vita come un cane e muoio come un re». Madre Teresa probabilmente non aveva fatto più di quello che un’infermiera, magari compassionevole, avrebbe potuto fare in quella situazione, eppure quell’uomo ha detto quelle parole. Cosa aveva visto? Cosa poteva aver visto che aveva atteso per tutta la vita? Nello sguardo di Madre Teresa brillava lo sguardo di Cristo, nella sua voce vibrava la voce di Cristo: questo aveva atteso per tutta la vita, di incontrare questo sguardo. Diceva ancora Carrón a La Thuile: «La verità non è qualcosa di astratto, è questo Amore che si è piegato sul nostro nulla, […] questa commozione per il nostro niente. […] Questa è la nostra responsabilità: convertire l’io all’Avvenimento presente, cioè a questo Amore che si è curvato su di me» (J. Carrón, «Vivere è la memoria di Me», op. cit., pp. 8-9).
Affidarci a questo sguardo è l’invito che ci siamo sentiti rivolgere anche dal Papa in Piazza San Pietro. La parola che domina la preoccupazione di chi guida la Chiesa è la parola «conversione», e il Papa lo ha ricordato ancora la scorsa settimana, in occasione della storica visita in Gran Bretagna per la beatificazione del cardinale Newman: «Newman ci insegna che se abbiamo accolto la verità di Cristo e abbiamo impegnato la nostra vita per Lui, non vi può essere separazione tra ciò che crediamo e il modo in cui viviamo la nostra esistenza. Ogni nostro pensiero, parola e azione devono essere rivolti alla gloria di Dio e alla diffusione del suo Regno» (Benedetto XVI, Veglia di preghiera per la beatificazione del cardinale John Henry Newman, Londra, 18 settembre 2010).
Ti chiediamo, quindi, introducendoci a questo nuovo anno che inizia: che cos’è questa conversione dell’io all’avvenimento presente alla quale siamo invitati?

JULIÁN CARRÓN
1. L’umanità che nasce dalla fede
Celebriamo questa Giornata d’inizio anno ancora impressionati dai gesti di questa estate: dalle vacanze delle nostre comunità al Meeting, dall’Assemblea Internazionale Responsabili alle équipe del Clu e del Cle. E, più recentemente, dal viaggio del Papa in Gran Bretagna: quanto ha sottolineato in occasione di questa visita ci fa capire quali sono le sfide che la nostra fede è chiamata ad affrontare oggi. Un paragone con quanto egli ha detto ci aiuta a contestualizzare la portata del percorso che stiamo facendo e ci offre ancora più ragioni per percorrerlo.
Benedetto XVI è andato – come tutti sappiamo – in uno dei luoghi più secolarizzati al mondo e ci ha testimoniato che cosa è una presenza. Era ben consapevole della portata del viaggio, lo ha detto questa settimana ripercorrendone le tappe: «Nel rivolgermi ai cittadini di quel Paese, crocevia della cultura e dell’economia mondiale, ho tenuto presente l’intero Occidente, dialogando con le ragioni di questa civiltà e comunicando l’intramontabile novità del Vangelo, di cui essa è impregnata» (Benedetto XVI, Udienza generale, Piazza San Pietro, 22 settembre 2010). Per mostrare che cosa è questa novità in tale contesto il Santo Padre si è servito della figura di Newman, la cui beatificazione era il motivo fondamentale del suo viaggio: «Newman, secondo il suo stesso racconto, ha ripercorso il cammino della sua intera vita alla luce di una potente esperienza di conversione, che ebbe quando era giovane. Fu un’esperienza immediata della verità della Parola di Dio, dell’oggettiva realtà della rivelazione cristiana quale era stata trasmessa nella Chiesa. Tale esperienza, al contempo religiosa e intellettuale, avrebbe ispirato la sua vocazione ad essere ministro del Vangelo, il suo discernimento della sorgente di insegnamento autorevole nella Chiesa di Dio ed il suo zelo per il rinnovamento della vita ecclesiale nella fedeltà alla tradizione apostolica. Alla fine della vita, Newman avrebbe descritto il proprio lavoro come una lotta contro la tendenza crescente a considerare la religione come un fatto puramente privato e soggettivo, una questione di opinione personale. Qui vi è la prima lezione che possiamo apprendere dalla sua vita: ai nostri giorni, quando un relativismo intellettuale e morale minaccia di fiaccare i fondamenti stessi della nostra società, Newman ci rammenta che, quali uomini e donne creati ad immagine e somiglianza di Dio, siamo stati creati per conoscere la verità, per trovare in essa la nostra definitiva libertà e l’adempimento delle più profonde aspirazioni umane. In una parola, siamo stati pensati per conoscere Cristo, che è Lui stesso “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6)» (Benedetto XVI, Veglia di preghiera..., 18 settembre 2010; vedi a pagina 90). Infatti se la religione è un fatto puramente privato e soggettivo, una questione di opinione personale, la conseguenza è ovvia: il relativismo. Il relativismo è il venir meno della capacità dell’uomo di conoscere la verità, di trovare in essa la definitiva libertà e l’adempimento delle aspirazioni umane più profonde, cioè di trovare risposta esauriente alle sue esigenze. Infatti, se l’uomo non trova quel che risponde a questa aspirazione, a questa esigenza, tutto è relativo, tutto è opinabile e niente riesce ad afferrare tutto il suo io. Invece il Papa ha detto: «Alla moltitudine di fedeli, specialmente giovani, ho voluto riproporre la luminosa figura del Cardinale Newman, intellettuale e credente, il cui messaggio spirituale si può sintetizzare nella testimonianza che la via della coscienza non è chiusura nel proprio “io”, ma è apertura, conversione e obbedienza a Colui che è Via, Verità e Vita» (Benedetto XVI, Udienza generale, 22 settembre 2010).
Alla luce di questo si capisce la portata del percorso che stiamo facendo per uscire dalla frattura tra sapere e credere che relega il credere alla sfera del soggettivo, dell’opinione personale, perché l’uomo non sarebbe in grado di conoscere la verità che compie la vita. Ma questo è un problema che riguarda soltanto gli intellettuali come Newman o ci riguarda tutti?
Qui acquista tutta la sua portata il richiamo alla conversione che il Papa sta lanciando insistentemente a tutta la Chiesa. Ma nessuno prenderà davvero sul serio questo richiamo a convertirsi, se non lo sente urgente per sé. I canti che abbiamo cantato possono esserci di aiuto a capire questa urgenza: «Era un uomo cattivo, / ma cattivo cattivo cattivo» (C. Chieffo, «L’uomo cattivo», Il libro dei canti, Jaca Book, Milano 1976, p. 291). Il termine “cattivo” ha qui il significato di “immorale”, ma non nel senso solito a cui lo riduciamo di incoerenza etica, ma nel senso più profondo di un inadeguato rapporto con l’Essere. Dice don Giussani: «Intendo usare la parola “morale” o “moralità” nel suo senso più profondo, sostanziale, che è l’assetto della persona di fronte all’Essere, cioè di fronte alla vita, all’esistenza, come origine, consistenza, destino» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro 1986-1987, Bur, Milano 2010, p. 42). E che questo è il senso con cui è usata qui questa parola si vede da come prosegue il canto. Quando si alzava la mattina non sentiva il rimorso di qualche cosa che era sbagliato, no: «Quando si alzava la mattina, / tutto gli dava fastidio, / a cominciare dalla luce; perfino il latte col caffè». E noi possiamo aver fatto l’incontro cristiano, eppure anche noi alzarci alla mattina con tutto che ci dà fastidio, lo sappiamo bene. Ma questo non ferma il Signore: «Il Signore dal cielo / tanti regali gli mandava; lui li guardava appena, / anzi alle volte poi si lamentava». L’esito di questa nostra incapacità di cogliere la realtà come è, cioè come dono, come regalo, nella sua verità – che ci porterebbe ad essere grati, a far prevalere, appena apriamo gli occhi, la gratitudine –, impedisce di fare l’esperienza del compimento della vita, come si vede dal fatto che quello che prevale è il lamento come sentimento ultimo di sé. Non ci sono santi, cari amici! La vita non viene risparmiata a nessuno, neanche dopo aver fatto l’incontro cristiano. Se guardiamo lealmente, senza paura, la nostra esperienza umana, è difficile evitare di commuoversi quando cantiamo I Wonder: «Mentre cammino sotto il cielo [come un vagabondo infastidito posso sentire tutto lo stupore, tutta la meraviglia] mi stupisco che Gesù sia venuto a morire per la povera gente affamata come me e come te» («I Wonder», Canti, Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 2002, p. 283). Nessun’altra cosa te lo può far sentire pertinente ora come il fastidio che provi, come l’incapacità di venir fuori da solo da esso. Questo fastidio e questo lamento possono diventare l’occasione per ciascuno di noi per capire chi è Cristo, perché «noi non sappiamo chi era» (titolo della canzone di A. e G. Roscio-A. e G. Agape, Canti, op. cit, pp. 206-207); se non riaccade adesso, noi non sappiamo chi è veramente Gesù. Ma con Lui, quando Lui riaccade, quando Lui vince in noi questo fastidio, cominciamo a entrare nel reale, nella verità del reale, come quell’uomo cattivo: «Ma un dì si chiese chi era / che gli dava la vita, / un dì si chiese chi era / che gli dava l’amor», cioè l’uomo incomincia a rendersi veramente conto di Chi gli dà la vita. Incominciamo, allora, a cambiare il nostro assetto di fronte alle cose e iniziamo a vedere ciò che prima non vedevamo: «il colore dell’uva» e il «bambino che gli sorrideva». Quanti bambini avrà visto sorridere, ma non li vedeva! Allora si «mise una mano sul cuore / e pianse quasi tutto un giorno intero». E questo è ciò che consente al Signore di darci tutto: «E Dio lo vide e sorrise; / gli tolse quel suo dolore, / poi gli donò ancor più vita, / poi gli donò ancor più amor». La conversione, amici, la coscienza piena della realtà, ha uno scopo chiaro: più vita, più amore.
Mi scrive una persona: «Carissimo don Julián, è con immensa fatica che decido di scriverti, ma l’insistenza di un mio amico è una buona ragione per farlo. Quello che sta caratterizzando la mia vita è la domanda, la domanda che Cristo mi comunichi la Sua natura. Da mesi mi sono diviso da mia moglie e sto vivendo nel dolore e nella fatica. Questo’anno, dopo anni di latitanza dal movimento, sono tornato alla vacanza della comunità perché desideravo che mio figlio potesse vedere e partecipare a qualcosa che è più grande di lui, di me e delle circostanze dolorose e faticose che stiamo vivendo. Dopo due giorni di stand by, dove io rimanevo spettatore, quella cosa è accaduta per me, mi sono impattato io – con il mio dolore, con la mia angoscia, con il mio essere niente – in un fatto. Un abbraccio che ha risvegliato il mio cuore, e questo è stato l’inizio di una proposta alla mia vita, che in primis era fatta dal mio cuore e che ha trovato vita nella compagnia attorno a me. Mi sono sentito, in modo indegno, oggetto di una misericordia immensa, mi sono sentito riportare in vita. L’incontro con un amico, il suo sguardo, lo sguardo appassionato della quotidianità dei volti che avevo attorno e che guardavano in ogni momento la vita come dono di un Altro e non avevano paura del loro cuore: lì ho capito che io di Gesù non sapevo niente, io di Gesù non avevo capito niente, anche se avevo guidato una comunità, anche se avevo visto Giussani. Io non avevo capito niente, e ho cominciato a dire: “Io, Gesù, Ti voglio conoscere”. Per troppo tempo ero stato nel movimento e nella Chiesa pensando di sapere chi era Gesù, guardando se gli altri aderivano alla mia idea di Gesù e di vita, o addirittura verificando se Gesù era adeguato alla mia idea. Conoscere questo amico, il suo sguardo su di me, uno sconosciuto, ha spalancato quello spiraglio che si era aperto. L’estate poi è diventata il tempo della memoria (quante volte l’avevo sentito dire da Giussani e provato a farlo, naufragando continuamente nel mio limite), è diventata il tempo per cercare quello sguardo e andare dove io ero guardato così, dove vedevo guardare la realtà così, per buttarmici dentro. Ho passato l’estate in giro per la riviera a trovare gli amici per rivedere quello sguardo, ho letto tanto per rivedere quello sguardo, ovunque cercavo quello sguardo. Così ha cominciato a farsi spazio in me la concezione profonda [questa è la conversione!] che io sono dono a me stesso, che io stesso sono un dono, pertanto la mia vita deve essere una domanda se voglio rispettare la mia natura. Così non passa giorno che non desideri quello sguardo per imparare chi sono e conoscere adeguatamente la realtà, e ho iniziato a guardare così, mi sono sorpreso a guardare così tutto. Così non passa giorno che la mia domanda diventi una disponibilità alla realtà, fino a volerLo incontrare tutti i giorni nei sacramenti e nella preghiera, fondamento di questo mio essere e della nostra unità. I problemi rimangono, l’angoscia sempre incombe e il dolore a volte è così forte da bruciarmi nella carne, ma questo non è obiezione alla verità di ciò che ho visto, alla verità di quello sguardo, anzi, nella mia libertà (come riesco e come posso) il dolore spalanca la mia domanda, è una strana e misteriosa convivenza di dolore, gioia e letizia!».
Guardiamo questa testimonianza: che cosa vince il relativismo, quella riduzione della ragione e della libertà, che impedisce di conoscere e aderire alla verità che ci dà più vita, più amore? La contemporaneità di Cristo, l’unica in grado di calamitare tutta la nostra ragione e la nostra affezione se trova in noi la disponibilità che ci testimonia questo amico. Non importa quale sia lo stato in cui ci troviamo, neppure gli anni di latitanza dal movimento.
Questa contemporaneità, questa potenza di Dio, si rende presente in fatti e in avvenimenti, o in testimoni come quelli che abbiamo visto questa estate. Ma il Signore continua ad avere pietà del nostro niente e ce ne ha regalato uno ancor più spettacolare: è il Papa stesso. Egli è stato testimone di questa vittoria sul relativismo non soltanto in quello che ha detto, ma soprattutto in quello che ha testimoniato, in come lui si è posto. Il Papa, infatti, non ha difeso soltanto la natura vera dell’uomo di fronte a qualsiasi riduzione, ma si è rivolto alla persona senza riduzioni, a ciò che è più originale nella persona, più profondo di tutte le incrostazioni culturali: il cuore; e lo ha fatto testimoniando oggi la passione che ha Cristo per l’uomo. Ha detto: «Nelle quattro intense e bellissime giornate trascorse in quella nobile terra ho avuto la grande gioia di parlare al cuore degli abitanti del Regno Unito, ed essi hanno parlato al mio, specialmente con la loro presenza e con la testimonianza della loro fede. […] Ai numerosi adolescenti e giovani, che mi hanno accolto con simpatia ed entusiasmo, ho proposto di non perseguire obiettivi limitati, accontentandosi di scelte comode, ma di puntare a qualcosa di più grande, vale a dire la ricerca della vera felicità, che si trova soltanto in Dio. […] Ho inteso anche parlare al cuore di tutti gli abitanti del Regno Unito, nessuno escluso, della realtà vera dell’uomo, dei suoi bisogni più profondi, del suo destino ultimo» (Benedetto XVI, Udienza generale, 22 settembre 2010).
Di che cosa ci è stato, allora, testimone il Papa? Di quello che è in grado di fare Cristo in un uomo che si renda disponibile a lasciarsi generare da Lui. Cristo genera una creatura talmente nuova che lascia tutti senza parole. Questo si vede dall’uso della ragione che il Papa ha testimoniato, da una intelligenza della fede che diventa intelligenza della realtà, dalla libertà di porsi senza ambiguità nella realtà davanti a tutti, da una umiltà disarmante che fa restare tutti allibiti, dall’ingenua baldanza di una testimonianza calda, appassionata e intelligente di Cristo. Tutti sono rimasti senza parole guardandolo parlare. Basta vedere i giornali inglesi. Ne cito uno, l’editoriale del Telegraph: «Qualcuno può essersi offeso per queste parole, dato il fallimento del Vaticano – ora ammesso correttamente da Benedetto XVI – nel gestire i gravi crimini di una piccola minoranza del proprio clero. Ma sospettiamo che molte più persone abbiano messo da parte le proprie riserve sulla Chiesa e abbiano confessato a se stesse: “Ha ragione”» (The Telegraph, 17 settembre 2010).
Questa è l’umanità che nasce dalla fede, una statura umana in grado di dare un contributo decisivo alla vita degli uomini. Chi di noi non desidererebbe una umanità così, una capacità di porsi nei nostri ambienti di lavoro piuttosto che in università, in famiglia o con gli amici, da soli o in gruppo, con questa intelligenza e libertà, con questa passione per ciascuno? Per arrivare a essa, amici, occorre proseguire il nostro percorso, perché questa umanità non diventa nostra meccanicamente, non facciamoci illusioni: occorre un cammino di conversione – come il percorso compiuto da Newman – per vincere in noi l’influsso del relativismo, che rende difficile la capacità di conoscere la verità, quella verità che ci dà più vita e più amore.

2. Le tre riduzioni
Ma come incide, proprio in noi che abbiamo incontrato già l’avvenimento cristiano, il relativismo (questo clima culturale che rende difficile l’attuarsi di quella capacità di conoscere la verità della realtà)? Di nuovo don Giussani si rende nostro compagno di cammino e identifica tre riduzioni.
a) La prima è il prevalere dell’ideologia sull’Avvenimento: «Il rapporto con la realtà che l’uomo vive dalla mattina alla sera può essere una iniziativa continua, un tentativo continuo di fronte a quel che accade e a quel che lui sperimenta; oppure l’uomo può essere mosso, può lasciarsi muovere da qualcosa, può obbedire a qualcosa che non nasce, non scaturisce da un suo modo di reagire alle cose che incontra, in cui si imbatte, ma da preconcetti [terribile!]. Il punto di partenza del cristiano è un Avvenimento. Il punto di partenza di tutto il resto del pensiero umano è una certa impressione e valutazione delle cose, una certa posizione che uno assume “prima” d’affrontare le cose, soprattutto prima di giudicarle» (L. Giussani, L’uomo e il suo destino. In cammino, Marietti, Genova 1999, p. 109). E questo capita davanti alle stesse cose! Ascoltate che cosa mi scrive uno di voi: «Caro Julián, il cammino che ci stai facendo fare si sta rivelando sempre più determinante per me e per tanti amici. La Scuola di comunità sulla speranza (Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 173-253) ha fatto emergere in modo clamoroso il problema: quanti tra noi non erano certi! Anche per chi da tanto tempo era nel movimento, la vita si appoggiava di fatto su altro e la speranza – effettivamente vissuta – era solo che le circostanze fossero favorevoli. Una cosa importante è stata ripensare alla mia responsabilità (tengo una Scuola di comunità, e sono il priore di un gruppetto di Fraternità), che mi sono accorto esser fatta da tanto “mestiere”: dopo tanti anni di movimento hai sempre la rispostina “corretta”, che mette tutti d’accordo, vai a riprendere una frase in un altro libro di Giussani, fai altre citazioni appropriate, l’amico più grande ti dice sempre qualcosa di interessante che puntualmente riporti negli incontri; e tutto ciò ti fa fare anche una certa figura. Il problema è che raramente davo un contributo di esperienza reale vissuto alla luce di ciò che ci stavamo dicendo. Ero io per primo a non entrare nella realtà con l’ipotesi che ci veniva suggerita, quindi ero il primo a essere incastrato dalle circostanze. Di fronte ai problemi della vita, mettermi davanti alle cose che ci vengono dette a volte mi irritava, perché volevo qualcosa che mi risolvesse il problema, non ero interessato a qualcosa che mi mettesse nella posizione giusta; anche le testimonianze, paradossalmente, capitava che mi indisponessero, aumentavano il mio scetticismo, sotto sotto mi dicevo: “Quello che succede a loro a me non capiterà mai”. Che grazia essermi accorto di questo! Gli Esercizi sono stati un punto di riscossa decisivo, ho cominciato ad affrontare la realtà cercando di essere cosciente della sfida che ci lanciavamo, e a questo proposito ti racconto un fatto che mi ha colpito molto. Un amico stava affrontando la realtà del lavoro con una superficialità tale che mi lasciava sbigottito, rischiando un ottimo posto che, se perso, avrebbe fatto sprofondare la numerosa famiglia in una situazione drammatica; non faceva i conti col reale, ma si lasciava guidare dal pregiudizio e dal “mi piace”. Mi dispiaceva moltissimo e dicevo: “Ma come si può far così?”. Quando, riflettendo su che cosa volesse dire questa provocazione, mi sono accorto che io facevo lo stesso nell’affronto della realtà. Quindi il Mistero attraverso quella circostanza mi correggeva. Sorprendentemente mi sono commosso, mi sono sentito amato come raramente mi è capitato, e da allora è scattata nella mia vita una dinamica nuova: la realtà comincia (pian piano, ma comincia) a essere il luogo dove Uno ti chiama, e questo dà un gusto sconosciuto prima. Prima mi sembrava non succedesse mai nulla nel quotidiano. Adesso succede sempre tutto – anzi: Tutto –, le situazioni, anche quelle pesanti, cominciano a essere affrontate con un impeto, una baldanza, un desiderio di andarci in fondo nuovi. Come è evidente che questa energia non viene da me! Che stupore commosso vedere così chiaramente come Cristo mi cambia! E chi, se non Lui? Altre volte mi sarei detto scettico (“Sì, adesso è così, ma dopo tornerà tutto come prima”), ora questo non mi importa, tanto ci penserà Lui a rifarsi sotto fino al punto che Lo riconoscerò, commuovendomi ancora una volta. È proprio solo il mio “no”, con il gomito davanti agli occhi, che può impedire la mia rinascita».
Questo amico ci testimonia, in positivo, che senza che l’uomo se ne accorga è come se irrompesse nel giudizio sulle cose un discorso già sentito (la parola giustissima, la rispostina, il preconcetto che fa far bella figura). Tutto questo ideologismo è più diffuso di quanto pensiamo! Invece il cristianesimo è un avvenimento, e perciò è presente; e il punto di partenza del cristiano non è l’ideologia o il preconcetto, ma è un avvenimento. Solo il riconoscimento di questo avvenimento impedisce di essere servi di un’ideologia, che è lo sviluppo logico del preconcetto. La forma ultima dell’ideologia è la negazione dei fatti che rendono questo avvenimento contemporaneo ora, lasciandoci in balìa dell’interpretazione: «Non esistono fatti, ma solo interpretazioni» (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, in Opere, Adelphi, Milano 1975, vol. VIII, fr. 7 (60), p. 299). Vengono i brividi a pensare al bivio a cui ci troviamo: «La Sua presenza è resa visibile, tangibile e sperimentabile dal fatto che cambia la vita della gente che sta nella comunità, nella compagnia. Per questo, l’acutezza con cui si percepisce la testimonianza dell’uno, dell’altro – anche non capi –, l’acume con cui si percepisce la testimonianza, anche furtiva, anche tutta discreta, presente nella gente della comunità, è il segno più grandioso dell’onestà di cui parlavamo prima. Inversamente, non esiste nessun segno della disonestà come, dentro la compagnia, innanzitutto notare i difetti. Similes cum similibus facillime congregantur. Uno percepisce quello che è simile a sé. Se in te predomina il male [cattivo, cattivo, cattivo], tu ti lamenterai del male; se in te predomina la ricerca del vero, tu scoprirai il vero» (L. Giussani, Uomini senza patria 1982-1983, Bur, Milano 2008, p. 277). Questo è il tentativo estremo di evitare la conversione: negare l’esistenza dei fatti, degli avvenimenti (perché se il cieco nato non è guarito, allora i giudei non devono cambiare atteggiamento su di sé; quindi basta negarlo per continuare imperterriti sulla propria strada).
b) Introduco la seconda riduzione: quella del segno ad apparenza. «Se l’uomo cede alle ideologie dominanti, insorte dalla mentalità comune, si verifica una lotta, una divisione, una separazione tra segno e apparenza; da ciò consegue la riduzione del segno ad apparenza. Più si ha coscienza di ciò che il segno è, più si capisce la lordura e il disastro di un segno ridotto ad apparenza. Il segno è l’esperienza di un fattore presente nella realtà che mi rimanda ad altro. Il segno è una realtà sperimentabile il cui senso è un’altra realtà; esso rivela il suo significato conducendo ad un’altra realtà. Non sarebbe ragionevole, umano, perciò, esaurire l’esperienza del segno al suo aspetto percettivamente immediato o apparenza. L’aspetto percettivamente immediato di una qualunque cosa, l’apparenza, non dice tutta l’esperienza che abbiamo delle cose, perché non ne dice il valore di segno» (L. Giussani, L’uomo e il suo destino. In cammino, op. cit., p. 112). Guardate questa testimonianza: «Ciao Julián, desidero raccontarti un fatto accadutomi questa estate durante il pre-Meeting (io lavoro agli allestimenti da sempre, condividendone la responsabilità con gli altri), fatto che, senza quello che tu ci hai mostrato in questi anni attraverso il modo con cui ti sei implicato dentro a quello che ti succede e nel lavoro di Scuola di comunità, mi sarebbe scivolato addosso come acqua. Il fatto è questo: una sera, dopo il lavoro in Fiera, sono andato a cena con alcuni amici di Cremona e di Milano, e uno mi dice: “Con noi c’è un ragazzo che non è del movimento e gli ho detto di venire anche lui. Ci sono dei problemi?”. “Assolutamente no”, gli dico. E così ci siamo trovati in un ristorantino sulla spiaggia per mangiare un po’ di pesce. Questo ragazzo è un operaio di ventitré anni e, non essendo del movimento, non sapeva che cosa era il Meeting, né che cosa lo aspettasse. All’improvviso interviene: “In questi giorni in Fiera ho visto subito quali sono gli stand in cui lavorate voi e quali quelli in cui lavorano operai delle ditte di allestimento”. Io sono rimasto subito colpito da questo suo inaspettato intervento, era al pre-Meeting per la prima volta ed era in Fiera da appena due giorni. Il giorno dopo ha cercato a tutti i costi un prete per confessarsi (erano sei anni che non si confessava più). Questo fatto – la nettezza del giudizio dato d’impeto la sera prima e quanto accaduto il giorno dopo – mi ha messo in subbuglio e mi ha giudicato profondamente. Mi sono chiesto: “Ma che cosa ha visto?”. Esattamente quello che vedevano i miei occhi e gli occhi di tutti gli altri girando per la Fiera, niente di più e niente di meno, e nessuno gli ha fatto discorsi, né prediche. Ma allora come mai la stessa cosa a lui ha provocato un sobbalzo del cuore, mentre per me era tutto normale e scontato? Ma allora per riconoscere la grande Presenza è proprio vero che il problema non è quello che vedo, non serve il fatto sensazionale, ma tutto dipende da come io sto davanti alla realtà così come mi viene incontro! Non ho potuto fare a meno, da quel momento, di guardare a questo fatto, e così da quell’istante per me è cambiato tutto: le cose erano quelle di tutti i giorni, ma non è più stato uguale, e quando è finito il Meeting sono tornato al lavoro, avevo voglia di cominciare a lavorare per entrare dentro la realtà con questo sguardo desideroso di scoprire come sarei stato sorpreso dal Mistero, quali fatti mi sarebbero accaduti dentro la normalità del lavoro. È proprio ciò che più desidero, perché niente, ma proprio niente, è contro di me. Grazie per come ci stai sfidando, accompagnandoci paternamente, ma senza risparmiarci nulla».
Don Giussani lo spiega benissimo: «La grande tentazione dell’uomo è esaurire l’esperienza del segno, di una cosa che è segno, interpretandola soltanto nel suo aspetto percettivamente immediato. Non è ragionevole, ma tutti gli uomini sono portati, dalla pesantezza su di essi del peccato originale, ad essere vittime dell’apparente, di ciò che appare, perché sembra la forma più facile della ragione. Un certo atteggiamento di spirito fa pressappoco così con la realtà del mondo e dell’esistenza (le circostanze, il rapporto con le cose, una famiglia da fare, i figli da educare...): ne accusa il colpo, arrestando però la capacità umana di addentrarsi alla ricerca del significato, cui innegabilmente il fatto stesso del nostro rapporto con la realtà sollecita l’umana intelligenza. Si arresta cioè la capacità stessa dell’intelligenza umana di addentrarsi alla ricerca del significato cui il nostro rapporto con ciò che ci fa colpo innegabilmente sollecita. Mentre l’umana intelligenza non può imbattersi in qualche cosa senza percepire che essa, in qualche modo, è segno di un’altra realtà, riprende l’insinuazione di un’altra realtà. Un’eco di questi concetti si può ritrovare in un’affermazione di Hannah Arendt: “L’ideologia non è l’ingenua accettazione del visibile, ma la sua intelligente destituzione”. L’ideologia è la distruzione del visibile, l’eliminazione del visibile come senso delle cose che avvengono, lo svuotamento di ciò che si vede, si tocca, si percepisce. Così non si ha più rapporto con nulla. Quando Sartre parla delle sue mani – “Le mie mani, cosa sono le mie mani?” –, le definisce come “la distanza incommensurabile che mi divide dal mondo degli oggetti e mi separa da essi per sempre”, operando così una destituzione del visibile, dell’aspetto contingente. La destituzione del contingente è, per esempio [guardate come don Giussani ci rende plasticamente la cosa], affermare che quel che capita “capita perché capita”, evitando così l’urto e l’esigenza di guardare il presente, un certo presente, nel suo rapporto con la totalità» (Ibidem, pp. 112-113). Così non dobbiamo più cambiare, non dobbiamo più convertirci. Io resto veramente allibito davanti a certe interpretazioni che svuotano quello che accade tra di noi…
Don Giussani finisce questo punto allertandoci a riguardo della lotta che è in atto dietro le quinte: «La sensibilità nel percepire tutte le cose come segno del Mistero è la tranquilla verità dell’essere umano [lo abbiamo visto: l’ultimo arrivato è in grado di farlo]. A essa si oppone la tirannia di chi ha in mano il potere, motivato con una ideologia, che nega questa considerazione che l’uomo pone a una cosa» (Ibidem, p. 114).
c) Perché succede così? Per la terza riduzione, cioè perché riduciamo il cuore a sentimento: «Noi prendiamo il sentimento invece che il cuore come motore ultimo, come ragione ultima del nostro agire. Cosa vuol dire? La nostra responsabilità è resa vana proprio dal cedere all’uso del sentimento come prevalente sul cuore, riducendo così il concetto di cuore a quello di sentimento. Invece, il cuore rappresenta e agisce come il fattore fondamentale dell’umana personalità; il sentimento no, perché preso da solo il sentimento agisce come reattività, in fondo è animalesco. “Non ho ancora compreso – dice Pavese – quale sia il tragico dell’esistenza [...]. Eppure è chiaro: bisogna vincere l’abbandono voluttuoso e smettere di considerare gli stati d’animo quali scopo a se stessi”. Lo stato d’animo ha ben altro scopo per essere dignitoso: ha lo scopo di una condizione messa da Dio, dal Creatore, attraverso la quale si è purificati. Mentre il cuore indica l’unità di sentimento e ragione. Esso implica una concezione di ragione non bloccata, una ragione secondo tutta l’ampiezza della sua possibilità: la ragione non può agire senza quella che si chiama affezione. È il cuore – come ragione e affettività – la condizione dell’attuarsi sano della ragione. La condizione perché la ragione sia ragione è che l’affettività la investa e così muova tutto l’uomo. Ragione e sentimento, ragione e affezione: questo è il cuore dell’uomo» (Ibidem, pp. 116-117).

3. La vittoria sul relativismo: la memoria
Questa osservazione di don Giussani ci può aiutare a identificare la strada della vittoria sul relativismo, con cui intendo finire. Quando ci sorprendiamo vedendo prevalere l’avvenimento sull’ideologia, il segno sull’apparenza, il cuore sul sentimento? Possiamo mettere davanti ai nostri occhi una immagine che renda facile capirlo? Io, come voi, sono circondato da testimonianze, da fatti eccezionali che mi stupiscono, tanto documentano la contemporaneità di Cristo. E mi veniva da domandarmi: «Ma quando questi fatti mi hanno portato a riconoscerLo?». A me è stato di grande aiuto rendermi conto del criterio che don Giussani ci offre: «Quando l’abbiamo pensato seriamente, con cuore, nell’ultimo mese, negli ultimi tre mesi, dall’ottobre fino ad adesso? Mai. Non lo abbiamo pensato come Giovanni e Andrea lo pensavano mentre lo guardavano parlare. Se ci siamo fatti delle domande su di Lui, è stata curiosità, analisi, esigenza di analisi, di ricerca, di chiarificazione, di chiarimento. Ma che l’abbiamo a pensare come uno, veramente innamorato, pensa alla persona di cui è innamorato (anche lì capita rarissimamente perché tutto è calcolato in base al ritorno!), puramente, in modo assolutamente, totalmente distaccato, come puro desiderio del bene... tanto che se l’altro non lo riconosce lui alimenta il desiderio del bene dell’altro più ancora!» (L. Giussani, Si può vivere così?, op. cit., p. 329).
Qui vengono contrapposti due modi di conoscere. Pensarlo seriamente, con cuore, significa pensarlo come Giovanni e Andrea Lo pensavano mentre Lo guardavano parlare, tutti presi, calamitati dalla Sua presenza, dove la ragione, che li aiutava a entrare nella profondità del mistero di quella persona, era salvata dall’affezione. Come è diverso questo dal vedere prevalere la curiosità, l’analisi, la ricerca di chiarificazione, dove la ragione è ridotta al suo uso strumentale – il segno ridotto ad apparenza –, perché staccata dall’affezione. Che differenza abissale! Chi conosce di più: chi pensa come l’innamorato pensa alla persona amata o chi sta lì a fare l’analisi? Come ci piacerebbe essere guardati? Chi coglierebbe di più il valore del nostro io? La verifica che noi siamo usciti da questa riduzione di noi stessi – che siamo ragione e affezione – e della realtà è che abbiamo sorpreso in noi l’esperienza sintetica di Giovanni e Andrea; perché lì, in quell’incontro, è avvenuta la prima vittoria sul relativismo, e quindi esso ci offre il criterio per riconoscerla sempre.
Con queste parole che cosa sta descrivendo don Giussani? La memoria: «Così, il cristianesimo è un avvenimento e perciò è presente, ora è presente, e la sua caratteristica è che è presente come memoria; dove la memoria cristiana non è identica al ricordo, anzi, non è il ricordo, ma è il riaccadere della Presenza stessa» (L. Giussani, L’uomo e il suo destino. In cammino, op. cit., p. 111). Il cristianesimo nasce come avvenimento che si incarna nel presente come memoria. E la memoria è il contenuto della coscienza del cristiano. Lo capiamo bene guardando Giovanni e Andrea: quello che dominava nei loro occhi era Cristo, e per questo la memoria è la vittoria sul relativismo, perché siamo stati creati per conoscere Cristo. Ciò che ci manca è «l’esistenzialità della memoria» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro, op. cit., p. 47), non l’abbiamo neanche nella coda dell’occhio, ci dice don Giussani.
Quanto cammino di conversione resta ancora da fare perché diventi familiare, lo vediamo dalle poche volte che sorprendiamo in noi l’esperienza di Giovanni e Andrea mentre Lo guardavano parlare, e mi rendo conto quando per grazia io stesso sono stato salvato da me stesso, dalla riduzione in cui ero caduto. Mi è capitato questa settimana, in diverse occasioni in cui io ero tutto attaccato a qualcosa che stavo vedendo attraverso la persona che me lo stava raccontando; per esempio, sono rimasto a bocca aperta quando una persona mi raccontava come nel momento culminante di un innamoramento si è sorpresa a percepire l’imponenza della presenza di Cristo che la sconvolge tutta: questa persona è la prima a essere vincitrice in quella situazione. E questo facilita in me il rifare nel presente l’esperienza di Giovanni e Andrea, tanto è vero che mi sono sorpreso la mattina successiva, mentre facevo il silenzio, a pensare a quelle persone che mi avevano tirato fuori dalla mia riduzione per essere tutto calamitato dalla Sua presenza.
Senza questo avvenimento la frattura tra sapere e credere non si supera, e il relativismo vince, perché nulla riesce ad attirare, a calamitare tutto il mio io. Questo dice, ancora, che attenzione occorre al reale, che domanda dobbiamo avere di Cristo: che si renda così carnalmente presente. Noi possiamo ridurre Giovanni e Andrea a una evocazione del passato, e non farne il criterio per giudicare la nostra esperienza ora. Con l’uso dell’episodio evangelico che abbiamo visto, don Giussani tira fuori Giovanni e Andrea dalla possibile riduzione sentimentale, facendone il criterio per riconoscere la vittoria sul relativismo. Per qualcuno incomincia a essere così: «Caro Julián, abbi pazienza, ma ogni tanto non riesco proprio a non scriverti, non potendoti personalmente parlare. Quando ho incontrato un mio amico appena tornato dall’ultima Assemblea Internazionale Responsabili credo di aver capito cosa abbia visto la moglie di Andrea e suo fratello Simone al suo ritorno dopo averLo incontrato. Non ricordo una parola di quello che l’amico mi ha detto (anche perché non riusciva proprio a metterne insieme di parole), ma ho visto i suoi occhi, ho visto il suo cuore, e ho aspettato con ansia che mi arrivasse per posta il Tracce di settembre con il suo preziosissimo inserto. Solo questa sera l’ho finalmente avuto tra le mie mani. A pagina 8 mi sono inchiodato. Tu dici [in realtà è don Giussani che lo dice]: “Quando l’abbiamo pensato seriamente, con cuore, nell’ultimo mese, negli ultimi tre mesi, dall’ottobre fino ad adesso? Mai”. Perdonami, ma mi è invece venuto fuori dal cuore di dire: “Sempre!”. Non respirerei nemmeno se ogni giorno non Lo incontrassi in quel modo. È così, io non posso più vivere senza che ogni giorno mi riaccada in questo modo. Io ti ringrazio con il cuore in mano perché il lavoro fatto con te quest’anno, seguendoti da vicino fino a sentirti fisicamente respirare, mi ha reso capace di non mollare mai, di sfondare ogni circostanza della vita, bella o brutta, positiva o negativa, e a rendermi commosso solo davanti allo stupore di una tale evidenza, totalmente donata, totalmente gratuita. Voglio dire che Lui c’è e c’è sempre, e c’è nella luminosità del sole e c’è nella pioggia insidiosa, e c’è nel buio pesto di una notte oscura; ed è sempre rapporto vivo, e quando non c’è rapporto, dei due, non è mai Lui a mancare».
Qualsiasi sia la forma attraverso cui accade ora, la vittoria sul relativismo avrà sempre come criterio quell’attaccamento unico a Cristo presente che Giovanni e Andrea documentano per sempre e che non potrà essere mai ridotto a una nostra analisi e tantomeno a un commento o a una pura emozione. Segni di queste riduzioni sono il fastidio e il lamento. L’alternativa al fastidio e al lamento è la vita come memoria: «Vivere è la memoria di Me»! E per questo don Giussani ci incalza: «Per questa lotta quotidiana alla logica del potere, per questa vittoria quotidiana sull’apparente e l’effimero, per affermare questa presenza costitutiva delle cose nel loro destino che è Cristo, che movimento personale occorre! È la rivalsa della persona sull’alienazione del potere. Che movimento personale!» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro, op. cit., p. 194). Questo movimento personale è la conversione.
Amici, dobbiamo decidere che cosa fare da grandi: se continuare ad accontentarci di “seconde scelte”, come le ha descritte il Papa ai ragazzi britannici (soldi, carriera, eccetera), continuando a lasciarsi andare, senza prendere mai seriamente posizione davanti a Cristo; oppure appartenerGli. Il problema per tanti di noi è che siamo già grandi e il tempo si fa breve. Per questo all’inizio di quest’anno vi auguro di decidere, di domandare, di mendicare di appartenerGli, di cedere alla Sua attrattiva. Così potremo vedere accadere in noi la sconfitta del relativismo. Basta non accontentarci di niente di meno di Lui, come ci testimonia il decimo lebbroso. Grazie a Dio c’è sempre più gente tra noi che non si accontenta più della guarigione, né della bella compagnia degli altri nove: così come il decimo, vuole proprio Lui! La compagnia vera è fatta da «decimi lebbrosi», da persone come il decimo lebbroso. Questa è la nostra responsabilità, dipende da noi. In questo senso, il lavoro personale e la responsabilità per gli altri coincidono. Per questo la frase di don Giussani: «La responsabilità è la conversione dell’io all’avvenimento presente» è sintetica di ciò che ci aspetta: non possiamo dare un contributo alla vittoria sul relativismo, se noi per primi non facciamo il percorso. Se ci accompagniamo in questo, possiamo diventare una presenza, una diversità nella società, mostrando la verità di quello che il Papa dice e testimonia. Ciascuno di noi deve essere ben consapevole della responsabilità davanti a Dio, del lavoro che siamo chiamati a fare, per poterlo testimoniare in qualsiasi ambiente siamo. Come ci testimonia un carcerato: «Guardandomi oggi ho la consapevolezza che liberandomi dagli stereotipi e dalle gabbie sociali e culturali si entra in una realtà nuova. Questa bellezza è unica, irripetibile».

OMELIA ALLA S. MESSA
JULIÁN CARRÓN
Il segno più semplice che il cristianesimo è un avvenimento, e non una ideologia, è proprio il gesto che stiamo celebrando; e fino a che punto l’ideologia cresce in noi o incide su di noi si vede dal fatto che tante volte pensiamo che questo gesto è un’aggiunta rispetto a quello importante, che sarebbe la parola. Invece la Chiesa sfida costantemente questa riduzione che noi facciamo del cristianesimo, invitandoci a partecipare a un avvenimento, all’avvenimento della Sua presenza adesso, che è questo gesto eucaristico, dove ci viene di nuovo riproposta la Parola, ora, con tutta la Sua potenza all’interno di questo avvenimento della Sua presenza, che vedremo accadere nel cambiamento del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo. Questo non è un’ideologia; è un evento. È all’interno di questo evento che possiamo capire tutta la portata, tutto il richiamo che abbiamo fatto sulla conversione. Egli, presente in mezzo a noi, contemporaneo a noi, ci rivolge questa chiamata alla conversione attraverso le letture (Am 6,1.4-7 e 1 Tm 6,11-16;) che abbiamo appena ascoltato, e che ci dicono qual è la portata della chiamata alla conversione. Possiamo essere qui – come dice il profeta Amos – spensierati e sicuri, senza capire veramente che il problema dei problemi è il rapporto della vita con il Mistero, come l’uomo della parabola, che viveva tutto distratto, preso da altre cose, ma – come ci ha detto san Paolo – c’è Uno che ci chiama: «Cerca di raggiungere la vita eterna», perché questa è la questione, amici, come il Mistero ci richiama di nuovo e tante volte. Ma a noi capita come a quell’uomo ricco del Vangelo che abbiamo ascoltato (Lc 16,19-31) al quale, appena arriva all’altra riva e si rende conto della verità, della portata eterna della vita, subito viene la fretta di aiutare quelli a cui vuol bene, la sua famiglia, e che cosa gli viene in mente di domandare? «Ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento». «Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti». E quello: «Ma no, questo lo danno per scontato: se invece risorge uno, forse lo ascoltano». Abramo rispose: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti».

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